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Autore: Voss    30/12/2017    2 recensioni
Siamo nel 1945, la fine della guerra si avvicina e nell'accerchiata Konigsberg vite, con storie da raccontare e animi sciupati dal dolore combattono o si arrendono al proprio destino. In questo contesto un vecchio soldato perso negli infiniti intrecci della vita cerca inconsciamente la sua strada negli ultimi giorni di resistenza della sua città.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Figli di Prussia

Capitolo IV

I Sogni sono Immortali

 

 

Suonavano le campane, allora non esistevano altri metodi altrettanto efficaci per scandire il tempo, tutti stavano a sentire il loro dolce suono come fosse una melodia angelica alzando le stanche membra impegnate nel duro lavoro della semina. Al tempo, un tempo che va oltre le semplici date, che si mischia con la leggenda e si interseca con il mito, i Prussiani vivevano nella loro terra parlando la loro lingua e utilizzando i propri costumi, combattendo le proprie battaglie fra di loro e contro gli invasori della loro terra.

Già quando la luminosa Grecia era divisa in città stato e Erodoto scriveva quelli che sarebbero diventati testi millenari, in Prussia il popolo dei Prussiani viveva serenamente lungo tutta la Ostprußen e la Westprußen, rimanendo isolato e ignorato dalle popolazioni in migrazione per via dell'inospitalità della sua terra, protetti dalla Vistula i Prussiani hanno continuato a vivere liberi tra i loro vari dialetti ed etnie.

Arrivarono un giorno dalla Germania per cristianizzare quel popolo i cavalieri del sacro ordine teutonico, i Prussiani lottarono, si unirono contro il nemico comune ma alla fine i cavalieri, inviati dai re polacchi incapaci di eliminare i prussiani, ebbero la meglio. Nei secoli i Pruzzi scomparvero fino ad essere assimilati nella popolazione tedesca.

Ma come è vero che nessuno parla più il prussiano tra i cittadini tedeschi della prussia, dell'est e dell'ovest, è anche vero che nelle loro vene scorre il sangue di quelli che un tempo furono un popolo libero e antico, essi possono considerarsi dunque i discendenti degli antichi prussiani? Eredi di Warmo, tra i più grandi condottieri dell'antica Prussia? Legittimi possessori del territorio da Danzica a Memel? Essi possono dunque considerarsi Figli di Prussia?

 

 

 

 

 

Ore 07:00 della giornata del 9 Aprile 1945, Königsberg

 

 

Tutta la città bruciava, le fiamme si innalzavano fino al cielo. Centinaia di cannoni stavano vomitando fuoco contro le pesanti mura della fortezza, soldati, a migliaia rimanevano coperti, spaventati da quelle esplosioni e nemmeno i reduci riuscivano a mantenere il comune spessore nello sguardo e nei modi. In entrambi gli schieramenti una cosa era certa: Era giunta la fine.

 

 

«L'Atto finale. Quanti ce ne sono stati in questa guerra? Quante ultime battaglie? Quante volte l'unica scelta disponibile è stata la resa?»

Il generale Otto Lasch dopo aver pronunciato quelle parole si era girato ad osservare la sua staffetta mutilata, non aveva più un alto comando, tutti gli ufficiali di alto grado erano sparsi per la città a guidare ciò che rimaneva delle truppe e ora in quella stanza un tempo appartenuta ad antichi re si sentiva solo e gli pareva tutto molto gelido, spento e in attesa della fine che il cervello del tedesco scacciava ma che tutto intorno a lui ormai sembrava accettare.

«Herr General, se mi permette mi sono già arreso una volta e posso affermare con certezza che se non ti uccidono i vincitori lo fa l'umiliazione».

Il soldato era sotto pressione, pensava di non essere in grado di parlare ad un superiore senza usare un certo ritegno, anche se il suo generale faceva di tutto per sembrare molto umano ai suoi occhi. Il suo pensiero venne interrotto da Lasch

«"Ogni cosa prima o poi finisce", dopotutto è vero, i sogni di Bismarck, di Wilhelm e adesso di Hitler sono andati perduti, cosa ci rimane?»

 

Nelle cantine di quella fortezza Lotendorf osservava i soldati sull'attenti, le loro uniformi erano marcie e sudice, non le cambiavano da settimane, molti avevano perduto il berretto d'ordinanza e ora tutto il completo pareva pendere dalla loro pelle, altrettanto marcia, per via dell'acquazzone che anche in quel momento non accennava a smettere.

