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Autore: Tinkerbell92    29/12/2017    2 recensioni
[Magnus Chase e gli Dei di Asgard]
SPIN-OFF PREQUEL SULLA SAGA DI MAGNUS CHASE
Di una cosa sono certa: mai e poi mai mi sarei aspettata di incappare in uno zombie assassino tornando a casa dalla parata Pride di Boston, mentre attraversavo l'Esplanade ancora avvolta nella bandiera arcobaleno. Non mi sarei nemmeno aspettata di venire caricata a forza su un cavallo di nebbia dalla sosia di Sansa Stark, per ritrovarmi poi catapultata tra i protagonisti dei miei libri di mitologia norrena.
Dèi, mostri, eroi... roba da pazzi.
Eppure eccomi qui, invischiata in situazioni più grandi di me con dei compagni d'avventura piuttosto insoliti.
Onestamente non so cosa minerà maggiormente l'equilibrio della mia psiche: se la scoperta delle mie origini o la condivisione di un terribile fardello con una sfortunata dea dal volto sciupato...
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 1  

Sansa Stark mi fa volare sul fiume Charles




Faceva ancora piuttosto caldo in quei giorni, nonostante la seconda settimana di Ottobre stesse ormai per giungere al termine: la maggioranza dei marciatori della Pride Parade bostoniana indossava t-shirt arcobaleno o indumenti leggeri, rievocando l’atmosfera della parata di Giugno.
Se quella mattina vi foste trovati a camminare sui marciapiedi di Back Bay, avreste potuto scorgere tra la folla, caricata sulle spalle di un gigantesco ragazzone di colore, una diciottenne allampanata con i capelli biondo cenere raccolti in due crespi codini, i lineamenti aguzzi e gli occhi grigioverdi, abbigliata con un top fucsia acceso, pantaloncini verde militare e scarpe da ginnastica colorate con diversi evidenziatori.    
Sì, quella ragazza ero io: Riley Barry Jenkins, per gli amici Ray, studentessa neoiscritta alla facoltà di Biologia Marina. O meglio, quella ragazza ero io prima che le incasinate vicende della mitologia norrena entrassero prepotentemente nella mia vita.    
Per nulla timorosa di cadere, stringevo tra le dita due estremità della bandiera arcobaleno, a volte sventolandola sopra la testa, a volte avvolgendola attorno al corpo come una cappa.     
- Sei sicuro di non fare tardi a lavoro? – gridai rivolta al mio migliore amico Dayo, alias il ragazzone che mi portava sulle spalle. – Quando vuoi puoi mettermi giù!    
- Nessun problema! – replicò lui, cercando di sovrastare la musica altissima e le voci della folla. – Oggi mi tocca il turno del pomeriggio, ho tutto il tempo che voglio!    
Sorrisi, accarezzandogli una mano e pizzicandogli affettuosamente un orecchio; in risposta, lui mi diede un buffetto sulla gamba.    
Dayo aveva quattro anni più di me, ma eravamo cresciuti assieme, visto che la villetta della sua famiglia si trovava proprio accanto alla mia; aveva due sorelle e tre fratelli, tutti molto più grandi di lui, perciò non era strano che passasse la maggior parte della giornata con l’unica compagna di giochi disponibile nel raggio di un isolato. Quando poi aveva imparato a leggere alla perfezione, si presentava spesso al cancello con un libro preso dalla Biblioteca dei Bambini; allora ci sedevamo su un telo in giardino e lui leggeva per me, senza mancare di mostrarmi tutte le figure.     
Crescendo, il nostro solidissimo rapporto fraterno non aveva subito alcun cambiamento, nemmeno dopo il mio coming out: a scuola, Dayo aveva avuto problemi con alcuni compagni per via delle sue origini nigeriane, perciò mal sopportava qualsiasi forma di discriminazione. Ecco perché non si faceva alcun problema ad accompagnarmi alle parate ed era in grado di fare amicizia con chiunque.
La celebrazione durò fino a mezzogiorno, fermandosi a Kendall Square.    
Scesi dalle spalle di Dayo, legando la bandiera a mo di mantello, e mi guardai attorno estraendo la custodia degli occhiali da vista dalla tasca dei pantaloncini: - Beh, direi che stavolta ti è andata bene, tempo di uno spuntino al bar e sei a pochi passi dall’ufficio.     
- Sei sicura di voler tornare a casa da sola? Posso accompagnarti, tanto comincio alle due…
Gli sorrisi, inforcando le mie amate lenti dalla montatura nera: - No, hai fatto già tanto per me, oggi. Potresti anzi fare una sorpresa a Liddy e pranzare con lei.    
Gli occhi grandi e gentili di Dayo si illuminarono non appena pronunciai il soprannome della fidanzata: - In effetti è da un po’ che non passiamo insieme la pausa pranzo… però mi dispiace lasciarti andare via da sola…
- Dayo – alzai un sopracciglio con fare ironico. – Non sono più una bambina, ricordi? Sono capace di tornare a casa senza perdermi. E poi – eseguii una specie di riverenza, allargando la bandiera-mantello dietro di me. – Attraversare il parco in solitudine mi fa sentire un’artista romantica dell’Ottocento.
- D’accordo, d’accordo – rise lui, scompigliandomi affettuosamente i capelli. – Però dritta a casa. E non fermarti a parlare con gli sconosciuti.
Ci abbracciammo calorosamente, come al solito. Nonostante raggiungessi quasi il metro e ottanta d’altezza, dovevo sempre alzarmi leggermente sulle punte per poggiare il mento sulla spalla marmorea di Dayo.
- Ci vediamo stasera – mi salutò poi, mentre mi affrettavo ad attraversare le strisce pedonali.
- A stasera! – risposi, agitando la mano non appena raggiunsi il marciapiede opposto.
Mi sembrò tutto così naturale e ordinario in quel momento, mai avrei potuto immaginare cosa stesse per succedere di lì a breve.
Non ci saremmo rivisti quella sera.



