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Autore: Fidi_    08/01/2018    0 recensioni
«… Per sapere che è esistita davvero, penso. I miei figli mi ricordano che l'ho amata, e che sopravvive in loro, ma le cose... da fuori potrebbero sembrare paccottiglia inutile che non ho il coraggio di buttare, e che soprattutto non me la riporterà indietro... ma lei le ha toccate, le ha usate, capisci...?»
Ben annuì «E quindi sono le tue reliquie.»
«Già» Alan sorrise come uno che sapeva di aver fatto la figura del pollo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Kintsugi'
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R e l i q u i e

questa storia fa parte della serie Kintsugi

 

 

«Non ti facevo amante dello sport.»

Alan si era alzato dalla poltrona, cercando di sfuggire all'ennesima introspezione, e, curiosando fra gli scaffali della vasta libreria del suo analista, aveva adocchiato una pallina da tennis, esposta come un trofeo, accanto a una foto. Studiò entrambe con interesse, constatando che la palla era coperta da un leggero strato di polvere – strano, sapendo che il suo proprietario era una specie di maniaco dell'ordine.

«No, infatti.» rispose Ben, tirandosi su gli occhiali con l'indice, e non lasciando trapelare il disagio che provava nell'affrontare quell'argomento. Instaurare un rapporto paritario coi pazienti era sempre un azzardo, perché sì, aumentava le probabilità che essi si confidassero più serenamente con una figura amica, piuttosto che con un professionista freddo e distaccato.
Ma questo significava imporsi un certo coinvolgimento emotivo, e concedergli una confidenza che rasentava l'inopportuno. Era rischioso. Alan era rischioso.
Per comprenderlo a fondo, si era spinto troppo nella tana del Bianconiglio e ora non riusciva più a risalire.
Sorrise debolmente al pensiero di Paula, la sua terapeuta, che scoraggiava questi metodi così... empatici.
Tu non sei suo amico, sei il suo analista, e come tale hai fatto un giuramento”, lo avrebbe redarguito, accavallando le belle gambe con naturale sex appeal.

«Capisco... Quindi cos'è, una reliquia?»
Insinuò, vagamente canzonatorio, ma a Ben non diede fastidio come avrebbe dovuto.
«Più un promemoria...» rispose, vago.
«Per cosa?»
«Sono io che faccio le domande qui!»
«Ha per caso a che fare con questo tizio?» continuò Alan imperterrito, ammiccando alla foto sullo scaffale, che ritraeva Ben e un uomo di colore, molto alto e molto atletico, in un contesto vacanziero.
I due sembravano vicini, quasi... intimi, ma nessuno avrebbe saputo dire fino a che punto.

«E magari vuole sedersi anche al posto mio, dottore?» si sollevò sui braccioli, facendo per cedergli ironicamente il posto.
«Dài!»
«… È un mio ex.»
«E perché conservi le sue cose?» sembrava un bimbetto ostinato.
«E tu perché conservi le cose di Fanny?» lo spiazzò, cambiando abilmente discorso.
Alan lo guardò spaesato.
«Che c'entra, è... è diverso.»
«Non è diverso. Pensaci» disse, raggiungendolo alla libreria, e osservando l'effetto delle sue parole sul volto dell'altro. Alan sembrò pensarci davvero, ma con una tale aria da cane bastonato, che Ben temette di aver esagerato.
«… Per sapere che è esistita davvero, penso. I miei figli mi ricordano che l'ho amata, e che sopravvive in loro, ma le cose... da fuori potrebbero sembrare paccottiglia inutile che non ho il coraggio di buttare, e che soprattutto non me la riporterà indietro... ma lei le ha toccate, le ha usate, capisci...?»
Ben annuì «E quindi sono le tue reliquie.»
«Già» Alan sorrise come uno che sapeva di aver fatto la figura del pollo.

Seguì una pausa piena di significato, in cui si guardarono a lungo, e Ben si sentì nudo al cospetto di quegli occhi di pece, inquieti e profondi, come i sentimenti che provava per lui.
Si domandò chi stesse psicanalizzando chi ora.
Sapeva che non avrebbe dovuto assecondare la piega informale che stava prendendo il loro rapporto. Se gli avesse permesso di entrare nella sua vita come una persona qualsiasi, se si fosse tolto anche quell'ultima maschera di professionalità, sarebbe stata la fine della sua carriera, della guarigione di Alan, della sua sanità mentale, di tutto. E questo non poteva succedere.
Ma d'altronde, come può uno che annega, aiutare un altro annegato?1
Ben sapeva di sbagliare; ma si sentiva obbligato a ricambiare quella confessione.
Afferrò la pallina da tennis, rigirandosela fra le mani, e rivelando così il numero di telefono scritto con un pennarello, anni prima, sulla facciata opportunamente rivolta verso l'interno della mensola. Sbiadito come il ricordo della persona a cui era legato.

«Sai» continuò, senza guardarlo «credo che questa palla mi aiuti a ricordare di non permettere a nessuno di trattarmi come mi ha trattato lui.»
Alan accolse il suo sfogo con un leggero cenno del capo, e archiviò quell'informazione come importante. Poi, un'idea malsana balenò nella sua mente.
«Sei libero stasera?»


 

1Tennessee Williams, La gatta sul tetto che scotta, 1958

   
 
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