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Autore: _Akimi    09/01/2018    2 recensioni
[Flashborg] Post-canon
"«Lo hai detto tu, non ti piace avere segreti.»
Diventano un'arma, le sue stesse parole; è una piccola rivincita che Victor ottiene, anche se l'espressione afflitta dipinta sul volto di Barry non gli provoca nessun senso di piacere; non è neanche colpa, ciò che prova nel vederlo indeciso, ma lo spiraglio di dubbio che intravede gli fa credere di essere arrivato alla soluzione dell'enigma.
«Arthur aveva torto, non è mai semplice con te.»"
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Barry Allen, Victor Stone
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Slow Down'
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Psyché


Victor osserva con attenzione i diversi schermi che ha di fronte, inserisce coordinate, controlla dati e localizza possibili minacce in giro per il globo.
Non è un lavoro difficile, il suo; la lega si è appena formata ufficialmente, i ruoli non sono ancora stati ben stabiliti all'interno del gruppo, ma quello di cui è certo è che fare lavoro di ufficio non gli dispiace poi così tanto.
Ama l'azione, l'appagante gloria di aiutare qualcuno in pericolo, ma anche salvare i propri compagni e coprire loro le spalle non sono compiti che vanno sottovalutati.
Ha imparato a sfruttare i propri poteri in questo modo, il suo corpo rimane ancora un potenziale pericolo, ma la situazione è migliorata ora che, dopo la sconfitta di Steppenwolf, suo padre ha cominciato a prestargli più attenzione.
Passano notti in laboratorio, troppe notti – vorrebbe dire Victor, eppure il tempo trascorso con lui aiuta a placare l'odio che all'inizio il ragazzo provava nei suoi confronti.
Passano molte notti assieme, ma ora Victor non è solo il suo esperimento, no, è prima di tutto suo figlio; e lo ha capito, sa che Silas sta facendo il possibile per rimediare agli errori del passato.
È una sfida ostica, entrambi sono orgogliosi e pronunciare un semplice 'scusa' significherebbe scendere ad un compromesso difficile.
Victor per ora non si lamenta, è una questione di pazienza, ed è certo che arriverà il momento in cui impareranno ad avere, perlomeno, un rapporto accettabile.
Perché questa è la verità, non sono mai stati padre e figlio ideali; il loro rapporto è sempre stato complicato, e l'unico legame, oltre a quello di sangue, che li avvicina era Elinore.
La madre, sua madre; Victor conserva di lei solo i ricordi più felici, ha dimenticato i litigi, i silenzi o i momenti di rabbia; sente la sua mancanza ed è consapevole che anche per suo padre sia difficile accettare di essere rimasto solo.

Ecco cosa, forse è il dolore che può unirli di nuovo, o almeno, che può aiutarli ad essere una famiglia come tutte le altre.
Victor crede di non aver mai preteso molto, confessa di non essere stato per loro il figlio perfetto, ma può tentare – se questo serve ad alleviare la sofferenza del padre – ad essere una persona più attenta anche ai suoi bisogni.
Deve provarci, dato che Silas si occupa anche della parte non più umana di lui; ha accettato di salvare suo figlio così, senza mai vederlo come una creatura pericolosa.
Adesso ci crede anche Victor, vuole immaginare se stesso con una nuova forza a sua disposizione, e non come uno svantaggio da controllare; ha saputo dare il suo massimo nello studio, nello sport e sarà lo stesso ora, uscendone vincitore come in tutte le altre occasioni.
Pensa anche ai suoi alleati, al gruppo: ammira la dedizione di Superman, l'empatia di Diana, la determinazione di Batman e non dimentica l'impegno di Arthur che, pur essendo un animo solitario, ha lavorato per e con loro.
E poi c'è Barry, la saetta, il loro piccolo fulmine; sono così diversi l'uno dall'altro, ma Victor riconosce il coraggio che li accomuna.
Non prova pietà per lui, è qualcosa che riserverebbe solo a chi non è capace di difendersi; no, Barry ha dimostrato a tutti loro – e a se stesso – di essere più di quel bizzarro ragazzo che Victor vide per la prima volta là, su uno dei tetti della tetra Gotham.
Non lo ha mai sottovalutato, anche se non sembra un feroce guerriero come Curry o invincibile come la semi-dea.
No, Barry Allen è un ragazzo normale, come lo è – era lui; è il primo aspetto che li accomuna e che, inesorabilmente, ha permesso loro di fraternizzare.
Lo trova divertente, brillante e goffo - in senso buono; forse ingenuo, ma prudente davanti al pericolo; è un ottimo compagno, il giusto equilibrio tra puro istinto e dinamica genialità, una persona di cui è semplicemente fidarsi.
E aggiungerebbe anche piuttosto cari-

