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Autore: Relie Diadamat    28/12/2017    7 recensioni
Sherlock e John convivono insieme ormai da un anno. Il loro rapporto vacilla tra l'amicizia e un qualcosa di indefinito, ma rimane per entrambi una certezza: John c'è sempre per Sherlock e viceversa.
Poi scoppia un conflitto armato di grave entità in Medio Oriente e Watson viene richiamato alle armi come tutti gli ex militari ancora fisicamente validi. Sherlock riuscirà a sopravvivere al solo pensiero della sua assenza?
Ci era andato vicinissimo, lo aveva quasi raggiunto prima di essere sgamato. John stava bene e, quando il suo addome toccò la sabbia, nulla sembrò importare più di questo.
John sarebbe tornato a casa, prima o poi. Forse avrebbe fatto in tempo a godersi il Natale nel loro appartamento, forse avrebbe aggiornato il blog prima che le feste fossero finite.
John sarebbe tornato a casa e quell’unica certezza gli bastava.

[Opera realizzata per il Secret Santa del gruppo fb ASPETTANDO SHERLOCK https://www.facebook.com/groups/366635016782488/ ]
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Nda: Salve!
Ero davvero incerta sul pubblicare o meno questa storia: non è la mia opera migliore, non la considero "bella" o all'altezza del meraviglioso prompt datomi sul gruppo Aspettando Sherlock, ma poi grazie a Celtica ho cambiato idea. L'ho scritta col cuore e quindi vale la pena di pubblicarla anche qui. E la dedica alla mia amica è d'obbligo: grazie davvero di tutto, Selene. Sei una socia e un'amica impossibile da sostituire.
Il prompt sul quale si basa la storia NON MI APPARTIENE, ma è stato pensato e creato da Pendincibacco: Scoppia un conflitto armato di grave entità in Medio Oriente e Watson viene richiamato alle armi come tutti gli ex militari ancora fisicamente validi; Sherlock non sa come reagire alla notizia e tenta di elaborare l'idea di essere separati di nuovo (eventi di terza e quarta stagione da non considerarsi, se c'è una ship che sia Johnlock);
Io ci ho provato e spero che il risultato non sia orribile.
Grazie a chi leggerà, grazie a chi mi lascerà un parere, e soprattutto grazie a chi gradirà.
Buona lettura, spero!
 

I’ll be home for Christmas
 
 
 
A Selene,
che mi sopporta e mi supporta ogni giorno.
E perché sto diventando davvero brava nell'arte dei malintesi.
Ti voglio bene.

 