Charles River Esplanade, ovvero la camminata lungo l’argine che attraversa un incantevole parco, era senza dubbio uno dei luoghi che preferivo in assoluto nella mia città. In particolare mi piaceva passeggiare da quelle parti all’ora di pranzo, quando la via era quasi del tutto solitaria.
Mi fermai per qualche istante sulla sponda, sempre avvolta dalla bandiera arcobaleno: il fiume Charles scintillava come argento liquido sotto i raggi del sole. Mi tolsi gli occhiali, un po’ infastidita dal riflesso sulle lenti, concentrandomi sui punti più vicini in modo da non affaticare la vista, poi tirai fuori dalla tasca il mazzo delle chiavi di casa, a cui era appeso un portachiavi a forma di goccia. Feci scattare il meccanismo premendo un piccolo bottoncino e, come sempre, fece capolino la piccola foto chiusa all’interno dell’accessorio, nella quale io e mamma sorridevamo all’ombra di un ciliegio, io con i capelli sciolti e crespi e i vecchi occhiali dalla montatura viola, lei con i suoi delicati tratti orientali e la chioma scura raccolta da un grande fermaglio.
Peggy Jenkins non era la mia vera madre, naturalmente: per metà coreana dal lato materno, non si era mai sposata (a differenza delle sorelle minori, entrambe maritate subito dopo il college) e si era dedicata anima e corpo alla carriera di avvocato, coronando il sogno che si portava appresso sin da bambina. Mi adottò quando avevo poco più di un anno e, contro ogni previsione dei famigliari, riuscì senza problemi a essere una buona madre senza dover rinunciare al proprio lavoro.
Detti una sbirciata all’orologio e, dopo aver riposto il portachiavi nella tasca, mi avviai a passo spedito lungo il viale alberato, cominciando a riflettere su cosa potessi preparare per pranzo.
Avevo appena optato per un piatto di riso speziato alle verdure, quando due voci poco amichevoli mi costrinsero ad arrestare la marcia e alzare lo sguardo: una giovane coppia avanzava lungo l’argine nella direzione opposta alla mia. Il ragazzo era tozzo e di media altezza, dallo sguardo rude, e circondava con il braccio le spalle esili della ragazza, i cui lineamenti parevano affilati come rasoi.
Si fermarono a pochi passi da me, squadrandomi con disgusto: lei fece una grossa bolla con la gomma da masticare, giocherellando con uno degli enormi orecchini a cerchio appesi ai suoi lobi.
- Oh cielo – commentò, tirando nuovamente in bocca i resti del palloncino appena scoppiato. – Un’altra di ritorno dalla parata. Che cosa ridicola.
- Grazie per aver intasato il traffico con il vostro Carnevale – fece eco lui. – Che enorme accozzaglia di fenomeni da baraccone!
- Secondo te questa qui è un travestito, Butch? -  domandò Faccia di Spigolo, gettando un’occhiata dubbiosa alle mie forme poco pronunciate. – Così alta e piatta?
- Ma che ne so, può darsi, questi pagliacci sono tutti uguali per me- sputò Butch. – Froci, trans, lesbiche. Sarebbe da farci una bella fiaccolata.  
Se Dayo fosse stato con me, con i suoi due metri d’altezza e centocinque chili di muscoli, di sicuro non si sarebbero azzardati a lasciarsi sfuggire simili commenti, tuttavia non sentii affatto la mancanza del mio amico in quella situazione: gli insulti degli ignoranti mi ferivano quanto il pugno di un moscerino.
Senza attendere ulteriori perle di saggezza, sfoderai il mio miglior sorriso falso e augurai con voce affettata: - Buona giornata anche a voi – sorpassandoli con fare tranquillo.
Il silenzio alle mie spalle mi diede un’idea piuttosto nitida delle loro espressioni sconcertate e mi strappò un sorrisetto. Stavo nuovamente riflettendo sulle verdure da scegliere per il riso quando delle urla di terrore mi costrinsero a voltarmi così velocemente che per poco non mi volarono via gli occhiali.
Butch il Rozzo e Faccia di Spigolo erano appena volati gambe all’aria sul prato,  strillando come pazzi: a pochi metri da loro, un individuo decisamente poco raccomandabile avanzava minaccioso, trascinando i piedi e gocciolando. Mi ci volle qualche istante per rendermi conto che la pelle marcia e verdognola di quel coso somigliava in maniera preoccupante a quella degli zombie di The Walking Dead; mi ci volle altrettanto per capire che il coso in questione aveva in tutto e per tutto l’aspetto di uno zombie rimasto sepolto nel letto del fiume per chissà quanto tempo, sotto interi strati di melma.
