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Autore: Alchimista    07/01/2018    2 recensioni
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal capitano.
No. Aveva bisogno ancora di qualche istante, solo un paio, il tempo necessario a pensare ancora una volta, magari da solo…
«Solo un secondo, vi raggiungo subito».
Quarta soulmate della raccolta | Ushishira | Semiten | IwaOi
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eita Semi, Kenjiro Shirabu, Tendo Satori, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fate don't know you like I do'
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PairingUshishira | TenSemi |IwaOi

Parte: 9/9.

AvvertimentiSoulmates!AU in cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno. | Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.

Alla mia parabatai Luna.

 

Don’t let me be gone.

 

Parte nona.

 

 

Shirabu era riuscito a fare in modo che le sue dimissioni dall’ospedale non diventassero nulla di particolare. Aveva chiesto ai suoi compagni di squadra di restare in Accademia; solo i suoi genitori ed Ushijima erano stati con lui quando aveva lasciato la stanza ed aveva varcato le porte dell’ospedale per la prima volta dopo mesi. Gli infermieri e i medici lo avevano salutato con affetto – Shirabu aveva un po’ odiato quella cosa, il legame che in qualche modo sentivano si fosse creato fra di loro, perché lui avrebbe voluto tagliare qualunque ponte con quel posto, con ciò che aveva vissuto in quei mesi. Con il cancro. Lo aveva sconfitto, era stato più forte ed ora meritava di non vedere più quel posto, di tornare ad essere il ragazzo di prima. La sola idea di poter subire un nuovo ricovero gli faceva venire la nausea.

Yotaro era andato via diversi giorni prima: il neurochirurgo che lo aveva seguito aveva provato un nuovo intervento, ma anche questo non aveva avuto l’effetto sperato e semplicemente il ragazzo aveva deciso che andava bene così – voleva uscire, voleva riprendere la sua vita in mano e provare a fare qualcosa di nuovo. Shirabu non lo aveva mai visto tanto deciso e felice come la sera prima di andare via: Yotaro lo aveva stretto a sé in un lungo abbraccio pur sapendo quanto l’alzatore poco sopportasse il contatto fisico e Kenjirou glielo aveva lasciato fare perché aveva capito quanto gli servisse in quel momento. Yotaro lo aveva ringraziato, senza specificare per cosa.

«Ti va se ci teniamo in contatto?», aveva chiesto poi. A ben guardarlo, Shirabu non avrebbe saputo dire dove fosse andato a finire il suo carattere spavaldo e canzonatorio: in quel momento gli era sembrato quasi indifeso.

«Non avevo neanche sperato di potermi liberare di te tanto facilmente», gli aveva risposto, prima di lasciarlo tornare nella propria stanza.

E in effetti, nella settimana che Shirabu era stato ancora in ospedale senza di lui, Yotaro lo aveva chiamato in continuazione ed era stato come averlo ancora accanto – Kenjirou non lo avrebbe mai ammesso ma la sua presenza era qualcosa di cui aveva sentito la mancanza e forse anche per questo andare via era la sola cosa che voleva fare: niente più lo tratteneva in quel posto. Con i suoi genitori aveva deciso che avrebbe passato il weekend a casa e dal lunedì sarebbe tornato in Accademia per riprendere a studiare – Shirabu era alquanto nervoso a riguardo, sebbene fosse convinto che niente sarebbe stato peggiore dei giorni in ospedale, neanche le settimane d’inferno che avrebbe dovuto affrontare per mettersi in pari con lo studio.

«Ti sembra strano lasciare l’ospedale?»

La madre di Kenjirou ruppe il silenzio che era sceso nella macchina da che avevano lasciato il parcheggio. C’era una strana atmosfera nell’aria, quasi le emozioni si fossero addensate in essa come nuvole pesanti e difficili da dissipare.

«Mi sento leggero», rispose il ragazzo guardando distrattamente dal finestrino la figura dei palazzi che componevano la struttura ospedaliera.

Ushijima, seduto accanto a lui, cercò la sua mano per poi prenderla nella propria. Shirabu non si voltò subito: era un contatto a cui ormai era abituato e ci mise qualche istante a rendersi conto che la stretta del compagno era diversa dal solito, che Wakatoshi stava cercando di comunicare con lui. Normalmente gli avrebbe parlato, ma Kenjirou si rese conto che la presenza dei suoi genitori doveva averlo frenato. Nel cercare il suo sguardo, il ragazzo si accorse che Ushijima stava piangendo.

Per i primi istanti quella visione gli diede il capogiro. Restò a fissarlo, mentre poche lacrime scendevano lungo il viso del compagno, senza riuscire a fare o dire nulla: d’un tratto il legame aveva fuso le loro emozioni e Shirabu si sentì trascinato nel vortice di sollievo, gioia e terrore che Ushijima stava provando in quel momento.

«È la prima volta che lascio davvero l’ospedale», disse il capitano della Shiratorizawa, il volto serio e senza vergogna; Kenjirou capì che cosa intendeva dire. «Scusami».

Il più piccolo scosse la testa e strinse più forte la mano di Ushijima nella sua, senza lasciar andare i suoi occhi per tutta la durata del viaggio. Osservò come qualche altra lacrima seguì le prime che aveva visto finché gli occhi, lucidi, smisero di piangere, restando arrossati; la curva delle labbra rimase tesa e dritta per tutto il tempo, senza regalargli un sorriso nonostante sentisse chiaramente il sollievo e la gioia che Wakatoshi stava provando. Ushijima esprimeva la confusione che entrambi provavano e che il legame intensificava di riflesso.

«Tranquillo, Ushijima, pensiamo noi alla valigia», disse il padre di Shirabu quando furono arrivati a casa. Il ragazzo guardò l’uomo per qualche istante e quando questi ebbe annuito in sostegno delle proprie parole, fece come gli era stato detto e prese con sé, scendendo, solo la gabbietta che lui e Kenjirou avevano tenuto accanto a loro sui sedili posteriori: dentro c’era il coniglietto con cui Shirabu aveva fatto pet therapy in quei mesi. I ragazzi del volontariato avevano deciso di regalarlo all’alzatore non appena avevano saputo che era ormai abbastanza in forze da lasciare l’ospedale; Tendou aveva sghignazzato, dicendo che magari non vedevano l’ora di liberarsi di quella palla di pelo rabbiosa, ma Ushijima lo aveva trovato un gesto davvero carino e Shirabu aveva accettato di prendersene cura senza mostrare una particolare reazione alla cosa.

Stando attento a non muovere troppo la gabbietta, Wakatoshi raggiunse Kenjirou che si stava avviando verso casa. Ad essere sincero, non aveva alcuna voglia di allontanarsi da lui – per quanto potesse sembrare stupido, aveva l’impressione che quello fosse il momento in cui dovesse stargli più accanto.

Quando l’alzatore ebbe aperto la porta di casa, capì subito che qualcosa non andava. Poteva dirlo dall’odore che aleggiava nel corridoio buio o dalla sensazione di elettricità statica che stava percependo sulla pelle. Si mosse con una certa circospezione, stando attento a qualunque stimolo il proprio corpo ricevesse dall’esterno e quando ebbe svoltato verso il soggiorno, una luce improvvisa lo accecò costringendolo a stringere gli occhi mentre, quasi nello stesso istante, fu assordato da qualcosa che all’inizio non riuscì a definire.

«Ben tornato a casa, Shirabu

L’intera squadra di pallavolo della Shiratorizawa gli stava davanti, alcuni sorridendo ed accogliendolo con scroscianti applausi, mentre altri – tra cui ovviamente Tendou Satori – avevano riempito la stanza di coriandoli, sparandoli con botti assordanti. L’alzatore mosse lo sguardo da un all’altro dei suoi compagni senza sapere che cosa dire.

«Abbiamo dato le chiavi di casa a Taichi», spiegò la madre, ridendo ed entrando nella stanza.

«Eravate tutti d’accordo allora?». Shirabu aveva messo su un’espressione tradita «Non vi avevo detto di non voler alcuna cerimonia per quando sarei stato dimesso?».