Il violino pianse disperato nel silenzio del 221b di Baker Street. I suoi lamenti raggiunsero la poltrona vuota e scivolarono nelle fiamme del camino; si arrampicarono alle pareti e tentarono di scappare dalle finestre. Allo stesso modo, i fiocchi di neve sembrarono abbracciare Londra in quella malinconica serata di dicembre, a pochi minuti dal Natale.
Lui non c’era, il suo posto era ancora vuoto.
Quella non sembrava più la stessa casa di qualche mese addietro, non assomigliava più all’appartamento in cui aveva deciso di abitare. Senza lui, quelle quattro mura non erano niente. Apparivano smorte, silenti, noiose.
Un po’ come la sua vita, si ritrovò a pensare. Un po’ come la sua vita da quando lui era andato via.
Sfinito dal silenzio, abbassò archetto e strumento lungo i fianchi come armi scariche che non potevano più difenderlo e guardò verso la porta spalancata, dove la luce del soggiorno scivolava pigra fino alle scale, senza raggiungerle. Sapeva che la fantasia era inutile, che perdersi in futili congetture non giovasse proprio a nessuno… eppure restò fermo, e indifeso, a fissare quella porta spalancata, quei gradini in legno che la luce non riusciva a raggiungere e immaginò.
Immaginò dei passi, i suoi passi, avvicinarsi con metodica precisione. Un’abitudine, un piccolo pezzo di quotidianità a cui non riusciva a rinunciare. Un pezzo di quella casa, un rumore rimasto impresso sul pavimento, tra quelle quattro mura, sui vetri appannati e nelle fiamme del camino.
Lo immaginò arrivare sulla soglia, la luce calda della lampada del soffitto a colorargli il volto più magro d’arancio, le occhiaie pronunciate e le labbra secche. Lo immaginò ancora in divisa, stanco, stremato e appagato allo stesso tempo, impalato nella sua posa da soldato a sorridergli felice.
Avrebbe aspettato lo scoccare della mezzanotte. «Buon Natale, John» gli avrebbe detto, poi, godendosi ogni minimo mutamento di quel volto.
John gli avrebbe risposto rafforzando il sorriso sulla sua bocca, gli occhi chiari lucidi per la gioia. «Buon Natale, Sherlock» avrebbe aggiunto, a quel punto, avanzando di un passo.
Quell’immagine svanì nel nulla, una bolla di sapone che scoppia nell’aria prima ancora di toccare il suolo, lasciando spazio al rumore pesante di scarponi contro il terriccio. «In piedi», un accento arabo a rimarcare l’ordine appena espresso e Sherlock sbatté controvoglia le palpebre mettendo a fuoco la visuale. Era sparito tutto: il camino, il pianto soave del violino, la neve… e John. Tutto scomparso. Tutto finito.
Dinanzi a lui c’erano talebani armati, sabbia e odore acre di sudore. Il cielo era scuro, l’aria era gelida e la pelle bruciava là dove le cicatrici disegnavano linee rette scarlatte.
Non gli importava di essere ubbidiente, non gli importava di essere bastonato come un cane cattivo o abbandonato morente in quella zolla di terra. Sherlock sollevava lo sguardo e vedeva, vedeva ogni cosa. Lui riusciva a cogliere virgole invisibili agli occhi degli altri, soggetti impliciti che tutti ignoravano. Le persone erano libri aperti ai suoi occhi, e lui amava leggerli. Amava conoscerne anche l’odore, sapere con quale carta fossero stampati. L’inchiostro era ancora fresco o si trattava di un testo vecchio anni?
Sherlock alzava lo sguardo e conosceva tutte le risposte.
Sapeva cosa sarebbe successo da lì a qualche secondo, prima ancora che il rumore degli spari e le urla degli uomini potessero raggiungere le sue orecchie. Gli indovinelli diventano noiosi una volta risolti.
Riuscì a pensare a un solo libro, prima che tutto diventasse buio. Un solo volto che non si sarebbe mai stancato di leggere, una voce che avrebbe voluto udire per tutta la vita. Un indovinello che non lo avrebbe mai annoiato.
John.
Ci era andato vicinissimo, lo aveva quasi raggiunto prima di essere sgamato. John stava bene e, quando il suo addome toccò la sabbia, nulla sembrò importare più di questo.
John sarebbe tornato a casa, prima o poi.  Forse avrebbe fatto in tempo a godersi il Natale nel loro appartamento, forse avrebbe aggiornato il blog prima che le feste fossero finite.
John sarebbe tornato a casa e quell’unica certezza gli bastava.
 
