Pairing: Ushishira
| TenSemi |IwaOi
Parte: 9/9.
Avvertimenti: Soulmates!AU in
cui si vedono i colori per la prima volta quando si trova il proprio compagno.
| Angst | Malattia | Non odiatemi troppo | Per
le parti in cui saranno coinvolti gli IwaOi è
necessario leggere la prima soulmate, che trovate qui.
Alla
mia parabatai Luna.
Don’t
let me be gone.
Parte nona.
Shirabu era riuscito a fare in modo che le sue dimissioni
dall’ospedale non diventassero nulla di particolare. Aveva chiesto ai suoi
compagni di squadra di restare in Accademia; solo i suoi genitori ed Ushijima erano stati con lui quando aveva lasciato la stanza
ed aveva varcato le porte dell’ospedale per la prima volta dopo mesi. Gli
infermieri e i medici lo avevano salutato con affetto – Shirabu
aveva un po’ odiato quella cosa, il legame che in qualche modo sentivano si
fosse creato fra di loro, perché lui avrebbe voluto tagliare qualunque ponte
con quel posto, con ciò che aveva vissuto in quei mesi. Con il cancro. Lo aveva
sconfitto, era stato più forte ed ora meritava di non vedere più quel posto, di
tornare ad essere il ragazzo di prima. La sola idea di poter subire un nuovo
ricovero gli faceva venire la nausea.
Yotaro era andato via diversi giorni prima: il neurochirurgo
che lo aveva seguito aveva provato un nuovo intervento, ma anche questo non aveva
avuto l’effetto sperato e semplicemente il ragazzo aveva deciso che andava bene
così – voleva uscire, voleva riprendere la sua vita in mano e provare a fare
qualcosa di nuovo. Shirabu non lo aveva mai visto
tanto deciso e felice come la sera prima di andare via: Yotaro
lo aveva stretto a sé in un lungo abbraccio pur sapendo quanto l’alzatore poco
sopportasse il contatto fisico e Kenjirou glielo
aveva lasciato fare perché aveva capito quanto gli servisse in quel momento. Yotaro lo aveva ringraziato, senza specificare per cosa.
«Ti va se ci teniamo in contatto?», aveva chiesto poi.
A ben guardarlo, Shirabu non avrebbe saputo dire dove
fosse andato a finire il suo carattere spavaldo e canzonatorio: in quel momento
gli era sembrato quasi indifeso.
«Non avevo neanche sperato di potermi liberare di te
tanto facilmente», gli aveva risposto, prima di lasciarlo tornare nella propria
stanza.
E in effetti, nella settimana che Shirabu
era stato ancora in ospedale senza di lui, Yotaro lo
aveva chiamato in continuazione ed era stato come averlo ancora accanto – Kenjirou non lo avrebbe mai ammesso ma la sua presenza era
qualcosa di cui aveva sentito la mancanza e forse anche per questo andare via
era la sola cosa che voleva fare: niente più lo tratteneva in quel posto. Con i
suoi genitori aveva deciso che avrebbe passato il weekend a casa e dal lunedì
sarebbe tornato in Accademia per riprendere a studiare – Shirabu
era alquanto nervoso a riguardo, sebbene fosse convinto che niente sarebbe
stato peggiore dei giorni in ospedale, neanche le settimane d’inferno che
avrebbe dovuto affrontare per mettersi in pari con lo studio.
«Ti sembra strano lasciare l’ospedale?»
La madre di Kenjirou ruppe
il silenzio che era sceso nella macchina da che avevano lasciato il parcheggio.
C’era una strana atmosfera nell’aria, quasi le emozioni si fossero addensate in
essa come nuvole pesanti e difficili da dissipare.
«Mi sento leggero», rispose il ragazzo guardando
distrattamente dal finestrino la figura dei palazzi che componevano la
struttura ospedaliera.
Ushijima, seduto accanto a lui, cercò la sua mano per poi prenderla nella propria. Shirabu non si voltò subito: era un contatto a cui ormai era abituato e ci mise qualche istante a rendersi conto che la stretta del compagno era diversa dal solito, che Wakatoshi stava cercando di comunicare con lui. Normalmente gli avrebbe parlato, ma Kenjirou si rese conto che la presenza dei suoi genitori doveva averlo frenato. Nel cercare il suo sguardo, il ragazzo si accorse che Ushijima stava piangendo.
Per i primi istanti quella visione gli diede il
capogiro. Restò a fissarlo, mentre poche lacrime scendevano lungo il viso del
compagno, senza riuscire a fare o dire nulla: d’un tratto il legame aveva fuso
le loro emozioni e Shirabu si sentì trascinato nel
vortice di sollievo, gioia e terrore che Ushijima
stava provando in quel momento.
«È la prima volta che lascio davvero l’ospedale»,
disse il capitano della Shiratorizawa, il volto serio
e senza vergogna; Kenjirou capì che cosa intendeva
dire. «Scusami».
Il più piccolo scosse la testa e strinse più forte la
mano di Ushijima nella sua, senza lasciar andare i
suoi occhi per tutta la durata del viaggio. Osservò come qualche altra lacrima
seguì le prime che aveva visto finché gli occhi, lucidi, smisero di piangere,
restando arrossati; la curva delle labbra rimase tesa e dritta per tutto il
tempo, senza regalargli un sorriso nonostante sentisse chiaramente il sollievo
e la gioia che Wakatoshi stava provando. Ushijima esprimeva la confusione che entrambi provavano e
che il legame intensificava di riflesso.
«Tranquillo, Ushijima, pensiamo noi alla valigia», disse il padre di Shirabu quando furono arrivati a casa. Il ragazzo guardò l’uomo per qualche istante e quando questi ebbe annuito in sostegno delle proprie parole, fece come gli era stato detto e prese con sé, scendendo, solo la gabbietta che lui e Kenjirou avevano tenuto accanto a loro sui sedili posteriori: dentro c’era il coniglietto con cui Shirabu aveva fatto pet therapy in quei mesi. I ragazzi del volontariato avevano deciso di regalarlo all’alzatore non appena avevano saputo che era ormai abbastanza in forze da lasciare l’ospedale; Tendou aveva sghignazzato, dicendo che magari non vedevano l’ora di liberarsi di quella palla di pelo rabbiosa, ma Ushijima lo aveva trovato un gesto davvero carino e Shirabu aveva accettato di prendersene cura senza mostrare una particolare reazione alla cosa.
Stando attento a non muovere troppo la gabbietta, Wakatoshi raggiunse Kenjirou che
si stava avviando verso casa. Ad essere sincero, non aveva alcuna voglia di
allontanarsi da lui – per quanto potesse sembrare stupido, aveva l’impressione
che quello fosse il momento in cui dovesse stargli più accanto.
Quando l’alzatore ebbe aperto la porta di casa, capì
subito che qualcosa non andava. Poteva dirlo dall’odore che aleggiava nel
corridoio buio o dalla sensazione di elettricità statica che stava percependo
sulla pelle. Si mosse con una certa circospezione, stando attento a qualunque
stimolo il proprio corpo ricevesse dall’esterno e quando ebbe svoltato verso il
soggiorno, una luce improvvisa lo accecò costringendolo a stringere gli occhi
mentre, quasi nello stesso istante, fu assordato da qualcosa che all’inizio non
riuscì a definire.
«Ben tornato a casa, Shirabu!»
L’intera squadra di pallavolo della Shiratorizawa gli stava davanti, alcuni sorridendo ed accogliendolo con scroscianti applausi, mentre altri – tra cui ovviamente Tendou Satori – avevano riempito la stanza di coriandoli, sparandoli con botti assordanti. L’alzatore mosse lo sguardo da un all’altro dei suoi compagni senza sapere che cosa dire.
«Abbiamo dato le chiavi di casa a Taichi»,
spiegò la madre, ridendo ed entrando nella stanza.
«Eravate tutti d’accordo allora?». Shirabu
aveva messo su un’espressione tradita «Non vi avevo detto di non voler alcuna
cerimonia per quando sarei stato dimesso?».
«In realtà hai detto: “vedete di non presentarvi in
massa in ospedale domani, come avete fatto quando sono stato ricoverato,
intesi?” e noi non l’abbiamo fatto», spiego con un sorrisetto subdolo Taichi.
Shirabu non poteva credere che stesse usando la logica contro
di lui.
