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Autore: Vera_Davvero    28/12/2017    0 recensioni
Tempo fa incontrai un ragazzo impacciato e gentile, che finiva sempre con il balbettare quando parlava con i suoi superiori.
Sono passati molti anni da allora, eppure quando guardo Adam rivedo quello stesso ragazzo, e nel momento in cui sorride sento di amarlo ancora come all'inizio della nostra storia.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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È un tiepido pomeriggio della prima metà di settembre. L’autunno è alle porte, ma il sole che scalda la piazza di fronte alla chiesa sa decisamente di estate. 
Adam è veramente splendido.
Non è mai stato bello come in questo momento. Ed è giusto che sia così. Voglio dire, è il giorno del matrimonio.
Attraverso il portone della chiesa, e il mio sguardo non può che posarsi immediatamente sulla sua figura. E lui alza gli occhi nello stesso momento, quei luminosi occhi blu che mi hanno fatto innamorare a prima vista. 
Adam mi guarda e il tempo cessa di scorrere.
È come trovarsi su un palcoscenico buio, con un faro puntato su ciascuno di noi. Il resto è una scenografia rimasta in ombra: le panche di legno traboccanti di persone, i sorrisi e le lacrime degli invitati, i fiori che decorano la chiesa, le voci, la musica. Tutto tace e sembra fermarsi, come in attesa.
Il tempo sembra dilatarsi, e d’improvviso mi ritrovo risucchiata in un vortice di ricordi degli ultimi quattro anni.

E così rivedo ancora, per l’ennesima volta, quella prima immagine che ho di lui. Un ragazzo di trent’anni con una camicia azzurra, i ricci ramati e gli occhi chiari che mi sorride con timidezza il suo primo giorno di lavoro. 
Lavoravo in una piccola clinica, ai tempi, e lui era il nuovo infermiere, trasferito dalla grande città. Era dolce ed impacciato, e mi faceva ridere. 
Il lavoro era al centro della mia vita. Avevo faticato molto per arrivare dove mi trovavo, compensando il mio essere intelligente nella media con il lavorare il doppio degli altri. Adam è stata la prima, piacevole distrazione. 
Ho finto per diversi mesi di non notare le attenzioni che riservava a me soltanto, le vaghe allusioni alla possibilità di uscire insieme, il modo in cui mi seguiva con lo sguardo quando ci incrociavamo in corridoio.
E allo stesso modo ho finto deliberatamente di non notare come le mie mani tremavano ogni volta che lui era vicino, o il calore che mi scaldava le guance quando mi faceva un complimento. Avevo addirittura smesso di svegliarmi la mattina pensando alle cose da fare in clinica, perché il mio primo pensiero della giornata a poco a poco era diventato: “Chissà se riuscirò a vedere Adam, oggi”
Mi sentivo come risucchiata in uno dei film romantici che guardavo tutti i sabato sera.
Eravamo colleghi, mi ripetevo. Ma Julie, la mia migliore amica, sempre un passo avanti a me in materia di uomini, rideva ed alzava gli occhi al cielo. “Quello è pazzo di te, non dovesti tenerlo sulle spine” mi diceva. 
Adam era sensibile e gentile con tutti e tendeva a balbettare quando parlava con i suoi superiori. I pazienti della clinica, specie i più giovani e gli anziani, lo chiamavano per nome e gli davano del tu. Le infermiere e le dottoresse non erano certo immuni al suo fascino, un fascino non ostentato e appariscente. Adam non era bello, non secondo i canoni tradizionali. Forse quel naso era troppo curvo, forse qualche giorno in palestra lo avrebbe rimesso in forma. Ma sfido chiunque a parlare con lui senza esserne conquistati, o a guardarlo dritto negli occhi e non restare ipnotizzato dal colore limpido delle sue iridi. 
Adam era il bravo ragazzo della porta accanto che si incontra nelle commedie romantiche o nei romanzi.

