I rumori crudeli
della battaglia penetravano ovattati nel silenzio
denso della stanza, il tempo dilatato in un’attesa disperata che
sembrava
intrappolare la notte in un’angoscia senza fine. La candela era stata
spenta da
tempo, ma la luce della luna filtrava dagli alti abbaini del muro
esterno,
fendendo la penombra che avvolgeva le forme addormentate dei suoi figli
e il
capo stanco che suo marito le aveva abbandonato in grembo.
Inaya aveva tentato
di riposare, ma il rombo dei tamburi delle
galee risuonava onirico e cupo nella tenebra dietro le sue palpebre
chiuse,
simile a un incubo incombente che né il sonno né la veglia avevano il
potere di
scacciare.
Scostò delicatamente
due ciocche brune dalla fronte madida di
sudore di Kamal, senza che l’amore che aveva riversato nel gesto
riuscisse a
fugare anche solo per un istante la febbricitante sofferenza che ne
adombrava i
lineamenti. Lo contemplò con tenero turbamento mentre si agitava nel
sonno,
cercando di richiamare a sé il sollievo che aveva provato al tramonto,
quando
la porta del loro nascondiglio si era aperta all’improvviso e il
profilo deciso
di Kamal si era stagliato nitido nell’ultima luce del sole calante.
Allora, per
un attimo, si era lasciata abbacinare dal bagliore bronzeo della sua
armatura e
dal calore rassicurante del suo sorriso, e aveva creduto ingenuamente
che tutto
sarebbe andato bene; solo quando gli era corsa fra le braccia e aveva
sentito
il sapore del sangue nel suo bacio, Inaya si era resa conto che li
aveva
raggiunti per morire.
«Ricordi le parole?»
La voce dell’Alta
Consorte ferì il silenzio, insopportabile come
il memento di un dolore inconcepibile, e Inaya desiderò fingere di non
averla
udita, stringere la mano di Kamal e non pensare al salmo che avrebbe
dovuto
recitare al suo assassino; l’anziana Farida, tuttavia, non era donna
che si
lasciasse ignorare e, anche senza alzare gli occhi verso la sua figura
rugosa e
immobile, Inaya sentiva il peso della sua paziente e composta
disapprovazione.
Normalmente avrebbe ceduto, fornendo alla madre di suo marito la
risposta che
desiderava, in quel momento, tuttavia, si trovò sopraffatta dal
desiderio di
avversarla, di riversare sul suo contegno distaccato tutto il proprio
avvilito
rifiuto per l’inevitabile.
«Non saranno
necessarie.»
Nella foga di
sembrare autorevole alzò troppo la voce, svegliando
la schiava che Farida aveva portato con sé e, incrociando lo sguardo
impotentemente spaventato di quella giovane donna, Inaya non poté fare
a meno
di sospirare, accettando di voltarsi verso l’Alta Consorte per subire
tutto il
biasimo insito nel suo freddo ritegno.
La madre di suo
marito la fissava con piccoli occhi neri colmi di
riprovazione, lasciando che il proprio ostinato, inamovibile
silenzio
condannasse in modo inappellabile tanto la sua replica quanto i suoi
ultimi,
illusori scampoli di speranza. La piega amara delle sue labbra sottili
parlava
della caduta di Serolle e del trionfo di Elmira, le
sue mani giunte con precisione
annunciavano la morte del re, delle proprie co-mogli e di tutti i
principi di
sangue dell'isola: "non importa se non sono ancora stati uccisi, -
sembravano dire le pieghe perfettamente stirate della sua veste a
lutto, -
perché lo saranno nel giro di qualche ora, e tu dovrai pronunciare il
salmo
della vedova e dell'orfano o il sangue tuo e quello dei tuoi figli
andranno ad
ingrossare la marea di quello già versato".
«Non voglio.»
La mesta
confessione, per metà ferito sgomento di bambina,
per metà dolente rassegnazione di donna, non sembrò toccare l'aspra
regalità
dell'Alta Consorte.
«Quello che vuoi non
ha nessuna importanza quando non puoi
averlo.»
Inaya strinse Kamal
fra le braccia, quasi a proteggerlo dal
pragmatismo implacabile di sua madre, e lui se ne lamentò, gemendo
sommessamente nelle pieghe della sua stola. Si chinò a baciargli la
fronte e
una lacrima traditrice scivolò dalla sua gota agli occhi chiusi di
Kamal,
creando sul volto in pena di suo marito un'illusione di pianto che mal
si
adattava alla virile durezza dei suoi lineamenti. Era un'immagine
crudele e ingiusta
a cui Inaya scopriva solo in quel momento di non essere stata
sufficientemente
preparata: aveva cantato i salmi per i morti e ascoltato le Alte
Consorti
ammonirla sulla caducità delle vite di principi e re, aveva sepolto
sette dei
propri cognati e visto le loro vedove mandate in moglie agli assassini
dei
propri mariti, eppure la presa di Serolle e l'imminente morte di Kamal
la
coglievano alla sprovvista, lasciandola sbigottita e incredula,
dilaniata in
egual misura dal desiderio di gridare e da quello di nascondersi.
«Le parole, Inaya.»
Compostamente
inginocchiata sul tappeto di lana di Teche, il volto
accuratamente truccato in un'espressione impassibile, l'anziana Farida
non le
sembrò dissimile a una guglia solitaria, scoglio acuminato in un oceano
ostile,
logorata dalla tempesta ma ancora erta contro i flutti con rigida,
ostinata
determinazione; una statua che resista alle intemperie senza che
lacrime
diverse da quelle della pioggia ne percorrano il volto imperturbabile.
«È vostro figlio.»
Una smorfia tagliente
le deformò il viso spigoloso in
un'espressione che sapeva più di altero spregio che di materno dolore.
«È mio figlio; non il
primo che ho generato, né il primo che vedo
perire. Sapevo quando l'ho messo al mondo di dargli la vita perché un
altro
gliela togliesse e ora non posso salvarlo dalla morte più di quanto
possa
tornare indietro ad impedire la sua nascita, e non puoi farlo neanche
tu.
Piangi, se vuoi, ma sappi che Kamal non è venuto a cercarti per essere
cullato
e pianto, ma perché tu veda l'uomo che lo ucciderà e perché lui veda
te, perché
tu possa recitare il salmo e lui sia costretto a prenderti in moglie e
ad
adottare i tuoi bambini.»
Per la prima volta,
guardando quella donna tre volte vedova e
quattro volte moglie di sangue, madre di tre figlie maritate lontano,
di otto
figli già sepolti e di uno che stava per spirare, Inaya si domandò se
non
stesse contemplando il proprio futuro, se, pronunciando le parole che
l'Alta
Consorte continuava a chiederle spietatamente, non sarebbe diventata a
propria
volta una vecchia impietosa e insensibile. Il pensiero le spezzò il
respiro,
coagulandole nella gola tanto il disgusto per l'idea di trasformarsi in
Farida
quanto la paura di non possedere neppure un frammento della fiera
tenacia
necessaria.
«E se fosse il
principe Thal'deyn? Si dice che la sua sola moglie
di sangue si sia gettata in mare da una delle torri del Mar d'Ambra.»
L'alta consorte
respinse la sua angoscia con un gesto secco delle
dita, quasi si aspettasse che l'accorata preoccupazione di Inaya le
obbedisse,
nell'essere licenziata, con la stessa pronta sottomissione dei suoi
schiavi.
«Si dicono tante
cose: si dice che il re di Elmira sia innamorato
della propria sorella e che la trovi ancora la più bella fra le donne
sebbene
non sia più che una vecchia cieca e ossuta; si dice che il principe
Ianamros
abbia una palazzo con duecentoventi concubine e che sia in grado di
soddisfarle
tutte in una sola notte; si dice che il principe Jan'sham abbia un
occhio di
zaffiro e la sua fortuna cambi il corso delle maree; si dice che il
principe
Gyrash abbia sventrato la propria madre nel venire al mondo e che da
quel
giorno la sua stazza e la sua crudeltà non siano che cresciute. Elmira
ha
settanta principi e su ognuno di loro circolano più voci che venti
nella tempesta.
Non ci si può gettare in mare dal Mar d'Ambra, Inaya; ma anche se si
potesse,
non farebbe nessuna differenza: qualunque uomo entri da quella porta,
dovrai
inginocchiarti e abbracciargli le ginocchia, sperando che scelga di
fare il suo
dovere.»
Inaya deglutì a
fatica e si morse la guancia, combattendo a fatica
gli spasmi del proprio stomaco, tentò di controllare la propria voce ma
le
corde vocali la tradirono, trasformando la sua domanda in un singulto
gutturale.
«E se fosse un
mostro?»
Aveva incontrato il
principe Gyrash una volta e ricordava ancora
la disinvolta naturalezza con cui le sue grandi mani aveva spezzato il
polso
dello schiavo che aveva rovesciato una goccia di vino sul suo vestito.
Contrariamente ad
ogni aspettativa Farida sorrise, una tensione
delle labbra amara e priva di empatia, da cui Inaya non riuscì a trarre
alcun
conforto.
«Certo che lo sarà,
sarà l'assassino di Kamal.»
Nel silenzio teso che
seguì quell’affermazione crudele, Inaya udì
la giovane schiava sussurrare fra sé torcendosi le mani con ansia
spasmodica,
la sua preghiera straniera un tutt’uno soffocante con le afose tenebre
della
stanza, e non poté fare a meno di domandarsi se avesse capito di essere
stata
portata in quella stanza isolata del palazzo per essere stuprata e
uccisa al
posto suo.
«Eoen, Legge di
Giustizia e Salmo di Misericordia, presta il tuo
scudo al giusto e spezza la spada dell’empio.»
«Taci!»
Il grido di Farida
sferzò la notte di inquieta indignazione e nel
suo vibrare acuto Inaya udì l’eco impietoso di tutti gli ammonimenti
con cui i
sacerdoti l’avevano istruita a non rivolgersi a Dio con altro scopo che
quello
di lodarlo. Gli insegnamenti che aveva ricevuto da bambina suonavano
stentorei
e cupi nei suoi ricordi come lo erano stati alle sue orecchie quando
per la
prima volta aveva appreso della peccaminosità irreparabile della
nascita e
dell’amarezza distaccata con cui Dio guardava alla colpevolezza del
mondo. Una parte di
lei avrebbe voluto stringere le
mani della schiava e unirsi alla sua invocazione, domandare ad alta
voce nel
proprio cuore se davvero le colpe dei figli degli uomini fossero tanto
imperdonabili da meritare che l’Unico rimanesse distante e silente di
fronte al
loro dolore; come la serva, tuttavia, quella parte di Inaya chinò il
capo in
silenzio dinnanzi al rimprovero dell’Alta Consorte.
«Cosa c’è?»
Inaya sussultò
nell’udire la voce di
Nadira
e trattenne le lacrime nell’osservare il gesto infantile con cui,
tiratosi a
sedere, Saijd si stropicciò gli occhi.
«Niente, mie perle,
tornate a dormire.»
Uno
scetticismo spaventato adombrò i lineamenti di Nadira, Inaya si domandò
quando
profondamente sua figlia avesse capito quello che suo fratello
percepiva
appena.
«Stanno ancora
combattendo, madre?»
Il fischiare
aggressivo del proiettile di un trabucco rispose al
suo posto, lasciando Ianya a domandarsi, nell’udire il rombo del suo
schiantarsi contro un edificio, quanto vicina al palazzo potesse essere
giunta
la battaglia.
«Ho paura.»
Le guance paffute di
Saijd tremarono in un’avvisaglia di pianto,
pungolando in Inaya il desiderio trattenuto a stento di nascondere il
volto fra
le mani, abbandonandosi alla disperazione.