Lotendorf li passò tutti in rassegna poi si limitò a dire «Voglio che siate pronti per il turno del pomeriggio, non possiamo abbassare la guardia, oggi combatteremo, con uniformi, vestiti civili o stracci, ma combatteremo! Per Dio oggi combatteremo!» si rese conto di stare degenerando e concluse «Avete il resto della mattina libero, alle 14 radunatevi nella sala principale, daremo il cambio al secondo plotone»

 

Franz guardava a terra, era ad un soffio dal mettersi a piangere, proprio come un bambino. Vent'anni prima in una trincea stava provando le stesse emozioni, allora aveva creduto di non poter mai più sopportare un simile tormento, e ora nuovamente una morsa gli premeva il cuore fino a fargli storcere l'espressione del viso.

Le rughe gli ricoprivano le mani e il volto, ripensò a quando quelle mani toccavano le morbide dita di Elen e la sua mente proiettò l'immagine di lei che lo trascina per le strade di Danzica nella notte di natale del 1923, ogni tanto girandosi e sorridendogli. Poi il sogno si interruppe, Elen ora gli parlava da una finestra al secondo piano di una casa, lui gli gridava parole ma due persone lo bloccavano, il volto di lei era spaventato, sembrava invecchiato, era bloccata e non poteva raggiungerlo. Tutto si susseguiva rapidamente quando un'esplosione lo accecò, la casa che crollava quasi completamente su se stessa, la contraerea faceva fuoco mentre da lontano il sibilo degli 88mm irrompeva nell'aria, si sentì un grido. Il sangue sparso e il cadavere sfigurato di Elen, i suoi occhi bianchi, l'espressione di dolore, non si ricordò altro di quella notte di bombardamento del 1944 e di una vecchia casa davanti ad un piccolo bar di Königsberg.

Successivamente vide ancora il cadavere tumefatto, poi altri, un compagno dentro a una bara aperta, poi la bara si chiuse e una bandiera imperiale ricoprì il gelido legno. Una bara, tante bare scivolavano nel nulla verso l'orizzonte mentre catene infinite di soldati danzavano intorno a lui con gli occhi vitrei, o chiusi a seconda di com'erano quando gli vide morire.

 

Uno dei fratelli Orlin lo guardava con il volto stravolto, era Frederick poiché Andrea, suo fratello gemello, era morto durante la difesa del bunker n°5.

«Franz, a che pensi?»

L'interpellato rialzò lo sguardo e chiese «Frederick, a cosa sono serviti tutti questi morti? Non erano così belli i campi fioriti e i boschi infiniti quaranta anni fa, quando c'era la pace e festeggievamo il Sedantag tutti assieme, Bavaresi, Amburghesi, Westfaliani, Prussiani? Tu hai combattuto i russi vent'anni fa, hai difeso la Prussia dallo zar ed eri a Tannenberg durante la controffensiva, vero? Perché sono morti tutti i nostri compagni se alla fine noi Prussiani non possiamo vivere in pace?»

Frederick lo guardò tristemente, poi rispose «Mio fratello era un sognatore, era affascinato dai fiori e mi raccontava sempre di quell'esemplare piuttosto che di quell'altro, poi un giorno tornò a casa dopo una giornata tra i campi e vidi subito che qualcosa lo turbava, gli domandai se era tutto a posto. Lui mi rispose che non sarà mai tutto a posto finché gli uomini non si comporteranno come i fiori, ovvero vivendo liberi, secondi solo a Madre Natura, tenendosi per mano senza odio e senza competizione. Un sogno da bambino, ma noi Prussiani, noi popolo di Prussia, noi Figli di Prussia non saremo mai in pace finché nessuno ci riconoscerà come fiori unici, come popolo della terra tra la Vistula e il Nemunas, da Memel ad Allenstein a Danzica, in piedi fra i popoli come eredi dei nostri avi.»

Franz si sedette su una cassa di legno marcio guardando Frederick, si sentiva perduto ma profondamente sollevato, come uno stanco asso dei cieli che stà volando l'ultimo suo volo, egli vola ma sa che prima di toccare di nuovo terra sarà morto e quindi si sente libero, ogni tanto chiude gli occhi e immagina il vuoto sotto di se credendo di poter volare senza aereo, soltanto dispiegando le braccia.