**

 
Cominciò tutto un giorno di primavera, quando le strade di Londra profumavano di frittura e smog e il sole decideva di spuntare timido dietro le grosse nuvole bianche.
Aprile. Lestrade teneva le braccia incrociate al petto, gli aloni di sudore ben visibili anche in quel modo, e aspettava che Sherlock parlasse. Scotland Yard aveva avuto giorni migliori, ma l’assassinio del figlio di un poliziotto sarebbe presto diventato l’ultimo dei loro problemi.
Quanto a Sherlock, la morte di Andrew Wilson era stato un suo problema per soli quindici minuti.
Ferita al cranio causata da un corpo contundente. Vera causa del decesso.
Tredici ferite da arma da taglio – probabilmente un coltello da cucina – inflitte post mortem.
Movente dell’omicidio: gelosia.
Sherlock guardava il cadavere di Andrew Wilson e vedeva solo quello: l’assenza di un anello all’anulare sinistro, lì dov’era rimasto il segno di due anni di una relazione soffocante; un lungo capello nero sulla camicia imbrattata di sangue.
Si è chinata su di lui.
«Arrestatela», fu la risposta laconica che riservò all’ispettore, sollevandosi in tutta la sua altezza. Cominciò a sfilarsi i guanti in lattice, il talco a pizzicargli il naso.
«Parli di Jessica Hunt?» Lestrade sembrava sorpreso, ma quella non era una novità.
«No, parlo della Donovan.» Sherlock non si scomodò neanche a guardarlo o ad abbassare il tono per non farsi sentire dagli altri agenti. «Certo che parlo di Jessica Hunt».
Fu John ad avvicinarsi a lui, a parlare a voce bassa – per entrambi -, le braccia conserte e coperte dalla stoffa leggera della camicia. Quella primavera si era rivelata sorprendentemente calda: erano mesi che John non indossava più uno dei suoi discutibili maglioni. Sherlock ancora non poteva saperlo ma presto, troppo presto, ne avrebbe sentito la mancanza. «Sherlock, quella donna è distrutta dal dolore. Non ha fatto altro che piangere e singhiozzare per tutto il tempo».
«È proprio per questo che Scotland Yard dovrebbe arrestarla».
Ma John non capiva. Non ancora. Era sempre stato quello, forse, il problema numero uno del loro rapporto: John capiva in ritardo. «Non ti seguo».
«È la sua fidanzata», disse pratico il consulente investigativo, come se quella semplice frase potesse spiegare tutto.
«E allora?» s’intromise Lestrade. «La sua reazione è più che normale. Non possiamo arrestarla solo perché si comporta come un essere umano».
Tutte le vite terminano. Tutti i cuori si spezzano.
Tenerci non è un vantaggio.
Erano state quelle le parole di Mycroft dello scorso Natale, quando all’obitorio aveva riconosciuto il cadavere di Irene Adler – La Donna.
Sherlock non aveva provato niente: non aveva il cuore spezzato, i suoi occhi non erano lucidi di lacrime… ma avrebbero dovuto.
Irene Adler era una persona. (Ancora viva, ma quello lo aveva scoperto solo in un secondo momento).
Se ci fosse stato John, su quel tavolo d’acciaio, avrebbe pianto?
Riemerse dai suoi pensieri con rabbia, in collera con se stesso per aver anche solo immaginato una cosa del genere. «Andrew Wilson non porta più l’anello. La signorina Hunt lo indossa ancora».
«È stato derubato» gli ricordò Lestrade, abbracciando con un gesto del braccio la stanza a soqquadro. «L’anello era di valore e allora lo hanno portato via».
«Perché pugnalarlo, allora, se è morto sul colpo?» La voce gli uscì più acida del previsto. «Andrew non indossava l’anello già da un po’. Guardatevi intorno: dove sono le foto di lui e Jessica? Dove sono gli effetti personali della sua fidanzata, un’impronta della sua presenza in questa casa? Andrew l’aveva lasciata, ricominciando una nuova vita, ma lei non lo ha accettato. Si è presentata da lui la scorsa notte e in preda alla rabbia l’ha tramortito con un martello – probabilmente lo troverete nascosto dietro la lavatrice -, poi ha continuato a infierire sul corpo col coltello da cucina. Ha cercato l’anello di Andrew ovunque e, posso assicurarvi, lo ha anche trovato. Non sono lacrime di dispiacere, ma di colpevolezza».
«Ma… è assurdo.» John posò lo sguardo sul pavimento in legno plastificato della cucina, il blu dei suoi occhi che si perdeva nel rosso del sangue ormai secco. John si avvicinava troppo alle vittime, la prendeva come una questione personale.
«Tutt’altro.» Sherlock infilò le mani nelle tasche comode del suo Belstaff, tirando fuori la sciarpa. «Si è disposti a tutto pur di non perdere le persone amate, no?»
«Ma lo ha perso comunque» ribatté Lestrade, improvvisamente esausto per la verità appena svelata.
Probabilmente avrebbe ucciso per John Watson, per saperlo ancora al suo fianco, accomodato nella sua poltrona accanto al camino. Avrebbe ucciso per saperlo al sicuro e basta, vicino o lontano.
Avrebbe ucciso anche se fosse già morto.
John teneva ancora lo sguardo fisso sulla macchia color cremisi. «È solo un modo di vedere la cosa».
Sherlock lo guardò con la coda dell’occhio e il blogger neanche se ne accorse.
Non se ne accorgeva mai.
«Già».
Quando uscirono dalla cucina del loft, oltrepassando la piccola isola in marmo, ignorarono la pagina su cui era aperto il giornale; un articolo che né John, né Sherlock si scomodarono a leggere. Un articolo che parlava di un piccolo ordigno esploso insieme a sette persone, in Medio Oriente. Un articolo che in pochi mesi avrebbe cambiato la loro vita per sempre.
 
