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Autore: Le_Fleur_du_Mal    05/01/2018    1 recensioni
Malec. Humans!Au, vagamente ispirata a “Il diavolo veste Prada”.
Magnus Bane è a capo della più importante rivista di moda degli Stati Uniti, Pandemonium. A trent'anni è uno degli uomini più ricchi e affascinanti del pianeta, ma non è felice. In pieno turbine di divorzio con la bella attrice francese, Camille Belcourt, si ritroverà a dover fare i conti con i sentimenti che comincerà a provare per il suo giovane e schietto secondo assistente, Alexander Lightwood, trasferitosi dalla Francia per realizzare il suo sogno.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Primo capitolo

                                   
 
Quella mattina la svegliò non suonò. Non ce ne fu bisogno. Il gatto, che doveva aver usato i suoi capelli come lettiera durante la notte, s'era affilato gli artigli contro la fronte candida e Alexander Lightwood s'era svegliato di scatto, mugolando e trattenendo un'imprecazione contro la crudeltà e la malizia dei felini. A volte era così che Church gli dimostrava il suo affetto e lui si ritrovava a maledirsi di essersi fatto incantare da quei grandi occhi gialli dietro le sbarre di una gabbietta al gattile dodici anni prima.
Come gli accadeva da qualche settimana, trovò strano svegliarsi in un letto che non fosse quello di casa sua a Parigi, ma la sensazione fu effimera come uno sbadiglio, sciolta in un sorriso inconsapevole, gli occhi azzurri che brillavano mentre prendeva Church in braccio e lo posava sul pavimento. Il gatto miagolò, ma non si oppose alla stretta, facendogli poi le fusa contro i polpacci magri e fasciati dai pantaloni della tuta.
Decidere di trasferirsi con i suoi fratelli a Brooklyn era stato terrificante e accattivante insieme, un mare di possibilità a sua disposizione e tutto il desiderio di sperimentarle. Poteva finalmente essere se stesso, non nascondersi dietro la pudicizia che gli si era cucita addosso come una seconda pelle sino a soffocare sogni e speranze.
Alec amava i suoi genitori, li rispettava e avrebbe fatto di tutto per renderli orgogliosi, ma sapeva di non essere il figlio che avrebbero voluto. Troppo quieto, troppo gentile, troppo silenzioso. Troppo gay. Quando aveva confessato ai suoi genitori che gli piacevano i ragazzi, qualcosa si era rotto. Non che l'avessero cacciato di casa o che gli avessero rivolto degli insulti aberranti, ma il loro rapporto era cambiato. Suo padre aveva quasi smesso di rivolgergli la parola e sua madre lo guardava con costernazione, come se ritenesse un peccato che un così bel ragazzo non potesse più aspirare a una vita che loro avrebbero definito normale.
Per fortuna i suoi fratelli l'avevano accettato senza neanche battere ciglio. Alec non avrebbe sopportato di perdere Izzy, Jace e Max. Con loro niente era diverso, anzi si era ritrovato a parlare con molta più sincerità con Jace mentre in Izzy aveva trovato la sua prima difesa, lo scudo che lo proteggeva da un mondo sin troppo gretto e crudele.
Ancora immerso in quei pensieri, bofonchiò qualcosa di indefinito, passò la mancina sul bel pelo blu di Church e si affrettò ad occupare il bagno per una doccia veloce.
Quel giorno avrebbe incominciato a lavorare come secondo assistente di Magnus Bane, il direttore di Pandemonium, la rivista di moda più all'avanguardia di sempre, o almeno così l'aveva definita Izzy quando gli aveva trovato quel lavoro un paio di settimane prima, appena approdati a New York. Sua sorella nutriva una somma venerazione per quell'uomo che era il pilastro del buongusto, ma Alec provava poco interesse per quel mondo. Era soltanto un trampolino di lancio per il suo vero sogno: l'editoria.
La prima assistente, una certa Azalea Fox, con la quale aveva parlato brevemente al telefono due giorni prima e che gli aveva dato l'impressione di una donna energica e determinata, gli aveva intimato di presentarsi puntuale, anche in anticipo. Non che non l'avrebbe fatto se lei non l'avesse specificato. Alec aveva troppo rispetto per gli altri per ritardare a un appuntamento, fosse di lavoro o anche per un semplice incontro con gli amici.
Dopo che si fu vestito, una camicia blu come i suoi occhi a fasciargli il torso liscissimo e levigato, come marmo di Carrara, le spalle larghe e le clavicole magre, e un paio di jeans neri ad accarezzargli le gambe lunghe, avanzò verso la cucina e trovò sua sorella accomodata al bancone, ancora in camicia da notte, che sorseggiava la sua colazione ipocalorica senza fretta mentre sfogliava svogliata la posta del mattino.
Arricciò il naso dinanzi al quel frullato di ingredienti impronunciabili e fantasiosi, di un verde cupo come assenzio, ma non disse nulla, limitandosi a scompigliarle i capelli d'ebano, nerissimi e arricciati sulle punte, e a scoccarle un bacio sulla fronte.