 

 

 

 

L'ospedale da campo era situato nella zona est della fortezza, i medici erano solo due e a supportarli l'ultima delle infermiere, Emma, era ferma attonita sotto la pioggia scrosciante. Era finita la morfina, le bende erano sporche e fradice come ogni materiale medico presente in quella fortezza. Teneva i piedi girati verso l'interno, affondati nel fango, la bocca socchiusa, le sue labbra soffici erano bagnate da acqua e lacrime, la sua pelle bianca come il latte e delicata come seta pura pareva fradicia oltre ogni misura. Il Widmann gli era caduto a terra mentre lei guardava dritto davanti e intorno i soldati le passavano accanto indifferenti.

Uno dei due medici le prese la mano destra

«Venga sotto la tettoia, se rimane sotto quest'acquazzone...»

Lei piano lo incalzò, la sua voce era vuota e priva di emozioni, e altrettanto piano giro la testa per guardarlo

«Altrimenti cosa mi accadrà?» fissava l'ufficiale medico mentre lacrime gli fendevano il viso, l'uomo rimase sorpreso, conoscieva Emma da qualche mese, ma non l'aveva mai vista in quello stato, era sempre la luce che dava speranza ai malati e ai moribondi, l'infermiera che durante i bombardamenti raccontava storie ai pazienti o gli leggeva Goethe cercando di farli concentrare su altri pensieri. Era la sola a non essere partita o a non essersi arresa, aveva visto i feriti di tutta la ritirata dalla Russia, fin dal '44, era stata a Varsavia e poi era tornata a Königsberg, per lei la guerra era una sola grande tragedia, un massacro insensato, una sconfitta per l'umanità.

L'Ufficiale Medico le lasciò il braccio e lentamente ella si girò verso la tempesta che fluttuava sopra Königsberg, le sembro che un coro di angeli risuonasse da ogni direzione, poi come arresasi ai tuoni tornò all'interno della fortezza.

Emma aveva sempre rappresentato la stella di un mondo troppo povero, che non avrebbe mai potuto sperare in una buona istruzione, era l'unica figlia di una coppia di umili artigiani del legno di una cittadina della Prussia Orientale chiamata Gumbinnen. Fin da piccola si era interessata dei grandi personaggi lontani e vicini alla sua terra, aveva studiato i trattati di illustri scrittori, tutto dalla piccola biblioteca cittadina, trovando piacevole l'arte e la poesia, anche se eccelleva soprattutto in Matematica. Dopo grandi sforzi, a 16 anni ebbe accesso ad un'istruzione agiata grazie all'aiuto dello zio a capo di una fabbrica di scarpe nella città di Rostock. Si trasferì quindi da lui e i risultati non si fecero attendere, nel 1936 a 21 anni, si laurea in Matematica. Dopo 2 anni pone domanda per una cattedra all'università di Königsberg, ma viene rifiutata per via delle riforme antifemministe del partito nazionalsocialista, che stabilì un capolinea netto alle ambizioni di Emma, il cui diploma si rivelò inutile sotto tutti i punti di vista. Ritorna comunque in Prussia, lavorando in fabbrica per riuscire a sopravvivere nonostante la sua vocazione prettamente scientifica. Poi ci fu la guerra. Nel 1944, in una tiepida notte estiva aveva sentito i bombardieri volare, la pioggia di metallo cadere e la mattina dopo aveva trovato l'Università, la prestigiosa "Albertina" rasa al suolo, così come gran parte dei quartieri industriali in cui lavorava. Fu quindi reclutata nell'esercito come infermiera dopo un breve corso medico, raggiungendo i soldati per aggregarsi alla ritirata. Il suo sogno era diventare professoressa e nonostante i fallimenti continuava a dimostrare molta energia nell'affrontare la vita rincorrendo quel sogno. Poi l'energia e la voglia di cambiare sembrarono cessare di colpo, un forte senso d'impotenza si impadronì della sua mente, facendo degenerare i suoi modi vivaci e fraterni nell'ultimo rantolo di vita della sua personalità che gli dipinse il sorriso spesso forzato per cui tutti la ricordano, raggiunse il culmine alla vista della piccola Gumbinnen in fiamme.

 

 

La disperazione è rabbia senza alcun posto dove andare.


Mignon McLaughlin

 

 

Emma tremava per il freddo, era seduta su una sedia appartenuta ad un consigliere imperiale e davanti a lei uno dei sottoufficiali della 103esima granatieri la osservava, sotto ordine del medico era stata condotta nella camerata degli ufficiali per garantirgli un pò di riposo.

«Ti senti meglio?» chiese l'ufficiale

«Che importanza ha?»

La risposta dell'ufficiale fu quella di girare attorno alla sedia posizionandosi dietro di lei.