Non sono mai stata la ragazza che prende l’iniziativa, e ad essere sinceri non avevo mai avuto, per una ragione o per l’altra, una relazione con un uomo dai tempi del college. Perciò ho aspettato che fosse lui a prendere coraggio e ad invitarmi ad uscire per la prima volta. 
Ricordo ogni dettaglio di quella sera.
Abbiamo bevuto del vino rosso, abbiamo parlato a lungo. Lui mi ha raccontato della sua infanzia in uno sperduto paese di campagna, di come ha imparato da giovane a suonare la chitarra senza che nessuno glielo insegnasse, del suo amore per l’arte e per la tecnologia. Io gli ho raccontato dei miei fratelli, della mia passione per i vecchi film e per la cucina. Ho passato tutta la sera a rendermi conto di non essere mai stata così a mio agio con qualcuno. Lui era luminoso, divertente, ma mi ascoltava con attenzione quando parlavo. Mi ha raccontato di sé e anche io mi sono aperta con lui, ed è stato naturale, semplice. E come sono rimasta delusa quando, accompagnandomi alla porta di casa, mi ha dato soltanto un castissimo bacio sulla fronte! Nella mia mente viziata da film romantici non era così che sarebbe dovuta andare.
Ricordo diversi altri appuntamenti. Lunghe serate al cinema. Un picnic al parco dove siamo stati coinvolti in una partita a calcetto da alcuni ragazzi. Una gita in spiaggia dove abbiamo comprato un paio di braccialetti della fortuna identici, promettendoci di non tagliarli mai…
Fra noi si era creata quella pizzicante alchimia che non avevo mai provato con nessuno, prima di allora. Quando era vicino a me, al lavoro o fuori dalla clinica, non riuscivo a d allontanare i bisbigli nella mia mente che mi invitavano a baciarlo. E mi dicevo: “Santo cielo, datti un contegno ragazza”, ma quelle voci erano petulanti ed insistenti, ed in più avevano ottime argomentazioni.
Julie, con i suoi modi da gattina, continuava ad esigere i dettagli della nostra “storia”, ma io insistevo che non c’era nulla da dire, perché… insomma, non c’era niente.
Fino a che, un giorno, ho preso il coraggio a due mani. 
Stavo per partire per un convegno in un’altra città. Una settimana lontana da lui, quando ormai ero abituata ad averlo accanto a me sul posto di lavoro e anche fuori… sentivo che dovevo fare qualcosa, che non potevo partire così.
La tempistica non è mai stata il mio forte, devo ammetterlo. Ho scelto di baciarlo nell’unico momento in cui siamo rimasti soli il giorno della mia partenza… ovvero nell’ascensore.
Ero passata rapidamente in clinica per recuperare i miei appunti, e Adam si era offerto di accompagnarmi all’uscita. Quando le porte si sono chiuse e siamo rimasti soli ho dato ascolto a tutte le voci nella mia testa. Ho lasciato cadere a terra la valigetta, mi sono voltata verso di lui e ho chiuso gli occhi, baciandolo senza dire una parola.
È stato breve, ma è stato bellissimo. Sentivo il pulsare del mio cuore nelle orecchie, il suo abbraccio familiare e protettivo, il diaframma completamente paralizzato. Quando le porte dell’ascensore si sono aperte sul piano terra, ci siamo allontanati e mi sono persa in quegli occhi azzurri ancora per un momento, prima di dargli le spalle ed allontanarmi quasi di corsa, le guance in fiamme e il cuore a mille.

