Film > La Bella e la Bestia
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Autore: Matih Bobek    02/01/2018    0 recensioni
Flower è una ragazza di ventidue anni, appena laureata e in cerca di un lavoro. Conduce un'esistenza semplice nella sua città, circondata dalle amiche di sempre e ha passato la vita china sui libri di scuola per costruirsi un futuro.
La madre di una sua amica, la signora Ondrak, le offrirà di accudire il figlio maggiore, una creatura a metà tra un lupo ed un essere umano. Flower accetterà la mansione perché lautamente pagata.
Bryan, il ragazzo lupo vive in una magione abbandonata in un bosco e conduce una vita selvaggia. Flower dovrà vivere con lui sei giorni su sette, preparagli i pasti, istruirlo sulla vita degli esseri umani, educarlo e risvegliare la parte umana che è in lui. Ma la famiglia Ondrak nasconde segreti ben più grandi e ben più terrificanti.
La storia è una rivisitazione in chiave moderna e grottesca della nota fiaba "La bella e la bestia".
Genere: Avventura, Commedia, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Nonsense | Avvertimenti: Incompiuta
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" Cos'è successo Flo? Ti sento agitata!"
" Meg, questa famiglia è assurda! Mi stanno nascondedo qualcosa, sono sicura! C'è una persona incatenata in una stanza! Una persona, capisci? E la signora Ondrak, Dio santo, la signora Ondrak lascia di proposito il marito con Brian, capisci? Sono matti!" Ero fuori di me. Stavo urlando, ero spaventata, atterrita, confusa.
 " Flo, calmati, respira, così non capisco nulla!"
Il rumore dei passi di Virginia si avvicinava, si stava dirigendo alla mia porta. 
" Meg, non posso parlarne al telefono, non ora almeno, Virginia è qui..."
" Esco e vengo da te"
" No, gli Ondrak non vorrebbero, non possiamo rischiare di nuovo.. vengo io, vengo a casa tua, chiedo il permesso a.." Le nocche ossute di Virginia bussarono alla porta.
" Flo, posso disturbarti?"
" Devo andare Meg... a tra poco"
" Aspetta Flo..."
Chiusi di fretta le telefonata e feci entrare Virginia in stanza.
" Eri al telefono?" chiese, senza molti convenevoli.
" Sì... a tal proposito le volevo chiedere il permesso di poter uscire questa sera, tanto ci siete voi con Brian... è da un po' che non vedo i miei genitori.."
" Non mentirmi, Flo. Non è dai tuoi genitori che vuoi recarti"
" Spia le mie telefonate ora?"
" Non c'è bisogno di farlo, manchi della predisposizione naturale alle menzogne, non sai dirle."
" Posso uscire dunque?"
" Ti ho già pagato la giornata, cara, e noi stiamo per andare via, ero venuta qui proprio per salutarti." Prese a camminare nella stanza con un andamento lento e posato, come se ad ogni passo avesse calcolato la distanza dal punto precedente. "Brian ha bisogno di cure tutto il giorno, non solo il pomeriggio, non solo la mattina, non ad intermittenza. L'amore di cui necessita non deve essere la luce di un faro che si posa sullo stesso punto una volta sola  lungo un unico tragitto, ma la luce di un sole, alta e abbacinante, che lo raccolga e lo abbracci interamente."
" Chiaro. La saluto." Mi alzai dal letto su cui ero rimasta seduta le strinsi la mano e la guardai intensamente negli occhi. Non avevo mai pensato che occhi tanlmente azzurri e accesi potessero mancare di così tanta luce. 
La guardavo sfrontata, non smettevo di stringerle la mano. Volevo che capisse che avrei scoperto tutto, prima o poi; volevo che capisse non mi sarei arresa a nulla; volevo che capisse che non sarei mai stato un suo dominio, come lo erano i figli e il marito. Ero di ben altra stoffa io.