«Se ti senti meglio possiamo esternarci per un pò dalla guerra»

Le sue mani scivolarono sul suo seno, gli occhi del tedesco brillavano, febbricitanti nella ricerca dell'ultimo sfizio.

Emma sbarrò gli occhi, lentamente si alzò e si mosse di un passo, allontanandosi dal tedesco per poi affermare saldamente

«Che sia tedesco o russo, l'uomo è inamovibile nelle sue follie. Le donne rimarranno sempre inferiori per alcuni, solo un oggetto da usare per sfamare le proprie voglie. Come avete fatto in Russia e in Polonia, quando ne avete avuto la possibilità avete sempre fatto ciò che volevate. Ora saranno i russi a farlo in Germania, ma chi ci rimetterà saranno sempre le donne, così diverse da voi, mi chiedo se dunque non avevate sbagliato Byron, Goethe, Hugo. E anche tu Lenin.

Perché questa è la guerra o più semplicemente questo è l'uomo?»

Il soldato si era avvicinato da dietro e ora le annusava il collo. Emma continuò a parlare

«Dimmi allora, perché amare in pace quando puoi stuprare in guerra?»

Si girò lentamente e inesorabilmente, ma lo fisso solo per pochi istanti perché lui le fu subito addosso e lo sguardo di Emma finì di nuovo sulla fradicia sedia su cui era seduta poco prima.

Le lacrime gli ricoprivano le guance, massaggiò i fianchi al soldato, poi la sua mano scivolò sulla Luger nella fondina sul lato, la estrasse mentre lui la prese per i fianchi e la lanciò con forza su una branda.

Gli occhi dell'ufficiale si sbarrarono quando vide Emma puntargli addosso la pistola, era rimasto in piedi davanti al letto, fece per parlare ma lei alzò la voce singhiozzante per il pianto

«L'uomo è una creatura così malvagia, violenta e prepotente, la guerra ne è la prova, esistono alcuni uomini che non riescono a comprendere l'idea di pace tra popoli. Quegli uomini portano alla tragedia della strage e dello sterminio.»

continuò urlando

«Che cosa ti ho fatto? Perché non riesci a vedere oltre il semplice piacere della carne? Perché le persone come te ci hanno trascinato in questo massacro? Qual'è la mia colpa?»

La canna della luger divenne incandescente per qualche istante mentre il proiettile fuoriusciva dalla bocca di fuoco e attraversava l'aria della stanza fino a conficcarsi nella laringe dell'ufficiale, che cadde all'indietro in una pozza di sangue.

 

Entrarono in quel momento Karl e Franz, che sentendo le urla accorsero dalla stanza accanto insieme ad altre sei volkssturm. Osservarono il corpo dell'ufficiale e poi fissarono attoniti Emma, ora in piedi davanti al cadavere del soldato.

La ragazza pianse e infine singhiozzando disse

«Vi prego, perdonatemi.»

Si puntò la pistola alla bocca e uno sparo ruppe l'aria per una frazione di secondo. Poi cadde anche lei all'indietro, finendo sulla branda.

 

 

Franz era seduto affianco al cadavere della ragazza, non riusciva a guardarla, si pressava le mani contro la faccia cercando di nascondere l'infinito dolore della perdita. Era tra le donne più coraggiose, libere e innocenti che avesse mai conosciuto, vittima di una guerra ingiusta subita dalla sua generazione.

Il viso di Emma sporco del sangue dei Polacchi di Varsavia, le infinite corse della giovane per cercare nelle case i feriti, la disperazione nel trascinarli da sola all'ospedale da campo, una giovane vita volta ad aiutare gli altri mettendo in pericolo se stessa. Ora un proiettile gli aveva perforato il cranio e la sua mano senza vita pareva spettrale al centro del lago creato dal suo sangue.

Erano nell'atto finale di una grandissima quanto maledetta recita teatrale, pensò Franz, si stava per chiudere il sipario sul suo pezzo di mondo, ma non poteva finire in quel modo.

Franz guardò le altre volksstrum, osservò il piccolo Karl, la possente figura di Ulric entrato poco dopo rispetto a loro, trovò degli sguardi denutriti, demoralizzati e stanchi. Lo osservavano tutti, poi Franz si avvicinò a Ulric e si dissero qualcosa a bassa voce. Dopodiché la stanza si svuotò.

 

 

La pioggia continuava a cadere senza freni, i soldati senza speranza erano silenziosamente in attesa.