Mi sono sempre chiesta come fosse la madre di Adam, dal momento che lui non l’ha mai conosciuta. Tutto quello che ricorda è una melodia che gli cantava per farlo addormentare ed il profumo di lavanda dei suoi vestiti. Nulla di più. 
Ha scoperto la verità su di lei solo di recente. Non se n’era andata perché aveva un amante, come aveva sempre sostenuto suo padre, ma proprio per via del marito. Era stanca dei litigi, delle botte, delle urla, e così è scappata. Ma perché non portò via il suo bambino di due anni e mezzo rimane un mistero per chiunque. E così Adam è dovuto crescere solo con il padre. Lui sostiene ancora che a modo suo gli voleva bene. Ma era instabile, irascibile, nevrotico.
Forse è per questo che Adam riesce ad essere sempre gentile con chiunque. Forse è per questo che è paziente, generoso, pacato. 
Di certo c’è un motivo se nessuno dei suoi genitori è qui oggi, nel giorno più importante della sua vita. Quella panca in prima fila, dove sono seduti alcuni amici, doveva essere la loro. Avrebbero dovuto guardare il loro bambino e realizzare che era diventato un uomo, commuoversi durante la cerimonia, fate foto e correre ad abbracciarlo alla fine della funzione… Ma sapete una cosa? Loro non hanno idea di quello che si perdono. Adam è raggiante, è lo sposo più bello e felice che io abbia mai visto, ed è una gioia per gli occhi. Ed è diventato la persona meravigliosa che è soltanto per merito suo. Adam non deve nulla a nessuno.

Lui non parla molto della sua famiglia, anzi, non ne parla mai con nessuno.
Il giorno che mi ha raccontato la storia della sua vita, l’abbandono della madre e i soprusi del padre, stavamo insieme da un mese circa. Io gli ho tenuto la mano e lui ha cercato di non piangere. L’ho stretto forte a me, amandolo ancora di più per il coraggio che ha avuto nell’aprirsi con me. 
E lo amavo per tante altre cose.
Lo amavo per come riusciva a farmi sorridere anche al mattino presto, quando ero ancora troppo stanca persino per parlare. Lo amavo per come andava d’accordo con tutti i miei amici, e per come al termine di un’uscita di gruppo non faceva che ripetermi quanto fossero grandiosi. Lo amavo per le nostre domeniche pomeriggio passate a fare biscotti e leggere sul divano, per come mi baciava sul collo quando lavavo i piatti, per come mi accarezzava la schiena quando passavamo ore a letto a parlare. Amavo il modo in cui la sua barba pizzicava le mie guance quando mi baciava, e amavo il fatto che nessuno dei due aveva infranto la promessa di non tagliare mai quei braccialetti della fortuna. C’erano tante cose che ho imparato ad amare di lui, nel corso di quei due anni e mezzo passati insieme.
E sentivo che niente avrebbe potuto dividerci. Né le avances di Wendy, la disinibita fisioterapista che lavorava alla clinica, né le piccole discussioni che ogni tanto ci portavano a chiuderci nei nostri silenzi, né quell’offerta di lavoro oltreoceano che mi fecero da un prestigioso centro di ricerca e che, ovviamente, non presi nemmeno in considerazione.
Perché lasciare quello che avevo, quando avevo tutto ciò di cui avevo bisogno? 

Adam mi guarda ed il mondo tace.
È immobile, ai piedi dell’altare, e sul suo viso il sorriso nervoso e imbarazzato di chi è sotto gli occhi di tutti lascia il posto ad un’espressione seria e consapevole.
Ed è come se questi anni non fossero mai trascorsi. Il modo in cui il respiro muore nella mia gola e il cuore martella nella gabbia toracica sono esattamente gli stessi. Il lieve tremore alle mani, il calore sul mio viso…
Forse siamo ancora gli stessi, forse non è cambiato nulla.
Ma ad ogni modo adesso devo farmi da parte. Sono in piedi in mezzo alla navata, e fra poco farà il suo ingresso la sposa.