«Non hai niente da
temere. Tua madre farà sì che non vi accada
nulla.»
La schiava sorrise,
carezzando la testa di Saijd, quasi a prestare
la propria generosa tenerezza al tono duro di Farida.
«Papà non ci
protegge?»
«Tuo padre è stanco,
scaglia di cielo; ha ucciso i mille nemici,
corso le mille miglia e ora riposa. Per quello che serve fare, basterà
tua
madre.»
I
suoi figli erano
troppo piccoli per riconoscere la citazione dai Salmi dei Morti, ma
Inaya la
udì echeggiare nella voragine angosciata dalla propria anima e,
ascoltando
quelle parole spietate, stringendo a sé il corpo febbricitante di
Kamal, per la
prima volta una parte di lei gli disse addio.
«Voglio
andare a letto.»
La
schiava rassettò le
vesti di Saijd con una dolcezza di cui Inaya non riusciva a comprendere
l’origine.
«Miei
principi, temo non sia possibile. Volete che canti per voi dal Grande
Poema? La
scalata della bianca torre di Uduna? Il furto della Fiamma delle
Pianure?
Oppure preferite gli inizi? I primi passi di Ahmed sulla strada della
sua
grandezza?»
Inaya
vide gli occhi di Saijd illuminarsi: tutti i bambini amavano le
prodezze
compiute da Ahmed nei primi trentasette canti del Poema, la cangiante
bugia che
con scaltrezza e valore l’uomo possa conquistare qualsiasi meta.
Nadira,
tuttavia, rispose per prima.
«Cosa
gli accadde poi? Quando incontrò Aisha?»
Una
crepa d’imbarazzo s’insinuò nel sorriso delicato della schiava e i sui
oblunghi
occhi castani cercarono quelli di Inaya in una domanda silenziosa.
Inaya scosse
impercettibilmente il capo, decisa a difendere i suoi figli dalla
crudeltà del
Grande Poema quando non poteva proteggerli da quella del mondo.
«Quella
di Ahmed e Aisha non è una storia da ascoltare nel buio, mia
principessa. Ve la
narrerò, domani, quando verrà il mattino.»
Farida
le guardò entrambe e rise, Inaya non avrebbe saputo dire se della
reticenza a
raccontare o della speranza di sopravvivere fino all’alba.
«Non
saranno le storie a farci del male nella notte. Se lo desiderate,
piccole
perle, vi racconterò la fine del Grande Poema; è appropriato, perché
molte cose
oggi si approssimano alla fine. Sappiate però che non canterò, né
reciterò
versi: perché non vi perdiate nella bellezza della poesia, dimenticando
la
storia.»
Inaya
fu sul punto di interromperla, ma udendo il fragore crescente della
battaglia,
percependo l’agitarsi di Kamal, si sentì pervadere da uno stanco senso
di
impotenza e tacque, limitandosi a guardare mentre i suoi figli si
facevano più
vicini a Farida, già protesi verso una storia che immaginavano carica
di
eroismo e di magia.
«Molte
sono le imprese compiute da Ahmed, tutte di mirabile statura:
l’uccisione della
tigre delle colline, l’inganno di Dale, la battaglia nella tempesta
davanti
alle scogliere di Ithin, la seduzione della Vergine d’Acciaio e la
disfida dei
trenta; di nessuna di queste parleremo oggi, non erano che il mattino
della sua
leggenda, gli accordi iniziali del suo canto grandioso. Né faremo
parola della
scalata della Bianca Torre e del furto della Fiamma delle Pianure che
pure
furono il suo più alto trionfo, il meriggio dorato della sua gloria: le
conoscete da tempo e non dovete che chiudere gli occhi per richiamarle
alla
memoria.»
Solo
l’accenno bastò ad evocare alla mente di Inaya i versi più possenti
della Saga
del Marinaio e della Saga della Fiamma, ferendola con un’affilata
nostalgia per
l’inizio ingannevolmente radioso di tutte le cose.
Chiuse gli occhi contro la penombra irridente
della stanza, ma non poté impedirsi di ascoltare Farida prendere per
mano
l’immaginazione dei suoi figli, conducendoli lontano dalla luce di
quegli inizi
verso la tenebra della loro conclusione.
«La
maggior parte della sua leggenda era ormai compiuta quando Ahmed decise
di
tornare nel Malinlan alla fine della sua trentacinquesima stagione dei
ritorni;
due volte la luna gonfiò e sgonfiò il proprio ventre, osservando la
Stella del
Mattino solcare le onde, prima che la marea favorevole la sospingesse
finalmente in porto. La vedetta lanciò un grido di gioia nello scorgere
l’alto
faro di Tolcamir e la sua voce si diffuse nelle piazze della città,
annunciando
la venuta di Ahmed con lo stesso vento dell’est che gonfiava le sue
vele.
Cinque
anni egli era stato lontano dal Malinlan, mentre mille racconti delle
sue
imprese giungevano nella sua terra natale, e non vi era uomo in tutto
il regno
che non bramasse vedere con i propri occhi gli innumerevoli tesori che
aveva
conquistato nel suo lungo peregrinare. Favoleggiata al di sopra di ogni
altra meraviglia
in suo possesso era la sua nave: donatagli da re di Reda per aver
risolto i tre
enigmi di Hed, costruita con il legno dei giganteschi alberi bianchi
della sua isola
e armata con vele di lino tessute nella notte dalle sue figlie, era
stata battezzata
da Ahmed Stella del Mattino, poiché
appesa
al pennone del suo albero più alto stava la Lampada Bianca in cui aveva
risposto la Fiamma delle Pianure. Per vedere il rifulgere di quella
Fiamma
fendere la notte, nobili e marinai, carrettieri e mercanti, dame e
prostitute
si radunarono sulla banchina e il re in persona discese dalle alte sale
del suo
palazzo per assistere all’approdo del suo campione.
Dapprincipio
il re fu lieto per l’ormeggio della Stella del Mattino, poiché molte
prodezze
aveva compiuto Ahmed nel suo nome; tuttavia quando lo vide
approssimarsi alla
sua lettiga, gioioso come chi torni in patria dopo innumerevoli anni,
fiero
come chi abbia portato a termine grandi imprese durante la propria
assenza, fu
colto da inquietudine poiché la folla, nella sua trepidazione, gli
attribuiva
onori regali, chiamandolo Signore e
chiedendone
il favore. Così gli occhi del re vennero inquinati dal sospetto e,
osservando
Ahmed genuflettersi dinnanzi alla sua portantina, tutto quello che
riuscì a
vedere fu la morbidezza disinvolta della sua postura e la sicurezza
radiosa con
cui, pur avendo piegato il ginocchio, non aveva chinato il capo. Ahmed
sorrise,
gli occhi luminosi di chi abbia contemplato il sole sorgere sulla Madre
dei
Fiumi, ed estrasse uno scettro d’oro da sotto il mantello, lasciando
che il bagliore
delle fiaccole si infrangesse contro la melagrana di rubini che ne
stava alla
sommità, colpendo il suo volto e quello del re del Malinlan con schegge
di luce
dal colore del sangue. Osservando quei riflessi rossastri, Ahmed lesse
nell’espressione del proprio re il timore di essere scalzato dal
proprio trono,
e gli si rivolse con devozione porgendogli umilmente lo scettro.
«Perdonate,
mio re, questo pegno dimesso. Ben misero è quel campione che sia
incapace di
trovare un dono degno del proprio sovrano, tuttavia nessun campione ha
mai
avuto un compito più arduo del mio, giacché la vostra grandezza è tale
da
adombrare qualsiasi altro sire.»
Voce
di miele aveva Ahmed, ma le parole suadenti non producono frutti quando
cadono sul
terreno freddo di un cuore invidioso e la mente del signore di Tolcamir
corse
lontana dalle lodi del suo campione verso il nemico che ne provava la
falsità:
giacché ad appena una settimana di navigazione dalla sua capitale il re
delle
Isole viveva in un palazzo d’ambra e avorio, servito dai suoi otto
figli e
amato dalle sue quattro mogli. Rispettato per la sua saggezza e temuto
per la
sua magia, egli era il solo che rivaleggiasse in potenza con il re del
Malinan e
questi da anni desiderava muovere guerra contro di lui, trattenuto
appena
dall’accorta prudenza di chi non conosca fino in fondo le forze del
proprio
avversario. Distolse lo sguardo dalla fermezza con cui la mano di Ahmed
stringeva lo scettro per fissare l’orizzonte, e, osservando oltre le
acque nere
del Golfo sommerso dalla notte, un’idea malevola si fece strada fra i
suoi
pensieri.
Solo
allora il re fece ad Ahmed cenno di alzarsi, lasciando che la folla
acclamasse
entrambi mentre accettava con un sorriso il suo scettro d’oro.
«Ti
ringrazio per questo dono, mostra la buona volontà di un animo fedele.
Se però
davvero desideri trovare qualcosa che sia degno della mia grandezza o
che
soddisfi i desideri del mio cuore, dovresti riprendere il mare e
navigare verso
Est. Perché ad Alesa sta ciò che bramo nelle notti insonni.»
Un
silenzio stupefatto scese sul porto e Ahmed inclinò il capo, osservando
con
rassegnazione le rughe avide che deformavano il volto del suo signore,
comprendendo la duplicità calcolatrice del suo disegno e accettando con
distacco la necessità di conformarvisi.
«Il
timone della mia nave vi appartiene, mio re. Non avete che da indicare
la rotta
perché io la segua. Nominate l’oggetto del vostro desiderio e, se sarà
necessario, combatterò ogni soldato di re Quhāfa a mani nude per
vincerlo in vostra vece.»
Nobili
e vagabondi trattennero parimenti il respiro quando il Signore del
Malinlan
scese dalla sua lettiga, posando i nobili piedi, Sangue del Sangue del
Grande
Sire, sulle sporche pietre della banchina, logorate dal sale e dal
sudore degli
uomini miseri.
«Accompagnami
nel mio palazzo e cena al mio desco. Domani mattina, se le tue parole
sono
veritiere, prenderai con te i miei doni per il re delle Isole e
busserai alla
sua porta per chiedere la mano di sua figlia per il mio primogenito.»
Ahmed
annuì e la folla si lasciò andare ad un boato di entusiasmo quando il
re del
Malinan fece un passo in avanti per abbracciare il proprio campione
come un
padre che accolga il figlio tornato da un lungo viaggio. Coperto
dall’esultanza
della folla l’ultimo ordine del re non fu che un sussurro crudele
nell’orecchio
di Ahmed.
«Cena
alla sua tavola, dormi nei suoi letti, scopri i suoi segreti; dimmi
come
sconfiggerlo.»
Perciò
sappiate, mie piccole perle, che la Saga di Aisha inizia nel sospetto e
nell’invidia, nell’ambizione e nella malizia, e finisce nel pianto.»
Inaya
vide Nadira aggrottare le sopracciglia e Saijd guardare confusamente
prima la
sorella e poi la schiava.
«Ma
il re del Malinlan non era cattivo.»
La
schiava gli sorrise, stringendo le labbra in una linea sottile,
inghiottendo a
fatica il disprezzo che tutti gli imperiali avevano per la versione
isolana
della saga di Aisha. Inaya non aveva mai capito perché fosse tanto
importante
quale re avesse macchinato per primo contro l’altro.
«Forse
non lo era al principio, quando la leggenda di Ahmed non era ancora
così smisurata
da oscurare la sua e i suoi due figli minori erano ancora in vita.