Gli ultimi soldati di Königsberg. Franz ad un tratto spalancò le porte del corpo centrale della fortezza, trovandosi così nel cortile. Sparò un colpo di VG-1-5 al cielo e si andò a posizionare sopra ad un autocarro Opel Blitz.

Tutti si girarono nella sua direzione e altri sbucarono da sotto le tettoie per venire ad ascoltare.

 

 

«Compagni, soldati di tutta Germania, siete giunti fin qui dalle vostre case sparse per il cuore dell'Europa. Ognuno di voi ha già avuto modo di combattere la propria battaglia, contro il nemico dell'Est, contro quello dell'Ovest o contro se stesso. Ciò che importa è che le vostre strade si sono intersecate con quelle di ognuno dei presenti qui oggi.

Siamo stati riuniti qui, nel degno suolo di Prussia, in questa terra. Per difenderla. Sappiate che la terra che calpestate è ancora tedesca, che nonostante fuori da quei cancelli siano radunati tanti soldati da fare tremare la terra e il cielo, noi siamo ancora in piedi, cittadini in guerra.

Perché se voi che ascoltate siete tedeschi capirete, se voi siete un popolo combatterete, se voi credete a chi vi stà a fianco darete la vita per lui. Mi sbaglio forse?

Da quando è iniziato questo secolo il sangue dei popoli d'Europa è stato versato come a tributo, la perdita di così tanti fratelli ha distrutto intere famiglie, oltre i confini degli stati, mentre altri paesi si innalzano usando le nostre disgrazie. Mentre la Prussia, questa terra che un tempo riunificò la Germania, a cui tutti noi dobbiamo tanto, cade inesorabilmente verso l'oblio.

Ebbene io credo fermamente che non esista nessuna fede politica al di sopra dell'amore verso i propri connazionali e verso la propria terra. Perché noi siamo tedeschi! Non esiste nessun Fürer. Nessun partito nazionalsocialista. La Nostra Germania era formata dalle grandi speranze che la riunificarono, speranze di ribalta dopo anni di divisione, la voce di coloro che si rivoltarono per un sogno, che morirono per quel sogno, quei giovani che durante tutto il secolo passato riformarono la nostra terra e lottarono per migliorarla o per difenderla. Quella voce non è la voce che ci ha spinto a tutto questo sangue. Quella voce è stata piegata da tutto ciò che ha seguito il 1918, da tutto ciò che ha spinto ognuno di noi a condannare suo fratello, anch'esso tedesco.

Soldati di Germania o compatrioti di Prussia. Oggi senza alcuna autorità, solo con la fiducia che un camerata ha verso un'altro camerata, che un fratello ha verso il proprio fratello, vi chiedo di combattere. Perché ogni cosa inizia e ogni cosa finisce, ma la storia della Prussia è iniziata nella gloria della battaglia e non nella disperazione di un armistizio e così deve finire la sua storia. Noi in questo giorno di pioggia e disperazione combatteremo e difenderemo fino all'ultimo uomo questa città, perla dell'Europa Orientale, fiore del baltico, figlia di Prussia.

Ci ergiamo solenni davanti alla fine. Perché, così come gli ultimi bizantini difesero Costantinopoli, noi oggi difendiamo Königsberg!»

 

Le persiane del secondo piano della fortezza si spalancarono all'improvviso e dal buio degli interni fuoriuscirono due bandiere imperiali, l'aquila nera sembrò cavalcare il vento, stretti tra gli artigli lo scettro e il globo, alla testa la corona dei germani, il becco spalancato gridando da secoli l'indipendenza dello stato che essa rappresenta.

 

La maggior parte dei presenti guardò attonita Franz, poi alcuni si misero a parlare, infine Verlen il Gerbingsjager avanzò verso il camion e giunto sotto di esso prese la croce di Ferro legata al suo collo da una collana e la levò al cielo.

Altri a quel punto si avvicinarono e alla fine un urlò scoppiò «Per la Germania! Per la Prussia!»

 

 

La folla di soldati seguì Franz che li condusse nelle cantine della fortezza, eliminando i membri più fanatici delle SS che tentarono di fermarli.

Giunti alle cantine la maggior parte di loro lasciò la propria uniforme fradicia e si vestì con le uniformi conservate lì da metà della Grande Guerra.

Dopodiché ogni sforzo fu concentrato a barricare ogni finestra, porta e buco difendibile.

Franz nel frattempo raggiunse il bunker di sicurezza sotto il palazzo in cui si era rifugiato Otto Lasch.

Il prussiano entrò nella piccola stanza accompagnato dall'unica guardia del generale, il soldato mutilato.