*

 
Pur di non perdere le persone che amiamo siamo disposti a tutto.
Ma cosa avrebbe voluto dire perdere John?
Incontrarlo solo una volta al mese? Vederlo vivere con una donna? Assistere al suo matrimonio?
In quanti modi e quante volte avrebbe potuto dirgli addio? E qual era la peggiore?
Il taxi procedeva lento a quell’ora tarda, tra le strade buie di Londra.
Sherlock teneva il cellulare tra le mani, il riflesso azzurrognolo dello schermo che gli colorava il volto spigoloso. Adesso che il caso era finalmente concluso, l’adrenalina aveva ceduto il posto alla stanchezza.
Inviò il messaggio a Lestrade e si lasciò ricadere contro il sedile. Avrebbe potuto addormentarsi sotto la doccia, una volta tornato a casa.
No, John non lo permetterebbe mai.
Prima che potesse voltarsi a cercarlo, sentì un peso sulla spalla destra. Intravide la chioma bionda in netto contrasto col viola della sua camicia, percepì il respiro lento e regolare e il suo profumo penetrò nelle narici con delicatezza, con prepotenza. Una carezza con le unghie affilate.
John era crollato appoggiandosi a lui, senza rendersene conto.
Se si fosse mosso, si sarebbe svegliato.
E se adesso ti svegliassi, cosa faresti, John?
Ti allontaneresti?
Restò immobile per tutto il tragitto, talvolta facendo attenzione a non respirare troppo forte, con la paura di strappare John dalle braccia confortevoli del sonno e se stesso da quella vicinanza. Un sogno a occhi aperti.
Lo definirebbero così gli scrittori, giusto?
Erano passati tre mesi dal caso di Andrew Wilson e l’estate avanzava imperterrita col suo caldo e la sua monotonia. Londra si svuotava e si riempiva ogni giorno di gente nuova, volti sconosciuti che danzavano al ritmo dell’Universo.
John non era più uscito con una donna dall’ultimo incontro con la Adler, dopo aver quasi ammesso i suoi sentimenti.
C’erano stati nuovi incontri, piccoli appuntamenti fallimentari… ma adesso era diverso. John non cercava più nessuna, non in quel senso. Non gli importava nemmeno.
Se poteva, la sera restava a casa a preparare qualcosa da mangiare – o magari comprava la cena dal cinese -, aspettandolo dall’altra parte del tavolo.
Nei giorni buoni, Sherlock non vedeva il motivo di evitarlo: prendeva posto di fronte a lui, in modo da avere i suoi occhi a portata di sguardo,  lo faceva contento.
Di questo Sherlock se n’era accorto già da tempo: se mangiava “come una persona normale” o almeno ci provava, John era felice.
Era stupido, quasi insensato, ma se John era felice allora – per riflesso – lo era anche lui. Bastava.
In quell’ultimo periodo sembrava andare tutto bene.
Nel giro di tre mesi Lestrade lo aveva coinvolto in quattro casi interessanti; lui e John avevano fatto il pieno di clienti per due settimane di fila… e John non aveva incluso nessuna estranea nel loro rapporto.
Nel vederlo così sereno e calmo, vinto dal sonno, nella sua mente si fece spazio un’immagine ingombrante: John aveva preso il giornale tra le mani e storto la bocca in una smorfia strana, le dita volate alla spalla come un riflesso involontario. «L’Afghanistan sta crollando nel caos», aveva mormorato.
Sherlock aveva distolto lo sguardo dal microscopio, senza emettere un suono. Si era limitato a osservarlo in silenzio, studiandolo per un po’. «Mi passi le dita dal frigo, John?»
Il dottor Watson aveva sbuffato, borbottato qualcosa su quanto fosse seccante trovare parti umane in un elettrodomestico dove avrebbe dovuto esserci del cibo, gettandogli il sacchetto con le dita amputate con poca grazia sul tavolo, e la discussione era finita lì.
Eppure quella frase, quelle sei parole gli ronzavano nella testa una dopo l’altra, mattoni che pesavano come cemento armato sulle tempie.
Quando il taxi si fermò dinanzi al 221b di Baker Street, Sherlock non lo chiamò per strapparlo dal sonno, non lo scosse dolcemente sulla spalla per vedere gli occhi profondi di John incontrare i suoi. Gli bastò spostarsi, pagare il tassista e scendere l’auto e l’incantesimo si ruppe.
 