Sua sorella era bellissima e atletica, maestosa mentre danzava, una vera étoile che avrebbe potuto incantare chiunque dall'alto del palcoscenico. Non a caso aveva ricevuto una borsa di studio da Broadway, la ragione per cui s'erano trasferiti. Eppure Alec non capiva il perché di tutto quell'accanimento per la forma del suo corpo. La reputava perfetta così com'era.
Izzy lo accolse con un sorriso estatico, complimentasi per il suo outfit che, per inciso, aveva scelto lei la sera prima.
« Vorrei venire con te,» soggiunse lamentosa in francese, com'erano abituati a fare anche a New York, sistemandogli le pieghe inesistenti della giacca di pelle, sfiorandolo con quelle dita lunghe e affusolate che erano un balsamo, una carezza gentile che Alec accoglieva volentieri.
Si lanciò in un discorso sulla moda, gesticolando animata e con una luce che non vedeva da tempo, non da quando i rapporti con i loro genitori s'erano incrinati. Alec la lasciò fare, anche se perse le fila dopo borse di Gucci, il massimo che riuscisse a capire di quel caleidoscopio assurdo, e si limitò a bere il suo caffè, annuendo ogni tanto da bravo fratello maggiore quale era, paziente e gentile, senza mai interromperla o distogliere l'attenzione da lei. Anche lontana dalle luci della ribalta, Isabelle brillava ed era impossibile non accorgersene.
« Jace?» domandò quando sua sorella si accorse che forse stava esagerando con le parole entusiaste. Di solito suo fratello adottivo era un ragazzo mattiniero e non vederlo al tavolo era una sorpresa. Anche dopo una notte di bagordi in discoteca, era sempre pronto per affrontare la giornata con un ghigno sarcastico e una battuta sardonica.
« Corsa mattutina. Dovrebbe rientrare a momenti,» spiegò Izzy, osservandolo bene, come per capire se ci fosse un significato nascosto dietro quella richiesta. Jace era stato la sua prima cotta, molti anni prima, la ragione per cui aveva capito di essere omosessuale, ma era passata. L'aveva superata e non rimpiangeva nulla. Jace era suo fratello, il suo migliore amico ed era tutto ciò che contava.
« Io devo andare o sarò in ritardo. Ti passo a prendere dopo?» chiese gentile, afferrando la borsa a tracolla che conteneva i documenti da presentare e tutto ciò che poteva essergli utile per il colloquio ufficiale.
« Esco con Meliorn,» ammise lei, tormentandosi una ciocca tra le dita, gli occhi sfuggenti per non incontrare la disapprovazione del maggiore. Meliorn altri non era che il ragazzo più borioso che avesse mai avuto il dispiacere di incontrare, ma era un ballerino di fama internazionale, bello e affascinante, e sua sorella aveva un debole per i tipi carismatici. Alec lo detestava, anche se cercava di tenere per sé i suoi giudizi per non offenderla.
« Potresti avere di meglio,» sussurrò tra i denti, cauto ed esitante, gli occhi azzurri che cercavano quelli neri di lei.
Sua sorella fece finta di non sentire mentre cinguettava augurandogli una buona giornata e Alec non infierì, baciandole la guancia alabastrina per poi chiudersi la porta di casa alle spalle.
New York non era Parigi, non aveva il fascino dell'antico e della storia millenaria, non aveva i suoi ponti e i suoi bistrot, i suoi parchi e la musica ad ogni angolo, ma ad Alec non dispiaceva il cambiamento. Era abituato a viaggiare sin da piccolo. Entrambi i suoi genitori erano dei diplomatici e non era raro che visitassero paesi stranieri. Alec era sempre stato curioso verso le altre culture, aperto al dialogo con il diverso, pronto ad accettare altre usanze e altri pensieri. Forse era da questo era nato la vocazione e l'amore per la scrittura.
Mentre prendeva la metro si ritrovò a sorridere nel ricordare i suoi primi tentativi, i racconti che vedevano Jace come il suo eroe pochi mesi dopo che era venuto ad abitare con loro, in seguito alla morte di suo padre, l'unico genitore che avesse mai conosciuto. Per poco non perse la fermata, ma si riscosse abbastanza in fretta da scendere prima che le porte si richiudessero del tutto e accennò una corsa per i viali ampi di Manhattan. Non s'era accorto d'essere quasi in ritardo, ma ormai era arrivato a destinazione. Il palazzo di vetro nel bel mezzo dell'Upper East Side recava un'immensa P di swarovski, qualcosa di troppo appariscente perché Alec, sempre così riservato, potesse apprezzare. Quello era un mondo che non gli apparteneva, estraneo e alieno, qualcosa che a pelle non sentiva proprio. Avrebbe avuto bisogno di tutta la sua determinazione, pensò mentre varcava la soglia, per poter sopravvivere in quella tana di vipere.
   
 
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