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Autore: Entreri    07/01/2018    5 recensioni
Nascosti in una stanza buia mentre all'esterno infuria la battaglia, due principi ascoltano per la prima volta la fine del Grande Poema e la dolorosa storia d'amore fra Ahmed e Aisha.
«Quella di Ahmed e Aisha non è una storia da ascoltare nel buio, mia principessa. Ve la narrerò domani, quando verrà il mattino.»
Farida le guardò entrambe e rise, Inaya non avrebbe saputo dire se della reticenza a raccontare o della speranza di sopravvivere fino all’alba.
«Non saranno le storie a farci del male nella notte. Se lo desiderate, piccole perle, vi racconterò la fine del Grande Poema; è appropriato, perché molte cose oggi si approssimano alla fine. Sappiate però che non canterò, né reciterò versi: perché non vi perdiate nella bellezza della poesia, dimenticando la storia.»
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I rumori crudeli della battaglia penetravano ovattati nel silenzio denso della stanza, il tempo dilatato in un’attesa disperata che sembrava intrappolare la notte in un’angoscia senza fine. La candela era stata spenta da tempo, ma la luce della luna filtrava dagli alti abbaini del muro esterno, fendendo la penombra che avvolgeva le forme addormentate dei suoi figli e il capo stanco che suo marito le aveva abbandonato in grembo.

Inaya aveva tentato di riposare, ma il rombo dei tamburi delle galee risuonava onirico e cupo nella tenebra dietro le sue palpebre chiuse, simile a un incubo incombente che né il sonno né la veglia avevano il potere di scacciare.

Scostò delicatamente due ciocche brune dalla fronte madida di sudore di Kamal, senza che l’amore che aveva riversato nel gesto riuscisse a fugare anche solo per un istante la febbricitante sofferenza che ne adombrava i lineamenti. Lo contemplò con tenero turbamento mentre si agitava nel sonno, cercando di richiamare a sé il sollievo che aveva provato al tramonto, quando la porta del loro nascondiglio si era aperta all’improvviso e il profilo deciso di Kamal si era stagliato nitido nell’ultima luce del sole calante. Allora, per un attimo, si era lasciata abbacinare dal bagliore bronzeo della sua armatura e dal calore rassicurante del suo sorriso, e aveva creduto ingenuamente che tutto sarebbe andato bene; solo quando gli era corsa fra le braccia e aveva sentito il sapore del sangue nel suo bacio, Inaya si era resa conto che li aveva raggiunti per morire.

«Ricordi le parole?»

La voce dell’Alta Consorte ferì il silenzio, insopportabile come il memento di un dolore inconcepibile, e Inaya desiderò fingere di non averla udita, stringere la mano di Kamal e non pensare al salmo che avrebbe dovuto recitare al suo assassino; l’anziana Farida, tuttavia, non era donna che si lasciasse ignorare e, anche senza alzare gli occhi verso la sua figura rugosa e immobile, Inaya sentiva il peso della sua paziente e composta disapprovazione. Normalmente avrebbe ceduto, fornendo alla madre di suo marito la risposta che desiderava, in quel momento, tuttavia, si trovò sopraffatta dal desiderio di avversarla, di riversare sul suo contegno distaccato tutto il proprio avvilito rifiuto per l’inevitabile.

«Non saranno necessarie.»

Nella foga di sembrare autorevole alzò troppo la voce, svegliando la schiava che Farida aveva portato con sé e, incrociando lo sguardo impotentemente spaventato di quella giovane donna, Inaya non poté fare a meno di sospirare, accettando di voltarsi verso l’Alta Consorte per subire tutto il biasimo insito nel suo freddo ritegno.

La madre di suo marito la fissava con piccoli occhi neri colmi di riprovazione, lasciando che il proprio ostinato, inamovibile silenzio condannasse in modo inappellabile tanto la sua replica quanto i suoi ultimi, illusori scampoli di speranza. La piega amara delle sue labbra sottili parlava della caduta di Serolle e del trionfo di  Elmira, le sue mani giunte con precisione annunciavano la morte del re, delle proprie co-mogli e di tutti i principi di sangue dell'isola: "non importa se non sono ancora stati uccisi, - sembravano dire le pieghe perfettamente stirate della sua veste a lutto, - perché lo saranno nel giro di qualche ora, e tu dovrai pronunciare il salmo della vedova e dell'orfano o il sangue tuo e quello dei tuoi figli andranno ad ingrossare la marea di quello già versato".

«Non voglio.»

 La mesta confessione, per metà ferito sgomento di bambina, per metà dolente rassegnazione di donna, non sembrò toccare l'aspra regalità dell'Alta Consorte.

«Quello che vuoi non ha nessuna importanza quando non puoi averlo.»

Inaya strinse Kamal fra le braccia, quasi a proteggerlo dal pragmatismo implacabile di sua madre, e lui se ne lamentò, gemendo sommessamente nelle pieghe della sua stola. Si chinò a baciargli la fronte e una lacrima traditrice scivolò dalla sua gota agli occhi chiusi di Kamal, creando sul volto in pena di suo marito un'illusione di pianto che mal si adattava alla virile durezza dei suoi lineamenti. Era un'immagine crudele e ingiusta a cui Inaya scopriva solo in quel momento di non essere stata sufficientemente preparata: aveva cantato i salmi per i morti e ascoltato le Alte Consorti ammonirla sulla caducità delle vite di principi e re, aveva sepolto sette dei propri cognati e visto le loro vedove mandate in moglie agli assassini dei propri mariti, eppure la presa di Serolle e l'imminente morte di Kamal la coglievano alla sprovvista, lasciandola sbigottita e incredula, dilaniata in egual misura dal desiderio di gridare e da quello di nascondersi.

«Le parole, Inaya.»

Compostamente inginocchiata sul tappeto di lana di Teche, il volto accuratamente truccato in un'espressione impassibile, l'anziana Farida non le sembrò dissimile a una guglia solitaria, scoglio acuminato in un oceano ostile, logorata dalla tempesta ma ancora erta contro i flutti con rigida, ostinata determinazione; una statua che resista alle intemperie senza che lacrime diverse da quelle della pioggia ne percorrano il volto imperturbabile.

«È vostro figlio.»

Una smorfia tagliente le deformò il viso spigoloso in un'espressione che sapeva più di altero spregio che di materno dolore.

«È mio figlio; non il primo che ho generato, né il primo che vedo perire. Sapevo quando l'ho messo al mondo di dargli la vita perché un altro gliela togliesse e ora non posso salvarlo dalla morte più di quanto possa tornare indietro ad impedire la sua nascita, e non puoi farlo neanche tu. Piangi, se vuoi, ma sappi che Kamal non è venuto a cercarti per essere cullato e pianto, ma perché tu veda l'uomo che lo ucciderà e perché lui veda te, perché tu possa recitare il salmo e lui sia costretto a prenderti in moglie e ad adottare i tuoi bambini.»

Per la prima volta, guardando quella donna tre volte vedova e quattro volte moglie di sangue, madre di tre figlie maritate lontano, di otto figli già sepolti e di uno che stava per spirare, Inaya si domandò se non stesse contemplando il proprio futuro, se, pronunciando le parole che l'Alta Consorte continuava a chiederle spietatamente, non sarebbe diventata a propria volta una vecchia impietosa e insensibile. Il pensiero le spezzò il respiro, coagulandole nella gola tanto il disgusto per l'idea di trasformarsi in Farida quanto la paura di non possedere neppure un frammento della fiera tenacia necessaria.

«E se fosse il principe Thal'deyn? Si dice che la sua sola moglie di sangue si sia gettata in mare da una delle torri del Mar d'Ambra.»

L'alta consorte respinse la sua angoscia con un gesto secco delle dita, quasi si aspettasse che l'accorata preoccupazione di Inaya le obbedisse, nell'essere licenziata, con la stessa pronta sottomissione dei suoi schiavi.

«Si dicono tante cose: si dice che il re di Elmira sia innamorato della propria sorella e che la trovi ancora la più bella fra le donne sebbene non sia più che una vecchia cieca e ossuta; si dice che il principe Ianamros abbia una palazzo con duecentoventi concubine e che sia in grado di soddisfarle tutte in una sola notte; si dice che il principe Jan'sham abbia un occhio di zaffiro e la sua fortuna cambi il corso delle maree; si dice che il principe Gyrash abbia sventrato la propria madre nel venire al mondo e che da quel giorno la sua stazza e la sua crudeltà non siano che cresciute. Elmira ha settanta principi e su ognuno di loro circolano più voci che venti nella tempesta. Non ci si può gettare in mare dal Mar d'Ambra, Inaya; ma anche se si potesse, non farebbe nessuna differenza: qualunque uomo entri da quella porta, dovrai inginocchiarti e abbracciargli le ginocchia, sperando che scelga di fare il suo dovere.»

Inaya deglutì a fatica e si morse la guancia, combattendo a fatica gli spasmi del proprio stomaco, tentò di controllare la propria voce ma le corde vocali la tradirono, trasformando la sua domanda in un singulto gutturale.

«E se fosse un mostro?»

Aveva incontrato il principe Gyrash una volta e ricordava ancora la disinvolta naturalezza con cui le sue grandi mani aveva spezzato il polso dello schiavo che aveva rovesciato una goccia di vino sul suo vestito.

Contrariamente ad ogni aspettativa Farida sorrise, una tensione delle labbra amara e priva di empatia, da cui Inaya non riuscì a trarre alcun conforto.

«Certo che lo sarà, sarà l'assassino di Kamal.»

Nel silenzio teso che seguì quell’affermazione crudele, Inaya udì la giovane schiava sussurrare fra sé torcendosi le mani con ansia spasmodica, la sua preghiera straniera un tutt’uno soffocante con le afose tenebre della stanza, e non poté fare a meno di domandarsi se avesse capito di essere stata portata in quella stanza isolata del palazzo per essere stuprata e uccisa al posto suo.

«Eoen, Legge di Giustizia e Salmo di Misericordia, presta il tuo scudo al giusto e spezza la spada dell’empio.»

«Taci!»

Il grido di Farida sferzò la notte di inquieta indignazione e nel suo vibrare acuto Inaya udì l’eco impietoso di tutti gli ammonimenti con cui i sacerdoti l’avevano istruita a non rivolgersi a Dio con altro scopo che quello di lodarlo. Gli insegnamenti che aveva ricevuto da bambina suonavano stentorei e cupi nei suoi ricordi come lo erano stati alle sue orecchie quando per la prima volta aveva appreso della peccaminosità irreparabile della nascita e dell’amarezza distaccata con cui Dio guardava alla colpevolezza del mondo.  Una parte di lei avrebbe voluto stringere le mani della schiava e unirsi alla sua invocazione, domandare ad alta voce nel proprio cuore se davvero le colpe dei figli degli uomini fossero tanto imperdonabili da meritare che l’Unico rimanesse distante e silente di fronte al loro dolore; come la serva, tuttavia, quella parte di Inaya chinò il capo in silenzio dinnanzi al rimprovero dell’Alta Consorte.

«Cosa c’è?»