*

 
I film di James Bond erano pessimi, oggettivamente ridicoli, ma se a John piacevano Sherlock poteva dar loro una chance. Poteva guardarli anche se non li sopportava, poteva restare seduto sul divano fino ai titoli di coda, la febbre che continuava a salire, e John al suo fianco che sgranocchiava popcorn.
Lo sguardo del medico si alternava dal televisore al suo viso, chiedendogli implicitamente: «Ti è piaciuta quella scena?», «Cosa ne pensi di questa?», «Oh, questa è in assoluto la mia preferita. Che ne dici?».
Quella sera John gli aveva proibito categoricamente di uscire di casa, obbligandolo a spegnere il cellulare.
«Possiamo guardare un film», aveva proposto con aria innocente e, chissà perché, alla fine  aveva capitolato, sprofondando a peso morto sul divano a guardare le peggiori inquadrature di Roger Moore.
23 Settembre. L’estate era andata via da due giorni in grande stile, lasciando il posto all’autunno con i suoi nuvoloni grigi e i primi temporali.  La pioggia picchiettava contro il vetro delle finestre, accompagnando i due coinquilini nella visione del film come una soundtrack perpetua.
John non indossava ancora i suoi maglioni: quel giorno aveva scelto una maglia a righe bianche e blu e un semplice paio di jeans. Sherlock, invece, era in tenuta da Londra-mi-stai-annoiando.
Lo sentì ridere e si chiese se fosse l’unica persona al mondo a farlo. Chi rideva guardando un film del famoso agente 007?
Chi ha visto la guerra con i propri occhi, magari.
Un brivido gelido gli percorse la schiena e Sherlock seppe con certezza che non si trattava della febbre. Era colpa del tempo che scorreva inesorabilmente, del fuoco in Medio Oriente e della sensazione straziante che gli attanagliava lo stomaco quando John menzionava l’Afghanistan.
Gli americani erano in difficoltà e presto lo sarebbero stati anche gli inglesi.
E poi, cosa sarebbe successo?
Le luci della TV si adagiavano sul volto rasato di John, creando strani giochi di ombre sulle guance e sulle curve della sua faccia.
Lo sai, John, sei diventato il mio incubo a occhi aperti.
Tu ci pensi mai a come sarebbe vivere di nuovo senza di me?
Ci hai mai riflettuto, almeno per un attimo?
Potrebbe succedere, John. Potrebbe succedere da un momento all’altro.
Come richiamato da quei pensieri, John si voltò verso di lui. Masticava popcorn.  «Non vale, Sherlock. Devi guardare» si lamentò, quasi un sorriso sulle labbra sottili.
Preferisco guardare te.
Non seppe dirsi perché lo avesse fatto; si avvicinò a John così tanto da sfiorargli il naso col proprio. Cercò qualcosa in quel blu paralizzato: una richiesta, una scintilla di desiderio, forse anche un velo di paura. E allora attese. Attese di scoprire il gusto della sua bocca, la consistenza della sua lingua nel palato e le sue mani tra i capelli. Voleva sentirlo addosso, abbandonarsi completamente a ciò che sarebbe accaduto. A lui. A lui e nessun altro.
Chi avrebbe potuto reggere il confronto?
John non aveva paragoni, anche se non conosceva la sua lingua. Non aveva paragoni anche se non lo stava baciando, e non ne avrebbe mai avuti anche se si limitò a posargli una mano sulla fronte, sussurrando: «La febbre sta salendo».
 