«In realtà hai detto: “vedete di non presentarvi in massa in ospedale domani, come avete fatto quando sono stato ricoverato, intesi?” e noi non l’abbiamo fatto», spiego con un sorrisetto subdolo Taichi.

Shirabu non poteva credere che stesse usando la logica contro di lui.

«E tu lo sapevi?», chiese rivolgendosi ad Ushijima. Il ragazzo guardò il suo compagno e poi il resto degli amici senza essere certo di cosa poter dire - era evidentemente colpevole.

«Via, via, non prendertela col povero Wakatoshi ora», intervenne Tendou, gettando una delle sue lunghe braccia sulle spalle del capitano «Dopotutto, vogliamo solo esprimere gratitudine per il tuo ritorno a casa, non vedo che cosa ci sia di male!»

In realtà Shirabu non era poi così seccato dalla cosa: avere lì i suoi compagni di squadra gli aveva provocato una strana sensazione all’altezza del petto, qualcosa di caldo e scomodo che non era certo di volere - l’irritazione che stava mostrando era il solo modo che aveva trovato per reagire a quella sensazione. I ragazzi avevano addobbato tutta la casa con festoni e strisce di stoffa colorate, ognuna delle quali recava un breve messaggio e la firma di chi lo aveva scritto. Se si fosse trattato di qualcun altro, Kenjirou avrebbe pensato a quanto un gesto del genere fosse sdolcinato e forse patetico, ma erano per lui, erano piccoli messaggi di sollievo ed affetto e, dannazione, la chemio doveva averlo davvero indebolito tanto se non era capace di trattenere le lacrime mentre li leggeva uno ad uno.

«Non sono certo di essere davvero tornato», mormorò – ora volgeva le spalle alla maggior parte dei ragazzi e non cambiò la sua posizione, sperando che nessuno potesse vederlo in viso.

La stanza piombò improvvisamente nel silenzio - l’ultima volta che ne avevano sentito uno simile era stato negli spogliatoi della palestra a Tokyo, dopo la finale contro la Karasuno. I ragazzi si guardarono senza essere sicuri di cosa sarebbe stato meglio rispondere: era paura quella di Shirabu? Paura di poter avere una ricaduta, di dover essere ricoverato di nuovo? O forse…

«So che non ha alcun senso dirti di non mettere troppa pressione su te stesso, ora che tornerai a studiare e giocare...»

Era stato Semi a parlare, più o meno nello stesso momento in cui Ushijima s’era mosso verso il suo compagno. Taichi, invece, che era il più vicino di tutti a Shirabu, gli aveva bloccato un polso stringendolo con le lunghe dita della sua mano: se l’alzatore avesse potuto vedere l’intera scena avrebbe riso perché ingenuamente credeva ancora di essere difficile da comprendere come persona.

«Ma noi vogliamo che tu sappia che il cancro non ti ha tolto niente», continuò Eita.

Mi ha tolto fin troppi mesi di vita, avrebbe voluto dire Kenjirou, ma così sarebbe diventato lui quello patetico, quindi trattenne l’istinto di ribattere, cercò di essere maturo, senza però riuscire ad impedire che il suo corpo si irrigidisse visibilmente.

«Quello che Semi intende», fu Reon ad intervenire, «È che puoi recuperare ogni cosa, tornare ad essere quello che sei sempre stato, anche se adesso ti sembra difficile».

Solo in quel momento Shirabu riuscì davvero a capire cosa stava provando e perché avesse insistito tanto nel non volere lì tutti i ragazzi: aveva estremo bisogno di un po’ di tempo per sé, di un po’ di tempo per abituarsi all’idea di dover riprendere la sua vita in mano da dove l’aveva lasciata. Non c’era stato nient’altro che in quei mesi avesse desiderato di più che guarire e tornare a casa, eppure adesso che lo aveva finalmente fatto, sentiva la terra venir meno da sotto i piedi e tutto intorno pareva un mare in tempesta mentre lui, tra le onde, si aggrappava disperatamente ad un pezzo di legno e cercava di non affogare. La malattia aveva messo in pausa ogni altra cosa e adesso tutto stava ricominciando in contemporanea e troppo velocemente.

«C-certo che posso, è forse una sfida la tua?» La voce era ancora un po’ insicura, ma le parole avevano una carica nuova - Ushijima sorrise.

«Non oseremmo mai, Shirabu, mai». Tendou butto entrambe le braccia sulle spalle di Shirabu, costringendolo a girarsi verso i ragazzi e restandogli appiccicato addosso nonostante sapesse quanto poco Kenjirou sopportasse il contatto fisico prolungato. O forse proprio perché lo sapeva bene. «Ma sai, fa bene dirle ad alta voce certe cose, giusto per star sicuri».

«Quindi noi siamo qui per qualunque cosa, Shirabu!» ci tenne a sottolineare Goshiki con un grosso sorriso.

«E di preciso in cosa potresti aiutarmi tu, primino?» rispose con tono pungente Kenjirou, beandosi dell’espressione sorpresa che comparve a quell’appunto sul volto ingenuo di Tsutomu.

Taichi ghignò, riconoscendo in quell’atteggiamento almeno un po’ il suo vecchio compagno di stanza.

Il resto della giornata trascorse in un clima di tranquillità e gioia e per qualche istante a Shirabu parve di essere tornato ad uno dei noiosi pomeriggi in Accademia, quando la squadra si riuniva dopo gli allenamenti senza avere un piano preciso per passare il tempo, ma lasciandosi guidare da vaghe conversazioni e la silenziosa presenza di tutti nella stessa stanza.

Tendou aveva ovviamente monopolizzato in poco tempo l’attenzione di tutti e approfittando della presenza dei genitori di Shirabu nella stanza aveva preso a raccontare con perizia di particolari diversi aneddoti che riguardavano il figlio, scegliendo tra le memorie, ovviamente, i più imbarazzanti. Shirabu aveva cercato di fermarlo – Taichi avrebbe piuttosto detto che aveva provato a strozzarlo – ma c’era stato davvero poco da fare contro la vocetta divertita del centrale e dopo il terzo racconto s’era arreso all’evidenza e lo aveva lasciato fare, sedendosi sul divano, accanto ad Ushijima.

Ovviamente, però, Satori non aveva trovato più divertente prendere in giro Kenjirou se non riceveva minacce di morte o reazioni fisiche in risposta e per questo, dopo ancora un paio di storielle, aveva cambiato soggetto dei suoi racconti, finendo per parlare di Semi. La Shiratorizawa aveva riso, divertita dal modo in cui Eita era diventato prima serio e poi paonazzo, man mano che il suo compagno snocciolava aneddoti imbarazzanti, ma la situazione si fece pericolosa quando Tendou decise di concludere il suo spettacolo con una storia doppia.

«Poi c’è stata quella volta in cui SemiSemi è rimasto chiuso nella palestra dell’Accademia con Shirabu…» la buttò lì, con aria falsamente indifferente, ma guardando di sottecchi tanto Eita quanto Kenjirou, sperando in una loro reazione.

«No», sussurrò il compagno, impallidendo. «Non di nuovo questa storia».

Shirabu emise un lamento, somigliando in modo terribile ad un cerbiatto a cui un cacciatore aveva appena sparato, ma questo non dissuase Satori dal cominciare la storia con un ghigno divertito, soprattutto perché i genitori di Kenjirou sembravano interessati e pendevano dalle sue labbra. Shirabu giurò che non lo avrebbe mai più fatto entrare in casa sua.

«Una sera Shirabu e Semi avevano deciso di allentarsi e quindi-».

«Mettiamo le cose in chiaro», intervenne Eita, impettito. «Non avevamo deciso di allenarci. Io avevo deciso di migliorare il mio servizio ed ero andato in palestra, dopo cena, per provare un po’ da solo. Shirabu è arrivato poco dopo con la stessa intenzione, così… così abbiamo finito per allenarci insieme, già che c’eravamo. Ecco tutto».

«E la cosa differisce da quello che stava raccontando Tendou come, esattamente?», lo provocò Kawanishi, soffocando una risata e guadagnandosi una brutta occhiataccia tanto da Semi quanto da suo vecchio compagno di stanza.