Alla fine ho accettato quel lavoro oltreoceano.
Non perché lo volessi. O meglio, non perché avessi intenzione di farlo.
Lo volevo, certo che lo volevo. Prima di conosce Adam la carriera era tutto per me, e quel prestigioso centro di ricerca era un sogno in cui potevo solo sperare.
Adam lo sapeva. Sapeva quanto fosse importante per me, ma sapeva anche che avrei scelto lui sopra ogni cosa, sopra ogni mia ambizione, sopra ogni mia opportunità.
E io avrei scelto lui, sempre. 
Ma lui ha preso una decisione diversa.
Di sicuro credeva di fare la cosa giusta, ma io non dimenticherò mai la sera in cui mi ha lasciata. Ha portato via le sue cose da casa mia e mi ha detto che era meglio così, che io ero troppo per lui, che meritavo di più. 
Ho pianto, mi sono arrabbiata, gli ho gridato che era un bastardo egoista. Ma lo era davvero? Alla luce dei fatti, lui mi ha lasciata per permettermi di seguire il mio sogno.
Alla fine ho accettato quel posto, non perché lo desiderassi, ma perché ne avevo bisogno. Dovevo scappare. Dovevo lasciarmi alle spalle quella storia, quell’uomo, quel finale così amaro. Dovevo ricominciare da un’altra parte.

In pochi mesi ho rimesso in piedi la mia vita, e sono tornata ad essere la persona che ero prima di Adam.
Quel lavoro era effettivamente il sogno della mia vita, e poco importava che praticamente vivessi al centro di ricerca, che non avessi amici, che non facessi altro che dedicarmi ossessivamente al lavoro. Mi sentivo felice e realizzata, e ci sono stati momenti in cui sono arrivata a pensare: “Adam aveva ragione. Io meritavo tutto questo”.
Ma adesso capisco. La mia mente era solo annebbiata.
Adesso, mente mi siedo in fondo alla chiesa e aspetto con gli altri invitati l’inizio della marcia nuziale, capisco che avevo torto. Che se adesso potessi cedere ogni cosa, le mie pubblicazioni, i miei premi, il mio posto di direttore in una delle più grandi cliniche del paese… tutto quello che ho costruito, e scambiarlo con un vestito da sposa e la possibilità di percorrere questa navata… io lo farei.
Perché Adam mi sta ancora guardando, anche lui vittima dei fantasmi del passato, e io vedo nei suoi occhi azzurri le stesse emozioni che tormentano il mio animo. Rammarico, rimpianto, nostalgia.
Mi sfugge un sorriso, e sento i miei occhi riempirsi di lacrime. Sto guardando l’unico uomo che io abbia mai amato negli ultimi momenti prima che si leghi per sempre ad un’altra donna.   
Lui si tormenta le mani, lo sguardo fisso su di me, serio. Qualcuno seduto nelle file più avanti si volta e prova a seguire la direzione del suo sguardo.
A noi non importa. Non ci è mai importato di quello che pensano gli altri.
Entra la sposa.


Un rinfresco semplice, nel cortile della villa dei genitori di lei. 
Sara è bellissima, adorabile. Ha i capelli castani, gli occhi scuri ed è minuta ed elegante. L’unico difetto fisico che le si può attribuire è un sottile ma evidente spazio fra gli incisivi, ma anche questo piccolo dettaglio si addice al suo personaggio. Non riesco ad odiarla, anche se probabilmente dovrei. Quando si avvicina a salutare Julie, con cui sono venuta alla cerimonia, la mia vecchia amica fa le presentazioni. Mi aspettavo un lampo di consapevolezza, un cambiamento nel suo atteggiamento… ma non cambia nulla.
Forse Adam non le ha mai parlato di me, anzi, deve essere così. In fondo perché avrebbe dovuto? Forse, penso, non sono mai stata così importante per lui, dopotutto. 
Forse il tempo ha fatto il suo corso e per lui sono diventata una fra le tante, e l’invito al matrimonio è stato solo una cortesia da parte sua.
È quasi surreale. Ricordo tutte le sue canzoni preferite, il modo in cui solleva il sopracciglio quando è perplesso e il sorriso condiscendente che riserva agli scocciatori, l’espressione assorta di quando suona la chitarra… è buffo come puoi ricordare tutto di una persona, mente lei può tranquillamente dimenticare tutto di te.