«Buongiorno Victor, sapevo che ti avrei trovato qui.»
Nella sala di giustizia giunge all'improvviso Diana, un'ordinata coda a stringerle i capelli e un vestito a fasciarle il fisico, semplice, di un grigio ardesia che la rende elegante, senza però farla apparire troppo professionale.
Sorride come suo solito, un sorriso sincero e gentile, le labbra increspate per mettere a proprio agio Victor e una materna carezza sulla spalla per farlo rilassare.
Sembra indifferente al contatto con il freddo metallo, si comporta davanti a lui come se avere un cyborg come amico fosse una normalità; dopotutto è pur sempre un'Amazzone – ha i suoi buon motivi per non apparire stupita.
«Ciao Diana; perchè, mi stavi cercando?»
Victor saluta guardingo e stranito dalle parole dell'altra; pensa al lavoro, probabilmente una riunione improvvisa, ma sono solo loro e senza Batman o Superman – almeno -, non avrebbe molto senso parlare di faccende importanti.
Si fida di Diana, certamente si fida di lei; è la donna delle meraviglie, l'eroina che tutti rispettano e amano, non farebbe nulla per metterlo in difficoltà.
Lo ripete un paio di volte, cerca di convincersi e sì, lo sa, è naturale credere a qualsiasi cosa la principessa faccia o dica, ma in questo caso vi è un qualcosa che Victor non comprende.
Il suo sorriso, lo stesso, magnifico sorriso di sempre, pare nascondere una curiosità che lo fa sentire in imbarazzo, anche se non sa ancora di che cosa si tratti.
Non ha nulla da nascondere, nulla che i suoi compagni non possano sapere e, anche se avesse qualche segreto dimenticato, non crede di doversene vergognare davanti a Diana.
Non gli pare una donna prevenuta, comandata dai pregiudizi o maliziosa, anzi, si è sempre dimostrata aperta al dialogo, sin troppo paziente in molte occasioni, e empatica, decisamente.