«C’è tutta la differenza del mondo!» asserì infatti Shirabu, arrossendo per l’imbarazzo o forse per la rabbia.

«Ad ogni modo», riprese Tendou, alzando di poco la voce per attirare l’attenzione nuovamente su di sé «Sappiamo tutti quanto possano essere stakanovisti questi due e messi assieme la cosa non può che peggiorare, ragion per cui s’era fatta notte inoltrata quando decisero di darci un taglio e andare a dormire come qualunque altra ragionevole persona avrebbe fatto».

«Ha parlato quello che fa jogging ogni mattina alle sei», lo interruppe Eita, borbottando ed incrociando le braccia al petto con fare indispettito.

«Fare attività fisica al mattino è salutare, di notte un po’ meno», sottolineò Tendou, che avrebbe davvero voluto continuare il suo racconto ma allo stesso tempo non aveva alcuna voglia di perdere il confronto col compagno.

Shirabu notò i suoi genitori scambiarsi un’occhiata ed un sorriso, forse divertiti dal diverbio della coppia e si soffermò a pensare che lui ed Ushijima erano completamente diversi: di siparietti simili non ne avevano quasi mai, se si escludevano le volte in cui Wakatoshi era genuinamente confuso da una sua affermazione, magari non del tutto chiara, e venivano allora a crearsi fraintendimenti che all’esterno – a detta del resto della squadra – potevano risultare comici. Di solito, erano il tipo di coppia che riusciva a stare sulla stessa lunghezza d’onda e avendo gusti e preferenze molto simili, era più facile adeguarsi l’uno all’altro che scontrarsi, fosse anche per gioco. Osservandolo, mentre con un accenno di sorriso ascoltava Satori raccontare qualcosa che conosceva bene come fosse invece la prima volta che la ascoltava, Shirabu realizzò ancora una volta quanto fosse davvero innamorato di Wakatoshi. E stavolta quella presa di coscienza aveva un sapore diverso: non era forzata dalla malattia, dalla paura, dalla solitudine o dal bisogno. Era sincera, spontanea, saliva al petto come una leggera brezza, dolce e costante, e lo accarezzava. Kenjirou aveva tanta voglia di piangere.

«…e non li aveva visti! Il povero custode notturno aveva chiuso la palestra, portando con sé le chiavi e lasciandoli dentro!», stava continuando a raccontare Satori, sempre più divertito – Shirabu si accorse che tutti stavano ridendo, chi più e chi meno: i suoi genitori sembravano rilassati come non erano da tanto e i ragazzi non avevano uno spirito così leggero da prima della finale.

«Il problema principale è che le palestre sono in un’ala dell’Accademia separata dai dormitori e dalle aule, quindi i poveretti devono aver provato a chiamare qualcuno, ma senza successo». Tendou scuoteva la testa e parlava col tono di chi racconta una vecchia e terribile sciagura.

«E ovviamente nessuno dei due aveva portato con sé il cellulare», sospirò Semi – s’era arreso al fatto che i genitori di Shirabu dovessero conoscere quell’imbarazzante storia ed ora stava attento ad ogni parola del compagno, intervenendo dove era possibile per migliorare la situazione che quello descriveva.

«Non ci avevi mai raccontato questa cosa, Kenjirou», osservò il signor Shirabu rivolgendosi al figlio.

«Io… non c’è nulla di interessante o importante in questa… cosa. Non avevo motivo di annoiarvi», cercò di difendersi il ragazzo – era stato imbarazzante essere bloccato per quasi un giorno intero in una palestra, avrebbe solo voluto cancellare quell’esperienza.

«Alla fine come sono usciti?» chiese la madre, avvicinandosi un po’ di più a Satori – oh, il fatto che quei due andassero d’accordo era davvero una magnifica notizia per Shirabu.

«Alla fine», Tendou abbassò di poco la voce, creando suspense – era dannatamente bravo quando si trattava di attirare il pubblico, bisognava ammetterlo. «Alla fine la nostra squadra di pallavolo aveva prenotato la palestra per le attività del club, dopo pranzo. In mensa ci accorgemmo della loro assenza ed eravamo tutti alquanto impensieriti, quindi chiedemmo prima a qualche compagno di classe e controllammo poi le loro stanze. Era diventato un bel mistero!»

Shirabu poteva chiaramente vedere gli occhi di Tendou brillare e avrebbe voluto prendersi a schiaffi; l’unica cosa positiva di quella storia era il fatto che non aveva potuto vedere la sua reazione – e quella degli altri – alla loro presunta scomparsa.

«Come dei bravi detective cominciammo ad analizzare gli indizi ed interrogare i testimoni e ci rendemmo conto che l’ultima volta che la maggior parte dei ragazzi li avevano visti era stato la sera prima, a cena; poi il nulla. Le migliori storie horror o thriller cominciano proprio in questo modo e noi eravamo sempre più esaltati! Poi, d’improvviso, l’illuminazione!» Satori scattò in piedi, facendo sussultare tutti ed indicò Kawanishi con entrambe le mani, spostando su di lui l’attenzione. «Taichi ci disse che Shirabu la sera prima aveva lasciato la stanza, dopo aver finito di studiare, per allenarsi un po’ e che quella mattina, quando s’era svegliato, non lo aveva trovato in camera. Sappiamo tutti com’è fatto il nostro Taichi, non s’era impensierito, e del resto Shirabu avrebbe potuto tranquillamente essersi alzato presto per studiare, quindi fino a pranzo gli era anche passato di mente di controllare dove fosse!»

A differenza dell’alzatore, Kawanishi non sembrava essere a disagio ora che era diventato l’improvviso centro del discorso, ma anzi guardava tutti con un sorrisetto divertito, quasi lo avesse fatto di proposito a dimenticare Shirabu o a non dir da subito che sapeva dove sarebbe potuto essere. E forse era così.

«La palestra apparve da subito la migliore delle ipotesi, quindi Wakatoshi chiese al custode le chiavi di quella che avremmo dovuto usare qualche ora dopo e lì, uno spettacolo da togliere il fiato! Shirabu e Semi, addormentati l’uno accanto all’altro, con Kenjirou che teneva la testa appoggiata alla spalla di Eita per stare più comodo. Penso che siamo rimasti a fissare quel miracolo per diversi minuti». Tendou era esaltato, non s’era più seduto ma in piedi ora gesticolava come un predicatore.

«No, no, anche di più!» aggiunse Hayato con uno slancio entusiasta, «Erano così carini!» e si mise a trafficare con il proprio cellulare, fino ad arrivare ad una vecchia foto che, appunto, ritraeva i due ragazzi candidamente addormentati, per mostrarla ai genitori di Shirabu. I due ragazzi in questione impallidirono.

«Credevo avessimo distrutto tutte le prove di quella scena!» strillò Kenjirou, provando a lanciarsi verso il cellulare di Hayato ma con poco successo, mentre Semi si prendeva il volto tra le mani, sconfortato e mormorando qualcosa che fu difficile distinguere.

«Eravamo solo stanchi ed affamati, ci siamo addormentati per la disperazione», mormorò poi Eita, cercando di giustificarsi – ricordava perfettamente l’angosciante consapevolezza che lo aveva pervaso quando aveva capito di dover almeno aspettare il giorno dopo per uscire: lui e Semi avevano trascorso l’intera notte alternando momenti di isteria a tentativi di farsi sentire da qualcuno per uscire rassegnandosi all’evidenza solo la mattina seguente, dal momento che, in ogni caso, nessuno sarebbe passato dalle palestre prima del pomeriggio.

«Nessuno vi sta giudicando, ragazzi», intervenne Ushijima, che fino a quel momento aveva semplicemente ascoltato il racconto «Non deve essere stata una piacevole esperienza: le palestre non sono fatte per restarci chiusi dentro», osservò - Tendou rise.

«Già, già», concordò «Come gli ascensori del resto - ricordate quella volta al centro commerciale in cui io e Wakatoshi siamo rimasti bloccati per più di un’ora in uno degli ascensori? La calma con cui Wakatoshi ha aspettato che venissero a liberarci è stata provvidenziale, non ho mai visto qualcosa reagire in un modo simile ad una situazione tanto scomoda!»