«Generale, si ricorda di me?»

Il generale si girò lentamente, osservò il soldato e disse «Mi sarebbe piaciuto incontrarla molto prima.»

Una canzone cominciò a scivolare lentamente dalla bocca di Franz

«Sei tu dolce, mio caro papavero rosso,

testimonianza di una morte prematura

questo soldato piange una lacrima

per ogni fiore identico a te

in questo, in molti, in infiniti campi

a te solo dedico questo lamento»

Ci fu un silenzio pressante poi Lasch continuò

«perché tu solo mi ascolti

in questa giornata,

che forse sarà la mia ultima giornata

non piango, non mi dispero

perché so che tu veglierai su di me

dopo la mia morte

dolce fiore rosso»

Franz sorrise «4° plotone, 122esima divisione fucilieri imperiali. La nostra canzone.»

Otto Lasch guardò il milite e sorrise tristemente «Perché vieni qui nell'ultimo giorno di questa città?»

«Per chiederti di non morire, salvati. Non farli morire tutti, dovrai trattare per le loro vite, per le vite di tutti quelli che sono ancora pronti a morire.»

Lasch sorrise ancora «Chi decide quanti ne devono ancora morire? Franz, è finita. Non c'è bisogno di altri morti.»

«Agosto 1918, ricordi quell'altura dove si arrese il nostro plotone? Quando tutti uscirono dalle trincee per arrendersi tu mi dissi: No, io non mi arrenderò mai.»

«Sai che era diverso. Non devi finire la tua vita in questo modo mio Hauptmann, tra i migliori capitani che abbia mai incontrato.»

«Tu sai benissimo che non è vero, questo è l'unico modo in cui può finire questa mia ultima battaglia, camerata.»

Franz fece per andarsene ma si voltò prima di scomparire «Ferma questa carneficina e salutami i vecchi compagni, quando tutto sarà finito»

 

 

 

 

E’ dolce e onorevole morire per la patria – Dulce et decorum pro patria mori

 

Quinto Orazio Flacco

 

 

Ore 21:00 della giornata del 9 Aprile 1945, Königsberg

 

 

Una sentinella corse al centro della piazza e urlò «Stanno arrivando! Un battaglione corazzato, alla testa due carri IS!»

Apparve ancora una volta Franz Kurtin, Hauptmann di Germania, decorato con la croce di ferro di prima classe per meriti in combattimento. Gli stivali neri lucidi, la divisa grigia e il Pickelhaube nero rifinito, la cui punta ritta sfidava il cielo tempestoso.

Il capitano Franz tuono deciso «Serrate i ranghi miei compagni. Piantate ben alte quelle bandiere, che l'acquila sventoli! Per la Germania! Per la Prussia!»

Si serrarono i ranghi dietro ai mezzi capovolti a cui era stato prosciugato il carburante, i camion rovesciati, i semicingolati seppelliti, i cannoni anticarro nascosti. Tutto era pronto.

 

Passarono 15 secondi, poi ogni uomo nel raggio di un chilometro sentì chiaramente un'esplosione. Il cancello cadde verso di loro e un fischietto suono nella nebbia di polvere, mentre le reclute sciamavano all'interno coperte dalla piastra in acciaio dell'IS di punta.

Il maestro d'orchestra si mosse in apertura e le MG34 e 42 cominciarono a cantare, poi i tiratori dai piani più alti diedero fiato agli otturatori mentre i colpi sfrecciavano nell'aria ad altissima velocità. Dopo poco i piani scandirono le loro intense note, i Pak 40 cominciarono a bersagliare l'IS, mentre dagli edifici laterali i Granatieri Panzer con i loro MP40 falciarono i coscritti come veloci violini.

Il sudore ricopriva ogni volto e tutto si scaldò fino all'intensa esplosione dell'IS, il colpo di uno dei Pak40 era rimbalzato sul terreno sottostante il carro ed era entrato in contatto con la corazza inferiore di esso, penetrando la stiva munizioni che con ardore esplose lasciando un aura di fuoco intorno al mezzo.

Centinaia di proiettili volavano in pochi secondi e il tempo fu sempre più umido di lacrime e pioggia. Le munizioni iniziarono a scarseggiare e piano sempre più bocche da fuoco si spensero.

Arrivò anche il secondo IS, ma stavolta i Pak rimasero silenti e fu uno delle volkssturm a gettarsi nel piazzale mentre il carro si muoveva, rotolandogli sotto con un Panzerfaust in mano. Egli ci riuscì e poco prima del lancio del razzo anticarro si sentì un grido «Per la Prussia!»