Quando Ahmed
tornò da lui, tuttavia, non era che un uomo cupido e disilluso alle
soglie
della vecchiaia, le sue imprese sbiadite, il suo primogenito uno
storpio e la
sua ultimogenita una merce di scambio custodita con calcolata gelosia.
Un
sovrano cupo dal cuore equamente diviso fra la brama di aumentare i
confini del
proprio regno e il timore di non poterlo conservare per la propria
stirpe. Per
questo mandò Ahmed dal re delle Isole: per scoprire le debolezze di un
nemico
che temeva di non poter sconfiggere e liberarsi di un amico che temeva
di non
poter più controllare.»
«E
Ahmed cosa fece?»
«Accompagnò
il re del Malinlan nel suo palazzo e sedette alla sua sinistra durante
il
banchetto. Presentò i cento doni, cantò le cento lodi, come un servo
fedele, e
quando giunse il mattino dispiegò le sue vele verso le isole.»
«Ma
non sapeva che lo mandava a morire?»
La
domanda di Nadira risuonò come un dubbio acuto nella calda oscurità.
«Certo.
Ahmed non era uno sciocco. Sapeva, tuttavia, che sarebbe vissuto. La
Vergine
d’Acciaio glielo aveva predetto mentre giacevano insieme fra cuscini di
seta e
lenzuola di lino: «Sarai viandante e re e viandante, marinaio e re e
marinaio,
genero di re e re e padre di re, ma prima dovrai salire e scendere e
salire le
scale di Alesa». Così Ahmed salpò verso le isole, con il cuore sicuro
di chi
vada verso l’apice della propria gloria. Come ho detto, scaglie di
cielo, la
Saga di Aisha comincia nell’ambizione.»
Inaya
sospirò, osservando i primi segni di una perplessità amara disegnarsi
sul volo
di sua figlia nello scoprire che non era rilevante se Ahmed fosse
partito per
Alesa spinto dalle brame del re del Malinlan o attirato dalle
macchinazioni di
re Quhāfa, poiché l’unica ambizione che ne avesse mai guidato il
timone era la sua. Nadira si voltò verso di lei, smarrita, ma, prima
che Inaya
potesse pensare a qualcosa di confortante da dirle, Farisa riprese il
proprio
racconto, severa e distaccata come una marea ostile.
«Un ciclo di luna fu lungo il
viaggio di Ahmed, la Stella
del Mattino respinta verso il Malinlan dai venti dei ritorni; grandi
mareggiate
si opposero al suo viaggio e correnti ostili, ma Ahmed aveva già vinto
la
burrasca una volta quando aveva cavalcato le onde davanti alle
scogliere di
Ithin, ridendo nella tempesta, padrone della propria nave e signore del
proprio
timone, mentre la flotta del Signore di Hann veniva sballottata dai
flutti.
Dieci navi aveva abbordato Ahmed quel giorno, prendendone in controllo,
e più
del doppio ne aveva affondate, così non temette nubifragi né venti
ostili e guidò
con decisione la Stella del Mattino attraverso ogni genere di
intemperie fino a
quando, all’alba del ventottesimo giorno, non vide all’orizzonte l’alta
torre
del palazzo di Alesa. Si dice non vi sia reggia più splendida del Mar
d’Ambra
né signore più beato del re di Elmira che vi dimora, eppure, se
dobbiamo prestare
ascolto al Grande Poema, nessuno dei suoi sfarzi può rivaleggiare con
la
maestosità del palazzo di Alesa. Mille trentasei guglie si innalzavano
verso il
cielo dal castello di re Quhāfa, ciascuna cesellata e decorata con il
più
candido degli avori, centinaia di fontane d’ambra zampillavano nei suoi
innumerevoli giardini e miglia di fiori sbocciavano ogni giorno nelle
sue
terrazze, tuttavia il suo splendore non impressionò Ahmed i cui occhi
scuri
avevano contemplato tanta bellezza quanta un uomo possa scovarne in una
lunga vita
di ricerca. Di tutte le meraviglie possedute da re Quhāfa una sola fu
una
capace di togliergli il respiro: Aisha, la Bella fra le Belle, l’unica
figlia
del re di Alesa, la cui mano era venuto a reclamare per conto di un
altro.»
«Fu allora che la vide? Quando
arrivò in porto intendo.»
«Oh no, mia perla. Quando arrivò in
porto nessuno della
famiglia reale era lì ad attenderlo. Molte colombe avevano lasciato
Tolcamir per
annunciare la venuta di Ahmed ma re Quhāfa era un uomo fiero e si
rifiutò di
scendere le alte scale del suo palazzo per rendere omaggio al messo del
suo
nemico. Mandò,
invece, venti uomini
della propria guardia d’onore, perché scortassero Ahmed nella sua
reggia
lasciando i suoi compagni a custodire la Stella del Mattino.»
«Perché lo ricevette, allora?»
La perplessità di Saijd era venata
di fastidio e l’ingenuità
della sua domanda addolorò Inaya con la bellezza straziante della sua
innocenza
e con il timore che non sarebbe vissuto a abbastanza a lungo da
perderla.
«Perché, oltre ad essere fiero, era
anche accorto e
desiderava sapere quali disegni intessesse re Nardor oltre le azzurre
acque del
Golfo che li separava.»
«E pensava che Ahmed glielo avrebbe
detto?»
«No. Pensava di capirlo dalle sue
parole a dai suoi silenzi.
Così lo mandò a chiamare, perché fosse chiaro che non si sarebbe
scomodato per
nessun signore della terra e lo fece sedere alla propria destra nel
banchetto
della sera, perché non di dicesse che il sire di Alesa mancava ai
propri doveri
di ospitalità e munificenza.»
Erano doveri che il figlio di un
principe poteva capire,
così Saijd annuì, lasciando che Farida proseguisse nella propria
narrazione,
talmente assorto nelle vicende della Stella del Mattino da dimenticare
il
fragore della battaglia fuori dal palazzo.
«Molta della propria grandiosità
sfoggiò re Quhāfa dinnanzi
agli occhi di Ahmed: la raffinatezza delle sue cucine, la ricercata
eleganza
delle sue mogli, la bellezza delle sue schiave; aedi con lingue di
miele
cantarono le prodezze dei suoi figli e doni pregiati dimostrarono la
ricchezza
del suo regno. Tuttavia, pur mostrando molte delle meraviglie della sua
famiglia e delle sue terre, re Quhāfa tenne celate tanto la propria
magia
quanto la propria figlia, che erano il pilastro del suo trono e la
delizia del
suo cuore. Allo stesso modo Ahmed non pose domande né offrì storie,
lodando
l’ospitalità ricevuta senza rivelare la ragione della propria venuta,
così il
più potente dei re e il più rinomato fra i campioni conversarono a
lungo
lasciando che l’importanza delle proprie parole fosse messa in ombra da
quella
delle proprie omissioni. Quando lasciarono la grande sala per coricarsi
re
Quhāfa non conosceva le intenzioni di Ahmed più di quanto questi
conoscesse le
sue debolezze. Fu quella notte che Ahmed udì per la prima volta la voce
di
Aisha.»
Inaya ricordò con amarezza
nostalgica la prima volta in cui
aveva udito un trovatore cantare il Grande Poema nel palazzo di suo
padre,
l’estasi sognante con cui aveva immaginato Ahmed, poggiato alla
balaustra della
sua alta terrazza, far vagare lo sguardo nella notte cercando l’origine
di una
voce delicata.
«Un canto soave che danzava nell’oscurità come i petali di magnolia nel vento caldo della stagione delle fioriture, eppure non furono né la dolcezza del suo timbro né la vivacità dei suoi virtuosismi a spingere Ahmed a levare il capo stanco dal cuscino. Vi era, in quella voce morbida, una corrente di fermezza, uno slancio fiero, come la certezza di poter costringere il mondo a condividere la propria gioia ed Ahmed rimase sveglio ad ascoltare quel comando di letizia diffondersi fra i giardini di Alesa.»
«Non la andò a cercare?»
«Non quella notte, mia perla;
quella notte e per le tre
notti a venire Ahmed si limitò a godere del piacere datogli da quel
canto,
immaginandolo provenire dalla luna e dalle stelle, concedendosi, per la
prima
volta dopo innumerevoli anni, di dimenticare il peso della propria
leggenda e
della propria gloria. La quarta notte tuttavia, dopo aver conversato di
nuovo a
lungo e inutilmente con re Quhāfa, Ahmed abbandonò il proprio letto e,
invece
di avvolgersi in vestaglie di lino e affacciarsi pigramente all’ampia
terrazza
della propria stanza, calzò i propri sandali e lasciò che la voce lo
conducesse
per le scale e i portici del palazzo, così come i figli di Dele avevano
seguito
il violino di Imlin negli abissi, senza darsi pena della ragione dei
propri passi
decisi o domandarsi cosa sarebbe venuto dal proseguire quella cerca.
Vagò per
lunghi corridoi e attraversò piccoli chiostri, rompendo la quiete dei
loro
pozzi profondi e solitari colonnati, lasciando che la luce eburnea
della luna
scolpisse giochi d’ombra negli arabeschi della reggia e nelle pieghe
del suo
viso; ascoltò il canto farsi più nitido, perdere la distanza
echeggiante che
gli veniva dal propagarsi attraverso androni e peristili, udì il suono
dei
campanelli e sorrise, dando per la prima volta, nella propria
immaginazione,
alla voce un corpo di donna. Infine percorse l’ultimo corridoio e spiò
nel più
interno dei cortili, dove Aisha la Bella danzava sola al ritmo di
cinque
campanelli di cristallo tenuti sospesi nell’aria tiepida dalla magia
della sua
voce. Celato nell’ombra del grande portone, la osservò piroettare,
gonfiando la
propria bianca stola sotto la luce perlescente delle stelle, bella come
i sogni
che vagano sopra gli acquitrini dello Sheren per irretire i
viaggiatori, delicata
come un sussurrio della luna e flessuosa come un giunco. Si dice però
che non
fu la sua bellezza, che pure era tale da far ammutolire gli uomini,
quanto la
gioia con cui danzava a togliere il respiro ad Ahmed; giacché Aisha,
custodita
nel cuore della casa di suo padre, non aveva conosciuto del mondo che
il suo
innegabile splendore e, pur avendo avuto notizia della sofferenza,
credeva
ancora che questa potesse essere mitigata dalla legge ed eradicata da
una
volontà buona. Questa convinzione guidava i suoi passi e rifulgeva sul
suo viso
con il chiarore di mille lune ed Ahmed, che non aveva mai conosciuto
una
felicità non adulterata dalla ferocia o dal sangue, unì la propria voce
tenorile a quella di Aisha, desideroso di congiungersi a lei nel canto
e nella
gioia. Le loro voci si armonizzarono nell’aria tiepida della notte per
un
istante, prima che Aisha si voltasse di soprassalto; i campanelli
caddero al
suolo, ferendole i piedi con schegge affilate, e nell’improvviso
silenzio scorse
Ahmed venire innanzi, i lineamenti cesellati dalla luna e un sorriso
luminoso
carico di sicurezza e ammirazione. E questo fu l’incontro fra Aisha, la
Bella
fra le Belle, e Ahmed, la Stella del Mattino, la più mirabile fra le
donne e il
più grande fra gli uomini.»
«E si amarono?»
«Mia perla, certo che si amarono.
Ahmed andò a chinarsi davanti
a lei, prendendone il piede sanguinante fra le mani callose, baciandone
le
ferite con dolcezza e, guardandolo, Aisha vide la devozione sul suo
volto e la
luce della Fiamma delle Pianure rifulgere nei suoi occhi scuri. Si
amarono e
furono fra i perduti.»