Inaya sussultò nell’udire la voce di Nadira e trattenne le lacrime nell’osservare il gesto infantile con cui, tiratosi a sedere, Saijd si stropicciò gli occhi.

«Niente, mie perle, tornate a dormire.»

Uno scetticismo spaventato adombrò i lineamenti di Nadira, Inaya si domandò quando profondamente sua figlia avesse capito quello che suo fratello percepiva appena.

«Stanno ancora combattendo, madre?»

Il fischiare aggressivo del proiettile di un trabucco rispose al suo posto, lasciando Ianya a domandarsi, nell’udire il rombo del suo schiantarsi contro un edificio, quanto vicina al palazzo potesse essere giunta la battaglia.

«Ho paura.»

Le guance paffute di Saijd tremarono in un’avvisaglia di pianto, pungolando in Inaya il desiderio trattenuto a stento di nascondere il volto fra le mani, abbandonandosi alla disperazione.

«Non hai niente da temere. Tua madre farà sì che non vi accada nulla.»

La schiava sorrise, carezzando la testa di Saijd, quasi a prestare la propria generosa tenerezza al tono duro di Farida.

«Papà non ci protegge?»

«Tuo padre è stanco, scaglia di cielo; ha ucciso i mille nemici, corso le mille miglia e ora riposa. Per quello che serve fare, basterà tua madre.»

I suoi figli erano troppo piccoli per riconoscere la citazione dai Salmi dei Morti, ma Inaya la udì echeggiare nella voragine angosciata dalla propria anima e, ascoltando quelle parole spietate, stringendo a sé il corpo febbricitante di Kamal, per la prima volta una parte di lei gli disse addio.

«Voglio andare a letto.»

La schiava rassettò le vesti di Saijd con una dolcezza di cui Inaya non riusciva a comprendere l’origine.

«Miei principi, temo non sia possibile. Volete che canti per voi dal Grande Poema? La scalata della bianca torre di Uduna? Il furto della Fiamma delle Pianure? Oppure preferite gli inizi? I primi passi di Ahmed sulla strada della sua grandezza?»

Inaya vide gli occhi di Saijd illuminarsi: tutti i bambini amavano le prodezze compiute da Ahmed nei primi trentasette canti del Poema, la cangiante bugia che con scaltrezza e valore l’uomo possa conquistare qualsiasi meta. Nadira, tuttavia, rispose per prima.

«Cosa gli accadde poi? Quando incontrò Aisha?»

Una crepa d’imbarazzo s’insinuò nel sorriso delicato della schiava e i sui oblunghi occhi castani cercarono quelli di Inaya in una domanda silenziosa. Inaya scosse impercettibilmente il capo, decisa a difendere i suoi figli dalla crudeltà del Grande Poema quando non poteva proteggerli da quella del mondo.

«Quella di Ahmed e Aisha non è una storia da ascoltare nel buio, mia principessa. Ve la narrerò, domani, quando verrà il mattino.»

Farida le guardò entrambe e rise, Inaya non avrebbe saputo dire se della reticenza a raccontare o della speranza di sopravvivere fino all’alba.

«Non saranno le storie a farci del male nella notte. Se lo desiderate, piccole perle, vi racconterò la fine del Grande Poema; è appropriato, perché molte cose oggi si approssimano alla fine. Sappiate però che non canterò, né reciterò versi: perché non vi perdiate nella bellezza della poesia, dimenticando la storia.»

Inaya fu sul punto di interromperla, ma udendo il fragore crescente della battaglia, percependo l’agitarsi di Kamal, si sentì pervadere da uno stanco senso di impotenza e tacque, limitandosi a guardare mentre i suoi figli si facevano più vicini a Farida, già protesi verso una storia che immaginavano carica di eroismo e di magia.

«Molte sono le imprese compiute da Ahmed, tutte di mirabile statura: l’uccisione della tigre delle colline, l’inganno di Dale, la battaglia nella tempesta davanti alle scogliere di Ithin, la seduzione della Vergine d’Acciaio e la disfida dei trenta; di nessuna di queste parleremo oggi, non erano che il mattino della sua leggenda, gli accordi iniziali del suo canto grandioso. Né faremo parola della scalata della Bianca Torre e del furto della Fiamma delle Pianure che pure furono il suo più alto trionfo, il meriggio dorato della sua gloria: le conoscete da tempo e non dovete che chiudere gli occhi per richiamarle alla memoria.»

Solo l’accenno bastò ad evocare alla mente di Inaya i versi più possenti della Saga del Marinaio e della Saga della Fiamma, ferendola con un’affilata nostalgia per l’inizio ingannevolmente radioso di tutte le cose.  Chiuse gli occhi contro la penombra irridente della stanza, ma non poté impedirsi di ascoltare Farida prendere per mano l’immaginazione dei suoi figli, conducendoli lontano dalla luce di quegli inizi verso la tenebra della loro conclusione.

«La maggior parte della sua leggenda era ormai compiuta quando Ahmed decise di tornare nel Malinlan alla fine della sua trentacinquesima stagione dei ritorni; due volte la luna gonfiò e sgonfiò il proprio ventre, osservando la Stella del Mattino solcare le onde, prima che la marea favorevole la sospingesse finalmente in porto. La vedetta lanciò un grido di gioia nello scorgere l’alto faro di Tolcamir e la sua voce si diffuse nelle piazze della città, annunciando la venuta di Ahmed con lo stesso vento dell’est che gonfiava le sue vele.

Cinque anni egli era stato lontano dal Malinlan, mentre mille racconti delle sue imprese giungevano nella sua terra natale, e non vi era uomo in tutto il regno che non bramasse vedere con i propri occhi gli innumerevoli tesori che aveva conquistato nel suo lungo peregrinare. Favoleggiata al di sopra di ogni altra meraviglia in suo possesso era la sua nave: donatagli da re di Reda per aver risolto i tre enigmi di Hed, costruita con il legno dei giganteschi alberi bianchi della sua isola e armata con vele di lino tessute nella notte dalle sue figlie, era stata battezzata da Ahmed Stella del Mattino, poiché appesa al pennone del suo albero più alto stava la Lampada Bianca in cui aveva risposto la Fiamma delle Pianure. Per vedere il rifulgere di quella Fiamma fendere la notte, nobili e marinai, carrettieri e mercanti, dame e prostitute si radunarono sulla banchina e il re in persona discese dalle alte sale del suo palazzo per assistere all’approdo del suo campione.

Dapprincipio il re fu lieto per l’ormeggio della Stella del Mattino, poiché molte prodezze aveva compiuto Ahmed nel suo nome; tuttavia quando lo vide approssimarsi alla sua lettiga, gioioso come chi torni in patria dopo innumerevoli anni, fiero come chi abbia portato a termine grandi imprese durante la propria assenza, fu colto da inquietudine poiché la folla, nella sua trepidazione, gli attribuiva onori regali, chiamandolo Signore e chiedendone il favore. Così gli occhi del re vennero inquinati dal sospetto e, osservando Ahmed genuflettersi dinnanzi alla sua portantina, tutto quello che riuscì a vedere fu la morbidezza disinvolta della sua postura e la sicurezza radiosa con cui, pur avendo piegato il ginocchio, non aveva chinato il capo. Ahmed sorrise, gli occhi luminosi di chi abbia contemplato il sole sorgere sulla Madre dei Fiumi, ed estrasse uno scettro d’oro da sotto il mantello, lasciando che il bagliore delle fiaccole si infrangesse contro la melagrana di rubini che ne stava alla sommità, colpendo il suo volto e quello del re del Malinlan con schegge di luce dal colore del sangue. Osservando quei riflessi rossastri, Ahmed lesse nell’espressione del proprio re il timore di essere scalzato dal proprio trono, e gli si rivolse con devozione porgendogli umilmente lo scettro.

«Perdonate, mio re, questo pegno dimesso. Ben misero è quel campione che sia incapace di trovare un dono degno del proprio sovrano, tuttavia nessun campione ha mai avuto un compito più arduo del mio, giacché la vostra grandezza è tale da adombrare qualsiasi altro sire.»

Voce di miele aveva Ahmed, ma le parole suadenti non producono frutti quando cadono sul terreno freddo di un cuore invidioso e la mente del signore di Tolcamir corse lontana dalle lodi del suo campione verso il nemico che ne provava la falsità: giacché ad appena una settimana di navigazione dalla sua capitale il re delle Isole viveva in un palazzo d’ambra e avorio, servito dai suoi otto figli e amato dalle sue quattro mogli. Rispettato per la sua saggezza e temuto per la sua magia, egli era il solo che rivaleggiasse in potenza con il re del Malinan e questi da anni desiderava muovere guerra contro di lui, trattenuto appena dall’accorta prudenza di chi non conosca fino in fondo le forze del proprio avversario. Distolse lo sguardo dalla fermezza con cui la mano di Ahmed stringeva lo scettro per fissare l’orizzonte, e, osservando oltre le acque nere del Golfo sommerso dalla notte, un’idea malevola si fece strada fra i suoi pensieri.

Solo allora il re fece ad Ahmed cenno di alzarsi, lasciando che la folla acclamasse entrambi mentre accettava con un sorriso il suo scettro d’oro.

«Ti ringrazio per questo dono, mostra la buona volontà di un animo fedele. Se però davvero desideri trovare qualcosa che sia degno della mia grandezza o che soddisfi i desideri del mio cuore, dovresti riprendere il mare e navigare verso Est. Perché ad Alesa sta ciò che bramo nelle notti insonni.»

Un silenzio stupefatto scese sul porto e Ahmed inclinò il capo, osservando con rassegnazione le rughe avide che deformavano il volto del suo signore, comprendendo la duplicità calcolatrice del suo disegno e accettando con distacco la necessità di conformarvisi.

«Il timone della mia nave vi appartiene, mio re. Non avete che da indicare la rotta perché io la segua. Nominate l’oggetto del vostro desiderio e, se sarà necessario, combatterò ogni soldato di re Quhāfa a mani nude per vincerlo in vostra vece.»

Nobili e vagabondi trattennero parimenti il respiro quando il Signore del Malinlan scese dalla sua lettiga, posando i nobili piedi, Sangue del Sangue del Grande Sire, sulle sporche pietre della banchina, logorate dal sale e dal sudore degli uomini miseri. 

«Accompagnami nel mio palazzo e cena al mio desco. Domani mattina, se le tue parole sono veritiere, prenderai con te i miei doni per il re delle Isole e busserai alla sua porta per chiedere la mano di sua figlia per il mio primogenito.»

Ahmed annuì e la folla si lasciò andare ad un boato di entusiasmo quando il re del Malinan fece un passo in avanti per abbracciare il proprio campione come un padre che accolga il figlio tornato da un lungo viaggio. Coperto dall’esultanza della folla l’ultimo ordine del re non fu che un sussurro crudele nell’orecchio di Ahmed.

«Cena alla sua tavola, dormi nei suoi letti, scopri i suoi segreti; dimmi come sconfiggerlo.»

Perciò sappiate, mie piccole perle, che la Saga di Aisha inizia nel sospetto e nell’invidia, nell’ambizione e nella malizia, e finisce nel pianto.»

Inaya vide Nadira aggrottare le sopracciglia e Saijd guardare confusamente prima la sorella e poi la schiava.