È ormai pomeriggio inoltrato, le giornate diventano più buie a quest’ora e i piedi iniziano a farmi male. Non sono mai stata abituata a portare i tacchi.
Forse è meglio che vada. Non ha senso restare qui ed affogare nei ricordi. 
Guardo Adam mentre parla con i genitori di Sara, i suoi suoceri, e realizzo quanto è cambiato. Ora il suo fisico è più asciutto e definito, i suoi capelli sono più corti, la curva dei ricci appena accennata, e porta le basette più lunghe di quanto facesse un tempo. È bello, deciso, sicuro di sé, non è più il ragazzo timido ed impacciato di cui mi ero innamorata. 
E forse questa consapevolezza mi aiuta a trovare la forza di guardarlo un’ultima volta, di dargli le spalle, di allontanarmi da lui e dal fantasma di quello che è stato. 
L’Adam che ho amato, quello che ha riso con me quella sera, bevendo vino rosso, quello che ha comprato quei braccialetti della fortuna, quello che mi baciava sul collo quando lavavo i piatti e che mi sussurrava “ti amo” prima che mi addormentassi, non c’è più. Così come non c’è più spazio per la mia vecchia me stessa, per quella parte di me che l’ha amato e ne è rimasta scottata.
Mi sfilo i tacchi e cammino sull’erba verso il parcheggio, lasciandomi alle spalle le voci, la musica e i ricordi, dondolando le scarpe con la mente vuota e leggera.
Questa volta scrivo io la parola fine.


E invece no. 
All’inizio penso di essermela solamente immaginata, quella voce in lontananza che chiama il mio nome, che fosse soltanto un’eco del passato e nulla di più. 
Ma poi la sento ancora. È alle mie spalle ed è dannatamente familiare.
Mi volto lentamente e guardo Adam dritto negli occhi. Sostengo il suo sguardo e cerco disperatamente qualcosa da dire. Ma la mia mente tace.
È lui a precedermi: “Sei davvero qui” 
“Mi hai invitata tu” ribatto, con la voce meno disinvolta di quanto vorrei.
Lui sorride. Cielo, quel sorriso, quegli occhi blu… 
“Sapevo che eri tornata in zona. Sai, non ho mai smesso di seguirti sui giornali. Ne hai fatta di strada”
“E tu?” domando. “Lavori ancora alla clinica?”
“Già. Non è cambiato nulla” risponde, alzando le spalle.
Un sorriso amaro mi sporca il viso: “Tu sei cambiato”
“Dici?” Annuisce, come se stesse meditando sulle mie parole.
Momento di silenzio. 
Riprendo timidamente la parola. “Devi tornare alla festa…” 
Lui mi fissa dritta in viso, gli occhi blu come un mare in tempesta. Si avvicina e mi da un bacio sulla fronte, il che sa esattamente della chiusura di cui avevo bisogno. Lascio che il calore familiare della sua presenza mi avvolga un’ultima volta, e sorrido, nonostante mi si stringa il cuore all’idea di non poterlo più tenere dentro al mio cuore. Quando si scosta da me scopro che entrambi abbiamo gli occhi lucidi.
Lui si volta per allontanarsi, ma dopo pochi metri torna a guardarmi e solleva una mano in segno di saluto. Ha un sorriso sul volto che non riesco ad interpretare…
Poi, con un tuffo al cuore, noto un dettaglio che fino a quel momento mi era sfuggito. Le maniche arrotolate della camicia rivelano un braccialetto della fortuna legato al suo polso. 
Spalanco gli occhi e mi viene da ridere. Mi tiro su la manica della camicetta e alzo il polso della sua direzione, rivelandone uno esattamente uguale. Non si è mai staccato e io non ho mai voluto tagliarlo. Era la nostra promessa. 
Lui sorride e io ricambio, anche se non posso certo impedire ad una lacrima di solcare il mio viso.
Eccoci qui, alla fine della nostra storia. 
Siamo Adam ed io e per qualche brevissimo istante è come se l’universo avesse trovato il suo equilibrio.
  
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