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Autore: cormac    28/12/2017    3 recensioni
Per un instante le stelle parvero polverizzarsi e le onde spezzarsi nell’aria limpida quando Olwë chiuse gli occhi e lasciò che fosse solo il leggero tocco della Maia a dipingere con vivi colori il suo mondo lontano[...]
[ Olwë / Uinën ]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maiar, Olwë
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nel mulino che vorrei, Thingol non è l'unico ad essersi accasato con una Maia (!) Giuro di non saper trovare un perché a questa storia, ma questi due mi sono entrati in testa ed è da un po' che voglio cimentarmi nel scrivere qualcosina sul Silmarillion. Al fine di facilitare la comprensione, voglio precisare che in questa storia Uinën è madre di Eärwen e fratelli. Consiglio di accompagnare la lettura con What the water gave me di Florence + The Machine, che è ottima per l'atmosfera e mi ha aiutato nella stesura del testo!


Arido Mare
Sferzava il vento oscuro sotto un tenue manto di stelle: il re che imprimeva orme profonde come ferite nella sabbia  percepiva lo sdegno di Manwë nelle dita di bora che ne tessevano nodi nei capelli nivei. Ululava il vento, il mondo, s’infrangeva il mare e le onde si spezzavano come spiriti provati dinanzi allo scempio consumatosi in Aman – ed in Alqualondë la Bella, le cui chiare acque e dolci porti punteggiati di lanterne di madreperla piangevano il ricordo del tempo inviolato. Il vago pensiero che qualcuno sui lidi dei Valar o che i due signori sull’alto Taniquetil piangessero con lui e portassero alle labbra il calice aspro del dolore dei Teleri rincuorava Olwë nel suo affaccendarsi. Aveva visto l’orrore alla luce delle stelle, e quando ormai il sangue si era seccato sui palmi delle sue mani e l’odore ferroso aveva preso dimora nelle sue narici, sorretto da un sospiro di brezza si era allontanato finché il porto non era divenuto che una cintura di mille lucciole d’argento posate su di una cresta blu scuro sospesa sul mare.

“Le navi…”
“Taci, amico mio.”

Non conosceva il suo nome. Non sapeva nulla di costui, se non che fosse un marinaio dei suoi e che stava per morire. Profondo il colpo di spada che ne determinava il destino, sospeso sulla soglia di Mandos – la mano di Olwë a trattenerne fatalmente il sangue che chiedeva di sgorgare come un unico flutto scuro. La mancina errò dolcemente, fino a posarsi sulla guancia del marinaio. Profondo il dolore del re, le sue labbra si schiusero in un flebile lamento di disperazione. L’elfo tremò con le sue ultime forze.
“Va’, che il tuo giudizio sia clemente. Hai fatto ciò che potevi.”
“Mio re…” non giunsero altri tremanti invocazioni. Olwë seppe che lo spirito del marinaio senza nome era volato in Mandos – e non ci fu traghetto per le lacrime rubate al mare, né per l’anima sfuggitagli dalle dita come sabbia.

 
La spiaggia che accoglieva i suoi passi stanchi palpitava nell’eco della risacca, e tra le sue materne braccia il re avanzava trascinandosi nella spuma – non per fatica o vergogna, che avvolto nel bianco manto bordato d’azzurro e appuntato da fibbie d’argento Olwë dei Teleri non era da meno in bellezza e maestà di uno delle schiere degli Ainur, ma perché il dolore gravava sul suo capo come un pesante cappuccio. Un passo ed erano vele squarciate, due passi ed era il candido acciottolato del porto macchiato di sangue scuro, tre passi e rivedeva l’intera battaglia: l’isteria furiosa, l’orgoglio e – forse – la paura dei Fëanoriani, dei loro seguaci, mogli e figli. Tutti complici, ponderò il re con un’asprezza che non si era mai attribuito, tutti loro. Fëanáro non era che l’ultimo di un lungo corteo di criminali dalle mani scivolose del sangue del suo popolo. Ah, Fëanáro, tre volte maledetto – e non meno di Moringotto.
 