Poi tutto fu fuoco un'altra volta, ma dopo poco due T-34-85 si mossero da dietro le carcasse degli IS e fecero saltare i due edifici laterali.

Gli ultimi si ritirarono all'interno del corpo centrale della fortezza, ma ben presto anche quelle porte esplosero, lasciando campo libero a due MG34 dal fondo del corridoio, anche loro cessarono i proiettili. Una dopo l'altra le stanze venivano invase da soldati sovietici. Si fu ben presto all'ultima difesa: il salone medievale.

Sotto la statua del gran maestro Alberto I gli ultimi soldati si coprivano a vicenda, le munizioni ormai erano agli sgoccioli ma negli occhi dei cittadini in armi brillava l'onore misto alla disperazione.

Franz alzò la testa e si trovò dinanzi un soldato della truppa d'assalto sovietica che fece per puntarlo ma nello stesso momento una volkssturm si gettò contro il russo pugnalandolo tre volte al petto. Le raffiche sovietiche si abbatterono sul miliziano dilaniandolo, prima di morire urlò «Eccomi, fratelli arrivo!».

Un fuoco di soppressione teneva inchiodati Ulric e Franz alla loro postazione ad una delle uscite dalla sala, erano in mezzo ad un corridoio che dava alle stanze dei nobili. Quando ad un tratto Ulric si girò verso il suo compagno e una raffica lo perforò in più punti sulla schiena, il grosso soldato si accasciò ai piedi di Franz sorridendo. Franz svuotò la mente e si lanciò armato di baionetta verso il russo con PPSh e prima che potesse sparare gli tagliò di netto la giugulare, facendolo accasciare anch'esso, così facendo il corpo lasciò spazio a due occhi neri, anziani, gli occhi di un russo di Arkhangelsk. Franz non sapeva che quegli occhi avevano visto anni prima Tannenberg ma un presentimento lo aveva scosso, erano entrambi vittime della Prima e della Seconda Guerra Mondiale.

Una raffica maciullò in pochi secondi la gamba di Franz che gemette, lasciò l'affilato coltello ma non si diede per vinto, colpendo lo slavo con il pickelhaube, con tanto ardore da sfondargli il naso, facendogli lasciare l'arma. Il sovietico estrasse il coltello e si gettò verso il tedesco che lo evitò per poco e che si lanciò verso di lui a sua volta dopo aver recuperato la baionetta, che andò a conficcarsi nel petto del suo avversario, l'anziano però accumulò le forze e perforò anch'esso il tedesco in pieno petto. I due caddero a terra e si guardarono, erano fradici e nel fragore degli ultimi istanti della loro vita piansero e lasciarono i loro coltelli per tenersi le mani.

Finiva così la battaglia di Königsberg, il 9 Aprile 1945 nel Palazzo Imperiale di una città gioiello. Insediamento dei Pruzzi, Roccaforte dei cavalieri teutonici, Capitale dei duchi di Prussia, Orgoglio dei Re e degli Imperatori tedeschi. Madre della cultura Prussiana oggi, allora, per sempre.

 

 

Ore 01:06 della giornata del 10 Aprile 1945, Königsberg

 

Karensky camminava lentamente lungo i corridoi della fortezza, dentro di lui una strana sensazione, lì in quell'anfratto circondato da cadaveri con divise di diverso colore si sentiva sciupare. Aveva evitato i festeggiamenti, i suoi occhi lacrimavano per un senso di colpa che non riusciva a comprendere.

Passo infine davanti ai due soldati, appena visibili nel buio della notte, che si tenevano per mano. E dopo un iniziale stupore si chiese se quei due cadaveri in mezzo a centinaia non avessero compreso qualcosa in più rispetto a lui. Si chinò sui cadaveri e gli osservò a lungo.

 

 

Ore 21:47 della giornata del 18 Febbraio 1956, Stettino

 

La città era illuminata da un multitudine di luci di automobili, case, lampioni. Pioveva, mentre una figura scura si muoveva sotto un cappotto scuro, il vento era gelato, l'uomo si infilò in un vicolo poco illuminato, in fondo al vicolo una staccionata di legno chiudeva l'accesso alla spiaggia e poi al nero mare notturno, al largo una nave era visibile con le sue luci in mezzo all'oscurità del mar baltico.

Ad un tratto la figura si fermò e si voltò verso una porta, erano tutte case a due piani, incastrate una con l'altra. Suonò.