 

Gli aneddoti di Satori erano durati ancora qualche ora, ma Shirabu era riuscito a svincolarsi prima, dicendo di essere stanco e salutando tutti con la promessa di sentirsi il giorno dopo. Il ragazzo era salito su nella propria stanza e trovarsi di nuovo lì dopo mesi gli aveva provocato una strana sensazione all’altezza dello stomaco. Guardò la propria scrivania, occupata in modo casuale da qualche libro come se l’avesse usata il giorno prima, e poi il letto, ordinato e morbido come lo aveva lasciato. Nulla in quella stanza sembrava suggerire che era stata vuota per svariati mesi, nulla sapeva di malattia o sospensione e Kenjirou fu felice di avvertire quel senso di familiarità - credeva di averlo perso anche con le proprie cose, con i più piccoli dettagli, e invece tutto in quelle mura gli trasmetteva calore.

Si sedette sul copriletto fresco e sospirò, accarezzandolo: faceva caso, ora, a cosa che prima non avrebbe visto. Si accorgeva, ad esempio, di come la stanza fosse luminosa, grazie alla grossa finestra, anche quando le luci erano spente e fuori ormai era scesa la sera; o di come i rumori della strada giungessero a lui lontani, cosa che gli aveva sempre permesso di studiare con tranquillità. La gabbietta in cui stava Kutasagi era adagiata su un mobiletto basso e Shirabu faceva fatica a ricordare se prima ci fosse altro lì sopra, se Ushijima, salendo in camera, avesse spostato qualcosa - magari altri libri - per poterla appoggiare lì. Il coniglietto, in ogni caso, doveva essersi addormentato, perché Shirabu non sentiva provenire da lì alcun rumore.

«È permesso?»

La voce di Ushijima fece scattare gli occhi di Shirabu verso la porta socchiusa, dietro la quale la grossa figura del ragazzo era comunque visibile.

«Certo, entra pure», gli disse, senza alzarsi dal letto, ma aspettando che fosse Wakatoshi a raggiungerlo.

«Come ti senti?»

Kenjirou s’era sentito rivolgere quella domanda fin troppe volte per l’età che aveva, eppure quella fu la prima volta in cui non gli diede fastidio. Perché sembrò naturale: Ushijima era in camera sua e gli aveva semplicemente chiesto come stesse, in una serata qualunque – non c’era odore di disinfettante nell’aria e Kenjirou non aveva un braccio bloccato dalla flebo o il viso coperto dalla mascherina dell’ossigeno. Era libero, libero di rispondere che ora stava bene.

«So che sei spaventato – chiunque sarebbe spaventato a questo punto», aveva ripreso a parlare Wakatoshi «Ma non sei solo, davvero. E sei forte, forte abbastanza da battere il cancro: recuperare lo studio sarà-».

Kenjirou non lo aveva lasciato proseguire oltre, ma lo aveva baciato con una forza ed un trasporto che non provava da mesi, che forse non aveva mai provato. Le labbra premettero su quelle del compagno con passione, finché le altre non si schiusero, lasciandolo entrare - Ushijima poteva sentire ciò che provava Shirabu e strinse con le proprie braccia la sua schiena, accarezzandola con gentilezza. Come facesse a rispondere con tanta dolcezza all’impeto invece così forte di Kenjirou restava un mistero, l’equilibrio su cui si fondava la loro relazione. Il Capitano gli lasciò fare ciò che più voleva e si adeguò alle sue direttiva quando Shirabu lo spinse con una mano, facendolo stendere sul letto e guardandolo dall’alto. Per qualche istante, tutto quello che contava per Kenjirou era avere Wakatoshi davanti a sé, tra le sue braccia, sentire il suo calore così vicino - il resto spariva, non esistevano paure o dubbi, il mondo fuori da quella stanza non aveva alcuna importanza.

Lo baciò ancora, restando in comando, riappropriandosi dell’atmosfera intima e personale che la loro storia aveva sempre avuto e che per mesi aveva sentito violata dalla malattia, dagli altri, dalla sua stessa debolezza - Ushijima aveva avuto paura di ferirlo, gli era parso che lo toccasse con sempre maggiore distacco e preoccupazione, come qualcosa di fragile e freddo. Adesso, invece, il tocco che sentiva sotto la sua camicia, lungo la schiena, era caldo e intimo, solo suo. C’erano solo loro nella stanza.

«Avevo paura di aver dimenticato come ci si sentisse ad essere stretto da te», sussurrò, appoggiandosi con la testa sul petto di Wakatoshi. Questi di riflesso lo strinse di nuovo, lasciandosi andare, premendo di più, osando.

«Ci riabitueremo anche a questo, Kenjirou», mormorò. Non erano mai stati estremamente passionali come coppia, Ushijima lo sapeva, se ne rendeva conto guardando gli altri, guardando Semi e Tendou; ma a loro stava bene così: se Shirabu gli avesse chiesto di più, lui non lo avrebbe deluso, ma la verità era che tenerlo fra le proprie braccia, sentirlo sulla propria pelle come in quel momento, vivo, era la più profonda delle esperienze a cui Wakatoshi potesse aspirare.

Restarono in silenzio per un po’, senza pensare, vivendo attimo dopo attimo, lasciandosi trasportare dagli istanti. Non avevano fretta, non avevano foga, non c’era nulla che li pressava a fare o dire qualcosa - la possibilità di sospendere tutto era quasi nuova e ne godettero appieno.

«Grazie», sussurrò ad un certo punto Shirabu.

«Per cosa?», chiede Wakatoshi, con lo stesso tono di voce basso.

«Per non aver permesso che sparissi. Per non avermi lasciato andar via».

 

***

 

Oikawa trovava quella situazione estremamente ironica: se gli avessero detto che prima di diplomarsi sarebbe entrato di sua spontanea volontà all’interno dell’Accademia della Shiratorizawa, avrebbe riso di gusto, screditando il malcapitato con qualche battuta cattiva, eppure era davvero lì che si trovava in quel momento, mentre percorreva il vialone alberato che faceva da ingresso al complesso di palazzi della scuola.

Ci aveva messo del tempo per decidersi ad andare e più volte era stato sul punto di rimandare quella visita ai lunedì successivi, ma alla fine aveva smesso di pensarci e s’era semplicemente mosso, avvisando Hajime e chiedendogli poi se avrebbe potuto passare la serata da lui. Avvisare Shirabu Kenjirou, invece, era stata tutt’altra storia: mentre camminava verso l’accademia aveva preso e posato più volte il cellulare, prima di raggiungere un compromesso con se stesso. Aveva rinunciato a chiamare l’alzatore della Shiratorizawa ed aveva sviato il nervosismo su un messaggio, conciso e diretto. Il ragazzo non lo aveva fatto aspettare più di un paio di minuto per la risposta e fortunatamente Oikawa non era dovuto tornare indietro.

Ora che si avvicinava alle palestre, Tooru cominciava a sentire il nervosismo pizzicargli la pelle ed indispettirlo: che cosa aveva da dire, poi, a Shirabu? C’era davvero bisogno di parlargli, avevano un conto in sospeso loro due? Quella mattina gli era parsa una buona idea e anche Iwaizumi era stato d’accordo: dopotutto, l’ultima volta in cui s’erano visti non era stato propriamente cortese e gentile con lui e da allora l’Asso della Seijou gli aveva detto più volte che sarebbe stato il caso di parlarsi e chiarire, chiudere quella faccenda; eppure, più si avvicinava al momento in cui doveva vedere l’alzatore, più Oikawa cominciava a pensare che non c’era nulla da chiarire, che quella era una premura inutile.