«Ma il re del Malinlan non era cattivo.»

La schiava gli sorrise, stringendo le labbra in una linea sottile, inghiottendo a fatica il disprezzo che tutti gli imperiali avevano per la versione isolana della saga di Aisha. Inaya non aveva mai capito perché fosse tanto importante quale re avesse macchinato per primo contro l’altro.  

«Forse non lo era al principio, quando la leggenda di Ahmed non era ancora così smisurata da oscurare la sua e i suoi due figli minori erano ancora in vita. Quando Ahmed tornò da lui, tuttavia, non era che un uomo cupido e disilluso alle soglie della vecchiaia, le sue imprese sbiadite, il suo primogenito uno storpio e la sua ultimogenita una merce di scambio custodita con calcolata gelosia. Un sovrano cupo dal cuore equamente diviso fra la brama di aumentare i confini del proprio regno e il timore di non poterlo conservare per la propria stirpe. Per questo mandò Ahmed dal re delle Isole: per scoprire le debolezze di un nemico che temeva di non poter sconfiggere e liberarsi di un amico che temeva di non poter più controllare.»

«E Ahmed cosa fece?»

«Accompagnò il re del Malinlan nel suo palazzo e sedette alla sua sinistra durante il banchetto. Presentò i cento doni, cantò le cento lodi, come un servo fedele, e quando giunse il mattino dispiegò le sue vele verso le isole.»

«Ma non sapeva che lo mandava a morire?»

La domanda di Nadira risuonò come un dubbio acuto nella calda oscurità.

«Certo. Ahmed non era uno sciocco. Sapeva, tuttavia, che sarebbe vissuto. La Vergine d’Acciaio glielo aveva predetto mentre giacevano insieme fra cuscini di seta e lenzuola di lino: «Sarai viandante e re e viandante, marinaio e re e marinaio, genero di re e re e padre di re, ma prima dovrai salire e scendere e salire le scale di Alesa». Così Ahmed salpò verso le isole, con il cuore sicuro di chi vada verso l’apice della propria gloria. Come ho detto, scaglie di cielo, la Saga di Aisha comincia nell’ambizione.»

Inaya sospirò, osservando i primi segni di una perplessità amara disegnarsi sul volo di sua figlia nello scoprire che non era rilevante se Ahmed fosse partito per Alesa spinto dalle brame del re del Malinlan o attirato dalle macchinazioni di re Quhāfa, poiché l’unica ambizione che ne avesse mai guidato il timone era la sua. Nadira si voltò verso di lei, smarrita, ma, prima che Inaya potesse pensare a qualcosa di confortante da dirle, Farisa riprese il proprio racconto, severa e distaccata come una marea ostile.

«Un ciclo di luna fu lungo il viaggio di Ahmed, la Stella del Mattino respinta verso il Malinlan dai venti dei ritorni; grandi mareggiate si opposero al suo viaggio e correnti ostili, ma Ahmed aveva già vinto la burrasca una volta quando aveva cavalcato le onde davanti alle scogliere di Ithin, ridendo nella tempesta, padrone della propria nave e signore del proprio timone, mentre la flotta del Signore di Hann veniva sballottata dai flutti. Dieci navi aveva abbordato Ahmed quel giorno, prendendone in controllo, e più del doppio ne aveva affondate, così non temette nubifragi né venti ostili e guidò con decisione la Stella del Mattino attraverso ogni genere di intemperie fino a quando, all’alba del ventottesimo giorno, non vide all’orizzonte l’alta torre del palazzo di Alesa. Si dice non vi sia reggia più splendida del Mar d’Ambra né signore più beato del re di Elmira che vi dimora, eppure, se dobbiamo prestare ascolto al Grande Poema, nessuno dei suoi sfarzi può rivaleggiare con la maestosità del palazzo di Alesa. Mille trentasei guglie si innalzavano verso il cielo dal castello di re Quhāfa, ciascuna cesellata e decorata con il più candido degli avori, centinaia di fontane d’ambra zampillavano nei suoi innumerevoli giardini e miglia di fiori sbocciavano ogni giorno nelle sue terrazze, tuttavia il suo splendore non impressionò Ahmed i cui occhi scuri avevano contemplato tanta bellezza quanta un uomo possa scovarne in una lunga vita di ricerca. Di tutte le meraviglie possedute da re Quhāfa una sola fu una capace di togliergli il respiro: Aisha, la Bella fra le Belle, l’unica figlia del re di Alesa, la cui mano era venuto a reclamare per conto di un altro.»

«Fu allora che la vide? Quando arrivò in porto intendo.»

«Oh no, mia perla. Quando arrivò in porto nessuno della famiglia reale era lì ad attenderlo. Molte colombe avevano lasciato Tolcamir per annunciare la venuta di Ahmed ma re Quhāfa era un uomo fiero e si rifiutò di scendere le alte scale del suo palazzo per rendere omaggio al messo del suo nemico.  Mandò, invece, venti uomini della propria guardia d’onore, perché scortassero Ahmed nella sua reggia lasciando i suoi compagni a custodire la Stella del Mattino.»

«Perché lo ricevette, allora?»

La perplessità di Saijd era venata di fastidio e l’ingenuità della sua domanda addolorò Inaya con la bellezza straziante della sua innocenza e con il timore che non sarebbe vissuto a abbastanza a lungo da perderla.

«Perché, oltre ad essere fiero, era anche accorto e desiderava sapere quali disegni intessesse re Nardor oltre le azzurre acque del Golfo che li separava.»

«E pensava che Ahmed glielo avrebbe detto?»

«No. Pensava di capirlo dalle sue parole a dai suoi silenzi. Così lo mandò a chiamare, perché fosse chiaro che non si sarebbe scomodato per nessun signore della terra e lo fece sedere alla propria destra nel banchetto della sera, perché non di dicesse che il sire di Alesa mancava ai propri doveri di ospitalità e munificenza.»

Erano doveri che il figlio di un principe poteva capire, così Saijd annuì, lasciando che Farida proseguisse nella propria narrazione, talmente assorto nelle vicende della Stella del Mattino da dimenticare il fragore della battaglia fuori dal palazzo.

«Molta della propria grandiosità sfoggiò re Quhāfa dinnanzi agli occhi di Ahmed: la raffinatezza delle sue cucine, la ricercata eleganza delle sue mogli, la bellezza delle sue schiave; aedi con lingue di miele cantarono le prodezze dei suoi figli e doni pregiati dimostrarono la ricchezza del suo regno. Tuttavia, pur mostrando molte delle meraviglie della sua famiglia e delle sue terre, re Quhāfa tenne celate tanto la propria magia quanto la propria figlia, che erano il pilastro del suo trono e la delizia del suo cuore. Allo stesso modo Ahmed non pose domande né offrì storie, lodando l’ospitalità ricevuta senza rivelare la ragione della propria venuta, così il più potente dei re e il più rinomato fra i campioni conversarono a lungo lasciando che l’importanza delle proprie parole fosse messa in ombra da quella delle proprie omissioni. Quando lasciarono la grande sala per coricarsi re Quhāfa non conosceva le intenzioni di Ahmed più di quanto questi conoscesse le sue debolezze. Fu quella notte che Ahmed udì per la prima volta la voce di Aisha.»

Inaya ricordò con amarezza nostalgica la prima volta in cui aveva udito un trovatore cantare il Grande Poema nel palazzo di suo padre, l’estasi sognante con cui aveva immaginato Ahmed, poggiato alla balaustra della sua alta terrazza, far vagare lo sguardo nella notte cercando l’origine di una voce delicata.

«Un canto soave che danzava nell’oscurità come i petali di magnolia nel vento caldo della stagione delle fioriture, eppure non furono né la dolcezza del suo timbro né la vivacità dei suoi virtuosismi a spingere Ahmed a levare il capo stanco dal cuscino. Vi era, in quella voce morbida, una corrente di fermezza, uno slancio fiero, come la certezza di poter costringere il mondo a condividere la propria gioia ed Ahmed rimase sveglio ad ascoltare quel comando di letizia diffondersi fra i giardini di Alesa.» 

«Non la andò a cercare?»

«Non quella notte, mia perla; quella notte e per le tre notti a venire Ahmed si limitò a godere del piacere datogli da quel canto, immaginandolo provenire dalla luna e dalle stelle, concedendosi, per la prima volta dopo innumerevoli anni, di dimenticare il peso della propria leggenda e della propria gloria. La quarta notte tuttavia, dopo aver conversato di nuovo a lungo e inutilmente con re Quhāfa, Ahmed abbandonò il proprio letto e, invece di avvolgersi in vestaglie di lino e affacciarsi pigramente all’ampia terrazza della propria stanza, calzò i propri sandali e lasciò che la voce lo conducesse per le scale e i portici del palazzo, così come i figli di Dele avevano seguito il violino di Imlin negli abissi, senza darsi pena della ragione dei propri passi decisi o domandarsi cosa sarebbe venuto dal proseguire quella cerca. Vagò per lunghi corridoi e attraversò piccoli chiostri, rompendo la quiete dei loro pozzi profondi e solitari colonnati, lasciando che la luce eburnea della luna scolpisse giochi d’ombra negli arabeschi della reggia e nelle pieghe del suo viso; ascoltò il canto farsi più nitido, perdere la distanza echeggiante che gli veniva dal propagarsi attraverso androni e peristili, udì il suono dei campanelli e sorrise, dando per la prima volta, nella propria immaginazione, alla voce un corpo di donna. Infine percorse l’ultimo corridoio e spiò nel più interno dei cortili, dove Aisha la Bella danzava sola al ritmo di cinque campanelli di cristallo tenuti sospesi nell’aria tiepida dalla magia della sua voce. Celato nell’ombra del grande portone, la osservò piroettare, gonfiando la propria bianca stola sotto la luce perlescente delle stelle, bella come i sogni che vagano sopra gli acquitrini dello Sheren per irretire i viaggiatori, delicata come un sussurrio della luna e flessuosa come un giunco. Si dice però che non fu la sua bellezza, che pure era tale da far ammutolire gli uomini, quanto la gioia con cui danzava a togliere il respiro ad Ahmed; giacché Aisha, custodita nel cuore della casa di suo padre, non aveva conosciuto del mondo che il suo innegabile splendore e, pur avendo avuto notizia della sofferenza, credeva ancora che questa potesse essere mitigata dalla legge ed eradicata da una volontà buona. Questa convinzione guidava i suoi passi e rifulgeva sul suo viso con il chiarore di mille lune ed Ahmed, che non aveva mai conosciuto una felicità non adulterata dalla ferocia o dal sangue, unì la propria voce tenorile a quella di Aisha, desideroso di congiungersi a lei nel canto e nella gioia. Le loro voci si armonizzarono nell’aria tiepida della notte per un istante, prima che Aisha si voltasse di soprassalto; i campanelli caddero al suolo, ferendole i piedi con schegge affilate, e nell’improvviso silenzio scorse Ahmed venire innanzi, i lineamenti cesellati dalla luna e un sorriso luminoso carico di sicurezza e ammirazione. E questo fu l’incontro fra Aisha, la Bella fra le Belle, e Ahmed, la Stella del Mattino, la più mirabile fra le donne e il più grande fra gli uomini.»