*

 
Non lo aveva ancora perso, ma sarebbe successo presto.
Ottobre arrivò con una valanga di incertezze e malintesi. John quel giorno aveva indossato uno dei suoi maglioni discutibili, quello beige per l’esattezza – “Uno studio in rosa”, il tassista killer, Moriarty.
John si impegnava tanto per cercare un titolo decente – discutile, ancora – per ogni caso trascritto sul blog e, allo stesso modo, Sherlock associava un caso a ogni maglione del suo collega.
Alcuni erano davvero orribili – casi banali -, altri da dimenticare – lo scorso Natale, La Donna, “Buon anno, John”… ma quel maglione, quel maglione era speciale. E John lo aveva usato per incontrare una donna.
Proprio quel maglione. Come poteva fargli una cosa simile?
A John piacciono le donne.
Ma lui è il tuo John Watson.
Ignorò il cellulare per tutto il giorno e rimase seduto sulla sua poltrona a osservare lo smile ferito dai proiettili di quasi un anno prima. Più di trecentocinquanta giorni di distanza e la voglia di centrarlo in pieno con la pistola di John non era passata. Ma… avrebbe potuto fare di meglio, in effetti.
 
 
«Sherlock? Sherlock mi senti?»
Il volto di John comparve in un caleidoscopio di colori e forme geometriche, la sua voce gli arrivava da lontano. Da un altro pianeta.
John era preoccupato, poi arrabbiato e poi deluso. Avrebbe chiamato suo fratello sicuramente. Quand’era stata l’ultima volta che la droga aveva avuto accesso al suo corpo?
Il giorno della partenza di John e Sarah? L’ultimo appuntamento con Janette?
«Sei uno stupido.» Vide John scuotere il capo con disapprovazione, le sue mani addosso. Era magnifico e orrendo allo stesso tempo. «Un vero incosciente».
Il peggio arrivò con la lucidità, quando si accorse che il colletto della camicia che spuntava dal maglione era ancora in perfetto ordine e che John non si portava dietro alcun profumo sconosciuto. Sul tavolo, ancora nella busta di plastica, svettava la bottiglia di vino rosso appena comperata. Un Merlot.
Appuntamento annullato, da parte di John.
Si è fermato nel negozio giù all’angolo per comprare del vino, pronto per gustarlo insieme. E tu hai rovinato tutto. Tutto quanto.
Come sempre.
 

 
*
 
Ultima settimana di ottobre. Cielo grigio metallo.
Sherlock adagiò il violino sulla spalla, gli occhi cangianti fissi su un punto morto al di là del vetro della finestra, verso Londra, i tetti dei palazzi e la calma snervante dei passanti.
Era trascorso un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva eseguito a memoria un brano di Tchaikovsky. Chissà perché aveva scelto proprio quel giorno, proprio quel momento.
Forse per il ritardo di John, forse per il colore che la città assumeva sovrastata dall’argento.
Quando John rincasò, quella sera, era diverso. E Sherlock sapeva il perché.
Una conseguenza logica e inevitabile, un due più due matematico.
«Devo parlarti, Sherlock.» Quella frase fuoriuscì dalla sua bocca come uno schiaffo in pieno volto. John non ebbe neanche il coraggio di avvicinarsi, come se potesse sgretolarsi ad ogni passo. Restò immobile sulla soglia della porta – gli occhi lucidi, forse –, la lingua stretta tra i denti.
Lo so, John.
Sherlock gli offriva la schiena, ma non gli fu necessario voltarsi per immaginarlo nitidamente di fronte a sé, per leggere sulla sua faccia il nuovo servizio del tg.
«Devo partire, Sherlock», lo sentì parlare. «Devo tornare là, domani stesso».
Lo sapeva. Lo sapeva già. Lo aveva dedotto, ma ogni parola ebbe lo stesso effetto di una lama conficcata nel petto.
Non voglio che tu te ne vada, John.
È la più brutta notizia che potessi darmi.
Impugnò l’archetto e riprese a suonare.
 