Tooru vide Shirabu da lontano, senza essere a sua volta visto - non lo conosceva così bene da poterne essere sicuro, ma dall’ultima volta che lo aveva visto in salute, alla finale di Tokyo, sembrava dimagrito molto; la cura che aveva seguito in ospedale aveva risparmiato i suoi capelli, ma ora appariva più gracile e piccino, pronto a spezzarsi alla prima pressione. Il ragazzo della Seijou si chiese se potesse giocare ancora, se avesse la forza per resistere almeno un set. Era triste, pensò, perché nonostante avesse sconfitto la malattia - Sugawara lo aveva tenuto aggiornato - la sua vita era comunque cambiata e quell’esperienza, in un modo o nell’altro, lo aveva segnato e lo avrebbe condizionato per sempre. Ora si rendeva conto che per quanto fosse difficile la sua condizione, essa non era affatto paragonabile a ciò che aveva affrontato e affrontava tuttora Shirabu. Capì perché doveva parlargli.

«Quindi sei riuscito ad entrare», gli disse l’alzatore della Shiratorizawa non appena lo vide.

«Avrei dovuto avere problemi?» rispose Tooru con un sorrisetto.

«La sicurezza qui in Accademia è molto severa».

«Per me fanno tutti un’eccezione».

Oikawa sorrise ancora e Shirabu fece una smorfia che gli ricordò quella che solitamente aveva Iwaizumi prima di dirgli qualcosa di davvero poco carino; il ragazzo che aveva davanti, ad ogni modo, non disse nulla e si sedette poco distante da dove s’erano incontrati, su di un muretto basso che faceva da ornamento ad un’aiuola. Tooru lo seguì e si appoggiò poco lontano da lui; se guardava davanti a sé, poteva scorgere dalla porta aperta la squadra di pallacanestro che si allenava.

«Perché sei voluto venire?»

«Volevo spiare i vostri allenamenti, in realtà, e mi serviva un modo per entrare. Mi sembrava un buon regalo da fare ai miei kohai prima di lasciarsi definitivamente».

Shirabu lo guardò, voltandosi lentamente verso di lui e Oikawa non avrebbe saputo dire se fosse divertito o seccato dalla sua uscita. Che domanda era? Sapevano entrambi perché aveva chiesto di vederlo – voleva umiliarlo così tanto da farglielo ammettere?

«Allora hai sbagliato orario. Oggi abbiamo allenamenti dalle 5, adesso è presto», disse l’alzatore senza una particolare inflessione della voce. «Tu invece so che batti la fiacca i lunedì».

«Appassionato di gossip? O forse è Ushijima ad essere ancora fissato con me?»

Shirabu incassò il colpo senza aggiungere altro e smise di guardare Oikawa. Il ragazzo della Seijou si morse la lingua, evidentemente consapevole che quello non era il modo in cui un discorso di scuse avrebbe dovuto cominciare. C’era qualcosa in Shirabu che puntualmente lo faceva scattare, forse la posizione che condividevano o il fatto che la Seijou non era riuscita mai ad arrivare ai Nazionali a causa della Shiratorizawa; non sapeva trattenersi in sua presenza. Sospirò e decise di riprovarci.

«Non volevo… scusami», mormorò, con un tono di voce più basso e lento «E… non avrei dovuto parlarti così neanche l’ultima volta che ci siamo visti, in ospedale. Io...».

«Il tuo ragazzo ci ha già posto le tue scuse, lo sapevi?»

Tooru sorrise – Shirabu era ancora arrabbiato e nonostante lui avesse deciso di non rispondere più d’istinto, a quanto pareva l’altro ragazzo non era dello stesso avviso.

«Iwaizumi fa spesso le cose al posto mio, ma sto imparando a stare in piedi con le mie gambe. Quindi ti porgo le mie scuse».

Shirabu tornò a guardarlo; lo fissò negli occhi per qualche istante, finché Oikawa non si sentì a disagio, messo a nudo da quegli occhi che parevano volergli scavare nell’anima e cercare risposte a domande che nessuno aveva posto.

«Ti sei ripreso?» gli chiese alla fine Kenjirou, con sorpresa dell’altro: non poteva essere una domanda di sincera preoccupazione, non avrebbe avuto senso.

«Sto meglio, sì», risposte l’alzatore, dopo averci riflettuto per qualche istante. Erano stati dei mesi difficili, ma, se si fermava a pensarci, poteva dire di aver fatto passi in avanti, di stare bene per la prima volta dopo molto tempo. «Ho capito che ci sono cose che non posso controllare e che per quanto mi sforzi non tutto può andare nel modo perfetto che avevo immaginato. Posso pestare i piedi a terra e prendermela con me stesso e chi mi sta intorno, anche se la colpa non è di nessuno, o posso provare a trarre il meglio dalle situazioni».

«Insomma, stai rinunciando a combattere?» Shirabu pareva interessato ed Oikawa soppesò bene la risposta da dare – stava rinunciando?

«No, non direi questo. Sto… imparando a lasciar andare. Trattenere tutto il dolore dentro, tormentarsi senza fine e senza risultato… l’ho fatto per tanto tempo e ho finito solo per cadere più in basso, ferendo Iwaizumi. Non avrò mai un legame con lui, devo accettarlo, ma questo non mi impedisce di stare con lui, di amarlo. Ci sono ancora momenti in cui ogni cosa sembra crollarmi addosso, ma dopo l’ultima volta...». Oikawa si massaggiò d’istinto il ginocchio: dopo essere stato male, la sera in cui aveva spaventato a morte Hajime, l’allenatore lo aveva costretto ad un fermo di sei settimane e il ragazzo aveva ripreso ad allenarsi da pochissimo. Aveva avuto tempo per riflettere, per cercare un equilibrio da cui poter ripartire. Si era impegnato a parlare spesso col suo ragazzo, tutte le volte in cui stava male, e a compensare ogni pensiero negativo con un ricordo positivo – lentamente, stava imparando ad accettare la situazione in cui viveva, dal momento che non poteva fare nulla per cambiarla.

«Dopo l’ultima volta», riprese a parlare «Ho toccato il fondo ed ora voglio solo riemergere».

Tooru aveva incontrato Kageyama diverse volte. In alcune occasioni era rimasto con lui e Hajime, camminando e conversando, magari anche in compagnia di Hinata Shouyou; in altre aveva solo accompagnato il suo ragazzo e poi aveva fatto una deviazione, passando per negozi, facendo shopping e distraendosi un po’. Ignorare la presenza del ragazzo con cui Iwaizumi aveva il legame non gli era stato d’aiuto fino a quel momento: fingere che non esistesse lo aveva fatto solo stare peggio, soprattutto da quando aveva scoperto fino a che punto Tobio poteva sentire Hajime; per questo era passato ad un approccio completamente diverso: Kageyama esisteva ed era parte di Iwaizumi e lui di Iwaizumi stava imparando ad amare tutto.

La prima volta che era stato di nuovo con Hajime aveva avuto paura. Tutto gli era sembrato forzato, i commenti del ragazzo, i loro movimenti, quei baci dati senza arrivare fino in fondo. S’erano fermati ancor prima di togliersi i pantaloni ed erano rimasti per diverso tempo seduti sul letto, Oikawa con la testa fra le mani e Iwaizumi con lo sguardo fisso sul pavimento. Poi Tooru aveva  guardato Hajime, lo aveva visto fragile ed incurvato e per una volta aveva fatto lui un passo in avanti. Lo aveva stretto, baciandogli il collo, sussurrandogli di riprovarci e lasciare fuori ogni cosa. L’amore e l’interesse, la preoccupazione per il suo ragazzo avevano fatto sparire tutti gli altri pensieri ed ogni senso in Oikawa aveva abbracciato l’attimo che stava vivendo con Iwaizumi. Nel piccolo spazio che s’erano ritagliati avevano trovato un modo per andare avanti.

«Mi fa piacere».

Tooru guardò Shirabu: qualcosa nei suoi occhi s’era adombrato, facendo sembrare più torbido il colore naturale delle iridi.

«A me fa piacere che tu sia di nuovo a scuola. Significa che stai meglio, no?» Kenjirou annuì, accennando un sorriso.

«Sono tornato un paio di settimane fa e da qualche giorno ho ripreso anche gli allenamenti».

Tooru fu in qualche modo sollevato da quella notizia: aveva pensato spesso a Shirabu dal giorno in cui avevano litigato e quando era stato un po’ meglio il senso di colpa per quello che gli aveva detto lo aveva tormentato; il suo lato melodrammatico gli aveva addirittura fatto pensare che quelle sarebbero potute essere le ultime parole che aveva rivolto a Shirabu.