Scesi con lei fino al piano di sotto, dove salutai con un abbraccio Pam e prosi gentilmente la mano  al signor Ondrak che però rimase impassibile, con lo sguardo iniettato di sangue perso nel vuoto. Uscirono e mi liberarono della loro presenza, dei loro riti e costumi affettati, e già mi sentivo più tranquilla. Ma con la mente tornai a pensare all'essere chiuso nella stanza Sollevai gli occhi sul soffitto e lo immaginai lì, al piano di sopra, in quel preciso punto, steso sul parque consumato e lacerato, avvolto dal ferro della catene. Dovevo parlare con Meg, non potevo districare la coltre fitta di quel mistero senza il suo aiuto, senza qualcuno che potesse muoversi liberamente fuori dalle mura della magione in cui, stavo iniziando a rendermene conto solo ora, ero tenuta come prigionera. Preparai velocemente la cena a Brian che, forse grazie alla giornata passata in compagnia della famiglia, era più tranquillo, meno irascibile, per quanto si trattasse sempre di una bestia. Mangiammo insieme, ma mi curai poco di conversare con lui o di correggergli la postura, insegnarli ad utilizzare correttemente le posate, sgridarlo se mangiava con le mani, pensavo ad altro. Programmavo la mia serata. Sarei fuggita, sarei fuggita per tornare, certamente, ma sarei fuggita quella notte. Sarei andata da Meg. Le avrei raccontato tutto. Ma quel tutto era un pretesto, lo sentivo, lo avvertivo sotto la pelle, dentro il cuore. Volevo fuggire una notte e ritrovarmi nel porto sicuro delle sue braccia, della sue parole. Mandai un messaggio a Meg in cui le chiedevo di aspettarmi in macchina fuori dal cancello, ma nascosta tra gli alberi, in modo che le luci dei fari o il rumore del motore e delle ruote sul sottobosco non destassero l'udito attento di Brian. Mi assicurai che la bestia fosse in camera sua a dormire beato, chiusi la mia stanza a chiave e senza far rumore uscii di casa.
Meg era già lì, mi aspettava nella sua utilitaria rossa, appostata dietro una  siepe selvaggia in un' insenatura verde del sentiero principale. Entrai in macchina e le diedi un bacio sulla guancia, lei ricambiò, poi ci fermammo e consumammo tutto il mondo circostante in un incendio di silenzi che solo i nostri sguardi sapevano decifrare. Senza dire nulla, accese il motore della macchina con un movimento di polso così rapido che non  potei far a meno di pensare fosse il prodotto insano di una premura recisa a causa di timori inesprimibili. Non raggiungemmo mai casa di Meg, percorremmo stradine interminabili che segavano in due radure sterminate di grano dorato. Le spighe danzavano a ritmo del vento 
mentre sula linea dritta del loro dorso umido si specchiava il volto algido della luna, riempita solo a metà. Avevo i miei occhi incollati sul viso perlaceo di meg, sui suoi lineamenti , candidi così come la gomma delle ruote aderiva all'asflato lucido. Lei non mi guardava, ma la sentivo, la sentivo rivolgersi a me con tutta se stessa,
la sentivo dirigersi verso di me in tutta la sua imperiosa arresa. 
Guidava, ma non sapeva dove stessa andando. Seguiva una rotta che le sussurava il cuore, e che solo lei poteva ascoltare. La potevo percepire, reclinata, prostrata al muro spesso del suo silenzio, con l'orecchio teso alla parete del suo torace, a carpire con meticolosità ogni suono che ne fuoriuscisse. Ad un tratto scorsi un bagliore riflesso su di una lastra piatta appesa all'orizzonte: era il mare, con la sua pacata immobilità. Raggiungemmo la spiaggia, scendemmo dalla macchina, ci togliemmo le scarpe e iniziammo a rincorrerci sulla riva, giocando con la risacca delle onde. Non parlammo mai. In quelle ore in riva al mare tra di noi aleggiò un silenzio che raccoglieva in sè tutte le parole che né io né lei sapevamo pronunciare.  Poi ci sedemmo stanche sulla sabbia, l'una accanto all'altra, con gli occhi fissi sulla distesa marina di fronte a noi. 
" Ci sono cose di cui dovremmo parlare" disse quasi sussurrando Meg.
" A volte non serve parlare, sai" risposi di istinto voltandomi verso di lei che ora mi era vicina tanto da poter accordare il battito del mio cuore ruggente al respiro dei suoi polmoni.  Alte alte sopra di noi le stelle recitavano liriche di luce e la luna volteggiava ferma sulla sua traiettoria mentre l'aria placida della sera disegnava crespe sulla superficie dell'acqua, come fosse un caldo respiro di una madre sulla nuca quasi calva di un infante. Strinsi la sua mano nella mia e lei contraccambiò quel gesto trafiggendomi lo sguardo con il suo. Ci avvicinammo, l'una verso l'altra, 
lasciai la presa dalla sua mano e feci correre le mie dita sulla sporgenza delle sue gote. Vicine, sempre più vicine, quasi da non poter veder altra realtà se non il suo viso. Dentro, il cuore strepitava come una mandria di cavalli furenti, il suo rombo era così imponente da farmi tremare le viscere. D'un tratto, c'erano solo le sue labbra, bocciolo fresco di rosa.
C'era solo il nostro tacito assenso, nelle pieghe di una volontà mai espressa. Sembrava che tutta la notte rimanesse in attesa del nostro bacio, così come noi restavamo impigliate a questo momento, temendo e sperando non terminasse mai. Ma un trillo di metallo ruppe in pezzi il sogno di quella notte, smantellò la luna dal cielo e spense le stelle come fossero fiammelle di candela. 
" E' il mio cellulare" disse Meg a mezza voce," devo rispondere".
   
 
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