In fondo, pesò Inaya, non vi era
molto da dire su Ahmed e Aisha
che non si potesse affermare di tutti i nati di donna; cosa fanno, alla
fin
fine, i figli degli uomini se non amare e perdersi? Si domandò come
sarebbe
stato il grande poema se Ahmed non avesse amato Aisha, se Aisha non
avesse
amato Ahmed, come sarebbe stato il mondo se il re di Elmira non avesse
amato la
gloria ed il potere, se il re di Serolle non avesse amato
l’indipendenza più
dei propri soldati, se Kamal non avesse amato il dovere più della vita,
si
chiese persino se il dolore straziante che la attraversava non
dipendesse in
fondo dal peccato enumerato nel Libro di amare il proprio marito e i
propri
figli più della magnificenza di Dio. Fu pervasa per un istante dal
sospetto che
la sola pace appartenesse ai Fuggitivi nel Silenzio e alla loro
distaccata
adorazione dell’Ineffabile; la malinconia che le evocava la saga di
Aisha si
unì ad una cupa disperazione per le umane sorti.
«Non capisco.»
«Cosa c’è da capire, scaglia di
cielo? Aisha era figlia di
un re e al figlio di un re era destinata; Ahmed era un orfano, tre
volete
comprato e tre volte venduto e, nonostante le sue grandi imprese, non
era agli
occhi del re di Alesa che un nato dal fango fedele al suo più grande
nemico.
Non avrebbero dovuto aspirare a quello che non era destino avessero.»
«Ma la Vergine d’Acciaio gli aveva
predetto che sarebbe
stato re e genero di re.»
La protesta infastidita di Nadira
non cancellò il sorriso
amareggiato dal volto dell’Alta consorte.
«E la
profezia lo rese ambizioso oltre quanto gli sarebbe stato lecito
sperare. Così,
invece di ammirare la bellezza di una donna che non gli apparteneva, la
baciò
con fervore sulle labbra, violando la sacralità del tetto del proprio
anfitrione.
Fino al mattino rimasero insieme, quella notte e le notti seguenti:
Aisha cantò
per Ahmed al suono dei campanelli e Ahmed le raccontò storie di paesi
lontani e
la chiamò “voce dell’alba” e “miele del mondo”. Insieme
osservarono il risplendere della luna
e inventarono nuovi nomi per le stelle, ma la settima sera Aisha giunse
in
ritardo nel giardino, il suo bel volto oscurato dal turbamento.
«Il
mio regale padre guarda alla tua venuta con sospetto e desidera la tua
morte.».
Un altro uomo
sarebbe rimasto turbato, poiché re Quhāfa era
un grande re e un uomo di potere e ben pochi fra i suoi desideri
restavano
insoddisfatti, ma Ahmed sorrise e i suoi occhi scuri non tradirono
altra
emozione che la gioia che gli veniva dall’udire la voce di Aisha.
«E per quale
ragione?»
«Ha sognato di
te stanotte: nella sua visione eri vento di
tempesta e onda di sventura, prima nota del lamento funebre della sua
stirpe. Parlando
con i miei fratelli ha asserito tu sia venuto per rubare ciò che gli è
caro e distruggere
ciò che ha costruito. Sono venuta a chiedere quanto vi sia di vero.»
Ahmed sorrise,
non un’ombra di incertezza sul suo volto avvenente,
il suo sguardo carico di un amore sfrontato.
«Vi è del falso
e vi è del vero, poiché sono venuto per
conto del signore del Malinaln e la mia venuta ha nei suoi disegni un
posto
nella distruzione del regno di tuo padre, ma ora che sono qui il mio
cuore va
contro i desideri del mio signore perché invece di chiedere la tua mano
per il
suo primogenito non bramo altro che stringerla al petto.» »
«E Aisha cosa
rispose?»
L’entusiasmo di
Nadira fu sovrastato dal rombo dei tamburi
nemici, ma questa non parve accorgersene, mesmerizzata dalla potenza
affabulatoria di Farida.
«Non rispose
nulla, scaglia di cielo, poiché i loro cuori
ormai battevano come una cosa sola e, senza bisogno di parole, si
promisero
l’uno all’altra nel tepore della notte e nel profumo del ciliegio.
Sotto petali
bianchi guardarono verso orizzonti lontani e si videro cavalcare senza
meta
nelle grandi piane dell’Ernilan, accendere i Cinquecento fuochi
nell’inverno di
Redestia, scalare le grandi piramidi degli Huss’atia e danzare nel
tramonto sulle
rive della Madre dei Fiumi. La vastità di Erea la bella si dipanò
dinnanzi a
loro e non desiderarono che percorrerla insieme, liberi da ogni lealtà
che non
fosse quella del loro amore.
«Con il
tramontare della luna, mio bene, la marea accarezzerà la
mia nave e l’alba la troverà pronta a rompere la silenziosa attesa del
mio
ritorno e spiegare rapida le vele figlie del vento.»
Il volto radioso
di Aisha fu percorso da una gioiosa
anticipazione, così Ahmed
la prese fra le braccia e lei lo baciò ridendo un riso figlio della
primavera.
I bardi di
Tariande asseriscono che ogni storia degna di
essere raccontata contenga almeno una decisione scellerata e questa fu
la
decisione scellerata di Aisha bet Quhāfa, la Bella fra le Belle, che
aveva
grazia sufficiente ad incantare qualsiasi principe sulla terra e magia
sufficiente a rendere grande qualsiasi nazione eppure scelse di fuggire
da
Alesa per amore.»
«Fuggirono?»
Lo stupore
sconcertato dalla domanda di Saijd ricordò
dolorosamente a Inaya quanto giovane fosse suo figlio, quanto lontano
dal
comprendere quali sciocchezze gli uomini potessero compiere per amore.
Si chiese
se sarebbe mai riuscita a fargli comprendere che, non fosse stato per
il senso
del dovere di Kamal, anche loro sarebbero fuggiti dal palazzo
nottetempo
navigando verso acque sicure, lontani dal re di Elmira e dalla sua
sconfinata
ambizione.
«No, mia perla,
poiché il mattino seguente, mentre Aisha
raccoglieva in un cesto le poche cose dalle quali non sarebbe riuscita
a
separarsi, quaranta guardie salirono silenziose i gradini che
conducevano alla
stanza di Ahmed per catturarlo nel sonno; lo trovarono alla finestra,
in
contemplazione dell’aurora senza altre armi che il lenzuolo in cui era
avvolto. Quaranta
spade e quaranta lance
avevano portato con loro e le venti stagioni dei ritorni che animavano
le loro
membra, eppure non una goccia del sangue che impregnava il drappo di
lino di
Ahmed al sorgere dell’alba apparteneva a lui.
Delle spade
prese la più affilata e delle lance la sola che non
avesse spezzato, lasciò cadere il lenzuolo nella polla rossa a i propri
piedi e
si voltò verso la bianca soglia per fronteggiare il primo fra i
fratelli di
Aisha: Asif, nato nel meriggio, principe di Mann, signore delle navi di
suo
padre; un grande guerriero, solido e ampio di spalle, vincitore in
duello di
più di un leggendario spadaccino. Egli stava immobile sotto l’alta
architrave,
vestito d’acciaio e ornato d’argento, reso solenne dal proprio cupo
silenzio.
Ahmed lo fissò negli occhi e vide in lui fierezza e profonda offesa.
«È forse
diventato uso delle genti di Alesa attentare all’ospite,
sacro sotto il loro tetto?»
«È forse un
ospite quello che viene nottetempo a rubare il tesoro
più gelosamente custodito della casa? A reclamare l’onore di una donna
già
promessa?».
Nadira sussultò
stupita, abbandonando per la prima volta l’Alta
consorte con lo sguardo per cercare spiegazioni sul volto di Inaya e
della
Schiava.
«A chi era
promessa? Non è stato detto che era promessa.»
La schiava fece
per aprire bocca ma Farida la interruppe con
decisione: «Questo perché la promessa di Aisha al Portatore del Pane
delle
Stelle conclude la storia di Quhāfa
e chi ha composto il Grande Poema dava per scontato la si conoscesse.
Senza
questa premessa, nulla di quello che Ahmed fece in seguito avrebbe
alcun senso;
perciò vi dico, anche se dovreste già saperlo, che nessuno dei figli
del re di
Alesa ereditò la sua magia, così, quando sua moglie diede alla luce una
bambina
capace di accendere le luci della propria culla re Quhāfa
non sopportò il pensiero che fosse maritata in terra straniera a
rendere grande
un re che provenisse da un’altra stirpe.»
Nadira si morse
l’unghia del mignolo con aria assorta ed Inaya si domandò
se non stesse considerando per la prima volta il destino di esule dalla
propria
terra che è proprio delle fanciulle di sangue reale.
«E cosa fece?»
«Riunì i figli e
i membri più importanti della sua casa e giurò
con il sangue e le lacrime di destinare la mano della propria figlia a
chiunque
fosse riuscito a portagli un boccone del pane delle stelle; tutti
compresero la
vera natura di quella promessa»
Un boato sordo
giunse dall’esterno e la schiava sobbalzò chiudendo
gli occhi, ma Nadira parve non farvi caso, incalzando Farida con una
nuova
domanda: «Che cos’era il pane delle stelle»
«Una leggenda,
mio bene, con un fondo di verità: il cibo degli
astri del cielo, un pane bianco dal dolce sapore di luce, capace di
saziare
qualsiasi fame e di curare qualsiasi male, compreso quello di cui tutti
gli
uomini soffrono inguaribilmente; la mortalità.»
«E Ahmed lo
sapeva?»
«Sì, mia perla,
Ahmed lo sapeva, per questo non aveva fatto alcuna
offerta per la mano di Aisha né a proprio vantaggio né a vantaggio del
figlio
del re del Malinlan.»
Saijd sbuffò
infastidito: «Combatterono o no?»
Farida gli
sorrise, forse soddisfatta di poter tornare alla
narrazione, forse ironicamente divertita da come, interessandosi alla
violenza
nella storia, Saijd dimenticasse quella intorno a sé.
«Combatterono,
scontrandosi nella luce dorata del nuovo giorno: il
principe Asif aveva grandi mani, salde e possenti nell’uso della spada,
e tre
volte i suoi fendenti alteri lacerarono la pelle bronzea di Ahmed. La
Stella
del Mattino, tuttavia, era rapida e impetuosa come vento di tempesta e
tutta
l’abilità del signore di Mann non riuscì ad evitare che lo colpisse al
petto, e
invero sarebbe stato escluso dal novero dei peccatori se la lama
affilata di
Ahmed non fosse divenuta polvere a contatto con la sua carne. Gridarono entrambi di
sgomento e di furore, e
forse avrebbero combattuto ancora ma l’aria intorno ad Ahmed si fece
densa e
cupa, premendo sul suo corpo con la forza dei più profondi abissi,
rendendolo
immobile e inerme, mentre dinnanzi ai suoi occhi increduli e furiosi le
mura
della stanza incombevano sempre più vicine, il soffitto affrescato
sempre più
lontano. Ogni cosa
cambiò la propria
forma secondo complessi e fantasiosi disegni ed Ahmed venne inghiottito
dai
marmi mosaicati della reggia per essere rigettato nella profondità
delle sue
segrete rocciose dove, terribile nella propria severa collera, stava re
Quhāfa,
l’interezza del mondo prona ai suoi comandi.
«Mia figlia mi
implora di non ucciderti, - gli disse – e io le ho
promesso di concederle tre giorni e tre notti di tempo per mostrarmi
almeno una
ragione per risparmiare la tua vita. Spero tu sia in pace con il tuo
Dio
straniero, Ladro della Fiamma, perché all’alba del quarto giorno lo
raggiungerai.»