«E tu lo sapevi?», chiese rivolgendosi ad Ushijima. Il ragazzo guardò il suo compagno e poi il resto
degli amici senza essere certo di cosa poter dire - era evidentemente
colpevole.
«Via, via, non prendertela col povero Wakatoshi ora», intervenne Tendou,
gettando una delle sue lunghe braccia sulle spalle del capitano «Dopotutto,
vogliamo solo esprimere gratitudine per il tuo ritorno a casa, non vedo che
cosa ci sia di male!»
In realtà Shirabu non era
poi così seccato dalla cosa: avere lì i suoi compagni di squadra gli aveva
provocato una strana sensazione all’altezza del petto, qualcosa di caldo e
scomodo che non era certo di volere - l’irritazione che stava mostrando era il
solo modo che aveva trovato per reagire a quella sensazione. I ragazzi avevano
addobbato tutta la casa con festoni e strisce di stoffa colorate, ognuna delle
quali recava un breve messaggio e la firma di chi lo aveva scritto. Se si fosse
trattato di qualcun altro, Kenjirou avrebbe pensato a
quanto un gesto del genere fosse sdolcinato e forse patetico, ma erano per lui,
erano piccoli messaggi di sollievo ed affetto e, dannazione, la chemio doveva
averlo davvero indebolito tanto se non era capace di trattenere le lacrime mentre
li leggeva uno ad uno.
«Non sono certo di essere davvero tornato», mormorò –
ora volgeva le spalle alla maggior parte dei ragazzi e non cambiò la sua
posizione, sperando che nessuno potesse vederlo in viso.
La stanza piombò improvvisamente nel silenzio -
l’ultima volta che ne avevano sentito uno simile era stato negli spogliatoi
della palestra a Tokyo, dopo la finale contro la Karasuno. I ragazzi si
guardarono senza essere sicuri di cosa sarebbe stato meglio rispondere: era
paura quella di Shirabu? Paura di poter avere una
ricaduta, di dover essere ricoverato di nuovo? O forse…
«So che non ha alcun senso dirti di non mettere troppa
pressione su te stesso, ora che tornerai a studiare e giocare...»
Era stato Semi a parlare, più o meno nello stesso
momento in cui Ushijima s’era mosso verso il suo
compagno. Taichi, invece, che era il più vicino di
tutti a Shirabu, gli aveva bloccato un polso
stringendolo con le lunghe dita della sua mano: se l’alzatore avesse potuto
vedere l’intera scena avrebbe riso perché ingenuamente credeva ancora di essere
difficile da comprendere come persona.
«Ma noi vogliamo che tu sappia che il cancro non ti ha
tolto niente», continuò Eita.
Mi ha tolto fin troppi mesi di vita, avrebbe voluto dire Kenjirou, ma così sarebbe diventato lui quello patetico, quindi trattenne l’istinto di ribattere, cercò di essere maturo, senza però riuscire ad impedire che il suo corpo si irrigidisse visibilmente.
«Quello che Semi intende», fu Reon
ad intervenire, «È che puoi recuperare ogni cosa, tornare ad essere quello che
sei sempre stato, anche se adesso ti sembra difficile».
Solo in quel momento Shirabu
riuscì davvero a capire cosa stava provando e perché avesse insistito tanto nel
non volere lì tutti i ragazzi: aveva estremo bisogno di un po’ di tempo per sé,
di un po’ di tempo per abituarsi all’idea di dover riprendere la sua vita in
mano da dove l’aveva lasciata. Non c’era stato nient’altro che in quei mesi
avesse desiderato di più che guarire e tornare a casa, eppure adesso che lo
aveva finalmente fatto, sentiva la terra venir meno da sotto i piedi e tutto
intorno pareva un mare in tempesta mentre lui, tra le onde, si aggrappava
disperatamente ad un pezzo di legno e cercava di non affogare. La malattia
aveva messo in pausa ogni altra cosa e adesso tutto stava ricominciando in
contemporanea e troppo velocemente.
«C-certo che posso, è forse
una sfida la tua?» La voce era ancora un po’ insicura, ma le parole avevano una
carica nuova - Ushijima sorrise.
«Non oseremmo mai, Shirabu,
mai». Tendou butto entrambe le braccia sulle spalle
di Shirabu, costringendolo a girarsi verso i ragazzi
e restandogli appiccicato addosso nonostante sapesse quanto poco Kenjirou sopportasse il contatto fisico prolungato. O forse
proprio perché lo sapeva bene. «Ma sai, fa bene dirle ad alta voce certe cose,
giusto per star sicuri».
«Quindi noi siamo qui per qualunque cosa, Shirabu!» ci tenne a sottolineare Goshiki
con un grosso sorriso.
«E di preciso in cosa potresti aiutarmi tu, primino?» rispose con tono pungente Kenjirou,
beandosi dell’espressione sorpresa che comparve a quell’appunto sul volto
ingenuo di Tsutomu.
Taichi ghignò, riconoscendo in quell’atteggiamento almeno un
po’ il suo vecchio compagno di stanza.
Il resto della giornata trascorse in un clima di
tranquillità e gioia e per qualche istante a Shirabu
parve di essere tornato ad uno dei noiosi pomeriggi in Accademia, quando la
squadra si riuniva dopo gli allenamenti senza avere un piano preciso per
passare il tempo, ma lasciandosi guidare da vaghe conversazioni e la silenziosa
presenza di tutti nella stessa stanza.
Tendou aveva ovviamente monopolizzato in poco tempo
l’attenzione di tutti e approfittando della presenza dei genitori di Shirabu nella stanza aveva preso a raccontare con perizia
di particolari diversi aneddoti che riguardavano il figlio, scegliendo tra le
memorie, ovviamente, i più imbarazzanti. Shirabu
aveva cercato di fermarlo – Taichi avrebbe piuttosto
detto che aveva provato a strozzarlo – ma c’era stato davvero poco da fare
contro la vocetta divertita del centrale e dopo il
terzo racconto s’era arreso all’evidenza e lo aveva lasciato fare, sedendosi
sul divano, accanto ad Ushijima.
Ovviamente, però, Satori non
aveva trovato più divertente prendere in giro Kenjirou
se non riceveva minacce di morte o reazioni fisiche in risposta e per questo,
dopo ancora un paio di storielle, aveva cambiato soggetto dei suoi racconti,
finendo per parlare di Semi. La Shiratorizawa aveva
riso, divertita dal modo in cui Eita era diventato
prima serio e poi paonazzo, man mano che il suo compagno snocciolava aneddoti
imbarazzanti, ma la situazione si fece pericolosa quando Tendou
decise di concludere il suo spettacolo con una storia doppia.
«Poi c’è stata quella volta in cui SemiSemi è rimasto chiuso nella palestra dell’Accademia con Shirabu…» la buttò lì, con aria falsamente indifferente, ma guardando di sottecchi tanto Eita quanto Kenjirou, sperando in una loro reazione.
«No», sussurrò il compagno,
impallidendo. «Non di nuovo questa storia».
Shirabu emise un lamento, somigliando in modo terribile ad un
cerbiatto a cui un cacciatore aveva appena sparato, ma questo non dissuase Satori dal cominciare la storia con un ghigno divertito,
soprattutto perché i genitori di Kenjirou sembravano
interessati e pendevano dalle sue labbra. Shirabu
giurò che non lo avrebbe mai più fatto entrare in casa sua.
«Una sera Shirabu e Semi
avevano deciso di allentarsi e quindi-».
«Mettiamo le cose in chiaro», intervenne Eita, impettito. «Non avevamo deciso di allenarci. Io avevo deciso di migliorare il mio servizio ed ero andato in palestra, dopo cena, per provare un po’ da solo. Shirabu è arrivato poco dopo con la stessa intenzione, così… così abbiamo finito per allenarci insieme, già che c’eravamo. Ecco tutto».
«E la cosa differisce da quello che stava raccontando Tendou come, esattamente?», lo provocò Kawanishi,
soffocando una risata e guadagnandosi una brutta occhiataccia tanto da Semi
quanto da suo vecchio compagno di stanza.
«C’è tutta la differenza del mondo!» asserì infatti Shirabu, arrossendo per l’imbarazzo o forse per la rabbia.