Il corpo putrefatto era ricoperto di alghe mollicce e, cosa piuttosto ovvia, emanava un odore tremendo.
Una parte di me mi suggerì di scappare, abbandonando i fidanzatini al proprio destino. Due idioti in meno.
Un’altra parte mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo o di un’allucinazione collettiva, perché gli zombie esistevano soltanto nei libri o in tv.
Una terza parte, infine, provò a convincermi che dovevo restare e fare qualcosa, magari non per i due scemi ma per le persone che il mostro avrebbe assalito dopo di loro.
Per mia somma sfortuna, decisi di dare ascolto a quest’ultima: raccolsi un ramo lungo e appuntito e mi portai furtivamente alle spalle dello zombie, conficcandogli la mia arma improvvisata nella nuca.
La punta del bastone penetrò con facilità attraverso la scatola cranica, producendo un suono orribile, tuttavia, quando tirai indietro il braccio con uno strattone, il mio avversario non crollò a terra, anzi, si voltò verso di me, fissandomi con le orbite vuote; un disgustoso liquido scuro gli colava dal buco sulla fronte.
Mi lasciai sfuggire un grido, mentre l’essere, furibondo, tendeva il braccio verso di me, gorgogliando parole incomprensibili.
Senza lasciare il mio bastone imbrattato di liquame zombie, cominciai a correre lungo il sentiero, sapendo senza dovermi voltare che il mostro mi stava inseguendo. Non era veloce ma sicuramente poteva contare sul fatto che mi sarei stancata prima o poi: mancavano ancora un paio di chilometri all’uscita del parco e, nonostante le gambe lunghe mi aiutassero nella velocità, non ero mai stata una campionessa di resistenza.
Mentre correvo mi guardavo attorno, alla ricerca di un nascondiglio o di qualsiasi cosa potesse fornirmi un vantaggio. Potevo provare ad arrampicarmi su un albero, con il rischio però di rimanerci intrappolata a lungo, magari esponendo altri passanti ignari al pericolo; oltretutto, chi mi garantiva che la carcassa ambulante non fosse in grado di arrampicarsi? Proseguiva abbastanza spedito per essere uno zombie normale e in più il mio colpo alla testa non l’aveva ucciso. Di solito in tv funzionava sempre…
Un’ombra volò sopra la mia testa, costringendomi ad alzare lo sguardo: una ragazza a cavallo, armata con una lunga lancia, si muoveva in cerchio a diversi metri da terra, tenendo lo sguardo fisso su di me. Aveva lunghi capelli rossi che volteggiavano da sotto l’elmo vichingo che le proteggeva il capo e vestiva con un’armatura dall’aria antica che avevo visto più volte nei libri di mitologia.
“Una valchiria?” pensai, riconoscendo i tratti caratteristici della misteriosa fanciulla. “D’accordo, qui abbiamo poche opzioni: sto diventando pazza, sto sognando, oppure…”
Ricordai di aver letto qualcosa sugli zombie dell’epica norrena: avevano un nome strano che iniziava per D, possedevano una forza sovraumana, poteri magici e potevano essere uccisi…
“Come cavolo si uccidevano?” riflettei disperata. “Forza sovraumana, poteri, contromisure… ferro! Il ferro li indebolisce! Ma dove posso trovare un’arma di ferro qui? In alternativa c’era… fuoco! Decapitazione e fuoco! Ma anche in questo caso, il fuoco dove lo trovo?”
Decisi di provare per lo meno a decapitare il mostro in qualche modo,  anche se continuavo a non trovare dei mezzi sufficienti attorno a me per portare a termine l’impresa.
Ero ormai giunta nei pressi di un piccolo ponte bianco e la fatica si stava facendo sentire. Avevo il fiatone e sapevo che non sarei riuscita a reggere ancora per molto.
Mi portai vicino a una coppia di alberi cresciuti vicini, tanto che i due tronchi si erano intrecciati tra loro, lasciando al centro una fessura grande quanto la ruota di un camion.
Udii un rumore poco rassicurante alle mie spalle e, voltandomi, trattenni a stento un grido: lo zombie aveva fatto ricorso ai propri poteri per trasformarsi in un grosso toro non-morto: tutta la metà destra del suo corpo era composta da un insieme di ossa scoperte, la metà restante era uno schifoso ammasso di carne putrefatta.
