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Autore: Layla    05/01/2018    0 recensioni
Nel 1907, il dottor Duncan MacDougall di Haverhill in Massachussets, misurò il peso corporeo di sei persone durante il loro trapasso. I dati registrati gli fecero concludere che, subito dopo la morte, ogni corpo umano perde 21 grammi. Questo peso, secondo lo scienziato statunitense, sarebbe da attribuire all’anima. Karima è nata senz'anima, non sa provare emozioni e, secondo la predizione di una vecchia zingara tornerà a provarle solo quando la sua anima gemella le restituirà la sua. Jack Barakat potrebbe essere quella persona, sebbene non creda a queste dicerie, perché quando incontra Karima si rende subito conto che è legato a lei in modo speciale quanto inspiegabile.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jack Barakat, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prologo: la ragazza senz'anima.


Le disgrazie non hanno un orario a cui presentarsi, non lo sapevo prima d’ora.
Ho sempre pensato che gli eventi improvvisi non potessero infilarsi nella mia vita ben programmata, ma mi sbagliavo.
Mi chiamo Karima Jenkins, ho ventotto anni e sto per scoprire che non importa quanto imprigioni la tua vita nella routine, nella speranza di avere tutto sotto controllo, il caso vi farà comunque la sua apparizione.
Sono le quattro di mattina e il telefono accanto al mio letto suona in modo insistente, abbastanza da irritare un pochino persino una persona senza emozioni come me.
Non sono la solita ragazza che da adolescente emo è diventata una ragazza che finge di essere cinica o qualcosa del genere, io le emozioni non le sento proprio.
Dentro di me c’è sempre calma e freddo come durante una tempesta, non ho mai riso o pianto, sorriso o mostrato tristezza.
Ho sempre avuto uno sguardo assente che è stata la disperazione dei miei genitori, ma ora devo smettere di rimestare in queste riflessioni e rispondere al telefono.
“Lei è la signorina Karima Jenkins?”
Domanda una voce fredda e controllata.
“Sono io.”
Rispondo intontita io, passandomi una mano tra i capelli verdi scompigliati.
“Sono dolente di informarla che i suoi genitori sono deceduti, chiamo dal Columbia Hospital di New York.”
L’intontimento passa del tutto, all’improvviso come un gatto davanti alla preda. So che i miei genitori dovevano partecipare a un convegno per l’università cittadina in cui raccontavano della loro esperienza di medici senza frontiere.
“Cosa? Come sono morti?”
Chiedo con una sfumatura di panico nella voce.
“In un incidente stradale, purtroppo hanno avuto un frontale con un altro veicolo.”
Risponde la voce femminile di un’infermiera, che ora ha una nota di dolore nella voce, io mi passo una mano sulla faccia con il cuore che batte a mille e non posso fare a meno di chiedermi se sia per una sorte di riflesso condizionato o per vero dolore.
“A-arrivo subito. Il tempo di prenotare un aereo.”
Chiudo la chiamata e mi guardo allo specchio. Una ragazza pallida con gli occhi castani dalle sfumature verdi e i capelli verdi fosforescente con un piercing al naso mi restituisce uno sguardo incredulo.
I mie genitori sono morti e io ancora non ci credo, mi sembra un incubo anche se so che è la realtà. Loro hanno passato anni nelle zone più pericolose del pianeta senza saltare su una mina e senza farsi sparare addosso da qualche guerrigliero e ora sono morti per un banale frontale.
Non ci posso credere, ma è il mio corpo quello che accende il computer e che va sul sito dell’aeroporto di San Diego a controllare il prossimo volo in partenze per New York.
Ce n’è uno alle sette e pronoto i biglietti, sono figlia unica e mai come in questa occasione vorrei avere un fratello o una sorella con cui condividere il mio dolore.
L’unico modo che ho per sentire qualcosa o per esprimere quel poco di me stessa che mi rimane è la fotografia – il mio lavoro – e suonare il basso, la mia passione.
Preparo la valigia, vagamente confusa su cosa portare e cosa non, e penso alla sua famiglia. Mio padre Daniel ha incontrato mia madre Aida in un campo profughi palestinese, lei era infermiera e lui medico. Il loro amore è sbocciato in mezzo al dolore e ai feriti che curavano. Giorno dopo giorno hanno imparato ad amarsi e non hanno mai smesso, Aida si è messa contro tutta la sua famiglia per lui. Mamma non ha mai mollato nemmeno un attimo, ha sposato l’uomo che amava e poi sono arrivata io.