«Ad ogni modo», riprese Tendou,
alzando di poco la voce per attirare l’attenzione nuovamente su di sé «Sappiamo
tutti quanto possano essere stakanovisti questi due e messi assieme la cosa non
può che peggiorare, ragion per cui s’era fatta notte inoltrata quando decisero
di darci un taglio e andare a dormire come qualunque altra ragionevole persona
avrebbe fatto».
«Ha parlato quello che fa jogging ogni mattina alle
sei», lo interruppe Eita, borbottando ed incrociando
le braccia al petto con fare indispettito.
«Fare attività fisica al mattino è salutare, di notte un po’ meno», sottolineò Tendou, che avrebbe davvero voluto continuare il suo racconto ma allo stesso tempo non aveva alcuna voglia di perdere il confronto col compagno.
Shirabu notò i suoi genitori scambiarsi un’occhiata ed un
sorriso, forse divertiti dal diverbio della coppia e si soffermò a pensare che
lui ed Ushijima erano completamente diversi: di
siparietti simili non ne avevano quasi mai, se si escludevano le volte in cui Wakatoshi era genuinamente confuso da una sua affermazione,
magari non del tutto chiara, e venivano allora a crearsi fraintendimenti che
all’esterno – a detta del resto della squadra – potevano risultare comici. Di
solito, erano il tipo di coppia che riusciva a stare sulla stessa lunghezza
d’onda e avendo gusti e preferenze molto simili, era più facile adeguarsi l’uno
all’altro che scontrarsi, fosse anche per gioco. Osservandolo, mentre con un
accenno di sorriso ascoltava Satori raccontare
qualcosa che conosceva bene come fosse invece la prima volta che la ascoltava, Shirabu realizzò ancora una volta quanto fosse davvero
innamorato di Wakatoshi. E stavolta quella presa di
coscienza aveva un sapore diverso: non era forzata dalla malattia, dalla paura,
dalla solitudine o dal bisogno. Era sincera, spontanea, saliva al petto come
una leggera brezza, dolce e costante, e lo accarezzava. Kenjirou
aveva tanta voglia di piangere.
«…e non li aveva visti! Il povero custode notturno aveva
chiuso la palestra, portando con sé le chiavi e lasciandoli dentro!», stava
continuando a raccontare Satori, sempre più divertito
– Shirabu si accorse che tutti stavano ridendo, chi
più e chi meno: i suoi genitori sembravano rilassati come non erano da tanto e
i ragazzi non avevano uno spirito così leggero da prima della finale.
«Il problema principale è che le palestre sono in
un’ala dell’Accademia separata dai dormitori e dalle aule, quindi i poveretti
devono aver provato a chiamare qualcuno, ma senza successo». Tendou scuoteva la testa e parlava col tono di chi racconta
una vecchia e terribile sciagura.
«E ovviamente nessuno dei due aveva portato con sé il cellulare», sospirò Semi – s’era arreso al fatto che i genitori di Shirabu dovessero conoscere quell’imbarazzante storia ed ora stava attento ad ogni parola del compagno, intervenendo dove era possibile per migliorare la situazione che quello descriveva.
«Non ci avevi mai raccontato questa cosa, Kenjirou», osservò il signor Shirabu
rivolgendosi al figlio.
«Io… non c’è nulla di interessante o importante in
questa… cosa. Non avevo motivo di annoiarvi», cercò di difendersi il ragazzo –
era stato imbarazzante essere bloccato per quasi un giorno intero in una
palestra, avrebbe solo voluto cancellare quell’esperienza.
«Alla fine come sono usciti?» chiese la madre,
avvicinandosi un po’ di più a Satori – oh, il fatto
che quei due andassero d’accordo era davvero una magnifica notizia per Shirabu.
«Alla fine», Tendou abbassò
di poco la voce, creando suspense – era dannatamente bravo quando si trattava
di attirare il pubblico, bisognava ammetterlo. «Alla fine la nostra squadra di
pallavolo aveva prenotato la palestra per le attività del club, dopo pranzo. In
mensa ci accorgemmo della loro assenza ed eravamo tutti alquanto impensieriti,
quindi chiedemmo prima a qualche compagno di classe e controllammo poi le loro
stanze. Era diventato un bel mistero!»
Shirabu poteva chiaramente vedere gli occhi di Tendou brillare e avrebbe voluto prendersi a schiaffi;
l’unica cosa positiva di quella storia era il fatto che non aveva potuto vedere
la sua reazione – e quella degli altri – alla loro presunta scomparsa.
«Come dei bravi detective cominciammo ad analizzare
gli indizi ed interrogare i testimoni e ci rendemmo conto che l’ultima volta
che la maggior parte dei ragazzi li avevano visti era stato la sera prima, a
cena; poi il nulla. Le migliori storie horror o thriller cominciano proprio in
questo modo e noi eravamo sempre più esaltati! Poi, d’improvviso,
l’illuminazione!» Satori scattò in piedi, facendo
sussultare tutti ed indicò Kawanishi con entrambe le
mani, spostando su di lui l’attenzione. «Taichi ci
disse che Shirabu la sera prima aveva lasciato la
stanza, dopo aver finito di studiare, per allenarsi un po’ e che quella
mattina, quando s’era svegliato, non lo aveva trovato in camera. Sappiamo tutti
com’è fatto il nostro Taichi, non s’era impensierito,
e del resto Shirabu avrebbe potuto tranquillamente
essersi alzato presto per studiare, quindi fino a pranzo gli era anche passato
di mente di controllare dove fosse!»
A differenza dell’alzatore, Kawanishi
non sembrava essere a disagio ora che era diventato l’improvviso centro del discorso,
ma anzi guardava tutti con un sorrisetto divertito, quasi lo avesse fatto di
proposito a dimenticare Shirabu o a non dir da subito
che sapeva dove sarebbe potuto essere. E forse era così.
«La palestra apparve da subito la migliore delle
ipotesi, quindi Wakatoshi chiese al custode le chiavi
di quella che avremmo dovuto usare qualche ora dopo e lì, uno spettacolo da
togliere il fiato! Shirabu e Semi, addormentati l’uno
accanto all’altro, con Kenjirou che teneva la testa
appoggiata alla spalla di Eita per stare più comodo.
Penso che siamo rimasti a fissare quel miracolo per diversi minuti». Tendou era esaltato, non s’era più seduto ma in piedi ora
gesticolava come un predicatore.
«No, no, anche di più!» aggiunse Hayato con uno slancio entusiasta, «Erano così carini!» e si mise a trafficare con il proprio cellulare, fino ad arrivare ad una vecchia foto che, appunto, ritraeva i due ragazzi candidamente addormentati, per mostrarla ai genitori di Shirabu. I due ragazzi in questione impallidirono.
«Credevo avessimo distrutto tutte le prove di quella
scena!» strillò Kenjirou, provando a lanciarsi verso
il cellulare di Hayato ma con poco successo, mentre
Semi si prendeva il volto tra le mani, sconfortato e mormorando qualcosa che fu
difficile distinguere.
«Eravamo solo stanchi ed affamati, ci siamo
addormentati per la disperazione», mormorò poi Eita,
cercando di giustificarsi – ricordava perfettamente l’angosciante
consapevolezza che lo aveva pervaso quando aveva capito di dover almeno
aspettare il giorno dopo per uscire: lui e Semi avevano trascorso l’intera
notte alternando momenti di isteria a tentativi di farsi sentire da qualcuno
per uscire rassegnandosi all’evidenza solo la mattina seguente, dal momento
che, in ogni caso, nessuno sarebbe passato dalle palestre prima del pomeriggio.
«Nessuno vi sta giudicando, ragazzi», intervenne Ushijima, che fino a quel momento aveva semplicemente
ascoltato il racconto «Non deve essere stata una piacevole esperienza: le
palestre non sono fatte per restarci chiusi dentro», osservò - Tendou rise.
«Già, già», concordò «Come gli ascensori del resto -
ricordate quella volta al centro commerciale in cui io e Wakatoshi
siamo rimasti bloccati per più di un’ora in uno degli ascensori? La calma con
cui Wakatoshi ha aspettato che venissero a liberarci
è stata provvidenziale, non ho mai visto qualcosa reagire in un modo simile ad
una situazione tanto scomoda!»