«E si amarono?»

«Mia perla, certo che si amarono. Ahmed andò a chinarsi davanti a lei, prendendone il piede sanguinante fra le mani callose, baciandone le ferite con dolcezza e, guardandolo, Aisha vide la devozione sul suo volto e la luce della Fiamma delle Pianure rifulgere nei suoi occhi scuri. Si amarono e furono fra i perduti.»

In fondo, pesò Inaya, non vi era molto da dire su Ahmed e Aisha che non si potesse affermare di tutti i nati di donna; cosa fanno, alla fin fine, i figli degli uomini se non amare e perdersi? Si domandò come sarebbe stato il grande poema se Ahmed non avesse amato Aisha, se Aisha non avesse amato Ahmed, come sarebbe stato il mondo se il re di Elmira non avesse amato la gloria ed il potere, se il re di Serolle non avesse amato l’indipendenza più dei propri soldati, se Kamal non avesse amato il dovere più della vita, si chiese persino se il dolore straziante che la attraversava non dipendesse in fondo dal peccato enumerato nel Libro di amare il proprio marito e i propri figli più della magnificenza di Dio. Fu pervasa per un istante dal sospetto che la sola pace appartenesse ai Fuggitivi nel Silenzio e alla loro distaccata adorazione dell’Ineffabile; la malinconia che le evocava la saga di Aisha si unì ad una cupa disperazione per le umane sorti.

«Non capisco.»

«Cosa c’è da capire, scaglia di cielo? Aisha era figlia di un re e al figlio di un re era destinata; Ahmed era un orfano, tre volete comprato e tre volte venduto e, nonostante le sue grandi imprese, non era agli occhi del re di Alesa che un nato dal fango fedele al suo più grande nemico. Non avrebbero dovuto aspirare a quello che non era destino avessero.»

«Ma la Vergine d’Acciaio gli aveva predetto che sarebbe stato re e genero di re.»

La protesta infastidita di Nadira non cancellò il sorriso amareggiato dal volto dell’Alta consorte.

«E la profezia lo rese ambizioso oltre quanto gli sarebbe stato lecito sperare. Così, invece di ammirare la bellezza di una donna che non gli apparteneva, la baciò con fervore sulle labbra, violando la sacralità del tetto del proprio anfitrione. Fino al mattino rimasero insieme, quella notte e le notti seguenti: Aisha cantò per Ahmed al suono dei campanelli e Ahmed le raccontò storie di paesi lontani e la chiamò “voce dell’alba” e “miele del mondo”.  Insieme osservarono il risplendere della luna e inventarono nuovi nomi per le stelle, ma la settima sera Aisha giunse in ritardo nel giardino, il suo bel volto oscurato dal turbamento.

«Il mio regale padre guarda alla tua venuta con sospetto e desidera la tua morte.».

Un altro uomo sarebbe rimasto turbato, poiché re Quhāfa era un grande re e un uomo di potere e ben pochi fra i suoi desideri restavano insoddisfatti, ma Ahmed sorrise e i suoi occhi scuri non tradirono altra emozione che la gioia che gli veniva dall’udire la voce di Aisha.

«E per quale ragione?»

«Ha sognato di te stanotte: nella sua visione eri vento di tempesta e onda di sventura, prima nota del lamento funebre della sua stirpe. Parlando con i miei fratelli ha asserito tu sia venuto per rubare ciò che gli è caro e distruggere ciò che ha costruito. Sono venuta a chiedere quanto vi sia di vero.»

Ahmed sorrise, non un’ombra di incertezza sul suo volto avvenente, il suo sguardo carico di un amore sfrontato.

«Vi è del falso e vi è del vero, poiché sono venuto per conto del signore del Malinaln e la mia venuta ha nei suoi disegni un posto nella distruzione del regno di tuo padre, ma ora che sono qui il mio cuore va contro i desideri del mio signore perché invece di chiedere la tua mano per il suo primogenito non bramo altro che stringerla al petto.» »

«E Aisha cosa rispose?»

L’entusiasmo di Nadira fu sovrastato dal rombo dei tamburi nemici, ma questa non parve accorgersene, mesmerizzata dalla potenza affabulatoria di Farida.

«Non rispose nulla, scaglia di cielo, poiché i loro cuori ormai battevano come una cosa sola e, senza bisogno di parole, si promisero l’uno all’altra nel tepore della notte e nel profumo del ciliegio. Sotto petali bianchi guardarono verso orizzonti lontani e si videro cavalcare senza meta nelle grandi piane dell’Ernilan, accendere i Cinquecento fuochi nell’inverno di Redestia, scalare le grandi piramidi degli Huss’atia e danzare nel tramonto sulle rive della Madre dei Fiumi. La vastità di Erea la bella si dipanò dinnanzi a loro e non desiderarono che percorrerla insieme, liberi da ogni lealtà che non fosse quella del loro amore. 

«Con il tramontare della luna, mio bene, la marea accarezzerà la mia nave e l’alba la troverà pronta a rompere la silenziosa attesa del mio ritorno e spiegare rapida le vele figlie del vento.»

Il volto radioso di Aisha fu percorso da una gioiosa anticipazione, così Ahmed la prese fra le braccia e lei lo baciò ridendo un riso figlio della primavera.    

I bardi di Tariande asseriscono che ogni storia degna di essere raccontata contenga almeno una decisione scellerata e questa fu la decisione scellerata di Aisha bet Quhāfa, la Bella fra le Belle, che aveva grazia sufficiente ad incantare qualsiasi principe sulla terra e magia sufficiente a rendere grande qualsiasi nazione eppure scelse di fuggire da Alesa per amore.»

«Fuggirono?»

Lo stupore sconcertato dalla domanda di Saijd ricordò dolorosamente a Inaya quanto giovane fosse suo figlio, quanto lontano dal comprendere quali sciocchezze gli uomini potessero compiere per amore. Si chiese se sarebbe mai riuscita a fargli comprendere che, non fosse stato per il senso del dovere di Kamal, anche loro sarebbero fuggiti dal palazzo nottetempo navigando verso acque sicure, lontani dal re di Elmira e dalla sua sconfinata ambizione.

«No, mia perla, poiché il mattino seguente, mentre Aisha raccoglieva in un cesto le poche cose dalle quali non sarebbe riuscita a separarsi, quaranta guardie salirono silenziose i gradini che conducevano alla stanza di Ahmed per catturarlo nel sonno; lo trovarono alla finestra, in contemplazione dell’aurora senza altre armi che il lenzuolo in cui era avvolto.  Quaranta spade e quaranta lance avevano portato con loro e le venti stagioni dei ritorni che animavano le loro membra, eppure non una goccia del sangue che impregnava il drappo di lino di Ahmed al sorgere dell’alba apparteneva a lui.

Delle spade prese la più affilata e delle lance la sola che non avesse spezzato, lasciò cadere il lenzuolo nella polla rossa a i propri piedi e si voltò verso la bianca soglia per fronteggiare il primo fra i fratelli di Aisha: Asif, nato nel meriggio, principe di Mann, signore delle navi di suo padre; un grande guerriero, solido e ampio di spalle, vincitore in duello di più di un leggendario spadaccino. Egli stava immobile sotto l’alta architrave, vestito d’acciaio e ornato d’argento, reso solenne dal proprio cupo silenzio. Ahmed lo fissò negli occhi e vide in lui fierezza e profonda offesa.

«È forse diventato uso delle genti di Alesa attentare all’ospite, sacro sotto il loro tetto?»

«È forse un ospite quello che viene nottetempo a rubare il tesoro più gelosamente custodito della casa? A reclamare l’onore di una donna già promessa?».

Nadira sussultò stupita, abbandonando per la prima volta l’Alta consorte con lo sguardo per cercare spiegazioni sul volto di Inaya e della Schiava.

«A chi era promessa? Non è stato detto che era promessa.»

La schiava fece per aprire bocca ma Farida la interruppe con decisione: «Questo perché la promessa di Aisha al Portatore del Pane delle Stelle conclude la storia di Quhāfa e chi ha composto il Grande Poema dava per scontato la si conoscesse. Senza questa premessa, nulla di quello che Ahmed fece in seguito avrebbe alcun senso; perciò vi dico, anche se dovreste già saperlo, che nessuno dei figli del re di Alesa ereditò la sua magia, così, quando sua moglie diede alla luce una bambina capace di accendere le luci della propria culla re Quhāfa non sopportò il pensiero che fosse maritata in terra straniera a rendere grande un re che provenisse da un’altra stirpe.»

Nadira si morse l’unghia del mignolo con aria assorta ed Inaya si domandò se non stesse considerando per la prima volta il destino di esule dalla propria terra che è proprio delle fanciulle di sangue reale.

 

«E cosa fece?»

«Riunì i figli e i membri più importanti della sua casa e giurò con il sangue e le lacrime di destinare la mano della propria figlia a chiunque fosse riuscito a portagli un boccone del pane delle stelle; tutti compresero la vera natura di quella promessa»

Un boato sordo giunse dall’esterno e la schiava sobbalzò chiudendo gli occhi, ma Nadira parve non farvi caso, incalzando Farida con una nuova domanda: «Che cos’era il pane delle stelle»

«Una leggenda, mio bene, con un fondo di verità: il cibo degli astri del cielo, un pane bianco dal dolce sapore di luce, capace di saziare qualsiasi fame e di curare qualsiasi male, compreso quello di cui tutti gli uomini soffrono inguaribilmente; la mortalità.»

«E Ahmed lo sapeva?»

«Sì, mia perla, Ahmed lo sapeva, per questo non aveva fatto alcuna offerta per la mano di Aisha né a proprio vantaggio né a vantaggio del figlio del re del Malinlan.»

Saijd sbuffò infastidito: «Combatterono o no?»

Farida gli sorrise, forse soddisfatta di poter tornare alla narrazione, forse ironicamente divertita da come, interessandosi alla violenza nella storia, Saijd dimenticasse quella intorno a sé.

«Combatterono, scontrandosi nella luce dorata del nuovo giorno: il principe Asif aveva grandi mani, salde e possenti nell’uso della spada, e tre volte i suoi fendenti alteri lacerarono la pelle bronzea di Ahmed. La Stella del Mattino, tuttavia, era rapida e impetuosa come vento di tempesta e tutta l’abilità del signore di Mann non riuscì ad evitare che lo colpisse al petto, e invero sarebbe stato escluso dal novero dei peccatori se la lama affilata di Ahmed non fosse divenuta polvere a contatto con la sua carne.  Gridarono entrambi di sgomento e di furore, e forse avrebbero combattuto ancora ma l’aria intorno ad Ahmed si fece densa e cupa, premendo sul suo corpo con la forza dei più profondi abissi, rendendolo immobile e inerme, mentre dinnanzi ai suoi occhi increduli e furiosi le mura della stanza incombevano sempre più vicine, il soffitto affrescato sempre più lontano.  Ogni cosa cambiò la propria forma secondo complessi e fantasiosi disegni ed Ahmed venne inghiottito dai marmi mosaicati della reggia per essere rigettato nella profondità delle sue segrete rocciose dove, terribile nella propria severa collera, stava re Quhāfa, l’interezza del mondo prona ai suoi comandi.