*


“Urlalo nel vento e la tua voce gli arriverà. Urlalo nel vento e sembrerà di averglielo soffiato piano nell’orecchio”. Era questa la frase che aveva scovato nel romanzo che John stava leggendo in quei giorni. Carina, stupida. Dolorosa.
Era tutto pronto, John era pronto, il mondo intero era pronto… ma non Sherlock. Non sarebbe mai stato pronto a quello, non sarebbe mai stato pronto a vedere John andare via dalla sua vita. Che si trattasse di giorni, settimane, mesi o anni poco importava: John sarebbe andato via e Sherlock non era pronto a quello.
Urlalo nel vento e la tua voce gli arriverà, aveva scritto quel tizio nel suo libro. Urlalo nel vento e sembrerà di averglielo soffiato piano nell’orecchio.
John si guardò intorno, come se non conoscesse quel posto, come se lo vedesse per la prima volta e dovesse ricordare e memorizzare ogni angolo. Ogni oggetto. Ogni cosa.
Non andartene, John.
«È ora.» John sollevò gli occhi su di lui, sulla sua maschera di cera, sulla sua espressione studiata per anni. «Ricordati di comprare il latte, mentre sono via.» Non andare, John. Ho bisogno di te.
«Stammi bene, Sherlock.»
Imbranato, goffo e profondamente addolorato gli dedicò un mezzo sorriso quando Sherlock gli tese la mano. Quando gliela strinse, Sherlock ebbe paura di lasciarlo andare. Non voleva che partisse. Non voleva che varcasse la soglia del loro appartamento. Non voleva che tornasse in Afghanistan, sul campo di battaglia.
Resta, John. Resta qui con me.
Le dita di John si allontanarono dalle sue e tornò il gelo dell’assenza. Il vuoto. L’oblio.
Lo vide allontanarsi di schiena e il mondo crollò in quell’istante. «John…» Gli bastò un sussurro, un soffio di voce e John Watson tornò indietro. Non se l’aspettava, Sherlock, non lo aveva calcolato.
John lo avvolse con le braccia, stringendolo forte a sé, come se potesse fermare il tempo e rimanere bloccato per sempre in quel momento. Sherlock si aggrappò a lui con tutte le sue forze e con tutta la sua mente, fino ad avere l’odore di John tatuato sui vestiti, e allora decise.
Decise che quando John avesse varcato quella porta il mondo avrebbe smesso di girare, perdendo ogni senso.
 
**

 
Era stata una follia, un’assurdità, ma rimaneva comunque la cosa più giusta che Sherlock avesse mai fatto in tutta la sua vita. Parlare con Mycroft, infiltrarsi tra le armate talebane e spifferare tutto al Governo Inglese… Avvicinarsi a John, capire quale vettura fosse saltata in aria, scoprire i nomi dei feriti e tirare un sospiro di sollievo sapendo che John non era tra loro.
Era stato assurdo farsi sgamare, torturare e quasi uccidere, ma adesso che apriva gli occhi e il nero cedeva pian piano il posto ad un letto d’ospedale, il mondo riacquistava il suo senso.
John era lì, addormentato con la testa sul materasso. Sano e salvo. I capelli biondi erano spettinati, il suo odore pungente e le palpebre calate. Era dimagrito molto dall’ultima volta che lo aveva visto, ma era sempre lui. Ed era al suo fianco.
Per quanto tempo era stato incosciente?
John era arrabbiato con lui? Era felice che fosse ancora vivo?
Lo avrebbe abbracciato, una volta sveglio?
Allungò delicatamente la mano fino al braccio di John, sfiorando la stoffa della divisa che teneva ancora addosso. Un giorno la incendierò. Sarà un esperimento.
Lo vide aprire piano gli occhi, mettere a fuoco il suo volto e sorridergli d’istinto. Digli tutto quello che hai sempre voluto dirgli. Urlaglielo adesso, prima che un’altra guerra scoppi da qualche parte nel mondo e te lo portino via una seconda volta.
Urlalo senza remore. Ti amo. Ti amo. Ti amo.
Ripetilo tutte le volte che vuoi, finché sarà costretto a zittirti con le labbra, finché non conoscerai il suo sapore. Finché non sentirai i vostri fiati che collimano nell’attimo perfetto.
Provò ad aprire la bocca per parlare, per tutto ciò che aveva sempre desiderato dirgli, per sciogliere quella neve che gli attanagliava lo stomaco, ma John fu più veloce. Allargò il sorriso sulla sua bocca, gli occhi chiari lucidi per la gioia. «Buon Natale, Sherlock».
È ancora Natale?
Per quanto tempo sono stato sdraiato in questo letto?
La mano di John strinse la sua, il sorriso non barcollò mai. Rimase lì dov’era, suggerendogli la risposta. Per me, è come se lo fosse.
Stropicciò la bocca in un mezzo sorriso, senza neanche controllare se ci fosse un orologio nella stanza. «Buon Natale, John».
   
 
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