Gli aneddoti di Satori erano
durati ancora qualche ora, ma Shirabu era riuscito a
svincolarsi prima, dicendo di essere stanco e salutando tutti con la promessa
di sentirsi il giorno dopo. Il ragazzo era salito su nella propria stanza e
trovarsi di nuovo lì dopo mesi gli aveva provocato una strana sensazione
all’altezza dello stomaco. Guardò la propria scrivania, occupata in modo casuale
da qualche libro come se l’avesse usata il giorno prima, e poi il letto,
ordinato e morbido come lo aveva lasciato. Nulla in quella stanza sembrava
suggerire che era stata vuota per svariati mesi, nulla sapeva di malattia o
sospensione e Kenjirou fu felice di avvertire quel
senso di familiarità - credeva di averlo perso anche con le proprie cose, con i
più piccoli dettagli, e invece tutto in quelle mura gli trasmetteva calore.
Si sedette sul copriletto fresco e sospirò,
accarezzandolo: faceva caso, ora, a cosa che prima non avrebbe visto. Si
accorgeva, ad esempio, di come la stanza fosse luminosa, grazie alla grossa
finestra, anche quando le luci erano spente e fuori ormai era scesa la sera; o
di come i rumori della strada giungessero a lui lontani, cosa che gli aveva
sempre permesso di studiare con tranquillità. La gabbietta in cui stava Kutasagi era adagiata su un mobiletto basso e Shirabu faceva fatica a ricordare se prima ci fosse altro
lì sopra, se Ushijima, salendo in camera, avesse
spostato qualcosa - magari altri libri - per poterla appoggiare lì. Il
coniglietto, in ogni caso, doveva essersi addormentato, perché Shirabu non sentiva provenire da lì alcun rumore.
«È permesso?»
La voce di Ushijima fece
scattare gli occhi di Shirabu verso la porta
socchiusa, dietro la quale la grossa figura del ragazzo era comunque visibile.
«Certo, entra pure», gli disse, senza alzarsi dal
letto, ma aspettando che fosse Wakatoshi a
raggiungerlo.
«Come ti senti?»
Kenjirou s’era sentito rivolgere quella domanda fin troppe
volte per l’età che aveva, eppure quella fu la prima volta in cui non gli diede
fastidio. Perché sembrò naturale: Ushijima era in
camera sua e gli aveva semplicemente chiesto come stesse, in una serata
qualunque – non c’era odore di disinfettante nell’aria e Kenjirou
non aveva un braccio bloccato dalla flebo o il viso coperto dalla mascherina
dell’ossigeno. Era libero, libero di rispondere che ora stava bene.
«So che sei spaventato – chiunque sarebbe spaventato a
questo punto», aveva ripreso a parlare Wakatoshi «Ma
non sei solo, davvero. E sei forte, forte abbastanza da battere il cancro:
recuperare lo studio sarà-».
Kenjirou non lo aveva lasciato proseguire oltre, ma lo aveva
baciato con una forza ed un trasporto che non provava da mesi, che forse non
aveva mai provato. Le labbra premettero su quelle del compagno con passione,
finché le altre non si schiusero, lasciandolo entrare - Ushijima
poteva sentire ciò che provava Shirabu e strinse con
le proprie braccia la sua schiena, accarezzandola con gentilezza. Come facesse
a rispondere con tanta dolcezza all’impeto invece così forte di Kenjirou restava un mistero, l’equilibrio su cui si fondava
la loro relazione. Il Capitano gli lasciò fare ciò che più voleva e si adeguò
alle sue direttiva quando Shirabu lo spinse con una
mano, facendolo stendere sul letto e guardandolo dall’alto. Per qualche
istante, tutto quello che contava per Kenjirou era
avere Wakatoshi davanti a sé, tra le sue braccia,
sentire il suo calore così vicino - il resto spariva, non esistevano paure o
dubbi, il mondo fuori da quella stanza non aveva alcuna importanza.
Lo baciò ancora, restando in comando, riappropriandosi dell’atmosfera intima e personale che la loro storia aveva sempre avuto e che per mesi aveva sentito violata dalla malattia, dagli altri, dalla sua stessa debolezza - Ushijima aveva avuto paura di ferirlo, gli era parso che lo toccasse con sempre maggiore distacco e preoccupazione, come qualcosa di fragile e freddo. Adesso, invece, il tocco che sentiva sotto la sua camicia, lungo la schiena, era caldo e intimo, solo suo. C’erano solo loro nella stanza.
«Avevo paura di aver dimenticato come ci si sentisse
ad essere stretto da te», sussurrò, appoggiandosi con la testa sul petto di Wakatoshi. Questi di riflesso lo strinse di nuovo,
lasciandosi andare, premendo di più, osando.
«Ci riabitueremo anche a questo, Kenjirou», mormorò. Non erano mai stati estremamente passionali come coppia, Ushijima lo sapeva, se ne rendeva conto guardando gli altri, guardando Semi e Tendou; ma a loro stava bene così: se Shirabu gli avesse chiesto di più, lui non lo avrebbe deluso, ma la verità era che tenerlo fra le proprie braccia, sentirlo sulla propria pelle come in quel momento, vivo, era la più profonda delle esperienze a cui Wakatoshi potesse aspirare.
Restarono in silenzio per un po’, senza pensare,
vivendo attimo dopo attimo, lasciandosi trasportare dagli istanti. Non avevano
fretta, non avevano foga, non c’era nulla che li pressava a fare o dire
qualcosa - la possibilità di sospendere tutto era quasi nuova e ne godettero
appieno.
«Grazie», sussurrò ad un certo punto Shirabu.
«Per cosa?», chiede Wakatoshi,
con lo stesso tono di voce basso.
«Per non aver permesso che sparissi. Per non avermi
lasciato andar via».
***
Oikawa trovava quella situazione estremamente ironica: se
gli avessero detto che prima di diplomarsi sarebbe entrato di sua spontanea
volontà all’interno dell’Accademia della Shiratorizawa,
avrebbe riso di gusto, screditando il malcapitato con qualche battuta cattiva,
eppure era davvero lì che si trovava in quel momento, mentre percorreva il
vialone alberato che faceva da ingresso al complesso di palazzi della scuola.
Ci aveva messo del tempo per decidersi ad andare e più
volte era stato sul punto di rimandare quella visita ai lunedì successivi, ma
alla fine aveva smesso di pensarci e s’era semplicemente mosso, avvisando Hajime e chiedendogli poi se avrebbe potuto passare la
serata da lui. Avvisare Shirabu Kenjirou,
invece, era stata tutt’altra storia: mentre camminava verso l’accademia aveva
preso e posato più volte il cellulare, prima di raggiungere un compromesso con
se stesso. Aveva rinunciato a chiamare l’alzatore della Shiratorizawa
ed aveva sviato il nervosismo su un messaggio, conciso e diretto. Il ragazzo
non lo aveva fatto aspettare più di un paio di minuto per la risposta e
fortunatamente Oikawa non era dovuto tornare
indietro.
Ora che si avvicinava alle palestre, Tooru cominciava a sentire il nervosismo pizzicargli la pelle ed indispettirlo: che cosa aveva da dire, poi, a Shirabu? C’era davvero bisogno di parlargli, avevano un conto in sospeso loro due? Quella mattina gli era parsa una buona idea e anche Iwaizumi era stato d’accordo: dopotutto, l’ultima volta in cui s’erano visti non era stato propriamente cortese e gentile con lui e da allora l’Asso della Seijou gli aveva detto più volte che sarebbe stato il caso di parlarsi e chiarire, chiudere quella faccenda; eppure, più si avvicinava al momento in cui doveva vedere l’alzatore, più Oikawa cominciava a pensare che non c’era nulla da chiarire, che quella era una premura inutile.
Tooru vide Shirabu da lontano,
senza essere a sua volta visto - non lo conosceva così bene da poterne essere
sicuro, ma dall’ultima volta che lo aveva visto in salute, alla finale di
Tokyo, sembrava dimagrito molto; la cura che aveva seguito in ospedale aveva
risparmiato i suoi capelli, ma ora appariva più gracile e piccino, pronto a
spezzarsi alla prima pressione. Il ragazzo della Seijou
si chiese se potesse giocare ancora, se avesse la forza per resistere almeno un
set. Era triste, pensò, perché nonostante avesse sconfitto la malattia -
Sugawara lo aveva tenuto aggiornato - la sua vita era comunque cambiata e
quell’esperienza, in un modo o nell’altro, lo aveva segnato e lo avrebbe
condizionato per sempre. Ora si rendeva conto che per quanto fosse difficile la
sua condizione, essa non era affatto paragonabile a ciò che aveva affrontato e
affrontava tuttora Shirabu. Capì perché doveva
parlargli.