Dopo una decina di secondi una figura si avvicinò alla porta e domandò

«Chi è?»

In un timido tedesco la figura in strada rispose

«Lei è Lenz Kurtin?»

La porta si spalancò lentamente e un giovane dai capelli castani e gli occhi azzurrognoli apparì e osservò la figura sotto la pioggia battente che lo osservò a sua volta con i suoi occhi smeraldo e gli disse

«Sono Karensky Lytkin, lei sa chi è Franz Kurtin?»

Il tedesco lo fisso e confuso gli rispose

«Era mio nonno, ma non l'ho mai conosciuto»

Karensky allora scoprì la cassetta che aveva sotto il cappotto, e la consegno al giovane

«Questa appartiene a te»

Il ragazzo la guardò e domandò

«Tu conoscevi mio nonno?»

Karensky scosse leggermente la testa

«No ragazzo, so che è morto 9 anni fa a Königsberg. Era un onorevole soldato, tenevo a dirti che ha combattuto fino alla fine.»

Karensky si riscosse e senza aggiungere altro si incamminò lungo il vicolo, per scomparire poco dopo.

Lenz chiuse la porta e appoggiò la cassetta chiusa su un piccolo tavolino in legno nel piccolo corridoio d'ingresso. L'aprì.

Dentro trovò un pickelhaube, una croce di ferro assegnata a Franz Kurtin, una bandiera prussiana e una lettera che Lenz esaminò e infine lesse:

 

Ciao Lenz,

 

Ti scrivo perché so di non poterti più rivedere, sono due giorni che non dormo per il pensiero che tu possa morire sotto uno dei bombardamenti che stanno distruggendo la Germania. Farò di tutto per inviarti questa lettera ma non so se ti arriverà mai, siamo ormai tagliati fuori e tutto sembra convergere sulla tua casa e la tua città.

Vorrei che tu capissi quanto sei importante per me, perché nella mia vita non ho fatto altro che fallire, non sono riuscito a proteggere nessuno, in particolare tuo padre. Non so se quando leggerai questa lettera la Germania sarà scomparsa dalle cartine, sappi che se siamo arrivati a questo è anche per colpa mia, ho sempre cercato di difendere la mia cara nazione e per due volte ho fallito. Ti ricordi dove sei nato?

Non so chi invaderà la nostra terra e chi abiterà adesso nella nostra casa, ma comunque siano andate le cose ricordati che tu sei nato qui, tu sei nato in Prussia, a Königsberg. So che la tua generazione dovrà ricostruire ciò che la mia ha distrutto, ma ti prego, fa si che tutti i miei sforzi e gli sforzi di tutti i miei compagni non si perdano nella Storia. Perché noi abbiamo combattuto fino all'ultimo per voi, per Königsberg, Danzica, Allenstein, Memel, Tilsit, Osterode, Elbig, Marienburg, Ortelsburg, Angerburg, Insterburg, Gumbinnen, Lötzen, Lyck, Johannisburg, Pillau e per ogni cittadina o villaggio di Prussia. Siamo morti per queste terre. So che un giorno tornerai e capirai perché l'abbiamo difesa.

Fa si che tutto non sia stato vano, lotta perché la Prussia sia libera e rinasca con una nuova bandiera o che almeno si riunisca alla Germania se questa esisterà ancora, ma ti supplico non permettere che altri la rivendichino, questa città è uno dei centri della nostra storia, come Germania e come Prussia.

Se tu sei mai stato o mai sarai in dubbio, io non ero un nazifascista, ho giurato fedelta all'imperatore Guglielmo molto tempo fa, ma ho sempre odiato tutto ciò che ha seguito quel sanguinoso 1918. Ciò che i nazifascisti hanno fatto ai polacchi è terribile, l'ho visto con i miei occhi, spero che ciò non condanni le generazioni future, perché la loro voce non era e mai sarà la voce di tutto il popolo tedesco.

Spero che tua madre sia ancora viva, ti prego di amarla e di dirle che lei era nel mio cuore al momento della mia morte.

Ti auguro di vivere una vita felice e duratura, di vivere nel tuo tempo ma di guardare sempre a ciò che il tuo popolo ha passato. Per non dimenticare.

Ora ti devo lasciare, i granatieri sono in marcia, vado a combattere.

Addio Lenz. Spero che trametterai la volontà di ribalta ai tuoi figli facendo si che un giorno la tua cara Prussia sia di nuovo libera.

 

Franz Kurtin, Aprile 1945

 

 

 

 

 

   
 
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