«Mia figlia mi implora di non ucciderti, - gli disse – e io le ho promesso di concederle tre giorni e tre notti di tempo per mostrarmi almeno una ragione per risparmiare la tua vita. Spero tu sia in pace con il tuo Dio straniero, Ladro della Fiamma, perché all’alba del quarto giorno lo raggiungerai.»

Ahmed si scagliò contro re Quhāfa con tutto l’ardore della propria volontà guerriera, ma questi scomparve dinnanzi a lui, quasi non fosse mai stato presente, lasciandolo nella desolata solitudine di una cella silenziosa.

Ahmed, Stella del Mattino, era fuggito da cento prigioni, ma quella in cui re Quhāfa l’aveva confinato era sigillata con la magia e con il sangue, e sicuramente Ahmed vi sarebbe perito se nel cuore della terza notte Aisha non fosse apparsa dietro le sbarre, i suoi occhi rifulgenti come stelle nella più buia delle tenebre. Mai ad Ahmed Aisha la Bella era parsa tanto radiosa come nel momento in cui sconfisse la magia del proprio padre, gli occhi colmi di devozione e bagnati di lacrime, così, non appena fu libero dalle proprie catene, Ahmed la abbracciò appassionatamente baciandole le labbra e le gote. Fuggirono tenendosi per mano.»

«Nessuno diede l'allarme?»

«Nessuno, poiché Aisha conosceva le memorie segrete che formano le leggi di tutte le cose e ad una dopo l’altra comandò il silenzio: le grandi grate di ferro dei sotterranei scorsero nei propri binari d’acciaio mute come lo erano state nella profondità della terra prima di essere turbate dal minatore, le scale di legno li lasciarono passare quiete come le ghiande boschive da cui avevano avuto origine, le guardie rimasero silenziose nel sonno ovattato del ventre materno; persino i fedeli cani di re Quhāfa lo tradirono, le loro voci possenti sprofondate dalla magia di Aisha in un tempo in cui non erano ancora. In quella pace forzata camminarono Aisha e Ahmed fino ad un passaggio segreto nella roccia, tutte le cose vincolate al silenzio secondo la propria legge dal potere di Aisha. Tutte le cose tranne una: poiché i gatti non hanno legge né padrone e la loro memoria si estende a quello che anche le pietre hanno dimenticato. Così il vecchio soriano venne innanzi, sicuro nel proprio pelo come un re sul proprio trono, e i due amanti sussultarono nel vedere i suoi occhi d’oro brillare imperscrutabili nell’oscurità, un interrogativo imperioso nell’arco teso della sua coda. Ahmed si chinò per carezzarlo, ma quello lo evitò con sdegno felpato, muovendosi verso Aisha, una sufficienza sorniona nel tremolio dei suoi baffi. Grande era il potere di Aisha, ma il gatto era vecchio e si apparteneva in ogni sua parte, così che ella dovette rinunciare a piegarlo al proprio volere e chinare il capo in una tacita supplica. Molte cose ricordavano entrambi: il suono della corsa di Aisha attutito dall’erba fresca di primavere lontane che il micio aveva osservato placido dal ramo del ciliegio, ed il gatto parve farsi da parte con grazia flessuosa mentre i due fuggitivi imboccavano il tunnel; ma molte cose ricordava il soriano che Aisha aveva dimenticato, i piedi nudi di lei spezzare secchi le foglie autunnali nel soccorrere il pettirosso da unghie crudeli e il lungo inverno in cui era stato esiliato dal giardino perché non potesse nuocere agli uccelli. Così, appena gli amanti furono passati, il gatto miagolò con gioia vendicativa e il suo verso acuto ricordò alle grate il fuoco e il martello che le avevano forgiate e ai legni delle scale la lama affilata che aveva abbattuto i loro tronchi: tutte le cose furono liberate dal potere di Aisha e rammentarono quello che erano, gridando il dolore di venire di nuovo sottratte a quello che erano state.  

Corsero disperatamente, inseguiti dall’eco deformata delle grida delle guardie, l’angusto corridoio nella roccia concepito per l’estrema fuga della famiglia reale reso claustrofobico dalla tenebra e dall’umidità del salire della marea.»

«Le guardie li raggiunsero?»

«No, scaglia di cielo, perché nessuno sapeva dei cunicoli sotto la fortezza se non re Quhāfa e i suoi figli, così Ahmed e Aisha giunsero indisturbati in una piccola baia deserta, illuminata debolmente dalla luna, dove una lancia solitaria li aspettava silenziosa, pronta ad essere messa in acqua e a condurli vero la Stella del Mattino. Erano ad un passo da tutto quello che volevano, ma i desideri degli uomini sono nubi in balia del vento, onde schiave della marea, così una dopo l’altra le ombre dei fratelli di Aisha si allungarono nella baia come sette pinnacoli cupi intenti a sorreggere la fine della notte: Nadir il saggio, Sidi piè veloce, Omar dalla lunga vista, Reidid signore degli archi, Kalim fine intelletto, Talid delle lance avvelenate e Asif nato nel meriggio, ciascuno eroe di una propria canzone, ciascuno armato e vestito per la guerra secondo il proprio costume, ciascuno pronto alla morte per difendere l’onore della propria casa. Non dissero nulla, il loro giudizio silenzioso tagliente come le lame affilate che portavano con sé, e una cupa disperazione scese sul cuore di Aisha la Bella nel vedere i propri fratelli farsi avanti per uccidere l’uomo cha amava. Ahmed, tuttavia, rise e afferrò uno dei remi della lancia accanto a sé, puntandolo contro Asif, quasi invitandolo a venire verso di lui e porre fine allo scontro che avevano interrotto. Sembrava che la baia fosse destinata ad essere colmata in breve tempo dal rosso del sangue e dell’aurora, e Ahmed aveva già accettato nel proprio cuore impavido di lottare per conservare la vita e dare la morte, e ogni parte del suo corpo e della sua anima fremeva di gioiosa anticipazione dello scontro.

Otto grandi guerrieri pronti alla lotta, la più bella fra le donne a guardare con il volto contorto dalla paura e il creato tutto in attesa sull’orlo del giorno. Sicuramente avrebbero combattuto, ma quando scattarono in avanti, l’angoscia di Aisha proruppe in un grido acuto che bloccò i loro passi e le loro armi, sospendendo il dileguarsi della notte e la venuta del mattino. Ad Ahmed solo, dopo esserglisi posta dinnanzi, concesse di essere libero dal suo potere; abbassò il suo remo e gli pose una mano delicata sulla guancia.

«Naviga lontano, mio amato senza paura, e salva la tua vita e quella dei miei fratelli, perché  non posso tollerare che alcuno muoia per me stanotte.»

Ahmed la scongiurò di seguirlo, ma Aisha sorrise amaramente, perché, sebbene desiderasse fuggire con lui sopra ogni cosa, non sarebbe stata in grado di farlo senza liberare i propri fratelli.

«Non verrò con te stanotte, ma questo non è un addio. Non dimenticarmi, portami nel tuo cuore e, se invero mi ami come dici, porta a mio padre il pane delle stelle, così che la sua parola, data dinnanzi a testimoni, lo vincoli a concedermi a te.»

Calde lacrime pianse Aisha nel separarsi da Ahmed e lui le asciugò dalle sue guance con baci di piuma, promettendole solennemente che avrebbe solcato ogni mare e scalato ogni cielo pur di poter tornare da lei e rivendicarla come sposa. Promise con il cuore sincero e lo spirito sicuro di chi ama con passione e si sappia capace di ogni impresa, poi prese i remi, salì sulla lancia e vogò lontano dalla baia, lasciando che la figura di Aisha si facesse sempre più piccola e il suo cuore sempre più pensante.»

Nadira guardò l’alta consorte con aria affranta e Inaya quasi sorrise della sua innocente bellezza, prima che il rumore dei combattimenti all’esterno invadesse il suo amore per la figlia come una marea ostile.

«Cosa accadde ad Aisha dopo che ebbe lasciato liberi i suoi fratelli? E perché suo padre non intervenne?»

Farida non parve sorpresa dalle domande di Nadira.

«Il poema non lo dice, mia perla, perché il poema è la storia di Ahmed e Ahmed lasciò Alesa quella notte nel tempo che separa la tenebra dall’aurora, salpando verso l’oriente del mondo e l’occidente della propria gloria.»

Il suono cupo dello schiantarsi al suolo di un edificio vicino fece sussultare Inaya ricordandole implacabilmente come anche il regno di Serolle e la vita felice che vi aveva condotto si stesso avviando irrimediabilmente al tramonto.

«Dove andò, Alta Consorte?»

Saijd non sembrava turbato dai rumori esterni e la schiava lo carezzò delicatamente, senza nascondere il proprio nervosismo.

«Veleggiò in mare aperto nell’Infinito Est, lontano dalla collera di Quafa, intento a progettare la propria impresa. Osservò a lungo le stelle, domandandosi come raggiungerle, senza trovare risposta né nelle storie, né nei poemi, né in alcuna conoscenza di cui fosse in possesso, lui che aveva speso un anno a rendersi edotto nelle grandi Biblioteche di Mirae sotto la guida attenta dei suoi Athari. Infine, dopo due mesi di navigazione senza meta, si risolse a intraprendere l’unica rotta che gli si presentasse dinnanzi, per quanto terribile potesse sembrare, e si diresse verso lo Sheren.»

Nadira e Saijd sussultarono, poiché vi erano mille storie ambientate in quel covo di pirati abbandonato dallo sguardo amareggiato di Dio e nessuna aveva un lieto fine.

«Perché?»

La schiava distolse lo sguardo e Inaya chiuse gli occhi, ascoltando il suono della pochezza dell’uomo infuriare fuori dal palazzo, pronta a sentirsene ricordare l’ineluttabile dominio su qualsiasi animo.

«Perché fra le acque basse e paludose nel cuore dello Sheren vi è un’isola maledetta più di tutte le altre, le cui sabbie infide sono fondamenta di un’oscura capanna di giunchi e la vecchia che vi dimora, carica di innumerevoli anni e di inconcepibili arti, si dice abbia un potere che trascende i limiti imposti ai figli degli uomini. Ella attende, mercante di magia e di sventura, l’arrivo di visitatori impavidi, pronta a dispensare le proprie previsioni e i propri consigli, consapevole di dire sempre il vero ma di non portare mai alcun giovamento. Ahmed sapeva tutte queste cose, così si diresse verso lo Sheren, sperando che la vecchia che attende nella capanna di giunchi potesse laddove perfino il più grande fra gli eroi era impotente.»

«E poteva?»

L’entusiasmo di Saijd era quello di tutti gli uomini di fronte alle soluzioni apparentemente semplici.