«Quindi sei riuscito ad entrare», gli disse l’alzatore
della Shiratorizawa non appena lo vide.
«Avrei dovuto avere problemi?» rispose Tooru con un sorrisetto.
«La sicurezza qui in Accademia è molto severa».
«Per me fanno tutti un’eccezione».
Oikawa sorrise ancora e Shirabu
fece una smorfia che gli ricordò quella che solitamente aveva Iwaizumi prima di dirgli qualcosa di davvero poco carino;
il ragazzo che aveva davanti, ad ogni modo, non disse nulla e si sedette poco
distante da dove s’erano incontrati, su di un muretto basso che faceva da
ornamento ad un’aiuola. Tooru lo seguì e si appoggiò
poco lontano da lui; se guardava davanti a sé, poteva scorgere dalla porta
aperta la squadra di pallacanestro che si allenava.
«Perché sei voluto venire?»
«Volevo spiare i vostri allenamenti, in realtà, e mi
serviva un modo per entrare. Mi sembrava un buon regalo da fare ai miei kohai prima di lasciarsi definitivamente».
Shirabu lo guardò, voltandosi lentamente verso di lui e Oikawa non avrebbe saputo dire se fosse divertito o seccato
dalla sua uscita. Che domanda era? Sapevano entrambi perché aveva chiesto di
vederlo – voleva umiliarlo così tanto da farglielo ammettere?
«Allora hai sbagliato orario. Oggi abbiamo allenamenti
dalle 5, adesso è presto», disse l’alzatore senza una particolare inflessione
della voce. «Tu invece so che batti la fiacca i lunedì».
«Appassionato di gossip? O forse è Ushijima ad essere ancora fissato con me?»
Shirabu incassò il colpo senza aggiungere altro e smise di
guardare Oikawa. Il ragazzo della Seijou
si morse la lingua, evidentemente consapevole che quello non era il modo in cui
un discorso di scuse avrebbe dovuto cominciare. C’era qualcosa in Shirabu che puntualmente lo faceva scattare, forse la posizione
che condividevano o il fatto che la Seijou non era
riuscita mai ad arrivare ai Nazionali a causa della Shiratorizawa;
non sapeva trattenersi in sua presenza. Sospirò e decise di riprovarci.
«Non volevo… scusami», mormorò, con un tono di voce
più basso e lento «E… non avrei dovuto parlarti così neanche l’ultima volta che
ci siamo visti, in ospedale. Io...».
«Il tuo ragazzo ci ha già posto le tue scuse, lo
sapevi?»
Tooru sorrise – Shirabu era ancora
arrabbiato e nonostante lui avesse deciso di non rispondere più d’istinto, a
quanto pareva l’altro ragazzo non era dello stesso avviso.
«Iwaizumi fa spesso le cose
al posto mio, ma sto imparando a stare in piedi con le mie gambe. Quindi ti porgo
le mie scuse».
Shirabu tornò a guardarlo; lo fissò negli occhi per qualche
istante, finché Oikawa non si sentì a disagio, messo
a nudo da quegli occhi che parevano volergli scavare nell’anima e cercare
risposte a domande che nessuno aveva posto.
«Ti sei ripreso?» gli chiese alla fine Kenjirou, con sorpresa dell’altro: non poteva essere una
domanda di sincera preoccupazione, non avrebbe avuto senso.
«Sto meglio, sì», risposte l’alzatore, dopo averci
riflettuto per qualche istante. Erano stati dei mesi difficili, ma, se si
fermava a pensarci, poteva dire di aver fatto passi in avanti, di stare bene
per la prima volta dopo molto tempo. «Ho capito che ci sono cose che non posso
controllare e che per quanto mi sforzi non tutto può andare nel modo perfetto
che avevo immaginato. Posso pestare i piedi a terra e prendermela con me stesso
e chi mi sta intorno, anche se la colpa non è di nessuno, o posso provare a
trarre il meglio dalle situazioni».
«Insomma, stai rinunciando a combattere?» Shirabu pareva interessato ed Oikawa
soppesò bene la risposta da dare – stava rinunciando?
«No, non direi questo. Sto… imparando a lasciar
andare. Trattenere tutto il dolore dentro, tormentarsi senza fine e senza
risultato… l’ho fatto per tanto tempo e ho finito solo per cadere più in basso,
ferendo Iwaizumi. Non avrò mai un legame con lui,
devo accettarlo, ma questo non mi impedisce di stare con lui, di amarlo. Ci
sono ancora momenti in cui ogni cosa sembra crollarmi addosso, ma dopo l’ultima
volta...». Oikawa si massaggiò d’istinto il
ginocchio: dopo essere stato male, la sera in cui aveva spaventato a morte Hajime, l’allenatore lo aveva costretto ad un fermo di sei
settimane e il ragazzo aveva ripreso ad allenarsi da pochissimo. Aveva avuto
tempo per riflettere, per cercare un equilibrio da cui poter ripartire. Si era
impegnato a parlare spesso col suo ragazzo, tutte le volte in cui stava male, e
a compensare ogni pensiero negativo con un ricordo positivo – lentamente, stava
imparando ad accettare la situazione in cui viveva, dal momento che non poteva
fare nulla per cambiarla.
«Dopo l’ultima volta», riprese a parlare «Ho toccato
il fondo ed ora voglio solo riemergere».
Tooru aveva incontrato Kageyama diverse volte. In alcune
occasioni era rimasto con lui e Hajime, camminando e
conversando, magari anche in compagnia di Hinata Shouyou; in altre aveva solo
accompagnato il suo ragazzo e poi aveva fatto una deviazione, passando per
negozi, facendo shopping e distraendosi un po’. Ignorare la presenza del
ragazzo con cui Iwaizumi aveva il legame non gli era
stato d’aiuto fino a quel momento: fingere che non esistesse lo aveva fatto
solo stare peggio, soprattutto da quando aveva scoperto fino a che punto Tobio poteva sentire Hajime; per
questo era passato ad un approccio completamente diverso: Kageyama esisteva ed
era parte di Iwaizumi e lui di Iwaizumi
stava imparando ad amare tutto.
La prima volta che era stato di nuovo con Hajime aveva avuto paura. Tutto gli era sembrato forzato, i commenti del ragazzo, i loro movimenti, quei baci dati senza arrivare fino in fondo. S’erano fermati ancor prima di togliersi i pantaloni ed erano rimasti per diverso tempo seduti sul letto, Oikawa con la testa fra le mani e Iwaizumi con lo sguardo fisso sul pavimento. Poi Tooru aveva guardato Hajime, lo aveva visto fragile ed incurvato e per una volta aveva fatto lui un passo in avanti. Lo aveva stretto, baciandogli il collo, sussurrandogli di riprovarci e lasciare fuori ogni cosa. L’amore e l’interesse, la preoccupazione per il suo ragazzo avevano fatto sparire tutti gli altri pensieri ed ogni senso in Oikawa aveva abbracciato l’attimo che stava vivendo con Iwaizumi. Nel piccolo spazio che s’erano ritagliati avevano trovato un modo per andare avanti.
«Mi fa piacere».
Tooru guardò Shirabu: qualcosa
nei suoi occhi s’era adombrato, facendo sembrare più torbido il colore naturale
delle iridi.
«A me fa piacere che tu sia di nuovo a scuola.
Significa che stai meglio, no?» Kenjirou annuì,
accennando un sorriso.
«Sono tornato un paio di settimane fa e da qualche
giorno ho ripreso anche gli allenamenti».
Tooru fu in qualche modo sollevato da quella notizia: aveva
pensato spesso a Shirabu dal giorno in cui avevano
litigato e quando era stato un po’ meglio il senso di colpa per quello che gli
aveva detto lo aveva tormentato; il suo lato melodrammatico gli aveva
addirittura fatto pensare che quelle sarebbero potute essere le ultime parole
che aveva rivolto a Shirabu.
«Bene. E anche Ushijima sta
meglio?»