Ahmed si scagliò
contro re Quhāfa con tutto
l’ardore della propria volontà guerriera,
ma questi scomparve dinnanzi a lui, quasi non fosse mai stato presente,
lasciandolo nella desolata solitudine di una cella silenziosa.
Ahmed, Stella
del Mattino, era fuggito da cento prigioni, ma
quella in cui re Quhāfa l’aveva confinato era sigillata con la magia e
con il
sangue, e sicuramente Ahmed vi sarebbe perito se nel cuore della terza
notte Aisha
non fosse apparsa dietro le sbarre, i suoi occhi rifulgenti come stelle
nella
più buia delle tenebre. Mai ad Ahmed Aisha la Bella era parsa tanto
radiosa
come nel momento in cui sconfisse la magia del proprio padre, gli occhi
colmi
di devozione e bagnati di lacrime, così, non appena fu libero dalle
proprie
catene, Ahmed la abbracciò appassionatamente baciandole le labbra e le
gote.
Fuggirono tenendosi per mano.»
«Nessuno diede
l'allarme?»
«Nessuno, poiché
Aisha conosceva le memorie segrete che
formano le leggi di tutte le cose e ad una dopo l’altra comandò il
silenzio: le
grandi grate di ferro dei sotterranei scorsero nei propri binari
d’acciaio mute
come lo erano state nella profondità della terra prima di essere
turbate dal minatore,
le scale di legno li lasciarono passare quiete come le ghiande boschive
da cui
avevano avuto origine, le guardie rimasero silenziose nel sonno
ovattato del
ventre materno; persino i fedeli cani di re Quhāfa lo tradirono,
le loro voci possenti sprofondate dalla magia di Aisha in un tempo in
cui non
erano ancora. In quella pace forzata camminarono Aisha e Ahmed fino ad
un
passaggio segreto nella roccia, tutte le cose vincolate al silenzio
secondo la
propria legge dal potere di Aisha. Tutte le cose tranne una: poiché i
gatti non
hanno legge né padrone e la loro memoria si estende a quello che anche
le
pietre hanno dimenticato. Così il vecchio soriano venne innanzi, sicuro
nel
proprio pelo come un re sul proprio trono, e i due amanti sussultarono
nel
vedere i suoi occhi d’oro brillare imperscrutabili nell’oscurità, un
interrogativo imperioso nell’arco teso della sua coda. Ahmed si chinò
per
carezzarlo, ma quello lo evitò con sdegno felpato, muovendosi verso
Aisha, una
sufficienza sorniona nel tremolio dei suoi baffi. Grande era il potere
di
Aisha, ma il gatto era vecchio e si apparteneva in ogni sua parte, così
che
ella dovette rinunciare a piegarlo al proprio volere e chinare il capo
in una
tacita supplica. Molte cose ricordavano entrambi: il suono della corsa
di Aisha
attutito dall’erba fresca di primavere lontane che il micio aveva
osservato
placido dal ramo del ciliegio, ed il gatto parve farsi da parte con
grazia
flessuosa mentre i due fuggitivi imboccavano il tunnel; ma molte cose
ricordava
il soriano che Aisha aveva dimenticato, i piedi nudi di lei spezzare
secchi le
foglie autunnali nel soccorrere il pettirosso da unghie crudeli e il
lungo
inverno in cui era stato esiliato dal giardino perché non potesse
nuocere agli
uccelli. Così, appena gli amanti furono passati, il gatto miagolò con
gioia
vendicativa e il suo verso acuto ricordò alle grate il fuoco e il
martello che
le avevano forgiate e ai legni delle scale la lama affilata che aveva
abbattuto
i loro tronchi: tutte le cose furono liberate dal potere di Aisha e
rammentarono quello che erano, gridando il dolore di venire di nuovo
sottratte
a quello che erano state.
Corsero
disperatamente, inseguiti dall’eco deformata delle
grida delle guardie, l’angusto corridoio nella roccia concepito per
l’estrema
fuga della famiglia reale reso claustrofobico dalla tenebra e
dall’umidità del
salire della marea.»
«Le guardie li
raggiunsero?»
«No, scaglia di
cielo, perché nessuno sapeva dei cunicoli sotto la
fortezza se non re Quhāfa e i suoi figli,
così Ahmed e Aisha giunsero indisturbati in una
piccola baia deserta, illuminata debolmente dalla luna, dove una lancia
solitaria li aspettava silenziosa, pronta ad essere messa in acqua e a
condurli
vero la Stella del Mattino. Erano ad un passo da tutto quello che
volevano, ma
i desideri degli uomini sono nubi in balia del vento, onde schiave
della marea,
così una dopo l’altra le ombre dei fratelli di Aisha si allungarono
nella baia
come sette pinnacoli cupi intenti a sorreggere la fine della notte:
Nadir il
saggio, Sidi piè veloce, Omar dalla lunga vista, Reidid signore degli
archi,
Kalim fine intelletto, Talid delle lance avvelenate e Asif nato nel
meriggio,
ciascuno eroe di una propria canzone, ciascuno armato e vestito per la
guerra secondo
il proprio costume, ciascuno pronto alla morte per difendere l’onore
della
propria casa. Non dissero nulla, il loro giudizio silenzioso tagliente
come le
lame affilate che portavano con sé, e una cupa disperazione scese sul
cuore di
Aisha la Bella nel vedere i propri fratelli farsi avanti per uccidere
l’uomo
cha amava. Ahmed, tuttavia, rise e afferrò uno dei remi della lancia
accanto a
sé, puntandolo contro Asif, quasi invitandolo a venire verso di lui e
porre
fine allo scontro che avevano interrotto. Sembrava che la baia fosse
destinata
ad essere colmata in breve tempo dal rosso del sangue e dell’aurora, e
Ahmed
aveva già accettato nel proprio cuore impavido di lottare per
conservare la
vita e dare la morte, e ogni parte del suo corpo e della sua anima
fremeva di
gioiosa anticipazione dello scontro.
Otto grandi
guerrieri pronti alla lotta, la più bella fra le donne
a guardare con il volto contorto dalla paura e il creato tutto in
attesa sull’orlo
del giorno. Sicuramente avrebbero combattuto, ma quando scattarono in
avanti,
l’angoscia di Aisha proruppe in un grido acuto che bloccò i loro passi
e le
loro armi, sospendendo il dileguarsi della notte e la venuta del
mattino. Ad
Ahmed solo, dopo esserglisi posta dinnanzi, concesse di essere libero
dal suo
potere; abbassò il suo remo e gli pose una mano delicata sulla guancia.
«Naviga lontano,
mio amato senza paura, e salva la tua vita e
quella dei miei fratelli, perché non
posso tollerare che alcuno muoia per me stanotte.»
Ahmed la
scongiurò di seguirlo, ma Aisha sorrise amaramente,
perché, sebbene desiderasse fuggire con lui sopra ogni cosa, non
sarebbe stata
in grado di farlo senza liberare i propri fratelli.
«Non verrò con
te stanotte, ma questo non è un addio. Non dimenticarmi,
portami nel tuo cuore e, se invero mi ami come dici, porta a mio padre
il pane
delle stelle, così che la sua parola, data dinnanzi a testimoni, lo
vincoli a
concedermi a te.»
Calde lacrime
pianse Aisha nel separarsi da Ahmed e lui le asciugò
dalle sue guance con baci di piuma, promettendole solennemente che
avrebbe
solcato ogni mare e scalato ogni cielo pur di poter tornare da lei e
rivendicarla come sposa. Promise con il cuore sincero e lo spirito
sicuro di
chi ama con passione e si sappia capace di ogni impresa, poi prese i
remi, salì
sulla lancia e vogò lontano dalla baia, lasciando che la figura di
Aisha si
facesse sempre più piccola e il suo cuore sempre più pensante.»
Nadira guardò
l’alta consorte con aria affranta e Inaya quasi
sorrise della sua innocente bellezza, prima che il rumore dei
combattimenti
all’esterno invadesse il suo amore per la figlia come una marea ostile.
«Cosa accadde ad
Aisha dopo che ebbe lasciato liberi i suoi
fratelli? E perché suo padre non intervenne?»
Farida non parve
sorpresa dalle domande di Nadira.
«Il poema non lo
dice, mia perla, perché il poema è la storia di
Ahmed e Ahmed lasciò Alesa quella notte nel tempo che separa la tenebra
dall’aurora,
salpando verso l’oriente del mondo e l’occidente della propria gloria.»
Il suono cupo
dello schiantarsi al suolo di un edificio vicino
fece sussultare Inaya ricordandole implacabilmente come anche il regno
di
Serolle e la vita felice che vi aveva condotto si stesso avviando
irrimediabilmente al tramonto.
«Dove andò, Alta
Consorte?»
Saijd non
sembrava turbato dai rumori esterni e la schiava lo
carezzò delicatamente, senza nascondere il proprio nervosismo.
«Veleggiò in
mare aperto nell’Infinito Est, lontano dalla collera
di Quafa, intento a progettare la propria impresa. Osservò a lungo le
stelle, domandandosi
come raggiungerle, senza trovare risposta né nelle storie, né nei
poemi, né in
alcuna conoscenza di cui fosse in possesso, lui che aveva speso un anno
a
rendersi edotto nelle grandi Biblioteche di Mirae sotto la guida
attenta dei
suoi Athari. Infine, dopo due mesi di navigazione senza meta, si
risolse a
intraprendere l’unica rotta che gli si presentasse dinnanzi, per quanto
terribile potesse sembrare, e si diresse verso lo Sheren.»
Nadira e Saijd
sussultarono, poiché vi erano mille storie ambientate
in quel covo di pirati abbandonato dallo sguardo amareggiato di Dio e
nessuna
aveva un lieto fine.
«Perché?»
La schiava
distolse lo sguardo e Inaya chiuse gli occhi,
ascoltando il suono della pochezza dell’uomo infuriare fuori dal
palazzo,
pronta a sentirsene ricordare l’ineluttabile dominio su qualsiasi
animo.
«Perché fra le
acque basse e paludose nel cuore dello Sheren vi è
un’isola maledetta più di tutte le altre, le cui sabbie infide sono
fondamenta
di un’oscura capanna di giunchi e la vecchia che vi dimora, carica di
innumerevoli anni e di inconcepibili arti, si dice abbia un potere che
trascende i limiti imposti ai figli degli uomini. Ella attende,
mercante di
magia e di sventura, l’arrivo di visitatori impavidi, pronta a
dispensare le
proprie previsioni e i propri consigli, consapevole di dire sempre il
vero ma
di non portare mai alcun giovamento. Ahmed sapeva tutte queste cose,
così si
diresse verso lo Sheren, sperando che la vecchia che attende nella
capanna di
giunchi potesse laddove perfino il più grande fra gli eroi era
impotente.»
«E poteva?»
L’entusiasmo di
Saijd era quello di tutti gli uomini di fronte
alle soluzioni apparentemente semplici.
«Poteva, mia
perla, poteva qualsiasi cosa; solo che la sua magia
aveva un prezzo e quel prezzo era alto e crudele quanto difficile da
comprendere del tutto prima di essere pagato. Neppure Ahmed, che pure
era
esperto delle cose del mondo, sapeva esattamente cosa aspettarsi
quando, carico
di preoccupazioni e sospinto dalla marea, si avventurò con pochi
compagni fra i
fondali infidi e mutevoli del centro dello Sheren. A poppa di una
piccola
lancia Ahmed percorse i canali salmastri che dividevano le isole
sabbiose di
quella laguna interna, sondandone i fondali bassi con lunghi bastoni e
osservando cauto il protendersi degli alberi verso l’acqua torbida.