«Poteva, mia perla, poteva qualsiasi cosa; solo che la sua magia aveva un prezzo e quel prezzo era alto e crudele quanto difficile da comprendere del tutto prima di essere pagato. Neppure Ahmed, che pure era esperto delle cose del mondo, sapeva esattamente cosa aspettarsi quando, carico di preoccupazioni e sospinto dalla marea, si avventurò con pochi compagni fra i fondali infidi e mutevoli del centro dello Sheren. A poppa di una piccola lancia Ahmed percorse i canali salmastri che dividevano le isole sabbiose di quella laguna interna, sondandone i fondali bassi con lunghi bastoni e osservando cauto il protendersi degli alberi verso l’acqua torbida. Ogni cosa in quel mattino pallido pareva malata e deforme, quasi a suggerire ad Ahmed di dubitare della saggezza della propria decisione. Non lo fece. Scese dalla lancia e i suoi stivali logori affondarono nella sabbia nera mentre percorreva gli ultimi metri fra il bagnasciuga e la capanna. I suoi compagni rimasero indietro, timorosi di varcare la cupa soglia e di scrutare nella penombra fumosa per la forma ricurva della vecchia che attende. Ahmed solo penetrò nella dimora della strega, affrontando l’afa dolciastra dell’aria stantia. I rumori esterni erano ovattati dai densi vapori degli incensieri disseminati per la stanza e in un primo momento Ahmed non vide la sagoma della vecchia, immersa com’era nelle nubi cupe che si addensavano intorno a lui. Fu sfiorato brevemente dal saggio consiglio di tornare indietro e avere ragione di Quafa con altri mezzi, ma non appena il suo pensiero si volse al sangue, quasi evocata da quei cupi propositi, la strega si manifestò dinnanzi a lui, sorridendo malevola con i suoi piccoli denti bianchi.

«Benvenuto, Ladro della Fiamma, Stella del Mattino, ti ho aspettato per molto tempo.»

Ahmed non aveva tremato dinnanzi ad alcun uomo sulla terra, eppure nelle infinite rughe di quella vecchia minuta dalle membra bianche come il ventre di un pesce, scorse qualcosa, un potere sconfinato al sevizio di un’intenzione ambigua, che gli fece dubitare la propria invincibilità; ma gli eroi non erano fatti per il dubbio, così Ahmed guardò la strega nei suoi piccoli occhi grigi  e le rispose, siglando il proprio fato.

«Conosci quindi anche le mie ragioni.»

La strega rise, un suono ruvido, cacofonico, che le fece tremare la pelle della gola mentre i lunghi capelli bianchi le si scomponevano sulle spalle.

«Le conosco e le trovo ridicole e insufficienti come quelle di tutti i figli degli uomini. Eppure è la mia legge che tu dichiari ad alta voce cosa vuoi comprare e che io enunci ad alta voce il prezzo che dovrai pagare.»

Ridente e avvolta dai fumi, come uno spettro rancoroso dei tempi antichi, incalzò Ahmed con il proprio sguardo divertito, quasi sfidandolo a tirarsi indietro. Ahmed non era uomo che sapesse farlo.

«Sono qui per comprare una via verso il pane delle stelle.»

La strega gli diede le spalle e si allontanò con piccoli passi incerti verso una grande sedia e un cesto di vimini che stava intrecciando.

«Una richiesta formulata in modo insolito. Un altro uomo avrebbe detto: “desidero comprare il pane delle stelle” e non sarebbe stato fuori dal mio potere esaudire la sua richiesta, né farlo re di tutta Alesa concedendogli come moglie la fanciulla del suo cuore.»

Disse questo sorridendo, le sue labbra rosse simili ad una ferita aperta sul suo volto pallido, senza nascondere la cupidigia con cui offriva più di quanto le fosse stato richiesto.

Molti si domandano cosa sarebbe accaduto se Ahmed avesse acconsentito: quanto più grande sarebbe stato il prezzo e se le conseguenze sarebbero state altrettanto terribili, ma non vi è modo di saperlo giacché Ahmed scosse lentamente il capo in segno di diniego.

La strega sedette dunque sul dondolo di cedro, trono di malizia in un regno di vapori, e così assisa scrutò Ahmed picchiettando delicatamente le proprie dita scheletriche sui braccioli intarsiati.

«Avvicinati, Campione degli uomini, e lascia pensare una povera vecchia.»

Ahmed avanzò, fiero e determinato, fra i fumi caldi che saturavano la capanna di bianca incertezza, lasciando credere ai sensi che la totalità del mondo fosse costituita dal suo incontro con la vecchia strega che lo osservava predatoria e immobile.

«Raggiungerai le stelle, Ahmed, Eroe delle genti: impresa mai tentata prima della tua nascita e che non sarà ripetuta dopo la tua morte. La tua nave, mirabile invero secondo i criteri dei mortali, diverrà materia di leggenda perché la Stella del Mattino, fedele al suo nome che è anche tuo, solcherà le volte celesti e tu solo sarai al suo timone.»

Recitò le parole senza espressione alcuna, quasi fossero l’enunciazione di un fatto stabilito da molto tempo, poi all’improvviso sorrise nuovamente, una gioia feroce a cesellarle i lineamenti di insondabile divertimento.

«E poiché la tua impresa sarà superiore a quella di qualunque altro uomo, il tuo prezzo sarà qualcosa che nessun altro uomo potrebbe sopportare. Avvicinati ancora, Campione degli Uomini.»

Ahmed obbedì, facendo un ultimo passo verso la strega, fino ad esserle dinnanzi, separati solo da poca aria fumosa. D’improvviso le braccia rachitiche della vecchia si protesero verso di lui, affondando con violenza nella sua carne, strappandogli un acuto grido.

«Per la fatica e il dolore che la magia ti ha evitato, reclamo in pagamento il tuo fegato e il tuo stomaco, con tutto il caldo sangue che essi contengono.»

Ahmed era un eroe, il ladro della Fiamma delle Pianure, il primo uomo ad aver scalato la Bianca Torre di Uduna; aveva navigato nell’estremo Ovest fino ad isole sconosciute, aveva sfidato il Re di Enail a duello e vinto il suo trono per il signore del Malinlan; era l’uomo più grande, più coraggioso, più forte e astuto che avesse mai camminato sulla terra. Eppure, nella capanna di giunchi, quando la vecchia che attende affondò le mani nelle sue viscere, quando le sue dita ossute frugarono nei sui intestini e le sue unghie sporche arpionarono il suo stomaco, Ahmed sentì per la prima volta il sanguigno sapore della propria mortalità. Così, dopo che la vecchia ebbe strappato il suo fegato e il suo stomaco, attraverso le cicatrici lasciate dalle sue braccia si insinuò in lui la paura della fine. E voi direte “ma Ahmed era l’eroe!”, e io vi dico:” Ahmed era l’eroe e ogni eroe è Ahmed, ma Ahmed era un uomo e ogni uomo è Ahmed. E come Ahmed, che era un uomo, è caduto, nonostante fosse l’eroe, così cadiamo o cadremo tutti e la nostra fine non sarà che una ricompensa per quella caduta”. E voi chiederete “ma che male vi era nella paura?”, e io vi rispondo: “la paura non era che l’inizio, ma un inizio già ben gravido della propria conclusione. Così come la nostra nascita è gravida di tutti i peccati che ci condurranno alla liberazione della morte, la paura di Ahmed era gravida del tradimento di Aisha, della sua maledizione e della vana cerca con cui la Stella del mattino ogni notte percorre il cielo.»

Saijd e Nadira sussultarono, poiché non avevano mai udito di Ahmed altro che mirabolanti lodi, lasciando Inaya a dolersi per il disincanto con il quale i suoi figli non trovarono niente da ribattere.

«Così il patto venne suggellato nel sangue e nel fumo, e la Stella del mattino divenne più grande fra le navi mentre il suo capitano fu reso più piccolo fra gli uomini. Quando uscì dalla capanna di giunchi Ahmed si accorse che i suoi compagni se ne erano andati.»

«Lo abbandonarono?»

«Alcuni lo credono, sostenendo che Ahmed fosse rimasto un anno un mese e un giorno nella dimora della strega e che i suoi compagni si fossero dispersi, credendolo morto. Altri cantano che, poiché la nave e la lancia attendevano Ahmed dove le aveva lasciate, la vita di suoi compagni fosse in realtà parte del prezzo che egli aveva pagato per poter navigare senza equipaggio per le volte celesti. Come sia andata davvero non ci interessa, mie perle, perché quello che conta è che partì, solo, al timone della Stella del Mattino e che la nave obbedì ai suoi comandi come il suo corpo obbediva ai suoi pensieri.

Salpò nell’aurora, lontano dallo Sheren e dai propri cupi pensieri, di fronte a sé l’immensità del mattino; corse fra il sartiame e rise fendendo le onde, più rapido delle nubi, più leggiadro degli uccelli. Percorse mille miglia nell’infinito Est prima che si facesse notte e le stelle sorgessero nel morire del crepuscolo, solo allora Ahmed mise mano al timone e virò deciso verso il firmamento. Meraviglioso fu il primo levarsi della Stella del Mattino, il vascello ascese, le vele bianche gonfiate dal vento, mentre un arco argenteo di spuma lo univa al vasto mare che aveva lasciato, quasi ultimo anelito dell’onda. Infine le acque si richiusero sotto la nave e la Fiamma delle Pianure risplendette nel cielo, astro fra gli astri agli occhi di coloro che dimoravano sulla terra.  Gli uomini non hanno parole per descrivere la magnificenza del firmamento, la gloria di un regno di luce che non conosca corruzione o sofferenza e il poema stesso non dice del viaggio di Ahmed se non che egli varcò gli alti pilastri del cielo e i suoi occhi conobbero la vera beatitudine.  

Dall’alto di quel regno volse lo sguardo verso il basso e vide la terra come la vedevano le stelle: percorsa da gorgoglii gioiosi, eppure avvolta in un eterno pianto, illuminata di vivaci colori, nondimeno balia di luttuose tenebre, imprigionata nel tempo e sempre sull’orlo della fine, e le vite degli uomini gli parvero un affaccendarsi vano, lume rifulgente di candele sempre sul punto di spegnersi. Allora le stelle gli sussurrarono felici: “Resta con noi, figlio della terra! Divieni sposo del cielo! Mangia il nostro pane e bevi del nostro chiarore, e non dovrai mai più tornare. Resta con noi e pasciti dei nostri volti: sarà bello, sarà gioioso, sarà un’eterna luce che nessuna tenebra potrà mai inghiottire.” Le stelle erano splendenti, misteriose e amorevoli, ma Ahmed amava Aisha e desiderava divenire il suo sposo; perciò prese il loro pane ma non lo mangiò e, sebbene la sua mano non fosse ferma, perché grande era il timore per l’oscurità e la sofferenza verso cui tornava, volse il timone verso casa e la Stella del Mattino prese a discendere verso le acque chiare dell’Est.»

Kemal si lamentò e Inaya lo strinse a sé, quasi il suo amore potesse proteggerlo dal male e dalla morte.

«Tornò ad Alesa?»

«Tornò, gareggiando con il vento orientale e lasciandoselo alle spalle. Giunse ad Alesa al tramonto, lui che l’aveva lasciata all’alba, e il suo cuore fu turbato nel vedere uno stormo di navi stagliarsi nitide contro l’ultima luce del sole morente. Una foresta di alti pennoni, sulle cui cime garriva orgoglioso il vascello azzurro in campo argento vessillo dei re del Malinlan.  Ahmed apprese rapidamente che in sua assenza il suo signore aveva stretto alleanza con tutti i nemici di Quafa e la scintilla della guerra era divampata per la Yama Orientale.»

