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Autore: Fidi_    08/01/2018    1 recensioni
Ormai da mesi ero pervaso da un senso di estraneità, ma non ne ero turbato, anzi, mi era diventato caro in un certo senso: sentivo che era l'unica cosa veramente mia. Mi avvolgeva come un rassicurante bozzolo caldo in cui potevo, se non morire, almeno nascondermi dal mondo.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Kintsugi'
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I l  b o z z o l o

questa storia fa parte della serie Kintsugi

 

 

Come ho fatto a non rompermi in quel periodo non lo so.
Se dormivo la notte, dovevo considerarmi fortunato. Se dormivo addirittura per più di quattro ore filate, allora era un vero record. Poi però magari compensavo con un sonno letargico per tutto il pomeriggio; ovunque mi trovassi avevo questa capacità di raggomitolarmi alla meglio, pure su una superficie striminzita e scomoda, e scivolare nell'oblio, risvegliandomi più rintronato e inebetito di prima. E poi ricominciavo da capo.
Di notte ero sveglissimo e ansiosamente concentrato sul conto delle ore che mi mancavano per raggiungere il mio fabbisogno quotidiano di sonno, sperando che al prossimo rintocco mi sarei finalmente addormentato. Ma no. L'attesa del sonno si faceva sempre più estenuante, fino a quando il primo raggio di sole non irrompeva nella mia camera da letto, ricordandomi subdolo, che stavo sprecando giorni e notti preziosi, limitandomi a trascorrerli in un coma tormentato.
Quel raggio di sole mi ricordava mio padre.
E poi avevo mal di testa, sempre mal di testa. Di quelli pulsanti, che ti partono dalla base del collo e ti danno l'idea che il cranio possa staccarsi da un momento all'altro e rotolare giù per le scale, o cadere nel water mentre stai pisciando. Avevo spesso queste visioni parodistiche del mio malessere, mi aiutavano a sdrammatizzare in qualche modo. Ma se mi capitava di esternarle a qualcuno, non facevo altro che attirare ottusi rimproveri e sguardi pietosi: “Non dovresti scherzare su queste cose” o “Poverino, da quando è morta sua moglie, è completamente svanito”.
La gente è priva di umorismo. Ma di consigli non richiesti, quelli ne ha in abbondanza. All'improvviso diventavano tutti espertoni che non solo erano in grado di appurare se stessi bluffando o meno, ma che dovevano anche giudicare la mia gestione del lutto. Dovevo riposare, ma, attenzione, non vegetare, dovevo mangiare sano, tornare a lavorare, mostrarmi in pubblico e provare a sorridere, essere positivo, perché “ormai è passato quasi un anno, Alan, lei non avrebbe voluto vederti ridotto così”, come se fossero tutte cose che avrei potuto fare a comando. Avevo anche ottenuto il permesso – meno male! - di uscire con qualcun'altra se questo fosse servito a guarirmi, purché fosse donna, chiaro: il pensiero che in passato avessi frequentato degli uomini era stato convenientemente soppresso dal mio “normalissimo” matrimonio.
Insomma, tutto fuorché agire effettivamente nell'unico modo che mi sembrava possibile: ammazzarmi. Non potevo ammazzarmi perché sarei stato uno “sporco egoista a lasciare da sole quelle due povere creature”. Ma io ero fermamente convinto che fossi solo una disgrazia per i miei ragazzi, e che sarebbero stati molto meglio senza di me. E segretamente, sono certo che la pensassero così anche loro. In fondo, nell'inconscio, tutti noi vogliamo vedere morti i nostri genitori, è una legge di natura. Cal mi detestava e non ne faceva mistero. Allie era solo una bambina e giustamente temeva i miei sbalzi d'umore e non comprendeva la mia apatia, a stento la comprendevo io. Eppure non sapevo comportarmi diversamente, non potevo.
Ero scampato a un incidente mortale – a differenza di mia moglie – e in quanto miracolato, non avevo il diritto di buttare la mia vita. Avevo avuto una seconda possibilità, ero stato così fortunato, chiunque al posto mio avrebbe ringraziato di essere vivo. La verità è che la mia vita o la mia morte non mi appartenevano più. Erano diventati meri strumenti di ricatto morale, così come i miei figli, e io, per quanto mi sforzassi, non riuscivo più a trovare dentro di me una briciola di affetto per loro. Sentivo che amarli era un dovere, perché erano sangue del mio sangue, dipendevano da me, perché anche loro avevano perso la madre, ed erano tutto ciò che mi restava di Fanny. Io avrei tanto voluto che fosse vero, ma ero sfinito dallo sforzo di fingere sentimenti che non provavo. Anni per scrollarmi di dosso lo stigma che mi avevano affibbiato, e invece di colpo capivo che avevano ragione: non ero tagliato per fare il padre. Doveva essere per forza così, se con la donna che li aveva partoriti, era morto anche il mio senso paterno, insieme a tutto il resto. E così i figli di Fanny si muovevano sullo sfondo della mia esistenza come fantasmi troppo riservati per perseguitarmi. Ormai da mesi ero pervaso da un senso di estraneità, ma non ne ero turbato, anzi, mi era diventato caro in un certo senso: sentivo che era l'unica cosa veramente mia. Mi avvolgeva come un rassicurante bozzolo caldo in cui potevo, se non morire, almeno nascondermi dal mondo.
Non volevo essere trovato.

   
 
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