Erano felici i miei genitori di avere una figlia come me, mio padre era orgoglioso di quella figlia musicista che un po’suonava il basso in qualche gruppo, un po’ faceva la fotografa. Mio padre amava la fotografia, era una passione che coltivava con amore in parallelo alla sua professione medica.
L’unica cosa che preoccupava i miei genitori era la mia assenza di emozioni, mia madre diceva che secondo lei non avevo un’anima e lei non sapeva cosa fare. Si era calmata solo quando una vecchia zingara le aveva detto che l’anima di sua figlia sarebbe arrivata quando lei si fosse innamorata del ragazzo giusto.
Stronzate, diceva suo padre.
Stronzate.
Il mio cuore si stringe pensando che non potrà più dirmelo.

 
Arrivo al Columbia Hospital di New York sotto una pioggia battente. Entro e mi dirigo immediatamente all’accettazione, indosso un paio di jeans neri, una maglia dello stesso colore e un hijab nero da cui spunta la mia corta frangia ribelle.
Ho deciso di indossarlo in onore di mia madre e della sua religione, un modo come un altro per onorare la sua memoria e rendere noto a tutti il mio lutto.
La donna mi squadra – forse spaventata dal mio velo e pensando che io sia una terrorista – ma poi decide di lasciar perdere e mi detta loro le indicazioni per raggiungere la camera mortuaria, anche se si rivelano inutili.
Un’infermiera mi scorta e mi racconta i dettagli dell’incidente: era buio e pioveva, gli occupanti dell’altra macchina hanno perso il controllo del mezzo e sono finiti dritti contro quella che veniva dall’altra corsia.
Quella dei miei genitori.
Non posso fare a meno di chiedermi se fossero drogati o ubriachi, guardo i volti di due ragazzi che sostano fuori dalla camera mortuaria. Hanno entrambi gli occhi rossi e li scruto con odio, infine mi decido a parlare.
“Avete ucciso i miei genitori e io non vi perdonerò mai.”
Dico con la mia voce monocorde e quelli se ne vanno, lasciandomi sola davanti all’obitorio, deglutisco e abbasso la maniglia della porta, dolorosamente cosciente di quello che mi ritroverò davanti.
I miei genitori sono lì, ricuciti alla bell’e meglio e sento qualcosa spezzarsi nelle profondità di me stessa .
In quei freddi corpi riconosco mio padre, quello che mi spingeva sull’altalena da bambina e mia madre, quella che preparava spesso cus cus per non dimenticarsi della sua terra.
Accarezzo i loro volti e sento gli occhi bruciare per via delle lacrime, poi allungo la mia piccola mano e chiudo loro gli occhi in un estremo gesto di pietà e mormoro una preghiera.
“È la figlia dei signori Jenkins?”
Un uomo vestito di tutto punto mi si avvicina, lasciandomi perplessa dato che non lo conosco.
“Sono Charles Whright e mi occupo dei servizi funebri per conto dell’ospedale.”
“Sono Karima, la loro figlia.”
Lui annuisce e iniziamo una discussione sui dettagli pratici del funerale, preparo tutto per il meglio come a dimostrare in quel modo il mio affetto per loro, è l’unico modo che mi rimane.
In realtà vorrei essere solo a casa mia a piangere per tutto quello che è successo.
Alla fine lascio l’ospedale e me ne vado in un hotel vicino che mi ospita per la notte e per la durata dei preparativi del funerale, me l’ha consigliato l’ospedale.
Mi sdraio, sperando di dormire un po’, ma non ce la faccio.
Mille ricordi si affacciano alla mia mente: sorrisi, racconti, cene di famiglia. E io sento le lacrime scendere, ma non c’è riposo per me, solo dolore o una sua pallida eco, una fotografia sbiadita del passato, un dagherrotipo sviluppato male.
Scendo a fare colazione non appena la sala pranzo apre e mangio qualcosa, giusto per riempirmi lo stomaco e non svenire. Una volta fatto quello sbrigo le incombenze: telefono a parenti e amici, chiamo i giornali per il necrologio e parlo con gli addetti dell’agenzia delle pompe funebri.
Scelgo la cassa, i vestiti e l’allestimento della camera funebre.
Tutte queste cose mi rendono esausta e arrivo all’hotel per pranzo senza un filo di energia, crollerei se una faccia famigliare non mi sorreggesse.
Testa pelata, sorriso contagioso, colorito abbronzato da bravo ragazzo americano: Adam Elmakias.
“Adam, cosa ci fai qui?”
“Ti ho chiamato stamattina per chiederti una cosa e ho sentito la tua segreteria telefonica.”
“Oh, giusto.”
“Mi dispiace che i tuoi genitori siano morti, erano delle brave persone.”
“Sì, lo erano. Di sicuro migliori di me.”