Fu allora che mi venne un’idea, seppur banale: mi posizionai davanti alla coppia di alberi, agitando la bandiera arcobaleno.
- Ehi! – gridai. – Vieni qui, stupido bestione! Vieni a prendermi!
Il toro sbuffò, facendo colare la saliva verdognola sul prato, batté un paio di volte lo zoccolo a terra e caricò, avanzando zoppicante ma rapido.
Mi scansai all’ultimo, portandolo a incastrarsi con la testa nel buco lasciato dai tronchi intrecciati, mentre le corna di ossa logore si spezzavano sul colpo; senza perdere tempo, cominciai a conficcare più volte la punta del bastone nella sua gola, per poi cercare di staccare la testa dal corpo con una serie di calci ben assestati.
Proprio mentre cominciava ad aprirsi uno spiraglio di carne marcia sull’attaccatura del collo, il bestione mutò nuovamente, tornando all’aspetto precedente, ma, invece che liberarsi dalla morsa dei due alberi, iniziò a crescere a dismisura.
Il legno dei tronchi scricchiolò paurosamente, mentre un grugnito rabbioso usciva dalla bocca del mostro. Alzai le braccia per colpirlo di nuovo col bastone, ma stavolta lui fu più svelto: serrò la mano destra a pugno, caricò il braccio e mi colpì in pieno con tutta la sua forza, facendomi volare contro il ponticello bianco.
Le lenti degli occhiali crepate, un forte colpo alla testa, il rumore di ossa rotte.
E poi il buio.
Per alcuni istanti vagai in un cieco oblio, finché non avvertii nuovamente il peso del mio corpo e una nauseante sensazione di vuoto sotto i piedi.
Aprii gli occhi, battendo le palpebre più volte e cercando a fatica di mettere a fuoco l’ambiente che mi circondava, finché non mi resi conto di essere sospesa diversi metri sopra il corso del fiume Charles.
Qualcuno mi stava sollevando per il polso, imprecando a bassa voce. Alzai lo sguardo: era la valchiria dai capelli rossi che avevo visto poco prima. Dimostrava circa una ventina d’anni, il suo volto pallido era abbellito da una leggere spruzzata di lentiggini sul viso, mentre i suoi magnetici occhi color ghiaccio mi fissavano freddi e severi.
Vedendola, pensai immediatamente all’immagine di Sansa Stark che avevo prodotto nella mia mente leggendo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco: età e lentiggini a parte, era pressoché identica.
- Sei già cosciente? – domandò, senza lasciar trasparire emozioni. – Mh, no, sei sveglia ma in stato confusionale. Evita di agitarti troppo durante il tragitto.
Non so come, riuscì a trascinarmi sopra il suo strano destriero, costringendomi a serrare le braccia attorno alla sua vita e tenendomi i polsi stretti tra loro con la mano sinistra.
Spronò quindi il cavallo, che sfrecciò rapido lungo la scia del fiume, attraversando il parco per intero, svoltando bruscamente non appena si ritrovò a sorvolare la zona urbana.
Il movimento mi provocò un tremendo capogiro. Poco prima di svenire sperai si trattasse soltanto di un brutto sogno, poi le tenebre mi inghiottirono di nuovo.







***

Angolo dell’Autrice: Eccomi qua. Non sono riuscita a resistere, la saga di Magnus Chase mi ha presa troppo.
Chi mi conosce mi odierà di sicuro visto che ho varie storie da aggiornare. Lo so. Fate bene.
Mi chiedo se abbia fatto bene a inserire la storia in questa sezione, boh. In caso sia necessario spostarla avvisatemi.

Comunque, qui su EFP Riley è la seconda protagonista omosessuale di questo profilo (ne ho altre LGBT su Tinkerbell92, ma, a parte Ryan di Hunger Games, appartengono ad altre categorie della comunità). La prestavolto che ho scelto per lei è Jamie Clayton, alias Nomi Marks di Sense8, ma ovviamente voi potete immaginarla come volete XD
Ah, nella mia mente la valchiria che la salva non ha il volto di Sophie Turner, ma Riley ha pensato a Sansa perché, al tempo, aveva appena iniziato a guardare la serie tv di GoT ed era ancora legata all’aspetto dei personaggi che si era immaginata leggendo i libri.
Bene, spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto, grazie a tutti per aver letto!
Tinkerbell92


  
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