Kenjirou lo fissò con un’espressione sorpresa per qualche
istante prima di annuire ed Oikawa non riuscì a
capire a cosa fosse dovuta quella reazione: certo, lui ed Ushijima
non avevano il migliore dei rapporti possibili – soprattutto perché Oikawa era ancora offeso dal fatto che il ragazzo
considerasse di poco valore la sua squadra – ma era chiaro che l’ultima volta Shirabu si fosse arrabbiato soprattutto perché Ushijima stava soffrendo a causa della sua malattia, quindi
gli era parso un minimo cortese chiedere anche di lui. Tuttavia, dopo quella
domanda rimasero entrambi in silenzio per un po’, finché Oikawa
non decise che fosse arrivato il momento di andare via.
«Oikawa», si sentì chiamare
dopo aver già mosso qualche passo verso il viale d’entrata dell’Accademia. Si
voltò, aspettando che l’altro continuasse.
«Per sdebitarti della tua scortesia e mancanza di
tatto, avresti voglia di accettare una mia richiesta?» domandò Shirabu con un piccolo sorriso intrigante sulle labbra.
Shirabu non lo aveva mai detto a nessuno, ma gli spogliatoi
avevano in qualche modo il potere di rilassarlo. Tutto pareva restare sigillato
al di fuori di essi: la folla che li acclamava, la frenesia del campo,
l’agitazione e l’adrenalina della sfida, ogni cosa entrava in pausa per tutto
il tempo in cui lui restava negli spogliatoi e il giovane alzatore poteva
prendersi qualche istante per pensare in maniera rilassata, senza la pressione
del gioco, senza il costante pensiero di dover essere perfetto.
«È ora, Shirabu», si sentì
chiamare dal Ushijima.
L'ansia che sentiva in quel momento era forse ancora più grande dell'ultima volta in cui aveva giocato e Kenjirou, alzandosi per seguire il capitano, provò a ripetersi che non doveva preoccuparsi, che si trattava solo di un’amichevole e che, in ogni caso, era andato abbastanza bene negli ultimi allenamenti, quindi sarebbe andato bene anche adesso. Eppure, non poteva smettere di pensare al fatto che quella era la prima partita che disputava da quando era tornato, la prima che avesse davvero valore e non fosse soltanto una prova tra i membri della Shiratorizawa. E sebbene ufficialmente fosse soltanto un’amichevole, avere davanti l’Aoba Johsai non era mai davvero soltanto un’amichevole.
Cerca di ricomporti, si disse, reprimendo l’istinto di schiaffeggiarsi il viso per darsi un contegno solo perché poteva sentire chiaramente lo sguardo di tutta la squadra addosso. Sei stato tu a proporre questo incontro.
Lo aveva fatto per se stesso, per poter disputare una partita vera, che gli facesse realizzare senza alcuna mediazione quanta strada aveva ancora da percorrere per tornare alla sua forma ideale. Ormai era un mese che si allenava con gli altri e le ultimi analisi che aveva fatto in ospedale mostravano dei buoni segni di ripresa, eppure Kenjirou si sentiva ancora fuori fase: era troppo lento, troppo impreciso e meno ricettivo rispetto a prima della malattia e doveva mettercela tutta per tornare a quello stato nel minor tempo possibile o sarebbe stato sempre più difficile. Una partita contro Oikawa Tooru era l’ideale per mettersi alla prova.
«Shirabu, entrerai in campo
nel primo set», disse Washijou, guardando il ragazzo
«A seconda del tuo rendimento decideremo quanto tempo giocherai».
Kenjirou represse un sospiro e cercò di apparire quanto più serio e concentrato – si stava rendendo conto, in quel momento, che per lui quella partita non sarebbe mai stata un’amichevole, a prescindere dall’avversario che avrebbero affrontato: il coach lo teneva d’occhio, i suoi compagni lo tenevano d’occhio. Tutti volevano accertarsi del suo stato e checché ne avrebbero detto poi, se non fosse stato perfetto non sarebbe stato sufficiente.
Irrigidì tutto il corpo per paura di tremare e prese a
fare riscaldamento nella metà campo occupata dalla Shiratorizawa,
cercando di non pensare a nulla, di tenere la mente quanto più libera possibile
e farsi solo guidare dal gioco. Sentiva qualcosa all’altezza dello stomaco, che
lo agitava e cercò di spingerlo quanto più in basso possibile, fino a
sommergerlo e dimenticarsene.
«Sai che se stramazzerai al suolo, Semi se la prenderà
con tutti quanti, vero?», gli disse Kawanishi, prima
di schiacciare con forza l’alzata precisa del compagno di stanza.
«Non stramazzerò al suolo, Taichi», rispose quello, seccato e stava per aggiungere qualcosa, quando Kawanishi gli si avvicinò con cipiglio serio, fino a quasi annullare la distanza fra i loro volti, bloccandolo col suo sguardo. Restarono così per qualche istante e a Shirabu morirono le parole in bocca: con Taichi aveva gli scontri che Ushijima solitamente attenuava; lui era muro dove Wakatoshi sarebbe stato soffice cuscino e Kenjirou sbatteva contro il primo per poi atterrare sull’altro. Ushijima gli aveva ripetuto più volte di non strafare, ma rispettava la sua tenacia e la sua ferrea volontà di migliorare, pronto a prenderlo se fosse caduto. Kawanishi avrebbe costruito un muro pur di non far superare a Shirabu certi limiti – non aveva alcuna paura di vederlo sbatterci contro.
«Starò attento», borbottò l’alzatore, quando l’amico
l’ebbe lasciato libero.
«Sarà meglio», concluse l’altro.
Shirabu notò che anche Ushijima non
lo stava perdendo di vista: nel suo modo pacato, che dall’esterno poteva
apparire distaccato, il capitano faceva costantemente attenzione a dove fosse
l’alzatore, a cosa stesse facendo, all’espressione che aveva sul viso e
attraverso il legame, cercava di capire come si sentisse davvero. Non era
invadente - Kenjirou sapeva che sarebbe stata
l’ultima cosa che Wakatoshi avrebbe fatto - ma una
costante e ferma presenza.
Yotaro arrivò quando la partita stava ormai per cominciare. Shirabu avrebbe mentito se avesse detto che non era contento, eppure una parte di lui non se lo aspettava, soprattutto perché ad informare il ragazzo di quell’amichevole era stato Ushijima. Quando si erano salutati, prima delle dimissioni, s’erano ripromessi di sentirsi spesso, ma da quando Shirabu era tornato a scuola e poi ad allenarsi, le telefonare s’erano fatte sempre più rade e brevi. A vederlo lì, l’alzatore sentì il senso di colpa bruciargli la pelle.
«Mi spiace, sono in ritardo», lo sentì dire, mentre
gli si avvicinava: tutta la squadra ormai lo conosceva ed era accorsa a
salutarlo.
«Ma no, che dici, sei giusto in tempo!» lo rassicurò Tendou, con qualche pacca sulla spalla.
Shirabu non disse nulla, aspettando che gli altri finissero
di salutarlo e tornassero ad allenarsi. Ushijima
restò qualche istante in più, incuriosito dal comportamento del compagno, ma bastò che guardasse Kenjirou negli occhi per capire. Gli sfiorò i capelli prima
di tornare dagli altri.
«Mi hanno detto che sei così impegnato da dover far
fare ad altri le telefonate per te», esclamò Yotaro
quando furono rimasti da soli. Shirabu non si chiese
come facesse a sapere che era proprio lui ad essere rimasto lì fermo: era stato
il solo a non rivolgergli ancora la parola – era evidente.
«Non volevo- Wakatoshi ha
semplicemente detto…».
«So cosa ha detto Wakatoshi, ma mi aspettavo fossi
tu a parlarmene… La tua vita deve essere molto impegnata al momento, se non
trovi neanche il tempo per una telefonata veloce».
Shirabu non voleva sentirsi in colpa: non l’aveva fatto di
proposito, non voleva di certo perdere i contatti con Yotaro
– era davvero stato impegnato, impegnato a tal punto da crollare la sera, a tal
punto da dubitare di farcela alle volte; si stancava così facilmente, aveva
sempre più bisogno di dormire e il fiato di tanto in tanto ancora gli mancava,
come prima del ricovero.
«Io- Yotaro, ascolta, io-».
Prima che potesse parlare, il ragazzo davanti a lui
ruppe in una sonora risata. Shirabu lo guardò con
espressione a dir poco sconvolta.