«Bene. E anche Ushijima sta meglio?»

Kenjirou lo fissò con un’espressione sorpresa per qualche istante prima di annuire ed Oikawa non riuscì a capire a cosa fosse dovuta quella reazione: certo, lui ed Ushijima non avevano il migliore dei rapporti possibili – soprattutto perché Oikawa era ancora offeso dal fatto che il ragazzo considerasse di poco valore la sua squadra – ma era chiaro che l’ultima volta Shirabu si fosse arrabbiato soprattutto perché Ushijima stava soffrendo a causa della sua malattia, quindi gli era parso un minimo cortese chiedere anche di lui. Tuttavia, dopo quella domanda rimasero entrambi in silenzio per un po’, finché Oikawa non decise che fosse arrivato il momento di andare via.

«Oikawa», si sentì chiamare dopo aver già mosso qualche passo verso il viale d’entrata dell’Accademia. Si voltò, aspettando che l’altro continuasse.

«Per sdebitarti della tua scortesia e mancanza di tatto, avresti voglia di accettare una mia richiesta?» domandò Shirabu con un piccolo sorriso intrigante sulle labbra.

 

Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo, l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.

«È ora, Shirabu», si sentì chiamare dal Ushijima.

L'ansia che sentiva in quel momento era forse ancora più grande dell'ultima volta in cui aveva giocato e Kenjirou, alzandosi per seguire il capitano, provò a ripetersi che non doveva preoccuparsi, che si trattava solo di un’amichevole e che, in ogni caso, era andato abbastanza bene negli ultimi allenamenti, quindi sarebbe andato bene anche adesso. Eppure, non poteva smettere di pensare al fatto che quella era la prima partita che disputava da quando era tornato, la prima che avesse davvero valore e non fosse soltanto una prova tra i membri della Shiratorizawa. E sebbene ufficialmente fosse soltanto un’amichevole, avere davanti l’Aoba Johsai non era mai davvero soltanto un’amichevole.

Cerca di ricomporti, si disse, reprimendo l’istinto di schiaffeggiarsi il viso per darsi un contegno solo perché poteva sentire chiaramente lo sguardo di tutta la squadra addosso. Sei stato tu a proporre questo incontro.

Lo aveva fatto per se stesso, per poter disputare una partita vera, che gli facesse realizzare senza alcuna mediazione quanta strada aveva ancora da percorrere per tornare alla sua forma ideale. Ormai era un mese che si allenava con gli altri e le ultimi analisi che aveva fatto in ospedale mostravano dei buoni segni di ripresa, eppure Kenjirou si sentiva ancora fuori fase: era troppo lento, troppo impreciso e meno ricettivo rispetto a prima della malattia e doveva mettercela tutta per tornare a quello stato nel minor tempo possibile o sarebbe stato sempre più difficile. Una partita contro Oikawa Tooru era l’ideale per mettersi alla prova.

«Shirabu, entrerai in campo nel primo set», disse Washijou, guardando il ragazzo «A seconda del tuo rendimento decideremo quanto tempo giocherai».

Kenjirou represse un sospiro e cercò di apparire quanto più serio e concentrato – si stava rendendo conto, in quel momento, che per lui quella partita non sarebbe mai stata un’amichevole, a prescindere dall’avversario che avrebbero affrontato: il coach lo teneva d’occhio, i suoi compagni lo tenevano d’occhio. Tutti volevano accertarsi del suo stato e checché ne avrebbero detto poi, se non fosse stato perfetto non sarebbe stato sufficiente.

Irrigidì tutto il corpo per paura di tremare e prese a fare riscaldamento nella metà campo occupata dalla Shiratorizawa, cercando di non pensare a nulla, di tenere la mente quanto più libera possibile e farsi solo guidare dal gioco. Sentiva qualcosa all’altezza dello stomaco, che lo agitava e cercò di spingerlo quanto più in basso possibile, fino a sommergerlo e dimenticarsene.

«Sai che se stramazzerai al suolo, Semi se la prenderà con tutti quanti, vero?», gli disse Kawanishi, prima di schiacciare con forza l’alzata precisa del compagno di stanza.

«Non stramazzerò al suolo, Taichi», rispose quello, seccato e stava per aggiungere qualcosa, quando Kawanishi gli si avvicinò con cipiglio serio, fino a quasi annullare la distanza fra i loro volti, bloccandolo col suo sguardo. Restarono così per qualche istante e a Shirabu morirono le parole in bocca: con Taichi aveva gli scontri che Ushijima solitamente attenuava; lui era muro dove Wakatoshi sarebbe stato soffice cuscino e Kenjirou sbatteva contro il primo per poi atterrare sull’altro. Ushijima gli aveva ripetuto più volte di non strafare, ma rispettava la sua tenacia e la sua ferrea volontà di migliorare, pronto a prenderlo se fosse caduto. Kawanishi avrebbe costruito un muro pur di non far superare a Shirabu certi limiti – non aveva alcuna paura di vederlo sbatterci contro.

«Starò attento», borbottò l’alzatore, quando l’amico l’ebbe lasciato libero.

«Sarà meglio», concluse l’altro.

Shirabu notò che anche Ushijima non lo stava perdendo di vista: nel suo modo pacato, che dall’esterno poteva apparire distaccato, il capitano faceva costantemente attenzione a dove fosse l’alzatore, a cosa stesse facendo, all’espressione che aveva sul viso e attraverso il legame, cercava di capire come si sentisse davvero. Non era invadente - Kenjirou sapeva che sarebbe stata l’ultima cosa che Wakatoshi avrebbe fatto - ma una costante e ferma presenza.

Yotaro arrivò quando la partita stava ormai per cominciare. Shirabu avrebbe mentito se avesse detto che non era contento, eppure una parte di lui non se lo aspettava, soprattutto perché ad informare il ragazzo di quell’amichevole era stato Ushijima. Quando si erano salutati, prima delle dimissioni, s’erano ripromessi di sentirsi spesso, ma da quando Shirabu era tornato a scuola e poi ad allenarsi, le telefonare s’erano fatte sempre più rade e brevi. A vederlo lì, l’alzatore sentì il senso di colpa bruciargli la pelle.

«Mi spiace, sono in ritardo», lo sentì dire, mentre gli si avvicinava: tutta la squadra ormai lo conosceva ed era accorsa a salutarlo.

«Ma no, che dici, sei giusto in tempo!» lo rassicurò Tendou, con qualche pacca sulla spalla.

Shirabu non disse nulla, aspettando che gli altri finissero di salutarlo e tornassero ad allenarsi. Ushijima restò qualche istante in più, incuriosito dal comportamento del compagno, ma bastò che guardasse Kenjirou negli occhi per capire. Gli sfiorò i capelli prima di tornare dagli altri.

«Mi hanno detto che sei così impegnato da dover far fare ad altri le telefonate per te», esclamò Yotaro quando furono rimasti da soli. Shirabu non si chiese come facesse a sapere che era proprio lui ad essere rimasto lì fermo: era stato il solo a non rivolgergli ancora la parola – era evidente.

«Non volevo- Wakatoshi ha semplicemente detto…».

«So cosa ha detto Wakatoshi, ma mi aspettavo fossi tu a parlarmene… La tua vita deve essere molto impegnata al momento, se non trovi neanche il tempo per una telefonata veloce».

Shirabu non voleva sentirsi in colpa: non l’aveva fatto di proposito, non voleva di certo perdere i contatti con Yotaro – era davvero stato impegnato, impegnato a tal punto da crollare la sera, a tal punto da dubitare di farcela alle volte; si stancava così facilmente, aveva sempre più bisogno di dormire e il fiato di tanto in tanto ancora gli mancava, come prima del ricovero.

«Io- Yotaro, ascolta, io-».

Prima che potesse parlare, il ragazzo davanti a lui ruppe in una sonora risata. Shirabu lo guardò con espressione a dir poco sconvolta.