Lui alza gli occhi al cielo.
“Non stiamo più insieme, ma i litigi sono gli stessi!
Tu non vali meno degli altri perché sostieni di non avere sentimenti o per le tue idee, tu sei perfetta così come sei.”
Io sorrido debolmente.
Adam è stato il mio primo ragazzo, nonché l’unico con cui abbia avuto una storia seria, a volte mi manca, ma lui si meritava di meglio di un androide e di sicuro non era la mia anima gemella perché i miei sentimenti continuano a non esserci.
“Andiamo a mangiare, hai un aspetto orribile, scommetto che non hai dormito e a colazione avrai mangiato il minimo necessario per non crollare.”
“Sì, ci hai preso.”
Entriamo e ci sediamo al mio tavolo e aspettiamo che il cameriere ci serva i piatti che ho ordinato: pasta al sugo e una bistecca ai ferri per me, lui non so cosa abbia ordinato.
“Kari, ti mancano?”
Un’ombra passa nei miei occhi strani, è una domanda comune, ma non per me.
Sì, mi mancano. Mi destabilizza che io senta il dolore a distanze così abissali, perché sono nata così?
È una punizione di un qualche Dio? Benedetta da una maledizione come direbbe Oli Sykes?
“Sì, mi mancano e fa male. Ma devo rispettare la loro memoria e organizzare le cose al meglio.”
Lui annuisce comprensivo e noto i suoi vestiti.
Indossa un camicia nera e un paio di jeans dello stesso colore, io indosso una camicia e un maglione nero, un paio di pantaloni dello stesso colore e l’hijab della sera prima.
Il cameriere arriva con i nostri piatti – lui deve essersi accordato con il direttore prima che io arrivassi – e iniziamo a mangiare.
“Ho pensato che una mano ti sarebbe servita, sei una roccia, ma a volte anche le rocce si crepano.”
Io annuisco.
“Io non so bene come farò ad affrontare i parenti e gli amici nella camera funebre.”
“Li seppellisci qui?”
“No. Anche se non avrebbero approvato spendere così tanti soldi per niente, lo sai come erano fatti, avrebbero preferito che i soldi fossero dati a qualche associazione benefica.
Io però li voglio vicino a me in modo da poter andare ogni tanto a visitare e tombe.”
“Sì, capisco.
Sicura che averli così vicini ti farà bene?”
“Chi lo sa, lo sai come sono fatta.”
Dico amara portandomi alla bocca l’ultima forchettata di pasta, il cuoco deve essere italiano perché è buona e non è la solita colla che servono nei posti che vogliono imitare la cucina italiana e non ne sono capaci.
Mangiamo anche il secondo, il dolce e il caffè. Adam controlla che io mangi come una chioccia iperprotettiva, immagino che non farei una gran bella figura svenendo nel bel mezzo delle condoglianze.
Finito di mangiare andiamo alla camera funebre, che è già piena di parenti e amici dei miei genitori, come ho già detto erano persone molto amate.
Io ascolto le loro parole, annuisco, mormoro qualcosa su quanto splendidi fossero e cerco di far penetrare dentro di me le parole di consolazione. Ma non ci riesco, è come se il mio cuore fosse trafitto da mille schegge di vetro che nessuno dottore potrà mai rimuovere.
È questo il dolore? Anche se è sentito a mille miglia di distanza, è questo il dolore?
Mi sento così persa e confusa!
All’improvviso vedo mia zia Jen con suo marito Tom che stanno parlando con Adam e faccio per avvicinarmi a loro, ma mi fermo a una distanza di sicurezza per sentire cosa dicano e non essere inserita nella conversazione
“Adam.”
Dice una voce sottile in cui riconosco a stento quella di mia zia Jen DeLonge.
“Adam, mi dispiace così tanto.”
Si abbracciano e lui cerca di confortare quel corpo minuto, ma alla fine è lei che lo conforta, Adam era molto legato ai miei genitori. Tom è in piedi accanto a lei, a disagio.
“Come sta Karima?”
“Male, credo. Non esprime mai le sue emozioni e io non so come aiutarla.”
Lei si asciuga una lacrima.
“Mi sento sola, Danny era il fratellone che mi tirava sempre fuori dai guai.”
“Era un grand’uomo, faceva del bene a tutti ed è stato il primo ad accettarmi nella vostra famiglia. Gli volevo molto bene.”
Dice sinceramente mio zio, i miei nonni non hanno accettato subito che la mamma si mettesse con un musicista e che l’aveva anche fatta soffrire in passato.
“Anche lui te ne voleva, parlava sempre molto bene di te, anche quando ti sei comportato male con i blink.”