«Come va a casa?»
Una domanda vaga, anche se personale; Victor non è infastidito se è Diana a chiederlo; in fondo, è stato onesto con lei sin dall'inizio e il rapporto che si è instaurato tra di loro concede della confidenza reciproca.
«Con mio padre? Direi tutto bene, o almeno, le cose tra di noi iniziano a migliorare. Stiamo perfezionando la macchina, sai, accessori e altre armi.»
Mormora parlando del suo corpo così; si passa la mano metallica sul collo e sente solo un lieve formicolio, come se si fosse appena punzecchiato con una piuma.
Gli manca, potere avere dei sensi come quelli di una persona normale, dall'afferrare e lanciare una palla sino al semplice frugare nella sua cartella o nel suo armadio, sfiorando con le dita i vestiti morbidi.
Sono sensazioni abituali, gesti a cui non ha mai dato molta importanza, ma ora si rende conto che era quella normalità a renderlo ragazzo; difficile ritornare al passato, ma se ne farà una ragione, deve, non ha altre scelte.
«Le armi non bastano, Victor.»
Inizia a parlare lei, il sorriso che svanisce lentamente sostituito da un'espressione seria, ma non severa; si sente osservato, riconosce nel suo sguardo la preoccupazione e l'affetto che prova per lui, anche se le sue attenzioni lo fanno sentire – troppo spesso – come un bambino parte di una famiglia poco convenzionale.
«È giusto allenarsi ed essere pronti alla lotta, sempre. Ma bisogna curare anche ciò che noi non vediamo con gli occhi, la psyché, così come la chiamiamo noi amazzoni.»
Victor la osserva interessato, la vede portarsi le mani giunte al petto e trattenere un respiro, come se volesse dimenticare dolorosi ricordi della sua terra natia.
Psyché – è una parola che affascina Victor, una parola che racchiude nelle proprie lettere un grande significato; filosofia, è la prima cosa che pensa, ai saggi dell'antica Grecia e a quel mondo che gli studenti trovano sui libri di scuola, ma che Diana incarna ora, in quello sguardo malinconico e nel piccolo sorriso che compare sul suo viso.
«Fammi indovinare, Socrate?»
Chiede lui, decidendo di interrompere definitivamente il lavoro; ora si concentra solo sulle parole di Diana, sul suo modo di raccontare e l'entusiasmo che fugge dalle sue labbra, contagiando anche una persona tranquilla come Victor.
La conversazione diviene sempre più piacevole, impara termini che ha incontrato solo vagamente su qualche libro al college, ma spiegata da Diana, anche la filosofia diviene una materia da comprendere e applicare.
Non solo pensieri sparsi e vaghi, no, lezioni di vita; consigli a cui Victor non avrebbe mai dato importanza prima quando, occupato dal proprio ego, si soffermava solo su effimere vittorie sportive.
È un percorso più profondo, quello che Diana cerca di indicargli, e nessuna parola pare scontata.
«Socrate diceva che era fondamentale conoscere se stessi, per lui l'infelicità o la gioia dipendono non da ciò che fanno gli altri, ma da quello che abbiamo qui, dentro di noi.»
La mano della principessa indica lui, quella luce che si riflette sulla sua pelle olivastra e che, in uno strano modo, dovrebbe rappresentare ciò che è rimasto del suo cuore – almeno in modo teorico.

«Non vorrei sembrare antipatico, Socrate sembra davvero un tipo saggio, ma sei venuta da me davvero per parlarmi di filosofia? La tua compagnia è piacevole, sicuramente meglio di sopportare il sarcasmo del sirenetto, ma-»
Diana gli dedica uno sguardo di rimprovero, un sorriso ironico che rende il suo viso più rilassato, anche se quell'espressione non tranquillizza Victor che, invece, ricomincia a chiedersi se ci sia qualcosa di cui devono urgentemente parlare.
Rimangono in silenzio per lunghi attimi, Diana continua a guardarlo misteriosa e solo dopo, camminando nervosamente nella stanza, si decide a parlare della questione così tanto segreta.
«Mi chiedevo se avessi litigato con Barry, sembra molto distratto nell'ultimo periodo.»
Victor corruccia la fronte, un'espressione perplessa occupa il suo volto e non può che ripensare all'ultima volta che ha incontrato il velocista; non hanno avuto modo di parlarsi molto, quando erano entrambi nella sala insieme agli altri, ma non è passato molto tempo da quando Barry gli ha fatto visita nel suo appartamento.
Due o forse più settimane? Non ricorda, ad essere sincero, ma in quell'occasione sembrava lo stesso ragazzo di sempre; è distratto per natura, impacciato con chiunque in ogni situazione e sì, Victor ne è certo, era lo stesso Barry dei giorni prima.
«Forse è il college o suo padre; anche se rifiuta quel genere di aiuto, Bruce non avrebbe problemi a pagare la retta.»
Non lo biasima, anche per lui sarebbe complicato accettare soldi da parte di qualcuno; essere indipendente, saper vivere da solo, è qualcosa che Barry ha fatto per molti anni e deve essere orgoglioso di se stesso, anche se chiedere una mano non significa mostrarsi deboli.
Victor ripensa a ciò che gli ha raccontato del suo passato, perdere la propria famiglia a quell'età – è qualcosa che non augurerebbe a nessuno, eppure Barry non ha mai mostrato apertamente segni di ansia per il proprio futuro, almeno non davanti alla lega.
«No, non sono i soldi, è altro.»
«Altro? Potrebbe davvero esserci dell'altro? Non voglio dire che la sua vita sia misera, ma avere il padre in prigione e vivere di giorno in giorno mi pare già un motivo valido per essere distratti.»
Diana non è convinta dalle sue parole, Victor lo capisce da un semplice cenno del capo; aggrotta le sopracciglia, la principessa, e sospira indecisa su quale sia la giusta conclusione.
«Sicuro di non aver litigato con lui?»
Victor alza le spalle, pensa vagamente a ciò che si sono detti le settimane precedenti e non ricorda nulla di maligno o superficiale; nulla che potesse offenderlo o istigarlo, solo conversazioni, conversazioni tra amici.
«Me lo ricorderei, se avessi detto qualcosa di sbagliato. In realtà non ci parliamo molto quando siamo qui, io sono sempre impegnato e lui-»
E lui?
Victor è stato così tanto indaffarato con i proprio compiti da non sapere esattamente come passasse il tempo Barry nella sala di giustizia; non crede che ci passi molto tempo in generale, Central City è la sua città, e Victor è contento per lui, in fondo vivere una vita regolare è ciò che vorrebbero tutti.