«Oh, è per momenti del genere che rimpiango la mia
vista! Pagherei per poter vedere che faccia hai fatto in questo momento!» disse
il violinista, piegandosi in avanti per le risate «Dalla voce sembravi sull’orlo
delle lacrime!»
Kenjirou non riusciva a credere di esserci cascato: aveva
davvero pensato che l’altro fosse arrabbiato con lui, perché del resto aveva
tutte le ragioni per farlo. Avvampò per l’imbarazzo e il fastidio.
«Scusami, scusami davvero ma non ho resistito allo
scherzo». Yotaro era finalmente riuscito a smettere
di ridere. «Non darti pensieri! Sono praticamente in contatto con tutti i tuoi
compagni di squadra, so benissimo che sei stato sommerso dalle cose da fare in
queste settimane!»
«Non sei affatto divertente», borbottò seccato Shirabu – odiava sentirsi tanto sollevato e odiava ancora
di più il fatto che a Yotaro non fosse sfuggito. Per
essere cieco sapeva fin troppe cose.
«Un po’ sì, invece. Ma giuro che ho finito, sono qui
soltanto per sostenerti e godermi la partita! Sai che non ne ho mai sentita
una? I tuoi compagni mi permetteranno di stare con voi in panchina, sono
emozionato!»
Shirabu si chiese ingenuamente come dovesse essere una
partita senza immagini: di tanto in tanto sentiva di giocatori – soprattutto
schiacciatori – che provavano a sentire piuttosto che vedere l’alzata, per
coordinarsi con essa in modo istintivo, ma era qualcosa in cui non aveva mai
creduto davvero e che comunque non portava a grossi risultati. La pallavolo era
questione di attimi, il gioco era velocissimo e gli occhi facevano la gran
parte del lavoro – sebbene alle volte il corpo reagisse ancor prima di essi.
Sentirla, da fuori il campo, poteva essere estremamente confusionario.
Ogni pensiero svanì, ad ogni modo, col fischio che
diede inizio al primo set. L’alzatore, così come ogni altro giocatore di
entrambe le squadre, non ebbe altro pensiero se non quello di tenere la palla
in aria e fare punto. Era diverso dagli allenamenti che aveva sostenuto fino a
quel momento – Shirabu se ne rese conto dai primi
punti: il ritmo era più serrato, le azioni più aggressive; il fiato gli mancava
più spesso e la testa sembrava quasi non riuscire a seguire il gioco. Come
aveva fatto fino a quel momento? Com’era riuscito a sostenere tutto fino a quel
momento, fino a prima della malattia?
Kenjirou cercò di non andare nel panico. Era l’alzatore
ufficiale della Shiratorizawa, non poteva
permetterselo, non in una partita contro l’Aoba Johsai. Sapeva cosa doveva fare quando si sentiva più stanco:
giocate semplici e lasciare che a concludere fossero gli schiacciatori, Ushijima innanzitutto. Eppure le braccia pesavano, la palla
sembrava quella da basket e Shirabu sentiva i polmoni
bruciare.
Il primo time-out tecnico sembrò arrivare dopo secoli,
sul risultato di 8 a 7 per la Shiratorizawa. Nessuna
delle due squadre aveva intenzione di mollare: quella era la finale che l’Aoba non aveva avuto a causa della Karasuno. Kenjirou bevve avidamente e gli sembrò di essere tornato
alle settimane prima del ricovero – cercò di ricordare che, a differenza di
quella volta, ora stava guarendo; che quella di adesso era una risalita. Il
coach parlò velocemente, incoraggiò gli schiacciatori e mise in guardia i
difensori ed il libero: il prossimo in battuta sarebbe stato Oikawa Tooru.
Intanto, Yotaro era riuscito
a spostarsi dalla panchina alla zona di riscaldamento, restando accanto a Semi,
che guardava la partita senza proferire parola. Stava cominciando a capire come
funzionava il gioco e ad isolare i rumori importanti da quelli di sottofondo,
come lo stridio incessante delle scarpe sul parquet del campo.
All’inizio era stato un caos di rumori che,
d’improvviso, culminava con un’esultanza e Yotaro si
ritrovava sempre a comprendere in ritardo ciò che era successo. Col tempo, poi,
aveva preso a distinguere i rumori della palla: la battuta e la ricezione
emettevano due colpi secchi, l’alzata era appena un fruscio, accompagnato dallo
stridere delle scarpe che andavano sotto rete, la conclusione di nuovo un suono
secco; a quello poi poteva seguirne uno finale, il punto, o una nuova ricezione
che ripeteva il ciclo di colpi. Le volte in cui la ricezione andava male
passava più tempo tra un suono e l’altro e il fischio dell’arbitro segnalava il
punto, mentre gli ace o i tocchi di seconda erano facili da individuare perché
interrompevano il ritmo abituale. Alla fine del primo set, poteva dire di
riuscire a cavarsela abbastanza bene.
La sola difficoltà che continuava ad avere il ragazzo
era tenere il conto dei punti e comprendere quindi chi cominciava l’azione;
quando perdeva il ritmo e cominciava a confondere i rumori – e le azioni molto
lunghe di quella partita non lo aiutavano – era costretto ad aspettare il punto
e sentire chi esultava per esso. Di tanto in tanto, poi, aveva dovuto chiedere il
risultato così da poter cominciare da capo.
«Che ne pensi?» gli chiese Tendou,
appena uscito dal campo per una sostituzione.
«È elettrizzante! Non credevo che gli scambi di gioco
potessero essere tanto veloci e brevi, non posso distrarmi neanche un istante
se voglio sapere che cosa sta succedendo!»
«Questo è il bello del gioco! E, credimi, funziona
allo stesso modo anche per noi che possiamo vedere la palla!»
«Come se la sta cavando Shirabu?»
Un’altra pecca che Yotaro aveva individuato nel suo
sistema era il non poter distinguere i giocatori – spesso riusciva a capire che
era Ushijima a far punto, ma il resto della squadra,
soprattutto nel momento della ricezione e dell’alzata, restava un unico
elemento, indivisibile alle sue orecchie.
«Sta andando davvero bene, considerate le sue
condizioni. Regge il gioco, non ha fatto errori e le sue alzate sono precise
come sempre! Credo che il coach voglia capire quale sia la sua resistenza
attuale, lasciandolo in campo anche per questo set», rispose Tendou, con accuratezza.
«Spero che valuti anche la sua salute», mormorò Semi,
che aveva ascoltato la conversazione in silenzio «Perché l’Aoba
è uno degli avversari più forti che abbiamo mai affrontato e non credo che Shirabu possa reggere oltre il secondo set».
«Tranquillo, entrambi sanno quello che fanno», cercò
di rassicurarlo Satori, ma il sospiro dell’altro rese
evidente quanto fossero poco convincenti quelle parole.
Era passato solo qualche scambio - due punti segnati
dall’Aoba ed uno dalla Shiratorizawa
- quando Yotaro sentì Tendou,
ancora accanto a lui, trarre il fiato quasi nello stesso momento in cui il
rumore della palla colpì il pavimento liscio del campo. Un brivido attraversò
la schiena del ragazzo: cos’era successo? Sentiva solo silenzio intorno a lui e
il primo pensiero corse a Shirabu: s’era sentito
male? Ma se fosse caduto al suolo lo avrebbe sentito, giusto?
«Cosa...?» riuscì a chiedere in un sussurro.
«Ha sbagliato», mormorò Semi «Ushijima
ha mancato l’alzata di Shirabu».
Se fosse stata una qualunque azione di una qualunque
squadra, nessuno sarebbe stato tanto turbato da un’azione sbagliata, eppure ora
l’intera Shiratorizawa sembrava congelata da qualcosa
che era successo solo di rado, agli inizi, e mai in una partita. Semplicemente,
Ushijima e Shirabu erano
troppo coordinati per sbagliare.
«Non va bene», mormorò Tendou
e Yotaro poté distinguere chiaramente il tono serio
della sua voce, che mai prima d’ora aveva sentito.
«Credete che Kenjirou stia
male?» Il ragazzo sentiva il nervosismo stringergli il petto: non aveva sentito
nulla, non aveva sentito nulla, non aveva-
«È questo il punto: non credo sia stato un errore di Shirabu», aggiunse Semi, disorientando Yotaro:
se non era stato Kenjirou a sbagliare, allora…?