“Era una bravissima persona, immagino che la piccolina stia male.”
La piccolina sono io, è stato lui ad insegnarmi a suonare il basso e siamo molto legati, lui mi accetta per come sono e mi spezza il cuore vederlo soffrire per me.
“Sì, a suo modo.
Sta arrivando.”
Mi avvicino a grandi passi, una specie di sorriso increspa il mio volto di pietra.
“Zio Tom.”
Mi abbraccia forte e accoglie la mia figuretta nelle sue braccia forti, braccia che mi fanno sempre stare meglio.
“Grazie per essere qui, per me significa tanto.”
“Non potevo lasciarti sola, piccolina.”
“Cosa farò senza di loro?”
“Andrai avanti perché è questo che avrebbero voluto.”
“Fa male, zio Tom.”
“Lo so, piccola.”
Abbraccio anche Jen e ascolto le sue parole di consolazione.
Grazie a Tom e Jen il giorno diventa più sopportabile e finisce prima, anche i due giorni seguenti, anche se costellati di dolore finiscono.
Io sono stremata e se non fosse per Adam che controlla che mangi adeguatamente probabilmente sarei collassata almeno un paio di volte al giorno.
Le bare vengono caricate su di un aereo diretto a San Diego come disposto da me, lo stesso su cui viaggiano noi e gli zii.
Arriviamo in un giorno di sole, uno di quelli che mia madre amava particolarmente perché le ricordavano la sua Palestina.
Vengono subito portate in chiesa,noi le seguiamo come automi, io mi sento svuotata di ogni emozione, persino peggio del solito.
Cristo, se fa male!
La cerimonia è lunga e toccante, molti parlano dei miei genitori. Vengono elogiati come persone, viene ammirato il loro impegno nel sociale e la loro bravura come medici.
Io li ascolto e cerco di raccogliere il coraggio per parlare davanti a tutta quella gente, Adam mi appoggia la mano sulla spalla in un gesto rassicurante prima che tocchi a me, io sorrido debolmente.
La mia camminata è marziale come quella un soldato, le spalle dritte, l’hijab nero che sottolinea il mio dolore. Prendo posto davanti al leggio e guardo la gente riunita in chiesa, ce la farò?
“Io sono Karima, sono la figlia di Daniel e Aida.
I miei genitori erano molte cose. Erano brave persone, sempre pronte a dare una mano a chiunque. Medici competenti e generosi, che hanno prestato servizio in posti in cui i loro colleghi non sarebbero mai andati. Erano anche genitori meravigliosi che mi hanno insegnato cosa conta sul serio nella vita.
La loro morte mi spezza il cuore, ma loro non vorrebbero che ci fossilizzassimo su questo dolore, perciò vi chiedo di portare avanti la loro eredità e di non dimenticarvi del loro esempio.
Cercate di imitarli e loro non saranno dimenticati, vivranno nel nostro cuore e nelle nostre azioni.
È tutto.”
Io scendo e torno nel loro banco, questa volta è zio Tom ad appoggiare una mano sulla mia spalla.
“Sei stata coraggiosa.”
“Mamma e papà avrebbero voluto che agissi così.”
Finito il servizio funebre, Adam, Tom  e altri due amici di mio padre si caricano in spalla prima la bara di Daniel Jenkins e poi quella di Aida Jenkins, dirette al loro ultimo viaggio.
Il cimitero che ho scelto è vicino alla casa dove ho vissuto la mia infanzia ed è uno spazio verde molto tranquillo, la prima bara a essere calata è quella di mio padre e poi tocca a mamma.
Io sono sudata e con il cuore spezzato, ma so che è questo quello che avrebbero voluto i miei genitori, più o meno o almeno so che avrebbero capito la mia scelta. Mi metto a lato delle due fosse e aspetto che il prete dica le ultime parole, poi lancio una rosa bianca e una manciata di terra su entrambe le bare, il volto impenetrabile come una maschera africana, eppure i miei occhi sono lucidi, Adam fa lo stesso.
“Se ti servisse qualsiasi cosa non esitare a chiamarci.”
Dice Tom, io annuisco, la mente altrove.
Una volta riempita la fossa e ascoltate le ultime parole degli amici, Adam passa un braccio attorno alle mie fragili spalle.
“Adesso sono da sola.”
“Io ci sarò sempre se mi vorrai.”
“Grazie, Adam.”
Dico con voce spezzata.
“Di niente, piccola.”
La voce solare di Adam ha qualcosa di rassicurante questa vota e io sento per la prima volta un calore all’altezza del cuore.
Qualcosa di buono verrà da questa tempesta.



Questa è Karima.
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