«Impegnato, giusto, lo sei; ora ho capito, ricordati quello che ti ho detto. La pysché è importante, dovresti allontanarti un po' da qui.»
È l'ultima cosa che Diana gli dice prima di andare via; parole sfuggenti, enigmatiche e poi il nulla, il silenzio ritorna nella sala e Victor si sente confuso, anche se non c'è più Diana lì, a sorridergli per rincuorarlo.
«Psyché.»
Mormora, cominciando a digitare convulsamente sulla sua tastiera; Google è l'unico amico che gli rimane ora.

 
* * *

«Ragazzi, dovreste provare i pasticcini di un negozio che ha appena aperto a Central City, non ho mai mangiato nulla di più buono.»
Barry attraversa la porta aperta della sala gridando mentre, alle proprie spalle, come solito, saette blu lo inseguono indicando il suo percorso.
«Hai detto la stessa, identica cosa una settimana fa; ti sei già annoiato del miglior Jerk Chicken di sempre
Arthur appare infastidito alle sue spalle, i capelli gli ricadono bagnati sulle spalle ed è probabile, o almeno Barry presume, che si sia risvegliato da uno dei suoi lunghi riposi passati dentro ad uno dei bagni di casa Wayne.
Barry lo guarda più del dovuto, mentre cerca di parlare tra un boccone e l'altro; i suoi occhi scivolano sugli addominali scoperti e rischia di rimanere soffocato, rendendosi conto che Arthur indossa solo un asciugamano – rosa, piuttosto imbarazzante.
«Potresti, sai – cercare dei, ehm.-»
«Per l'amor di Dio, Arthur, chiedi ad Alfred dei vestiti da metterti addosso.»
Bat- Bruce giunge in suo soccorso, chiude la porta alle sue spalle e guarda il mezzo atlantideo con un'espressione tra il divertito e l'inorridito, come se fosse turbato dai modi sin troppo singolari dell'ospite.
Barry deve ancora abituarsi all'idea di essere diventato ufficialmente un membro della Justice League; è stranito dalla situazione, dalla quotidianità che ormai intercorre tra di loro, sono una sorta di famiglia, anche se l'unico che si comporta come un adulto responsabile probabilmente è Alfred.