Ogni cosa
in quel mattino pallido pareva malata e deforme, quasi a suggerire ad
Ahmed di
dubitare della saggezza della propria decisione. Non lo fece. Scese
dalla
lancia e i suoi stivali logori affondarono nella sabbia nera mentre
percorreva
gli ultimi metri fra il bagnasciuga e la capanna. I suoi compagni
rimasero indietro,
timorosi di varcare la cupa soglia e di scrutare nella penombra fumosa
per la forma
ricurva della vecchia che attende. Ahmed solo penetrò nella dimora
della strega,
affrontando l’afa dolciastra dell’aria stantia. I rumori esterni erano
ovattati
dai densi vapori degli incensieri disseminati per la stanza e in un
primo
momento Ahmed non vide la sagoma della vecchia, immersa com’era nelle
nubi cupe
che si addensavano intorno a lui. Fu sfiorato brevemente dal saggio
consiglio
di tornare indietro e avere ragione di Quafa con altri mezzi, ma non
appena il
suo pensiero si volse al sangue, quasi evocata da quei cupi propositi,
la strega
si manifestò dinnanzi a lui, sorridendo malevola con i suoi piccoli
denti
bianchi.
«Benvenuto,
Ladro della Fiamma, Stella del Mattino, ti ho
aspettato per molto tempo.»
Ahmed non aveva
tremato dinnanzi ad alcun uomo sulla terra, eppure
nelle infinite rughe di quella vecchia minuta dalle membra bianche come
il ventre
di un pesce, scorse qualcosa, un potere sconfinato al sevizio di
un’intenzione ambigua,
che gli fece dubitare la propria invincibilità; ma gli eroi non erano
fatti per
il dubbio, così Ahmed guardò la strega nei suoi piccoli occhi grigi e le rispose, siglando il
proprio fato.
«Conosci quindi
anche le mie ragioni.»
La strega rise,
un suono ruvido, cacofonico, che le fece tremare
la pelle della gola mentre i lunghi capelli bianchi le si scomponevano
sulle
spalle.
«Le conosco e le
trovo ridicole e insufficienti come quelle di
tutti i figli degli uomini. Eppure è la mia legge che tu dichiari ad
alta voce
cosa vuoi comprare e che io enunci ad alta voce il prezzo che dovrai
pagare.»
Ridente e
avvolta dai fumi, come uno spettro rancoroso dei tempi
antichi, incalzò Ahmed con il proprio sguardo divertito, quasi
sfidandolo a
tirarsi indietro. Ahmed non era uomo che sapesse farlo.
«Sono qui per
comprare una via verso il pane delle stelle.»
La strega gli
diede le spalle e si allontanò con piccoli passi
incerti verso una grande sedia e un cesto di vimini che stava
intrecciando.
«Una richiesta
formulata in modo insolito. Un altro uomo avrebbe
detto: “desidero comprare il pane delle stelle” e non sarebbe stato
fuori dal
mio potere esaudire la sua richiesta, né farlo re di tutta Alesa
concedendogli
come moglie la fanciulla del suo cuore.»
Disse questo
sorridendo, le sue labbra rosse simili ad una ferita aperta
sul suo volto pallido, senza nascondere la cupidigia con cui offriva
più di quanto
le fosse stato richiesto.
Molti si
domandano cosa sarebbe accaduto se Ahmed avesse
acconsentito: quanto più grande sarebbe stato il prezzo e se le
conseguenze
sarebbero state altrettanto terribili, ma non vi è modo di saperlo
giacché
Ahmed scosse lentamente il capo in segno di diniego.
La strega
sedette dunque sul dondolo di cedro, trono di malizia in
un regno di vapori, e così assisa scrutò Ahmed picchiettando
delicatamente le
proprie dita scheletriche sui braccioli intarsiati.
«Avvicinati,
Campione degli uomini, e lascia pensare una povera
vecchia.»
Ahmed avanzò,
fiero e determinato, fra i fumi caldi che saturavano
la capanna di bianca incertezza, lasciando credere ai sensi che la
totalità del
mondo fosse costituita dal suo incontro con la vecchia strega che lo
osservava
predatoria e immobile.
«Raggiungerai le
stelle, Ahmed, Eroe delle genti: impresa mai
tentata prima della tua nascita e che non sarà ripetuta dopo la tua
morte. La
tua nave, mirabile invero secondo i criteri dei mortali, diverrà
materia di
leggenda perché la Stella del Mattino, fedele al suo nome che è anche
tuo,
solcherà le volte celesti e tu solo sarai al suo timone.»
Recitò le parole
senza espressione alcuna, quasi fossero
l’enunciazione di un fatto stabilito da molto tempo, poi all’improvviso
sorrise
nuovamente, una gioia feroce a cesellarle i lineamenti di insondabile
divertimento.
«E poiché la tua
impresa sarà superiore a quella di qualunque
altro uomo, il tuo prezzo sarà qualcosa che nessun altro uomo potrebbe
sopportare. Avvicinati ancora, Campione degli Uomini.»
Ahmed obbedì,
facendo un ultimo passo verso la strega, fino ad
esserle dinnanzi, separati solo da poca aria fumosa. D’improvviso le
braccia
rachitiche della vecchia si protesero verso di lui, affondando con
violenza
nella sua carne, strappandogli un acuto grido.
«Per la fatica e
il dolore che la magia ti ha evitato, reclamo in
pagamento il tuo fegato e il tuo stomaco, con tutto il caldo sangue che
essi
contengono.»
Ahmed era un
eroe, il ladro della Fiamma delle Pianure, il
primo uomo ad aver scalato la Bianca Torre di Uduna; aveva navigato
nell’estremo Ovest fino ad isole sconosciute, aveva sfidato il Re di
Enail a
duello e vinto il suo trono per il signore del Malinlan; era l’uomo più
grande,
più coraggioso, più forte e astuto che avesse mai camminato sulla
terra.
Eppure, nella capanna di giunchi, quando la vecchia che attende affondò
le mani
nelle sue viscere, quando le sue dita ossute frugarono nei sui
intestini e le
sue unghie sporche arpionarono il suo stomaco, Ahmed sentì per la prima
volta
il sanguigno sapore della propria mortalità. Così, dopo che la vecchia
ebbe
strappato il suo fegato e il suo stomaco, attraverso le cicatrici
lasciate dalle
sue braccia si insinuò in lui la paura della fine. E voi direte “ma
Ahmed era
l’eroe!”, e io vi dico:” Ahmed era l’eroe e ogni eroe è Ahmed, ma Ahmed
era un
uomo e ogni uomo è Ahmed. E come Ahmed, che era un uomo, è caduto,
nonostante
fosse l’eroe, così cadiamo o cadremo tutti e la nostra fine non sarà
che una
ricompensa per quella caduta”. E voi chiederete “ma che male vi era
nella
paura?”, e io vi rispondo: “la paura non era che l’inizio, ma un inizio
già ben
gravido della propria conclusione. Così come la nostra nascita è
gravida di
tutti i peccati che ci condurranno alla liberazione della morte, la
paura di
Ahmed era gravida del tradimento di Aisha, della sua maledizione e
della vana
cerca con cui la Stella del mattino ogni notte percorre il cielo.»
Saijd e Nadira
sussultarono, poiché non avevano mai udito di
Ahmed altro che mirabolanti lodi, lasciando Inaya a dolersi per il
disincanto
con il quale i suoi figli non trovarono niente da ribattere.
«Così
il patto venne suggellato nel sangue e nel fumo, e la Stella del
mattino divenne
più grande fra le navi mentre il suo capitano fu reso più piccolo fra
gli
uomini. Quando uscì dalla capanna di giunchi Ahmed si accorse che i
suoi
compagni se ne erano andati.»
«Lo
abbandonarono?»
«Alcuni
lo credono, sostenendo che Ahmed fosse rimasto un anno un mese e un
giorno
nella dimora della strega e che i suoi compagni si fossero dispersi,
credendolo
morto. Altri cantano che, poiché la nave e la lancia attendevano Ahmed
dove le
aveva lasciate, la vita di suoi compagni fosse in realtà parte del
prezzo che
egli aveva pagato per poter navigare senza equipaggio per le volte
celesti. Come
sia andata davvero non ci interessa, mie perle, perché quello che conta
è che
partì, solo, al timone della Stella del Mattino e che la nave obbedì ai
suoi
comandi come il suo corpo obbediva ai suoi pensieri.
Salpò
nell’aurora, lontano dallo Sheren e dai propri cupi pensieri, di fronte
a sé l’immensità
del mattino; corse fra il sartiame e rise fendendo le onde, più rapido
delle
nubi, più leggiadro degli uccelli. Percorse mille miglia nell’infinito
Est prima
che si facesse notte e le stelle sorgessero nel morire del crepuscolo,
solo
allora Ahmed mise mano al timone e virò deciso verso il firmamento.
Meraviglioso fu il primo levarsi della Stella del Mattino, il vascello
ascese,
le vele bianche gonfiate dal vento, mentre un arco argenteo di spuma lo
univa al
vasto mare che aveva lasciato, quasi ultimo anelito dell’onda. Infine
le acque
si richiusero sotto la nave e la Fiamma delle Pianure risplendette nel
cielo,
astro fra gli astri agli occhi di coloro che dimoravano sulla terra. Gli uomini non hanno parole
per descrivere la
magnificenza del firmamento, la gloria di un regno di luce che non
conosca
corruzione o sofferenza e il poema stesso non dice del viaggio di Ahmed
se non
che egli varcò gli alti pilastri del cielo e i suoi occhi conobbero la
vera
beatitudine.
Dall’alto di
quel regno volse lo sguardo verso il basso e
vide la terra come la vedevano le stelle: percorsa da gorgoglii
gioiosi, eppure
avvolta in un eterno pianto, illuminata di vivaci colori, nondimeno
balia di
luttuose tenebre, imprigionata nel tempo e sempre sull’orlo della fine,
e le
vite degli uomini gli parvero un affaccendarsi vano, lume rifulgente di
candele
sempre sul punto di spegnersi. Allora le stelle gli sussurrarono
felici: “Resta
con noi, figlio della terra! Divieni sposo del cielo! Mangia il nostro
pane e
bevi del nostro chiarore, e non dovrai mai più tornare. Resta con noi e
pasciti
dei nostri volti: sarà bello, sarà gioioso, sarà un’eterna luce che
nessuna
tenebra potrà mai inghiottire.” Le stelle erano splendenti, misteriose
e
amorevoli, ma Ahmed amava Aisha e desiderava divenire il suo sposo;
perciò
prese il loro pane ma non lo mangiò e, sebbene la sua mano non fosse
ferma,
perché grande era il timore per l’oscurità e la sofferenza verso cui
tornava,
volse il timone verso casa e la Stella del Mattino prese a discendere
verso le
acque chiare dell’Est.»
Kemal si lamentò
e Inaya lo strinse a sé, quasi il suo amore
potesse proteggerlo dal male e dalla morte.
«Tornò ad Alesa?»
«Tornò,
gareggiando con il vento orientale e lasciandoselo
alle spalle. Giunse ad Alesa al tramonto, lui che l’aveva lasciata
all’alba, e
il suo cuore fu turbato nel vedere uno stormo di navi stagliarsi nitide
contro l’ultima
luce del sole morente. Una foresta di alti pennoni, sulle cui cime
garriva
orgoglioso il vascello azzurro in campo argento vessillo dei re del
Malinlan. Ahmed
apprese rapidamente che in sua assenza
il suo signore aveva stretto alleanza con tutti i nemici di Quafa e la
scintilla della guerra era divampata per la Yama Orientale.»