«Oh, è per momenti del genere che rimpiango la mia vista! Pagherei per poter vedere che faccia hai fatto in questo momento!» disse il violinista, piegandosi in avanti per le risate «Dalla voce sembravi sull’orlo delle lacrime!»

Kenjirou non riusciva a credere di esserci cascato: aveva davvero pensato che l’altro fosse arrabbiato con lui, perché del resto aveva tutte le ragioni per farlo. Avvampò per l’imbarazzo e il fastidio.

«Scusami, scusami davvero ma non ho resistito allo scherzo». Yotaro era finalmente riuscito a smettere di ridere. «Non darti pensieri! Sono praticamente in contatto con tutti i tuoi compagni di squadra, so benissimo che sei stato sommerso dalle cose da fare in queste settimane!»

«Non sei affatto divertente», borbottò seccato Shirabu – odiava sentirsi tanto sollevato e odiava ancora di più il fatto che a Yotaro non fosse sfuggito. Per essere cieco sapeva fin troppe cose.

«Un po’ sì, invece. Ma giuro che ho finito, sono qui soltanto per sostenerti e godermi la partita! Sai che non ne ho mai sentita una? I tuoi compagni mi permetteranno di stare con voi in panchina, sono emozionato!»

Shirabu si chiese ingenuamente come dovesse essere una partita senza immagini: di tanto in tanto sentiva di giocatori – soprattutto schiacciatori – che provavano a sentire piuttosto che vedere l’alzata, per coordinarsi con essa in modo istintivo, ma era qualcosa in cui non aveva mai creduto davvero e che comunque non portava a grossi risultati. La pallavolo era questione di attimi, il gioco era velocissimo e gli occhi facevano la gran parte del lavoro – sebbene alle volte il corpo reagisse ancor prima di essi. Sentirla, da fuori il campo, poteva essere estremamente confusionario.

Ogni pensiero svanì, ad ogni modo, col fischio che diede inizio al primo set. L’alzatore, così come ogni altro giocatore di entrambe le squadre, non ebbe altro pensiero se non quello di tenere la palla in aria e fare punto. Era diverso dagli allenamenti che aveva sostenuto fino a quel momento – Shirabu se ne rese conto dai primi punti: il ritmo era più serrato, le azioni più aggressive; il fiato gli mancava più spesso e la testa sembrava quasi non riuscire a seguire il gioco. Come aveva fatto fino a quel momento? Com’era riuscito a sostenere tutto fino a quel momento, fino a prima della malattia?

Kenjirou cercò di non andare nel panico. Era l’alzatore ufficiale della Shiratorizawa, non poteva permetterselo, non in una partita contro l’Aoba Johsai. Sapeva cosa doveva fare quando si sentiva più stanco: giocate semplici e lasciare che a concludere fossero gli schiacciatori, Ushijima innanzitutto. Eppure le braccia pesavano, la palla sembrava quella da basket e Shirabu sentiva i polmoni bruciare.

Il primo time-out tecnico sembrò arrivare dopo secoli, sul risultato di 8 a 7 per la Shiratorizawa. Nessuna delle due squadre aveva intenzione di mollare: quella era la finale che l’Aoba non aveva avuto a causa della Karasuno. Kenjirou bevve avidamente e gli sembrò di essere tornato alle settimane prima del ricovero – cercò di ricordare che, a differenza di quella volta, ora stava guarendo; che quella di adesso era una risalita. Il coach parlò velocemente, incoraggiò gli schiacciatori e mise in guardia i difensori ed il libero: il prossimo in battuta sarebbe stato Oikawa Tooru.

Intanto, Yotaro era riuscito a spostarsi dalla panchina alla zona di riscaldamento, restando accanto a Semi, che guardava la partita senza proferire parola. Stava cominciando a capire come funzionava il gioco e ad isolare i rumori importanti da quelli di sottofondo, come lo stridio incessante delle scarpe sul parquet del campo.

All’inizio era stato un caos di rumori che, d’improvviso, culminava con un’esultanza e Yotaro si ritrovava sempre a comprendere in ritardo ciò che era successo. Col tempo, poi, aveva preso a distinguere i rumori della palla: la battuta e la ricezione emettevano due colpi secchi, l’alzata era appena un fruscio, accompagnato dallo stridere delle scarpe che andavano sotto rete, la conclusione di nuovo un suono secco; a quello poi poteva seguirne uno finale, il punto, o una nuova ricezione che ripeteva il ciclo di colpi. Le volte in cui la ricezione andava male passava più tempo tra un suono e l’altro e il fischio dell’arbitro segnalava il punto, mentre gli ace o i tocchi di seconda erano facili da individuare perché interrompevano il ritmo abituale. Alla fine del primo set, poteva dire di riuscire a cavarsela abbastanza bene.

La sola difficoltà che continuava ad avere il ragazzo era tenere il conto dei punti e comprendere quindi chi cominciava l’azione; quando perdeva il ritmo e cominciava a confondere i rumori – e le azioni molto lunghe di quella partita non lo aiutavano – era costretto ad aspettare il punto e sentire chi esultava per esso. Di tanto in tanto, poi, aveva dovuto chiedere il risultato così da poter cominciare da capo.

«Che ne pensi?» gli chiese Tendou, appena uscito dal campo per una sostituzione.

«È elettrizzante! Non credevo che gli scambi di gioco potessero essere tanto veloci e brevi, non posso distrarmi neanche un istante se voglio sapere che cosa sta succedendo!»

«Questo è il bello del gioco! E, credimi, funziona allo stesso modo anche per noi che possiamo vedere la palla!»

«Come se la sta cavando Shirabu?» Un’altra pecca che Yotaro aveva individuato nel suo sistema era il non poter distinguere i giocatori – spesso riusciva a capire che era Ushijima a far punto, ma il resto della squadra, soprattutto nel momento della ricezione e dell’alzata, restava un unico elemento, indivisibile alle sue orecchie.

«Sta andando davvero bene, considerate le sue condizioni. Regge il gioco, non ha fatto errori e le sue alzate sono precise come sempre! Credo che il coach voglia capire quale sia la sua resistenza attuale, lasciandolo in campo anche per questo set», rispose Tendou, con accuratezza.

«Spero che valuti anche la sua salute», mormorò Semi, che aveva ascoltato la conversazione in silenzio «Perché l’Aoba è uno degli avversari più forti che abbiamo mai affrontato e non credo che Shirabu possa reggere oltre il secondo set».

«Tranquillo, entrambi sanno quello che fanno», cercò di rassicurarlo Satori, ma il sospiro dell’altro rese evidente quanto fossero poco convincenti quelle parole.

Era passato solo qualche scambio - due punti segnati dall’Aoba ed uno dalla Shiratorizawa - quando Yotaro sentì Tendou, ancora accanto a lui, trarre il fiato quasi nello stesso momento in cui il rumore della palla colpì il pavimento liscio del campo. Un brivido attraversò la schiena del ragazzo: cos’era successo? Sentiva solo silenzio intorno a lui e il primo pensiero corse a Shirabu: s’era sentito male? Ma se fosse caduto al suolo lo avrebbe sentito, giusto?

«Cosa...?» riuscì a chiedere in un sussurro.

«Ha sbagliato», mormorò Semi «Ushijima ha mancato l’alzata di Shirabu».

Se fosse stata una qualunque azione di una qualunque squadra, nessuno sarebbe stato tanto turbato da un’azione sbagliata, eppure ora l’intera Shiratorizawa sembrava congelata da qualcosa che era successo solo di rado, agli inizi, e mai in una partita. Semplicemente, Ushijima e Shirabu erano troppo coordinati per sbagliare.

«Non va bene», mormorò Tendou e Yotaro poté distinguere chiaramente il tono serio della sua voce, che mai prima d’ora aveva sentito.

«Credete che Kenjirou stia male?» Il ragazzo sentiva il nervosismo stringergli il petto: non aveva sentito nulla, non aveva sentito nulla, non aveva-

«È questo il punto: non credo sia stato un errore di Shirabu», aggiunse Semi, disorientando Yotaro: se non era stato Kenjirou a sbagliare, allora…?