«Piccolo tuono, come va la vita? Ancora fissato con quel cartone da bambini?»
Barry sente la mano umida di Arthur sulla sua spalla, un brivido percorre la sua schiena e rimane immobile, come se l'altro lo avesse appena congelato con il suo tocco.
È una sensazione che gli pizzica la pelle, vorrebbe davvero chiedergli di allontanarsi, ma l'unico suono che sfugge dalle sue labbra è uno squittìo timido e indecifrabile.
«È science-fiction e non è un cartone per bambini.»
«Se lo dici tu.»
Risponde veloce Arthur, finalmente si allontana e scompare dalla stanza come un pesce pagliaccio tra i tentacoli di un anemone.
A quel punto respira, Barry, ritornando pacifico all'ultimo pasticcino che gli è rimasto in mano: un cannolo ripieno di crema, una delizia per molti, anche se per il povero ragazzo non è abbastanza per saziarsi completamente; pensa già all'ora di cena, è certo che Alfred inviterà tutti a mangiare assieme e Barry lo spera – con tutte le sue forze – perché la cucina del maggiordomo è davvero superba.

«Come vanno le cose a Central City, tutto sotto controllo?»
La voce roca di Bruce lo risveglia dai suoi pensieri e si volta verso di lui, accennando un sorriso per ringraziarlo delle attenzioni; ormai ha imparato a conoscere Bruce, sa che non è un uomo molto avvezzo a conversare, è solo una copertura – essere un miliardario circondato da belle donne – e Barry, se dovesse scegliere, preferirebbe il brusco e malinconico Wayne, piuttosto che una versione falsa di lui.
«Sì, è un periodo tranquillo; volevo davvero ringraziarti per, sai, l'aiuto che mi hai dato con il lavoro.»
Bruce appare indifferente alla sua gratitudine, lo considera un piccolo gesto, un aiuto che tra amici è naturale, soprattutto perché è stato anche lui giovane e, a parte l'amata solitudine, la presenza di Alfred è stata una costante fondamentale nella sua vita.
«Ho fatto solo il minimo, Clark lo chiama lavoro di squadra.»
Barry sorride divertito da quel commento; una parte di lui riesce a vedere oltre alla maschera seriosa di Batman e, anche se non sono in molti a dirlo, crede che Bruce non sia poi così scorbutico.
È un uomo di poche parole, pragmatico e dal pungente sarcasmo, ma Barry si è affezionato, anche se le conversazioni tra di loro – almeno per ora – non sono mai troppo personali; si fida di lui, crede che non ci sia nessuno migliore di Batman quando si parla di segreti, ma Bruce non è Diana e esternare qualsiasi tipo di emozione in sua compagnia è complicato.
Si sentirebbe soltanto più stupido, a parlare della sua vita con lui, e si conosce piuttosto bene, sa che finirebbe con spiegare dettagli che sarebbe meglio non rivelare.