Un tonfo sordo
giunse dall’esterno, suggerendo a Inaya che,
da allora, la guerra non aveva mai smesso di propagarsi per le Yame e
il vasto
Impero.
«E il suo re
cosa gli disse?»
«Ahmed si
presentò al suo cospetto e re Nardor lo accolse con
gioia, poiché il suo ultimo figlio maschio era morto ed egli non
riusciva ad
immaginare per il proprio regno erede migliore del proprio campione.»
«Ma l’aveva mandato a
morire!»
«A tal punto
sono mutevoli i cuori degli uomini. Lo accolse
con gioia, disposto a perdonare che Ahmed avesse lasciato Alesa senza
portare a
compimento la missione che gli era stata affidata, offesa per la quale
avrebbe
potuto chiedere la sua testa. Lo accolse con gioia, lo perdonò e lo
mise a capo
dell’esercito con cui cercava di conquistare Alesa.»
Nadira
corrugò la
fronte con una smorfia di disapprovazione, Farida la vide e le sorrise
sprezzante.
«Forse pensate
che Ahmed non avrebbe dovuto accettare l’onore
che il suo re gli tributava, ma come recita l’adagio “gli onori di un
re sono i
suoi comandi” e un uomo contravviene ai comandi del proprio re a
proprio
rischio. Ahmed non desiderava correre un simile rischio per evitare
onori che
ben si confacevano alla sua ambizione. Voi direte: “Eppure amava
Aisha”, e io
vi dico: “certamente, amava la principessa di Alesa ma non Alesa
stessa, né il
suo re, né i figli di quel re”. Un anno un mese e un giorno Ahmed
assediò il
regno di Alesa, sconfiggendone l’esercito e resistendo alla magia del
suo re.»
«Perché la magia
non vinse?»
Inaya ricordò di
aver posto, a suo tempo, la medesima
domanda. Non si aspettava che fosse la schiava a rispondere, ma la
risposta
somigliava al tal punto a quella che aveva ricevuto da sua madre da
riportarle
alla memoria tutta la propria antica cocente delusione: «La magia non
esiste
come la immaginate, mio principe: ha regole e limiti. Nessun mago può
vincere
una guerra da solo, dovrebbe essere un dio.»
Saijd strinse i
pugni con stizza e si voltò verso Farida con
cipiglio accusatore: «Hai detto che la vecchia strega poteva qualsiasi
cosa.»
«Poteva infatti,
e quali terribili conseguenze ebbe il suo
potere sulla guerra fra Malinalan e Alesa, ché, senza il suo
intervento, Ahmed
non avrebbe completato la propria cerca e non sarebbe mai tornato in
tempo per
prendervi parte.
Ahmed combatté,
dicevo, per un anno un mese e un giorno;
settanta volte scampò alla morte e ad ogni occasione la dipartita gli
parve più
inevitabile e terribile della precedente e ogni vita spezzata
nell’esercito ai
suoi comandi smise di sembrargli estranea e governata da una sorte non
riconducibile alla sua. Per questo, quanto l’intera isola fu nelle sue
mani con
la sola eccezione della capitale, Ahmed scelse di non mettere la città
di Alesa
sotto assedio ma di radunare i propri uomini e recarsi nella baia
appartata
dove sboccava il cunicolo che aveva permesso la sua fuga. Così
l’esercito del
Malinalan penetrò in Alesa dalle Belle Fontane: con il tradimento e con
il
favore delle tenebre.»
Inaya si era
sempre indignata e i suoi figli si indignarono
con lei, eppure udendo della decisione di Ahmed sopra il fragore della
battaglia che infuriava nelle strade di Serolle per la prima volta
considerò lo
stratagemma della Stella del Mattino con il metro del sangue piuttosto
che con
quello dell’onore e la sua indignazione si mutò in dubbio e sconcerto.
«Tre giorni
combatterono e tre notti, saturando le pietre di
Alesa di sangue e l’aria dell’odore acre della disperazione. Uno dopo
l’altro
caddero nell’assalto i sette fratelli di Aisha: Sidi trafitto da lance
d’argento durante una sortita, Omar sopraffatto lungo le scale, Kamil e
Talid
circondati e infine abbattuti fra i cadaveri di quelli che avevano
ucciso,
Nadir e Redidi consumati dalle stesse fiamme che avevano intrappolato
le loro
madri e le loro mogli.
Quhāfa con tutta
la sua magia non
poté salvarli, ma il poema narra che nessuno dei soldati del Malinlan
che
avesse incrociato le lame con i suoi figli tornò mai alla propria
dimora.»
Il clangore
delle lame e il clamore
della battaglia erano tanto vicini da permettere a Inaya di intuire in
quale
via sotto il palazzo i capitani avessero raccolte le proprie forze. Si
domandò
dove fossero i fratelli di Kemal, se anche loro non stessero perendo ad
uno ad
uno nel tentativo senza speranza di difendere ciò che era loro caro.
«Asif non morì?»
«Morirono tutti,
scaglia di cielo;
Asif, Nato nel Meriggio, morì per ultimo, lui che per primo aveva visto
la
luce. Più ferocemente di ogni altro guerriero aveva combattuto, la sua
lancia
acuminata madre di morte; invano aveva tentato di riorganizzare le
difese della
città nella sua caotica caduta, ma, alla fine, quando gli giunse la
notizia
della morte dei suoi fratelli si guardò intorno e vide la devastazione
del
regno che avrebbe dovuto ereditare e seppe che era giunta la fine della
sua
stirpe. Una collera fredda scese allora nel suo cuore e, abbandonata la
lancia,
sguainò la spada lasciandosi alle spalle i propri soldati, cercando
Ahmed per
il campo di battaglia, gridando il suo nome come una maledizione.
Coloro che
erano sul suo cammino si scostarono turbati, perché invero egli era
simile a un
antico signore della terra in preda alla furia e Ahmed stesso avrebbe
preferito
non uscire dalle ordinate schiere dei suoi uomini per incrociare
nuovamente le
lame con lui. Si scontrarono infine nel giardino antistante alla
reggia, la
sfida di Asif coperta dal gorgoglio della grande fontana d’ambra: molte
parole
usa il poema per narrare del loro combattimento, ma non potremo
riportarle
tutte, poiché il nostro tempo si approssima alla fine, eppure dovete
sapere che
nel suo cupo impeto Asif trafisse Ahmed alla guancia , sfregiando per
sempre
l’armonia del suo bel viso, e lasciandosi colpire al torace si spinse
avanti
per piantare la propria lama nel ventre di Ahemd e Ahmed conobbe la
paura.
Cento frecce vennero scoccate, trafiggendo il corpo di Asif e
interrompendone
le slancio; il Nato nel Meriggio barcollò e cadde nella fontana. Morì
con gli
occhi rivoli verso la terrazza del palazzo dove suo padre piangeva
osservandone
il sangue diffondersi nell’acqua in elaborati disegni di bellezza
crudele.
Trecento
guerrieri aveva ucciso re
Quhāfa nella propria sala del trono eppure tutta la sua magia non
avrebbe
potuto restituirgli il proprio primogenito; cupi furono allora i suoi
pensieri
ed egli sedette in silenzio sul suo alto seggio, mandò a chiamare Aisha
e
attese che Ahmed e il re del Malinlan si presentassero al suo cospetto.»
Il pavimento
tremò e Kemal sussultò
nel suo sonno febbricitante; Nadira si morse le labbra e si strinse a
Saijd.
Inaya chiuse gli occhi, figurandosi un ariete nero abbattersi contro il
portone.
«Aisha piangeva
sgraziata lacrime
quando Ahmed entrò nella sala.
«Perché piangi,
vergogna della tua
casa? Non sei felice che il tuo amato abbia invaso il tuo regno e
ucciso i tuoi
fratelli? A quale conclusione credevi ti avrebbero portato le tue
decisioni
scellerate?»
Si volse quindi
verso Ahmed, regale
anche nel disprezzo e nella disperazione: «Volevi mia figlia? Prendila,
non ha
per me ormai alcun valore.»
Aisha si coprì
gli occhi, incapace di
fare fronte alla propria vergogna, e gran parte della sua bellezza
parve
offuscarsi, macchiata dal senso di colpa e dal cordoglio; ma Ahmed la
avrebbe
sicuramente presa fra le braccia se sette trombe d’argento non avessero
annunciato l’arrivo del re del Malinlan e dei trecento eletti della sua
guardia
scelta. Ridente era il volto del signore di Ahemd, illuminato dalla
gioia
maligna di camminare nelle sale del proprio più grande nemico e di
assistere
personalmente alla sua rovina.
«Ti ringrazio
per questo giorno, mio
campione. – Disse ad Ahmed – È un dono degno di un re e la fine della
dinastia
di Alesa lo renderà completo.»
Non siate stupite,
mie perle, cosa altro avrebbe potuto dire? Il
re di Alesa era suo nemico e permettere ad Aisha di sopravvivere,
avrebbe dato
ai suoi eredi modo di cercare vendetta e riscatto per la sua casa. Così
ne
chiese la morte e nel chiederla guardò Ahmed e Ahmed vide in quello
sguardo una
consapevolezza, un’offerta e una minaccia. Si trovò allora ad un bivio:
da una
parte amara e immediata morte al fianco di colei che amava e per la
quale aveva
affrontato grandi perigli, dall’altra il destino regale che la Vergine
d’Acciaio gli aveva pronosticato e che era stato tanto caro alla sua
ambizione.
Chiuse gli occhi la Stella del Mattino e tumultuosi furono per un
istante i
suoi pensieri, infine volse lo sguardo ad Aisha la Bella e la sua
espressione
non celò ad alcuno lo spezzarsi del suo cuore.
Si voltò, dando le
spalle alla sua amata e, scambiato un rapido
cenno d’assenso con il suo re, fece per lasciare la sala. Aisha lo chiamò ma lui non
rispose.»
L’orrore sul volto di
Nadira e Saijd segnò la fine della loro età
dell’innocenza.
«Come ha potuto?
Perché?»
L’Alta Consorte non
disse nulla, lasciando che i crudeli rumori
della battaglia echeggiassero nel suo silenzio. Ancora una volta fu la
schiava
a rispondere con voce sommessa, dando voce alla triste morale della
Saga di Aisha.
«Perché era solo un
uomo.»
Non disse altro e
Inaya stessa non pensava vi fosse altro da dire:
la pochezza dell’umanità evidente nelle grida ferine che si propagavano
nei
corridori, così Farida riprese il racconto senza commentare oltre la
caduta di
Ahmed.
«Aisha gridò e ogni
cosa sulla terra conobbe la profondità del suo
dolore e seppe che Aisha bet Quhāfa, la Bella fra le
Belle, bramava la morte ed affogava nel rimpianto. Tutti gli uomini del
re del Malinlan furono mossi a pietà, ma non
re Quhāfa che riempì il
silenzio della loro esitazione con un riso amaro.
«Fai bene a
desiderare la morte, Aisha, perché quale bene potrebbe
venirti ora dalla vita? Non hai meritato tuttavia di tornare nel niente
senza
assistere a tutto il male che verrà dal tuo tradimento. Dovrai dimorare
nell’infinito Est, sola con i tuoi pensieri e il tuo rammarico, e che
tu lo
voglia o meno dovrai tornare senza poter restare e guardare senza poter
distogliere lo sguardo dal sangue versato.»