Un’onda gli ruggì contro gocce salate che gli imperlarono gli abiti, quasi a volerlo rimproverare per la sua blasfemia. Senza rendersene conto, Olwë si era avventurato nell’acqua bassa, gioendo di come la sua mente sembrava svuotarsi col mutare ritmico ed incessante della marea; effimera che fu la sua gioia, saggiata da uno schizzo d’acqua più irriverente degli altri, l’elfo si accorse di come non fosse solo sulla spiaggia, all’ombra delle fredde stelle. Una figura – sinuosa come un serpente marino, inconfondibile alla sua vista – stava in piedi ad alcuni passi da lui, come Olwë nelle tiepide acque della secca, ed era sorta dalle onde (o così sembrava) dove prima non c’era nulla. Egli s’inchinò, i lunghi capelli intrecciati ricadendogli in morbide ciocche sulle spalle.

“Mia signora Uinën.”
Proferì un saluto apatico, incolore, e ne se sorprese dolorosamente. Se ne sorprese anche Uinën, sebbene non abbastanza da lasciare che lo stupore le incendiasse i lineamenti diafani.
“Non inchinarti, Olwë.” Rispose la Maia, offrendo un sorriso a guisa di ombra o ala di gabbiano. Ma in un’ora tanto buia, quando il re alzò il capo per guardarla, mai la Signora del Mare gli era apparsa tanto ridente e viva, impreziosita da gioielli di corallo la cui bellezza impallidiva e sbiadiva in confronto alla sua. Tra i capelli di lei s’intrecciava una sottile reticella di perle, e nelle pieghe del suo leggerissimo abito si celavano ricami impossibili da concepire per qualunque mano elfica. Si sentì colpevole, Olwë, di bearsi di una tale visione quando non aveva ancora neppure lavato via il sangue rappreso sulle proprie mani.
“So che hai invocato l’ira di Ossë e la morte dei Noldor. Laggiù, al porto…” proseguì Uinën.
“Non dei Noldor, ma dei fratricidi.” Il re dei Falmari si prese in petto la stilettata dello sguardo di lei.  “Morte per Fëanáro e per coloro che l’hanno assecondato nella sua follia: questo sì, l’ho chiesto.”
“E non ti è stato dato.”
“Ossë è sordo al dolore del mio popolo. Nessuna giustizia verrà fatta quest’oggi, né nei giorni foschi che si prospettano. Io lo so,” la voce s’incrinò in gola all’elfo, forzandolo ad una pausa. “Ma dovrò dirlo ai miei. Chi è morto o ha visto morire non avrà alcun conforto. Il mare ci ha abbandonato. Il mare è con Fëanáro ora.”
Un’ombra di risentimento e dolore parve calare sul viso etereo di Uinën. I suoi passi furono lesti nell’acqua che fendeva loro le caviglie, era fredda come una gemma la mano che si posò sulla guancia di Olwë.
“Come puoi non vedere?” era fredda anche la sua voce; traboccante di un’angoscia sopita. Il re s’immobilizzò quando dita sottili tracciarono un arabesco disegno verso le sue labbra. “Il mare è con te, come sempre è stato. Io sono con te, herumelda. E se tu me lo chiederai, io ti darò conforto e giustizia: a Curufinwë e i suoi, morte.”