«Eccomi di nuovo, non sto interrompendo nulla, vero? Non che me ne freghi qualcosa.»
Dalla porta appare rumoroso Arthur, questa volta coperto dai primi vestiti comodi che Alfred ha trovato; Barry si deve ancora abituare a vederlo così, come una persona normale, e non un mezzo atlantideo con la sua armatura scintillante.
Il carattere è sempre lo stesso, lo trova simpatico, nessun rancore, ma in qualche occasione le cose tra di loro semplicemente non funzionano; sono opposti, Arthur gli ricorda i tanti ragazzi popolari che ha incontrato a scuola, sempre boriosi e qualunquisti.
Non li ha mai sopportati, anche se Curry ha dimostrato di essere molto più del suo ego; sta combattendo le proprie battaglie, questioni interiori che persone come Barry non possono capire, ma apprezza il suo sforzo di non farlo sentire sempre lo sfigato del gruppo.
«Hey, pipistrello.»
Inizia salutando Bruce, un colpo violento sulla sua spalla e un sorriso sarcastico sul volto; lo sguardo, tuttavia, si posa su Barry e semplicemente lo osserva, cercando di capire a che cosa stia pensando ora.
«Come va con il tuo fidanzato di latta?»
Chiede all'improvviso, lo stesso Bruce rotea gli occhi per nulla stupito come se, effettivamente, sapesse che Arthur lo avrebbe chiesto prima o poi, intromettendosi nella conversazione in modo così sciocco.
«Non è latta, è troppo leggera per il suo corpo.»
Barry risponde senza comprendere il senso completo della sua domanda; stava pensando già ad altro, quando Arthur è entrato nella sala, e la sua attenzione si è solo focalizzata sull'indecifrabile reazione di Bruce e sulla parola finale esclamata dal re dei mari.
«La principessa aveva ragione, il suo maledetto sesto senso femminile; almeno è già qualcosa, pensavo che avresti continuato a ronzargli attorno come una quattordicenne.»
Un'espressione stupita appare sul volto di Arthur e Barry non può che guardarlo confuso, non capisce ancora a che cosa si stia riferendo, anche se basta un secondo per cominciare ad arrossire.
«Aspetta, io e Victor; no,no, io e lui non siamo quello che pensi tu
Balbetta ripetendo il nome dell'altro con poca convinzione; è bravo a mentire – se serve -, ma lo sguardo complice che Bruce e Arthur si scambiano lo rende solamente più nervoso.
Ha di fronte uno dei migliori detective al mondo, Batman non ha dei super poteri, ma batterlo in astuzia sarebbe una follia, anche per un ragazzo istintivo come Barry.
Eppure, ammettere la verità non è semplice; si ritiene sfortunato, per tanti motivi diversi, e uno di questi è di doverne parlare con loro due.
Doveva esserci Diana – senza offesa per la valida amicizia -, ma confrontarsi sull'argomento con il cinico Bruce e la poca grazia di Arthur non è una possibilità che lo aiuta.
Così, tante domande occupano la sua testa ed è complicato cercare una risposta senza lasciarsi prendersi dal panico; crede di avere urgentemente bisogno di altri zuccheri, ma fuggire per ritornarsene a Central City non sarebbe il miglior modo per affrontare il problema.

«Sentite, io non- devo mangiare qualcosa, vi prego.»
Brutto segno, guarda solo Bruce e poco dopo se ne pente perché, come suo solito, il miliardario decide di fuggire dalla scena del crimine con una scusa astuta, ma banale.
«Posso chiedere ad Alfred, arrivo subito
Non con lui, non da solo con Arthur, Bruce, hey?
No, Barry si rende conto di non aver aperto bocca, quelle parole rimangono un vago pensiero nella sua testa e l'unico suono che lo riporta alla realtà è la porta che si chiude, lasciandolo al feroce interrogatorio di Arthur Curry.
«Sapevo che eri un idiota, ma non così tanto idiota.»
Inizia a parlare lui, si siede incurante su una delle postazioni, Barry vorrebbe avvisarlo che si tratta della zona di Victor, ma il silenzio è l'unica arma che gli rimane e, in effetti, evitare di citare l'altro ragazzo è la scelta più intelligente che possa fare ora.
«Credi che a qualcuno del team freghi qualcosa con chi andresti a letto? Certo, non so come funziona nel vostro caso, ma sono dettagli.»
Lo ha detto, lo ha detto per davvero.
Barry non distoglie lo sguardo da lui, gli viene dedicato un sorriso sarcastico, ma arrossisce in risposta, senza sapere cosa dire arrivati a questo punto.
Potrebbe scusarsi e andarsene una volta per tutti, ma ritornare a casa senza salutare Alfred lo farebbe sentire in colpa; incontrare il maggiordomo significherebbe, però, ritrovare Bruce e al momento vorrebbe evitare un pipistrello imbarazzante e poco d'aiuto.
«Non è così, noi non stiamo, uhm.»
Trattiene il respiro, abbassa lo sguardo per un breve attimo e si concentra – come se si stesse preparando per una battaglia -, ignorando l'espressione annoiata di Arthur.
«Ok, ti ringrazio per il supporto e la comprensione, ma Victor non è- lui non lo sa
L'ansia comincia a crescere, si insinua dentro di lui come una sorta di veleno che finirà con ucciderlo lentamente; sente il bisogno di correre, non sa verso quale destinazione, ma nascondersi da qualche parte, qualsiasi parte del mondo, sarebbe più gradevole del pensare anche solo per un attimo a Victor.
Una questione di probabilità – o per i superstiziosi, fortuna – non ha molte possibilità se mai decidesse di confessare i suoi sentimenti; può prendere per certo che Victor non sia impegnato con nessuno, per ora, ma il resto è semplicemente mistero.
È persino dubbioso sulla loro amicizia, alle volte ha la sensazione che lo sopporti solo in quanto compagno d'armi, nulla di più; chiedere altro, di conseguenza, sarebbe un paradosso.
L'ennesimo errore da aggiungere alla lista dei fallimenti di Barry Allen.