Un tonfo sordo giunse dall’esterno, suggerendo a Inaya che, da allora, la guerra non aveva mai smesso di propagarsi per le Yame e il vasto Impero.

«E il suo re cosa gli disse?»

«Ahmed si presentò al suo cospetto e re Nardor lo accolse con gioia, poiché il suo ultimo figlio maschio era morto ed egli non riusciva ad immaginare per il proprio regno erede migliore del proprio campione.»

«Ma l’aveva mandato a morire!»

«A tal punto sono mutevoli i cuori degli uomini. Lo accolse con gioia, disposto a perdonare che Ahmed avesse lasciato Alesa senza portare a compimento la missione che gli era stata affidata, offesa per la quale avrebbe potuto chiedere la sua testa. Lo accolse con gioia, lo perdonò e lo mise a capo dell’esercito con cui cercava di conquistare Alesa.»

 Nadira corrugò la fronte con una smorfia di disapprovazione, Farida la vide e le sorrise sprezzante.

«Forse pensate che Ahmed non avrebbe dovuto accettare l’onore che il suo re gli tributava, ma come recita l’adagio “gli onori di un re sono i suoi comandi” e un uomo contravviene ai comandi del proprio re a proprio rischio. Ahmed non desiderava correre un simile rischio per evitare onori che ben si confacevano alla sua ambizione. Voi direte: “Eppure amava Aisha”, e io vi dico: “certamente, amava la principessa di Alesa ma non Alesa stessa, né il suo re, né i figli di quel re”. Un anno un mese e un giorno Ahmed assediò il regno di Alesa, sconfiggendone l’esercito e resistendo alla magia del suo re.»

«Perché la magia non vinse?»

Inaya ricordò di aver posto, a suo tempo, la medesima domanda. Non si aspettava che fosse la schiava a rispondere, ma la risposta somigliava al tal punto a quella che aveva ricevuto da sua madre da riportarle alla memoria tutta la propria antica cocente delusione: «La magia non esiste come la immaginate, mio principe: ha regole e limiti. Nessun mago può vincere una guerra da solo, dovrebbe essere un dio.»

Saijd strinse i pugni con stizza e si voltò verso Farida con cipiglio accusatore: «Hai detto che la vecchia strega poteva qualsiasi cosa.»

«Poteva infatti, e quali terribili conseguenze ebbe il suo potere sulla guerra fra Malinalan e Alesa, ché, senza il suo intervento, Ahmed non avrebbe completato la propria cerca e non sarebbe mai tornato in tempo per prendervi parte.

Ahmed combatté, dicevo, per un anno un mese e un giorno; settanta volte scampò alla morte e ad ogni occasione la dipartita gli parve più inevitabile e terribile della precedente e ogni vita spezzata nell’esercito ai suoi comandi smise di sembrargli estranea e governata da una sorte non riconducibile alla sua. Per questo, quanto l’intera isola fu nelle sue mani con la sola eccezione della capitale, Ahmed scelse di non mettere la città di Alesa sotto assedio ma di radunare i propri uomini e recarsi nella baia appartata dove sboccava il cunicolo che aveva permesso la sua fuga. Così l’esercito del Malinalan penetrò in Alesa dalle Belle Fontane: con il tradimento e con il favore delle tenebre.»

Inaya si era sempre indignata e i suoi figli si indignarono con lei, eppure udendo della decisione di Ahmed sopra il fragore della battaglia che infuriava nelle strade di Serolle per la prima volta considerò lo stratagemma della Stella del Mattino con il metro del sangue piuttosto che con quello dell’onore e la sua indignazione si mutò in dubbio e sconcerto.

«Tre giorni combatterono e tre notti, saturando le pietre di Alesa di sangue e l’aria dell’odore acre della disperazione. Uno dopo l’altro caddero nell’assalto i sette fratelli di Aisha: Sidi trafitto da lance d’argento durante una sortita, Omar sopraffatto lungo le scale, Kamil e Talid circondati e infine abbattuti fra i cadaveri di quelli che avevano ucciso, Nadir e Redidi consumati dalle stesse fiamme che avevano intrappolato le loro madri e le loro mogli.

Quhāfa con tutta la sua magia non poté salvarli, ma il poema narra che nessuno dei soldati del Malinlan che avesse incrociato le lame con i suoi figli tornò mai alla propria dimora.»

Il clangore delle lame e il clamore della battaglia erano tanto vicini da permettere a Inaya di intuire in quale via sotto il palazzo i capitani avessero raccolte le proprie forze. Si domandò dove fossero i fratelli di Kemal, se anche loro non stessero perendo ad uno ad uno nel tentativo senza speranza di difendere ciò che era loro caro.

«Asif non morì?»

«Morirono tutti, scaglia di cielo; Asif, Nato nel Meriggio, morì per ultimo, lui che per primo aveva visto la luce. Più ferocemente di ogni altro guerriero aveva combattuto, la sua lancia acuminata madre di morte; invano aveva tentato di riorganizzare le difese della città nella sua caotica caduta, ma, alla fine, quando gli giunse la notizia della morte dei suoi fratelli si guardò intorno e vide la devastazione del regno che avrebbe dovuto ereditare e seppe che era giunta la fine della sua stirpe. Una collera fredda scese allora nel suo cuore e, abbandonata la lancia, sguainò la spada lasciandosi alle spalle i propri soldati, cercando Ahmed per il campo di battaglia, gridando il suo nome come una maledizione. Coloro che erano sul suo cammino si scostarono turbati, perché invero egli era simile a un antico signore della terra in preda alla furia e Ahmed stesso avrebbe preferito non uscire dalle ordinate schiere dei suoi uomini per incrociare nuovamente le lame con lui. Si scontrarono infine nel giardino antistante alla reggia, la sfida di Asif coperta dal gorgoglio della grande fontana d’ambra: molte parole usa il poema per narrare del loro combattimento, ma non potremo riportarle tutte, poiché il nostro tempo si approssima alla fine, eppure dovete sapere che nel suo cupo impeto Asif trafisse Ahmed alla guancia , sfregiando per sempre l’armonia del suo bel viso, e lasciandosi colpire al torace si spinse avanti per piantare la propria lama nel ventre di Ahemd e Ahmed conobbe la paura. Cento frecce vennero scoccate, trafiggendo il corpo di Asif e interrompendone le slancio; il Nato nel Meriggio barcollò e cadde nella fontana. Morì con gli occhi rivoli verso la terrazza del palazzo dove suo padre piangeva osservandone il sangue diffondersi nell’acqua in elaborati disegni di bellezza crudele.

Trecento guerrieri aveva ucciso re Quhāfa nella propria sala del trono eppure tutta la sua magia non avrebbe potuto restituirgli il proprio primogenito; cupi furono allora i suoi pensieri ed egli sedette in silenzio sul suo alto seggio, mandò a chiamare Aisha e attese che Ahmed e il re del Malinlan si presentassero al suo cospetto.»

Il pavimento tremò e Kemal sussultò nel suo sonno febbricitante; Nadira si morse le labbra e si strinse a Saijd. Inaya chiuse gli occhi, figurandosi un ariete nero abbattersi contro il portone.

«Aisha piangeva sgraziata lacrime quando Ahmed entrò nella sala.

«Perché piangi, vergogna della tua casa? Non sei felice che il tuo amato abbia invaso il tuo regno e ucciso i tuoi fratelli? A quale conclusione credevi ti avrebbero portato le tue decisioni scellerate?»

Si volse quindi verso Ahmed, regale anche nel disprezzo e nella disperazione: «Volevi mia figlia? Prendila, non ha per me ormai alcun valore.»

Aisha si coprì gli occhi, incapace di fare fronte alla propria vergogna, e gran parte della sua bellezza parve offuscarsi, macchiata dal senso di colpa e dal cordoglio; ma Ahmed la avrebbe sicuramente presa fra le braccia se sette trombe d’argento non avessero annunciato l’arrivo del re del Malinlan e dei trecento eletti della sua guardia scelta. Ridente era il volto del signore di Ahemd, illuminato dalla gioia maligna di camminare nelle sale del proprio più grande nemico e di assistere personalmente alla sua rovina.

«Ti ringrazio per questo giorno, mio campione. – Disse ad Ahmed – È un dono degno di un re e la fine della dinastia di Alesa lo renderà completo.»

Non siate stupite, mie perle, cosa altro avrebbe potuto dire? Il re di Alesa era suo nemico e permettere ad Aisha di sopravvivere, avrebbe dato ai suoi eredi modo di cercare vendetta e riscatto per la sua casa. Così ne chiese la morte e nel chiederla guardò Ahmed e Ahmed vide in quello sguardo una consapevolezza, un’offerta e una minaccia. Si trovò allora ad un bivio: da una parte amara e immediata morte al fianco di colei che amava e per la quale aveva affrontato grandi perigli, dall’altra il destino regale che la Vergine d’Acciaio gli aveva pronosticato e che era stato tanto caro alla sua ambizione. Chiuse gli occhi la Stella del Mattino e tumultuosi furono per un istante i suoi pensieri, infine volse lo sguardo ad Aisha la Bella e la sua espressione non celò ad alcuno lo spezzarsi del suo cuore.

Si voltò, dando le spalle alla sua amata e, scambiato un rapido cenno d’assenso con il suo re, fece per lasciare la sala.  Aisha lo chiamò ma lui non rispose.»

L’orrore sul volto di Nadira e Saijd segnò la fine della loro età dell’innocenza.

«Come ha potuto? Perché?»

L’Alta Consorte non disse nulla, lasciando che i crudeli rumori della battaglia echeggiassero nel suo silenzio. Ancora una volta fu la schiava a rispondere con voce sommessa, dando voce alla triste morale della Saga di Aisha.

«Perché era solo un uomo.»

Non disse altro e Inaya stessa non pensava vi fosse altro da dire: la pochezza dell’umanità evidente nelle grida ferine che si propagavano nei corridori, così Farida riprese il racconto senza commentare oltre la caduta di Ahmed.

«Aisha gridò e ogni cosa sulla terra conobbe la profondità del suo dolore e seppe che Aisha bet Quhāfa, la Bella fra le Belle, bramava la morte ed affogava nel rimpianto. Tutti gli uomini del re del Malinlan furono mossi a pietà, ma non re Quhāfa che riempì il silenzio della loro esitazione con un riso amaro.

«Fai bene a desiderare la morte, Aisha, perché quale bene potrebbe venirti ora dalla vita? Non hai meritato tuttavia di tornare nel niente senza assistere a tutto il male che verrà dal tuo tradimento. Dovrai dimorare nell’infinito Est, sola con i tuoi pensieri e il tuo rammarico, e che tu lo voglia o meno dovrai tornare senza poter restare e guardare senza poter distogliere lo sguardo dal sangue versato.»