Per un instante le stelle parvero polverizzarsi e le onde spezzarsi nell’aria limpida quando Olwë chiuse gli occhi e lasciò che fosse solo il leggero tocco della Maia a dipingere con vivi colori il suo mondo lontano, più felice, in cui poteva chiamare Uinën sua sposa – in cui suo fratello Elwë si ergeva lieto e maestoso al suo fianco. Poi lei chiamò la morte fuori da Mandos, ed il vivido disegno che aveva tracciato si frantumò prima che le serrate palpebre di lui si levassero di nuovo. Olwë le prese entrambe le mani nelle sue, e si chinò per baciarle – come se null’altro di bello gli fosse rimasto da baciare.
“Non potrei chiederti di rischiare la collera dei Valar. Il pensiero che l’ombra di Fëanáro mi porti via qualcun altro che io amo mi tormenta – ma, Uinën, herimelda, se tu darai loro la morte, allora giustizia sarà fatta.”
“Un dono,” rise Uinën con amarezza, sfuggendo alla morbida presa di lui per solcarne il volto stanco con un’unica carezza. “Dimmi, ti prego, che i tuoi figli rimangono incolumi. Dimmi che non dovrò vendicarli.”
Nostri” Olwë precisò con rinnovata durezza, percependo sotto le vesti lucenti l’improvviso bruciore di una nuova ferita. Guardò Uinën e le lesse costernazione negli occhi, riluceva come una perla infranta – e con il suo rammarico riluceva anche la Maia, che non era sua. Non lo era mai stata, ma fino a quel momento, egli aveva creduto di poter venire a patti con la consapevolezza di non poter imprigionare le onde né far sua la schiuma che tanto dolcemente aveva avvolto e cullato i loro corpi in lontani brandelli di spiagge, al riparo dagli occhi del mondo.

Ricordava il giorno, il luogo, perfino la luce dorata di Laurelin e come essa si sfumasse alla penombra del momento in cui Eärwen era stata concepita. Era stato lui, il fratello minore – colui che per ultimo era stato accolto in Aman, ad aver svelato il mare e averlo preso tra le sue braccia, ad averlo fatto innamorare di sé. Se mai Uinën, la calma ed indomabile, poté essere sua e sua soltanto – fu in quei momenti in cui Olwë la baciava, e sentendo le sue labbra su di sé lei rideva e si abbandonava, come un vento marino catturato da vele bianche.  Ma quelli erano stati giorni distanti e felici, ed ora la signora più non rideva – ma appariva austera nella sua inafferrabile bellezza.
I nostri figli, mia signora, sono a palazzo e stanno bene, per quanto sia possibile.”
La Maia sembrò solo vagamente rincuorata. “Li avrei sentiti se fossero venuti alla spiaggia.”
“E come avrebbero potuto? Il porto è macchiato di sangue, non c’è conforto che il mare possa dar loro.” Il tono risentito del re durò solo per qualche istante; poi si addolcì.
“Eärwen voleva venire, ma io non potevo permettere che vedesse–“ sospirò. “Che vedesse. Ora che sai questo, sceglierai la clemenza o la giustizia?”
“Ti ho promesso morte. Dunque, sceglierò entrambe.”

La fermezza nella voce di lei sfiorò Olwë come un colpo di freccia. Era crudele, la sua herimelda, più di Ossë che nel clamore delle sue tempeste svelava la faccia più onesta del mare. L’elfo la catturò ancora una volta, così che la mano di lei sulla sua guancia, ora presa dolcemente in quella di Olwë, rimanesse su di lui come il ricordo del sale sulla pelle. Erano vicini ora, ed i loro respiri arsero l’uno nell’altro. “Ti amo e ti temo,” le confessò. “e so che non potrò mai avere più di questo.”
“Amore e paura sono sposi antichi.” Uinën ribatté, la voce innalzata a mormorio armonioso. “Devoti l’uno all’altra sulle loro strade impervie. Occorre coraggio per affrontare entrambi; e se vuoi di più, mio amato, se mi vuoi come tua regina – allora dovrai essere coraggioso.”

 
Ma il cuore di Olwë tremò nella tempesta che imperversò per giorni quando la sua signora se ne fu andata, cavalcando le onde che inseguirono le loro belle navi rubate. Tremò, e seppe che in Valinor non v’erano baie meno dolci o braccia più forti da poterla afferrare – e sorrise infine, lasciandosi sfuggire la sabbia tra le dita.
   
 
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