Lanciò la propria
maledizione con rancore e con disperazione e la
legge delle cose ascoltò il suo comando, poiché la sua magia era
potente ed egli
se ne lasciò consumare fino alla morte. Morì così sul proprio trono Quhāfa ibn Saijd al Majid che era
stato il più grande dei re
e il più potente dei maghi sulla terra, morì come muoiono e vivono
tutti gli
uomini: soffrendo ed impartendo altro dolore.»
«E Aisha?»
«Aisha sentì la maledizione di re
Quhāfa penetrale nelle
carne e, osservando la schiena crudele di Ahmed, il dolore si mutò in
rabbia,
così lo chiamò nuovamente e questa volta egli non poté esimersi dal
voltarsi.
«Guardami, Ahmed,
Ladro della Fiamma e Stella del Mattino,
Flagello di Alesa e dimmi, hai avuto quello che volevi? Perché io ti
dico che
né il trono del Malinlan, né i tuoi molti figli riusciranno a renderti
felice.
La felicità vera ti sarà sempre davanti agli occhi ma sempre oltre la
portata
delle tue dita. E ora vattene, la tua vista mi disgusta.»
La uccisero e Ahmed
non rimase a guardare, ma quando gettarono il
suo corpo dalla scogliera la Stella fra le Stelle sorse per la prima
volta
nell’Ovest della notte. Tutti gli uomini seppero che era Aisha, la
Bella fra le
Belle, condannata da suo padre a un doloroso destino e da allora
cominciarono a
contare i gruppi di anni secondo i suoi ciclici passaggi.»
Farida si interruppe
per un istante e volse lo sguardo verso
Inaya.
«Vidi la sua ultima
traversata del cielo quando ero ancora una
principessa della casa di mio padre: una cometa di luminosa
magnificenza,
talmente grandiosa ai miei occhi di bambina da sembrarmi una promessa
di
speranza per le sorti del mondo. L’anno successivo divenni una donna e
una
moglie di guerra.»
Inaya fissò Farida a
propria volta e tentò di figurarsela giovane
e ridente, ma, pur cercando di trovare la bambina nella vecchia, non
vide che
un futuro intollerabile per sé e per Nadira. I bambini parvero non
accorgersi
di nulla.
«Ahmed la vide?»
«Ahmed la vide e
pianse. Non vi era nulla, tuttavia, che fosse più
in suo potere, così veleggiò verso il Malinan dove si compì il suo
destino ed
egli divenne genero di re e re e padre di re. Eppure la bella Ethelion
non
trovò mai posto nel suo cuore e i suoi figli lo conobbero come un uomo
distante
a sempre amareggiato. Il poema non racconta i lunghi anni in cui regnò
sul
Malinlan, solo che non fu mai felice, né ci viene detto alcunché dei
turbamenti
della sua anima che pure travagliarono i suoi anni, inquinando i suoi
successi
con il rimorso e le sue gioie con il rimpianto. Vestì di porpora e
sedette su
un alto trono e non salpò più sulla Stella del Mattino, il Pane delle
Stelle
una reliquia nascosta che era troppo doloroso riportare alla memoria.
Visse una lunga vita
e costruì un solido regno, ma i suoi occhi
non smisero mai di rivolgersi verso l’Infinto Est dove la Stella delle
Stelle
era tramontata. Avvenne infine che, dopo un lungo giorno, re Ahmed si
levasse
dal capo la corona, gettandola sul proprio trono, e percorresse,
vecchio e
nascosto da un manto, la via tortuosa dal palazzo fino alla darsena.
Celato
dalla vista dei suoi sudditi e dei suoi figli, si imbarcò solo sulla
Stella del
Mattino e la condusse nottetempo fuori dal porto. Egli era ormai
anziano e
stanco ma la nave gli apparteneva più di quanto non gli fosse mai
appartenuto
il regno e si piegò senza esitazione ai suoi comandi. Per la seconda
volta la
Stella del Mattinò abbandonò le acque percorse dai mortali per far
brillare la
Fiamma delle Pianure nel firmamento notturno e in tutta Erea la Bella
gli
uomini si meravigliarono, perché una nuova Stella era sorta ad Ovest e
correva,
piccolo punto di luce bianca, verso l’Est del Mondo. Correva, invero,
più
rapida di qualunque nave, eppure mai rapida abbastanza da battere nella
corsa
il giungere dell’alba, così, notte dopo notte, Ahmed tentò di
raggiungere
l’Infinito Est solo per essere ricacciato nell’Ovest dal sorgere del
Sole,
egoista signore del cielo, generale impietoso della maledizione di
Aisha.
Ahmed, tuttavia, non smise di tentare e neppure quando sentì la morte
avvicinarsi e lambire le sue spalle con le proprie dita adunche
rinunciò alla
propria cerca: mangiò infatti allora il pane delle stelle e la sua
vecchiaia fu
soffiata via da lui come polvere sottile lasciando la Fiamma delle
Pianure ad
illuminare l’uomo bruno che era stato quando aveva scalato la Bianca
Torre di
Uduna ed era entrato da vivo nella leggenda. Così si conclude il Grande
Poema: con
Ahmed riportato alla sua giovinezza, intento in un’impresa al di sopra
delle
sue forze, il cuore straziato da un amore macchiato dal rimorso e da
una cupa
amarezza, e noi che non abbiamo compiuto e mai compiremo imprese pari
alle sue
possiamo ancora vedere la sua stella ogni notte sorgere all’Ovest e
sparire
nella luce del sole prima che sia tramontata del tutto.»
Grida gorgoglianti
giunsero dal piano sottostante a sancire
implacabili il ritorno dalla leggenda ad un presente di morte. Saijd
rimase
immobile, il labbro tremante e gli occhi incolleriti e spaventati.
Nadira
osservava Farida, attenta e pensosa.
«È una brutta fine,
Alta Consorte. Specie per Ahmed.»
Inaya avrebbe voluto
consolarla, sussurrarle che la fine infelice
del più grande fra gli eroi non era una sentenza di condanna per tutti
gli
uomini, ma, seduta in una stanza buia in attesa di essere reclamata da
un
assassino, quelle parole le parvero una menzogna imperdonabile. Ripensò
al
Carme di Tal e si domandò se avrebbe confortato sua figlia sapere che
un poeta
morto in esilio aveva profetizzato come l’Eclisse della fine del mondo
avrebbe
permesso ad Ahmed di sconfiggere il sole e scorgere la forma di Aisha
senza
però intuirne l’espressione.
I suoni frenetici
della battaglia si fecero più vicini ed Inaya
riconobbe passi pesanti sul pavimento di lucido ebano e impattare di
acciaio
contro acciaio e grida di morte e risa di furore. Saijd si morse le
unghie
freneticamente prima di nascondere il volto nella tunica della schiava.
Inaya
la osservò stringere suo figlio al petto baciandogli il capo con
disperata
dolcezza e si accorse di non conoscere il suo nome.
Farida non parve
turbata, sorrise anzi a Nadira con una certa
delicatezza: «Sveglia tuo padre, scaglia di cielo, il suo momento sta
per
arrivare.»
Rumori cupi, lo
schiantarsi a terra e contro il muro di corpi
pensati, scossero l’aria stantia della stanza e Nadira, svegliò Kemal
con
trepidazione, trattenendo lacrime d’angoscia.
«Moriremo padre?»
Kemal sorrise
amaramente mentre tentava di levarsi a sedere
poggiandosi a Inaya e non rispose; baciò sua figlia sulla fronte e si
alzò in
piedi per porsi fra loro e la porta usando la spada come sostegno.
Inaya non
ricordò di averlo mai amato con tanta dolorosa acutezza.
La porta cedette con
un tonfo improvviso, scoccando affilate
schegge d’ebano nella stanza. Nadira gridò, gettandosi fra le braccia
di Farida. Oltre la
soglia una sagoma erculea
torreggiava contro le luci dell’aurora nascente. Inaya non ebbe bisogno
di
aspettare si liberasse dell’elmo per riconoscere il principe Gyrash, il
più
terribile figlio di Elmira, e temere la sua furia.
Un gruppo di uomini
armati si riversò nella stanza ad attorniare
il proprio condottiero; alti, vestiti dell’acciaio di Elmira e sporchi
del
sangue di Serolle, parvero ad Inaya temibili eppure sfocati, ombre
distorte del
proprio tremendo principe.
Kemal sollevò la
spada a fatica e si fece incontro a quel gigante
bardato di scuro acciaio, senza speranza e senza forza, e Inaya si udì
emettere
un singulto quando Gyrash ne spezzò lo slancio con una spinta violenta
del braccio
possente. Fracassò la testa di Kemal con gioia feroce senza che le
grida dei
bambini potessero coprire il suono secco del frantumarsi del cranio
sotto il
guanto d’arme. Lasciò cadere il cadavere con indolenza e tolse l’elmo
senza
curarsi che i suoi ricci bruni si mischiassero al sangue che ne
sporcava le
mani guantate, gettò indietro il capo e la sua gola bruna si abbandonò
ad un
riso gioioso. Inaya vide in lui tutta la ferina oscurità dei figli
degli uomini
senza tuttavia potersi esimere dal trovarlo bello e terribile come una
calamità
implacabile e grandiosa. La schiava riprese a mormorare a mezza voce la
sua
accorata preghiera ed Inaya ne conobbe l’inutilità con inamovibile
certezza:
infatti, se vi era nei suoi occhi spazio per vedere la bellezza della
violenza
di Gyrash ibn Obeyron, davvero non c’era speranza di redenzione per la
schiatta
mortale.
Farida iniziò a
salmodiare i nomi di Dio e i suoi sette attributi
di distanza. «Silente è l’Unico,
Amareggiato è l’Unico, Imparziale
è l’Unico, Inattingibile è l’Unico…».
Ad Inaya, che si alzava per fronteggiare il mostro dagli occhi ridenti dinnanzi a lei con la sola arma della religione, tutto il salmodiare del mondo parve all’improvviso povero e vuoto. Recitò comunque le parole che si aspettavano da lei: «Avrai cura della vedova e dell'orfano: darai loro riparo sotto il tuo tetto e ristoro alla tua mensa». Non poté dire “tuoi saranno la moglie e i figli dell’ucciso” perché l’enorme mano di Gyrash le si chiuse intorno al collo, rubandole il respiro, e le sue deboli dita si tagliarono invano contro il guanto d’acciaio della sua armatura. Gli occhi le si appannarono di lacrime e, mentre tentava inutilmente di liberarsi da una stretta sovrumana, il suo sguardo fuggì verso il cielo oltre la porta e le vetrate divelte; le parve allora di scorgere la Stella del Mattino irradiare il proprio ultimo bagliore prima di venire inghiottita e sconfitta dalla luce di un'alba livida. Pensò ad Ahmed e a come tutte le storie umane giungano infine ad un’infelice conclusione mentre macchie nere oscuravano il suo sguardo e le preghiere della Schiava e di Farida si fondevano fra loro alle sue orecchie morenti.
Questa storia è stata un dolore. Ho impiegato tre anni a scriverla, abbandonarla e scriverla ancora; mi ha tolto il sonno e la passione, mi ha fatto allontanare dal sito e perdere contatto con tutti coloro che mi seguivano e tutto sommato direi che la odio visceralmente. La posto con gesto catartico e, anche se non sono solita chiedere recesioni, spero che qualcuno mi faccia sapere qualcosa, per trovare pace.
Note di ambientazione per i miei lettori ancora attivi:
1. Il re di Elmira è re Obeyron, coprotagonista di "Aspettando la fine della notte"
2. Gyrash è uno dei suoi innumerevoli figli
3.
La storia di Ahmed e Aisha è quella a cui Moriale fa più volte
riferimento in "Piccola storia ignobile"