«Stanno riprendendo il gioco», lo informò poi, lasciando cadere l’argomento, ma il ragazzo non fu in grado di seguire il resto della partita con la stessa attenzione. Aveva come l’impressione che da quell’errore l’intera squadra fosse caduta in uno strano silenzio, fatto di tensione e freddezza; anche nei set successivi, quando Semi sostituì Shirabu in campo e Kenjirou si sedette accanto a lui, commentando la partita, Yotaro non riuscì a non avvertire un certo disagio scivolargli addosso facendolo sentire a disagio e fuori posto. Non successe nient’altro di strano, la squadra fu impeccabile per il resto della partita a detta del coach e persino Shirabu non sembrava avere troppe critiche da fare a se stesso - eppure qualcosa s’era spezzato.

 

«Yotaro è andato via?»

Shirabu annuì, sedendosi su una delle panche, nella grossa stanza degli spogliatoi, poco lontano da Ushijima.

«Suo fratello è venuto a prenderlo qualche minuto fa».

«Non sapevo che avesse un fratello», osservò sorpreso Wakatoshi e Kenjirou sorrise dell’espressione genuina che aveva assunto il suo volto.

«Non ne ha mai parlato, in effetti. Credo… credo si siano riavvicinati dopo le sue dimissioni dall’ospedale. Qualche volta Yotaro mi ha raccontato dei suoi dissapori con amici e parenti, ma immagino che stia cercando di riprendere in mano la sua vita».

«Ne sono felice». Ora il capitano della Shiratorizawa pareva più rilassato. Tirò la testa indietro fino a poggiarsi contro uno degli armadietti. «Alle volte Yotaro mi è sembrato fin troppo triste… e nessuno dovrebbe restare solo come era lui quando lo abbiamo conosciuto».

«Che cosa è successo durante la partita?»

Shirabu non era solito usare giri di parole - Ushijima si aspettava quella domanda.

«Non siamo stati coordinati, se ti riferisci all’azione che abbiamo sbagliato», disse con tono calmo.

«Io non ho sbagliato», ribatté l’alzatore.

«Hai ragione», concordò il capitano «Sono stato io a sbagliare - mi sono distratto. La tua alzata era perfetta, come sempre».

Kenjirou attese altre parole, che non arrivarono.

«Tutto qui? Ti sei distratto? Tu non ti distrai, Wakatoshi, non succede mai quando si tratta di pallavolo. Non è così semplice».

Ushijima cambiò posizione, per guardare il compagno negli occhi. Non era semplice? Shirabu era in errore, quella era la cosa più semplice del mondo: era stato preoccupato. Per tutto il tempo in cui Shirabu era stato in campo, Ushijima non aveva potuto fare a meno di preoccuparsi per lui. Ed era stato in allerta anche durante gli allenamenti, da quando Kenjirou aveva ripreso a frequentare la palestra, con la sola differenza che era riuscito a tenere più a bada la pressante sensazione che da un momento all’altro sarebbe potuto accadere qualcosa al suo compagno. Wakatoshi non avrebbe saputo dire se fosse il legame a tenerlo in allarme o semplicemente l’amore che provava per lui, probabilmente si trattava di entrambe le cose.

«Ero preoccupato per te», disse «Era il tuo secondo set e mi sembravi affaticato. Mi sono distratto».

Shirabu restò qualche istante a guardarlo negli occhi, senza sapere che cosa dire. Perché era così facile per Wakatoshi ammettere cos’era successo quando invece quelle stesse parole minacciavano di mandare lui in frantumi? Ushijima non poteva distrarsi. Ushijima era un giocatore perfetto, il miglior capitano che una squadra potesse cercare, il miglior asso di sempre - chiunque avrebbe fatto carte false per averlo, chiunque! E lui lo aveva distratto. Lui era stato in grado di farlo sbagliare, di scalfire la perfezione che rappresentava in quanto giocatore.

«Non avresti dovuto-», balbettò.

«Non posso dire di averlo scelto, Kenjirou». Ushijima sapeva a cosa stava pensando il compagno, le colpe che, chiaramente, si stava addossando «Ma non lo considero uno svantaggio. Non mi spiace, non sono arrabbiato o scoraggiato. È semplicemente successo».

«Se si fosse trattato di un torneo, quell’errore ci sarebbe costato un punto e avrebbe potuto fare la differenza fra una vittoria ed una sconfitta», insistette Shirabu: come poteva Ushijima non vedere l’importanza della situazione?

«Non siamo infallibili, Kenjirou: se si fosse trattato di una partita, avremmo recuperato quel punto».

Shirabu abbassò la testa, evidentemente scosso - non riusciva a trovare altro da opporre alla logica di Wakatoshi e si rendeva conto che non s’era mai trattato davvero del punto perso, quanto del fatto che Ushijima era stato distratto da lui in una partita.

«Non voglio che cambi a causa mia, Wakatoshi… non voglio che tu sia meno attento in campo o meno concentrato in quello che fai perché parte di te si preoccupa per me...».

«Vorresti che non ti amassi? Perché non c’è differenza fra le due cose», mormorò con serietà Ushijima.

«Vorrei non essermi mai ammalato», confessò Kenjirou. Credeva di averlo accettato, credeva di aver accettato tutto quello che gli era successo e il modo in cui il cancro lo aveva cambiato, ma non aveva messo in conto i cambiamenti che avrebbero colpito Ushijima - li odiava più di qualunque altra cosa.

«E anche Ushijima sta meglio?»

Le parole di Oikawa gli tornarono in mente. Allora era stato sorpreso da una domanda del genere, perché nessuno gli aveva mai chiesto come stesse il suo compagno, anche se aveva dovuto affrontare la malattia con lui. Ora invece si rendeva conto di essere stato cieco come tutti gli altri, perché non s’era accorto di quanto il cancro avesse già cambiato Wakatoshi. Nel modo in cui gli parlava, nel modo in cui rifletteva, nelle priorità che aveva: Ushijima stava guardando il mondo con occhi completamente diversi. Aveva affrontato la malattia insieme a lui ed ora, come non era possibile chiedere a Kenjirou di dimenticare, allo stesso modo non era possibile chiedere ad Ushijima di affrontare la sua vita nel modo in cui faceva prima.

Il capitano della Shiratorizawa strinse a sé Shirabu in uno slancio d’affetto che non si concedeva spesso in pubblico. Lo tenne lì, fra le sua braccia, accarezzandogli i capelli sulla base del collo.

«La malattia ti ha cambiato, Kenjirou. E ha cambiato anche me. Cambiare non è sempre un male: è il modo in cui reagiamo a ciò che succede nella nostra vita. Sarebbe crudele chiedermi di non preoccuparmi per te, non trovi?»

«Forse è un bene che non giocheremo più nella stessa squadra allora». sussurrò il ragazzo contro il suo petto «Non voglio esserti-».

«Zitto. Non dirlo. Non c’è niente che venga prima di te, Shirabu Kenjirou. Accetta questa realtà».

L’alzatore si prese qualche istante di pausa, aspettò che l’eco di quelle parole si spegnesse lentamente nelle sue orecchie, depositandosi nel suo petto, custodita per sempre. Poi strinse con tutta la forza che aveva il suo compagno.

«Non c’è niente che venga prima di te, Ushijima Wakatoshi».

 

 

 

 

 

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Siamo giunti alla fine! Qualcuno temeva che potessero esserci colpi bassi nel finale, ma direi che è quasi filato tutto liscio, no? Alla fine sono debolissima, non riesco a far finire davvero male una soulmate!AU checché ne dica tutto l’angst che infilo in corso d’opera. E finalmente sono riuscita a dare una certa chiusura anche ai poveri IwaOi che si trascinano questa situazione ben poco idilliaca dalla prima shot

Vorrei ringraziare chiunque abbia prestato attenzione a questa lunga storia e soprattutto alle persone che hanno recensito facendomi sapere che cosa ne pensavano!

Ho ancora qualche idea in mente, anche se piuttosto vaga, quindi credo che questa non sia la fine della raccolta, sebbene potrebbe passare tempo prima del prossimo aggiornamento.

Ad ogni modo, a presto!

Alch.

   
 
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