«Stanno riprendendo il gioco», lo informò poi,
lasciando cadere l’argomento, ma il ragazzo non fu in grado di seguire il resto
della partita con la stessa attenzione. Aveva come l’impressione che da quell’errore
l’intera squadra fosse caduta in uno strano silenzio, fatto di tensione e
freddezza; anche nei set successivi, quando Semi sostituì Shirabu
in campo e Kenjirou si sedette accanto a lui,
commentando la partita, Yotaro non riuscì a non
avvertire un certo disagio scivolargli addosso facendolo sentire a disagio e
fuori posto. Non successe nient’altro di strano, la squadra fu impeccabile per
il resto della partita a detta del coach e persino Shirabu
non sembrava avere troppe critiche da fare a se stesso - eppure qualcosa s’era
spezzato.
«Yotaro è andato via?»
Shirabu annuì, sedendosi su una delle panche, nella grossa
stanza degli spogliatoi, poco lontano da Ushijima.
«Suo fratello è venuto a prenderlo qualche minuto fa».
«Non sapevo che avesse un fratello», osservò sorpreso Wakatoshi e Kenjirou sorrise
dell’espressione genuina che aveva assunto il suo volto.
«Non ne ha mai parlato, in effetti. Credo… credo si
siano riavvicinati dopo le sue dimissioni dall’ospedale. Qualche volta Yotaro mi ha raccontato dei suoi dissapori con amici e
parenti, ma immagino che stia cercando di riprendere in mano la sua vita».
«Ne sono felice». Ora il capitano della Shiratorizawa pareva più rilassato. Tirò la testa indietro
fino a poggiarsi contro uno degli armadietti. «Alle volte Yotaro
mi è sembrato fin troppo triste… e nessuno dovrebbe restare solo come era lui
quando lo abbiamo conosciuto».
«Che cosa è successo durante la partita?»
Shirabu non era solito usare giri di parole - Ushijima si aspettava quella domanda.
«Non siamo stati coordinati, se ti riferisci
all’azione che abbiamo sbagliato», disse con tono calmo.
«Io non ho
sbagliato», ribatté l’alzatore.
«Hai ragione», concordò il capitano «Sono stato io a
sbagliare - mi sono distratto. La tua alzata era perfetta, come sempre».
Kenjirou attese altre parole, che non arrivarono.
«Tutto qui? Ti sei distratto? Tu non ti distrai, Wakatoshi,
non succede mai quando si tratta di pallavolo. Non è così semplice».
Ushijima cambiò posizione, per guardare il compagno negli
occhi. Non era semplice? Shirabu era in errore,
quella era la cosa più semplice del mondo: era stato preoccupato. Per tutto il
tempo in cui Shirabu era stato in campo, Ushijima non aveva potuto fare a meno di preoccuparsi per
lui. Ed era stato in allerta anche durante gli allenamenti, da quando Kenjirou aveva ripreso a frequentare la palestra, con la
sola differenza che era riuscito a tenere più a bada la pressante sensazione
che da un momento all’altro sarebbe potuto accadere qualcosa al suo compagno. Wakatoshi non avrebbe saputo dire se fosse il legame a
tenerlo in allarme o semplicemente l’amore che provava per lui, probabilmente
si trattava di entrambe le cose.
«Ero preoccupato per te», disse «Era il tuo secondo
set e mi sembravi affaticato. Mi sono distratto».
Shirabu restò qualche istante a guardarlo negli occhi, senza
sapere che cosa dire. Perché era così facile per Wakatoshi
ammettere cos’era successo quando invece quelle stesse parole minacciavano di
mandare lui in frantumi? Ushijima non poteva
distrarsi. Ushijima era un giocatore perfetto, il miglior
capitano che una squadra potesse cercare, il miglior asso di sempre - chiunque
avrebbe fatto carte false per averlo, chiunque! E lui lo aveva distratto. Lui
era stato in grado di farlo sbagliare, di scalfire la perfezione che
rappresentava in quanto giocatore.
«Non avresti dovuto-», balbettò.
«Non posso dire di averlo scelto, Kenjirou».
Ushijima sapeva a cosa stava pensando il compagno, le
colpe che, chiaramente, si stava addossando «Ma non lo considero uno
svantaggio. Non mi spiace, non sono arrabbiato o scoraggiato. È semplicemente
successo».
«Se si fosse trattato di un torneo, quell’errore ci
sarebbe costato un punto e avrebbe potuto fare la differenza fra una vittoria
ed una sconfitta», insistette Shirabu: come poteva Ushijima non vedere l’importanza della situazione?
«Non siamo infallibili, Kenjirou:
se si fosse trattato di una partita, avremmo recuperato quel punto».
Shirabu abbassò la testa, evidentemente scosso - non riusciva
a trovare altro da opporre alla logica di Wakatoshi e
si rendeva conto che non s’era mai trattato davvero del punto perso, quanto del
fatto che Ushijima era stato distratto da lui in una
partita.
«Non voglio che cambi a causa mia, Wakatoshi…
non voglio che tu sia meno attento in campo o meno concentrato in quello che
fai perché parte di te si preoccupa per me...».
«Vorresti che non ti amassi? Perché non c’è differenza
fra le due cose», mormorò con serietà Ushijima.
«Vorrei non essermi mai ammalato», confessò Kenjirou. Credeva di averlo accettato, credeva di aver
accettato tutto quello che gli era successo e il modo in cui il cancro lo aveva
cambiato, ma non aveva messo in conto i cambiamenti che avrebbero colpito Ushijima - li odiava più di qualunque altra cosa.
«E anche Ushijima sta meglio?»
Le parole di Oikawa gli
tornarono in mente. Allora era stato sorpreso da una domanda del genere, perché
nessuno gli aveva mai chiesto come stesse il suo compagno, anche se aveva dovuto affrontare la malattia con lui. Ora
invece si rendeva conto di essere stato cieco come tutti gli altri, perché non
s’era accorto di quanto il cancro avesse già
cambiato Wakatoshi. Nel modo in cui gli parlava, nel
modo in cui rifletteva, nelle priorità che aveva: Ushijima
stava guardando il mondo con occhi completamente diversi. Aveva affrontato la
malattia insieme a lui ed ora, come non era possibile chiedere a Kenjirou di dimenticare, allo stesso modo non era possibile
chiedere ad Ushijima di affrontare la sua vita nel
modo in cui faceva prima.
Il capitano della Shiratorizawa
strinse a sé Shirabu in uno slancio d’affetto che non
si concedeva spesso in pubblico. Lo tenne lì, fra le sua braccia,
accarezzandogli i capelli sulla base del collo.
«La malattia ti ha cambiato, Kenjirou.
E ha cambiato anche me. Cambiare non è sempre un male: è il modo in cui
reagiamo a ciò che succede nella nostra vita. Sarebbe crudele chiedermi di non
preoccuparmi per te, non trovi?»
«Forse è un bene che non giocheremo più nella stessa
squadra allora». sussurrò il ragazzo contro il suo petto «Non voglio esserti-».
«Zitto. Non dirlo. Non c’è niente che venga prima di
te, Shirabu Kenjirou.
Accetta questa realtà».
L’alzatore si prese qualche istante di pausa, aspettò
che l’eco di quelle parole si spegnesse lentamente nelle sue orecchie,
depositandosi nel suo petto, custodita per sempre. Poi strinse con tutta la
forza che aveva il suo compagno.
«Non c’è niente che venga prima di te, Ushijima Wakatoshi».
_________________
Siamo giunti
alla fine! Qualcuno temeva che potessero esserci colpi bassi nel finale, ma
direi che è quasi filato tutto liscio, no? Alla fine sono debolissima,
non riesco a far finire davvero male una soulmate!AU
checché ne dica tutto l’angst che infilo in corso d’opera.
E finalmente sono riuscita a dare una certa chiusura anche ai poveri IwaOi che si trascinano questa situazione ben poco
idilliaca dalla prima shot…
Vorrei ringraziare chiunque abbia prestato attenzione a questa lunga storia e soprattutto alle persone che hanno recensito facendomi sapere che cosa ne pensavano!
Ho ancora qualche idea in mente, anche se piuttosto vaga, quindi credo che questa non sia la fine della raccolta, sebbene potrebbe passare tempo prima del prossimo aggiornamento.
Ad ogni modo, a presto!
Alch.