Lanciò la propria maledizione con rancore e con disperazione e la legge delle cose ascoltò il suo comando, poiché la sua magia era potente ed egli se ne lasciò consumare fino alla morte. Morì così sul proprio trono Quhāfa ibn Saijd al Majid che era stato il più grande dei re e il più potente dei maghi sulla terra, morì come muoiono e vivono tutti gli uomini: soffrendo ed impartendo altro dolore.»

«E Aisha?»

«Aisha sentì la maledizione di re Quhāfa penetrale nelle carne e, osservando la schiena crudele di Ahmed, il dolore si mutò in rabbia, così lo chiamò nuovamente e questa volta egli non poté esimersi dal voltarsi.

«Guardami, Ahmed, Ladro della Fiamma e Stella del Mattino, Flagello di Alesa e dimmi, hai avuto quello che volevi? Perché io ti dico che né il trono del Malinlan, né i tuoi molti figli riusciranno a renderti felice. La felicità vera ti sarà sempre davanti agli occhi ma sempre oltre la portata delle tue dita. E ora vattene, la tua vista mi disgusta.»

La uccisero e Ahmed non rimase a guardare, ma quando gettarono il suo corpo dalla scogliera la Stella fra le Stelle sorse per la prima volta nell’Ovest della notte. Tutti gli uomini seppero che era Aisha, la Bella fra le Belle, condannata da suo padre a un doloroso destino e da allora cominciarono a contare i gruppi di anni secondo i suoi ciclici passaggi.»

Farida si interruppe per un istante e volse lo sguardo verso Inaya.

«Vidi la sua ultima traversata del cielo quando ero ancora una principessa della casa di mio padre: una cometa di luminosa magnificenza, talmente grandiosa ai miei occhi di bambina da sembrarmi una promessa di speranza per le sorti del mondo. L’anno successivo divenni una donna e una moglie di guerra.»

Inaya fissò Farida a propria volta e tentò di figurarsela giovane e ridente, ma, pur cercando di trovare la bambina nella vecchia, non vide che un futuro intollerabile per sé e per Nadira. I bambini parvero non accorgersi di nulla.

«Ahmed la vide?»

«Ahmed la vide e pianse. Non vi era nulla, tuttavia, che fosse più in suo potere, così veleggiò verso il Malinan dove si compì il suo destino ed egli divenne genero di re e re e padre di re. Eppure la bella Ethelion non trovò mai posto nel suo cuore e i suoi figli lo conobbero come un uomo distante a sempre amareggiato. Il poema non racconta i lunghi anni in cui regnò sul Malinlan, solo che non fu mai felice, né ci viene detto alcunché dei turbamenti della sua anima che pure travagliarono i suoi anni, inquinando i suoi successi con il rimorso e le sue gioie con il rimpianto. Vestì di porpora e sedette su un alto trono e non salpò più sulla Stella del Mattino, il Pane delle Stelle una reliquia nascosta che era troppo doloroso riportare alla memoria.

Visse una lunga vita e costruì un solido regno, ma i suoi occhi non smisero mai di rivolgersi verso l’Infinto Est dove la Stella delle Stelle era tramontata. Avvenne infine che, dopo un lungo giorno, re Ahmed si levasse dal capo la corona, gettandola sul proprio trono, e percorresse, vecchio e nascosto da un manto, la via tortuosa dal palazzo fino alla darsena. Celato dalla vista dei suoi sudditi e dei suoi figli, si imbarcò solo sulla Stella del Mattino e la condusse nottetempo fuori dal porto. Egli era ormai anziano e stanco ma la nave gli apparteneva più di quanto non gli fosse mai appartenuto il regno e si piegò senza esitazione ai suoi comandi. Per la seconda volta la Stella del Mattinò abbandonò le acque percorse dai mortali per far brillare la Fiamma delle Pianure nel firmamento notturno e in tutta Erea la Bella gli uomini si meravigliarono, perché una nuova Stella era sorta ad Ovest e correva, piccolo punto di luce bianca, verso l’Est del Mondo. Correva, invero, più rapida di qualunque nave, eppure mai rapida abbastanza da battere nella corsa il giungere dell’alba, così, notte dopo notte, Ahmed tentò di raggiungere l’Infinito Est solo per essere ricacciato nell’Ovest dal sorgere del Sole, egoista signore del cielo, generale impietoso della maledizione di Aisha. Ahmed, tuttavia, non smise di tentare e neppure quando sentì la morte avvicinarsi e lambire le sue spalle con le proprie dita adunche rinunciò alla propria cerca: mangiò infatti allora il pane delle stelle e la sua vecchiaia fu soffiata via da lui come polvere sottile lasciando la Fiamma delle Pianure ad illuminare l’uomo bruno che era stato quando aveva scalato la Bianca Torre di Uduna ed era entrato da vivo nella leggenda. Così si conclude il Grande Poema: con Ahmed riportato alla sua giovinezza, intento in un’impresa al di sopra delle sue forze, il cuore straziato da un amore macchiato dal rimorso e da una cupa amarezza, e noi che non abbiamo compiuto e mai compiremo imprese pari alle sue possiamo ancora vedere la sua stella ogni notte sorgere all’Ovest e sparire nella luce del sole prima che sia tramontata del tutto.»

Grida gorgoglianti giunsero dal piano sottostante a sancire implacabili il ritorno dalla leggenda ad un presente di morte. Saijd rimase immobile, il labbro tremante e gli occhi incolleriti e spaventati. Nadira osservava Farida, attenta e pensosa.

«È una brutta fine, Alta Consorte. Specie per Ahmed.»

Inaya avrebbe voluto consolarla, sussurrarle che la fine infelice del più grande fra gli eroi non era una sentenza di condanna per tutti gli uomini, ma, seduta in una stanza buia in attesa di essere reclamata da un assassino, quelle parole le parvero una menzogna imperdonabile. Ripensò al Carme di Tal e si domandò se avrebbe confortato sua figlia sapere che un poeta morto in esilio aveva profetizzato come l’Eclisse della fine del mondo avrebbe permesso ad Ahmed di sconfiggere il sole e scorgere la forma di Aisha senza però intuirne l’espressione.

I suoni frenetici della battaglia si fecero più vicini ed Inaya riconobbe passi pesanti sul pavimento di lucido ebano e impattare di acciaio contro acciaio e grida di morte e risa di furore. Saijd si morse le unghie freneticamente prima di nascondere il volto nella tunica della schiava. Inaya la osservò stringere suo figlio al petto baciandogli il capo con disperata dolcezza e si accorse di non conoscere il suo nome.

Farida non parve turbata, sorrise anzi a Nadira con una certa delicatezza: «Sveglia tuo padre, scaglia di cielo, il suo momento sta per arrivare.»

Rumori cupi, lo schiantarsi a terra e contro il muro di corpi pensati, scossero l’aria stantia della stanza e Nadira, svegliò Kemal con trepidazione, trattenendo lacrime d’angoscia.

«Moriremo padre?»

Kemal sorrise amaramente mentre tentava di levarsi a sedere poggiandosi a Inaya e non rispose; baciò sua figlia sulla fronte e si alzò in piedi per porsi fra loro e la porta usando la spada come sostegno. Inaya non ricordò di averlo mai amato con tanta dolorosa acutezza.

La porta cedette con un tonfo improvviso, scoccando affilate schegge d’ebano nella stanza. Nadira gridò, gettandosi fra le braccia di Farida.  Oltre la soglia una sagoma erculea torreggiava contro le luci dell’aurora nascente. Inaya non ebbe bisogno di aspettare si liberasse dell’elmo per riconoscere il principe Gyrash, il più terribile figlio di Elmira, e temere la sua furia.

Un gruppo di uomini armati si riversò nella stanza ad attorniare il proprio condottiero; alti, vestiti dell’acciaio di Elmira e sporchi del sangue di Serolle, parvero ad Inaya temibili eppure sfocati, ombre distorte del proprio tremendo principe.

Kemal sollevò la spada a fatica e si fece incontro a quel gigante bardato di scuro acciaio, senza speranza e senza forza, e Inaya si udì emettere un singulto quando Gyrash ne spezzò lo slancio con una spinta violenta del braccio possente. Fracassò la testa di Kemal con gioia feroce senza che le grida dei bambini potessero coprire il suono secco del frantumarsi del cranio sotto il guanto d’arme. Lasciò cadere il cadavere con indolenza e tolse l’elmo senza curarsi che i suoi ricci bruni si mischiassero al sangue che ne sporcava le mani guantate, gettò indietro il capo e la sua gola bruna si abbandonò ad un riso gioioso. Inaya vide in lui tutta la ferina oscurità dei figli degli uomini senza tuttavia potersi esimere dal trovarlo bello e terribile come una calamità implacabile e grandiosa. La schiava riprese a mormorare a mezza voce la sua accorata preghiera ed Inaya ne conobbe l’inutilità con inamovibile certezza: infatti, se vi era nei suoi occhi spazio per vedere la bellezza della violenza di Gyrash ibn Obeyron, davvero non c’era speranza di redenzione per la schiatta mortale.

Farida iniziò a salmodiare i nomi di Dio e i suoi sette attributi di distanza. «Silente è l’Unico, Amareggiato è l’Unico, Imparziale è l’Unico, Inattingibile è l’Unico…».

 Ad Inaya, che si alzava per fronteggiare il mostro dagli occhi ridenti dinnanzi a lei con la sola arma della religione, tutto il salmodiare del mondo parve all’improvviso povero e vuoto. Recitò comunque le parole che si aspettavano da lei: «Avrai cura della vedova e dell'orfano: darai loro riparo sotto il tuo tetto e ristoro alla tua mensa». Non poté dire “tuoi saranno la moglie e i figli dell’ucciso” perché l’enorme mano di Gyrash le si chiuse intorno al collo, rubandole il respiro, e le sue deboli dita si tagliarono invano contro il guanto d’acciaio della sua armatura. Gli occhi le si appannarono di lacrime e, mentre tentava inutilmente di liberarsi da una stretta sovrumana, il suo sguardo fuggì verso il cielo oltre la porta e le vetrate divelte; le parve allora di scorgere la Stella del Mattino irradiare il proprio ultimo bagliore prima di venire inghiottita e sconfitta dalla luce di un'alba livida. Pensò ad Ahmed e a come tutte le storie umane giungano infine ad un’infelice conclusione mentre macchie nere oscuravano il suo sguardo e le preghiere della Schiava e di Farida si fondevano fra loro alle sue orecchie morenti.


Questa storia è stata un dolore. Ho impiegato tre anni a scriverla, abbandonarla e scriverla ancora; mi ha tolto il sonno e la passione, mi ha fatto allontanare dal sito e perdere contatto con tutti coloro che mi seguivano  e tutto sommato direi che la odio visceralmente. La posto con gesto catartico e, anche se non sono solita chiedere recesioni, spero che qualcuno mi faccia sapere qualcosa, per trovare pace.

Note di ambientazione per i miei lettori ancora attivi:

1. Il re di Elmira è re Obeyron, coprotagonista di "Aspettando la fine della notte"

2. Gyrash è uno dei suoi innumerevoli figli

3. La storia di Ahmed e Aisha è quella a cui Moriale fa più volte riferimento in "Piccola storia ignobile"

 

 

 

   
 
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