«E quindi? Sarà pure un robot, ma non è un fottuto telepate; basta che tu glielo dica.»
«Facile per te, piaceresti a chiunque.»
Barry risponde fulmineo, indispettito, irritato dalle semplici parole dell'altro; Arthur è diverso da lui, il modo in cui si comporta e la sua presenza; attira l'attenzione facilmente, nel bene e nel male, mentre Barry è un disastro in tutto ciò che implica altre persone.
Il miglior suggerimento che ha ricevuto è stato di essere se stesso sempre, senza lasciarsi influenzare dalle circostanze o dalle opinioni altrui, ma sebbene si trattino di parole sagge, Barry non si considera propriamente una persona accettabile – secondo diversi punti di vista.
Prolisso, ansioso e alle volte sin troppo invadente; conosce i propri limiti, per tale motivo la semplicità di Arthur non fa che peggiorare la sua situazione.
«Fidati, non piaccio a molte persone. E sai che cosa faccio in questi casi?»
Un'inusuale quanto gentile sorriso appare sul suo viso, è sincero, Barry lo capisce perché ormai sa riconoscere il modo di scherzare di Arthur e, questa volta, l'espressione dipinta sul suo volto è veritiera e – azzarderebbe – quasi fraterna.
«Non mi interessa, non cambio per gli altri; indi per cui, dovresti fare lo stesso tu. Il ragazzo di lat- Victor, Victor mi sembra un tipo a posto e, anche se dovesse rifiutare, non credo che ti odierebbe per un motivo così superficiale.»
Gli occhi di Barry si illuminano, crede che sia la prima volta che Arthur dedichi un complimento, seppur banale, a Victor; questo lo rincuora, non che la situazione sia diversa ora che l'atlantideo ha rivelato il suo piccolo trucco, ma Barry sa almeno da che punto cominciare.
«Non credevo che te l'avrei mai detto, ma hey, grazie amico.»
Allunga la mano verso di lui, un pugno chiuso – com'è sua abitudine -, ma ancora una volta non riceve nulla in cambio, rimanendo immobile, e non poco imbarazzato, davanti ad un Arthur piuttosto stranito.
Andiamo, perché in questa squadra odiano tutti i saluti?
«Per prima cosa, io e te non siamo amici.»
Non ancora Arthur, non ancora.
«E poi fattelo dire, hai davvero dei gusti orribili.»
E con quello se ne va; quando lascia la stanza pare quasi più rapido dello stesso velocista e per una volta, non la prima, è Barry a rimanere abbandonato a se stesso.

 
* * *

Follia, pura follia.
L'adrenalina non percorre più il suo corpo da quando ha avuto l'incidente, eppure prova la stessa sensazione di un pre-partita, di un touchdown all'ultimo minuto o di un malizioso scambio di sguardi con una ragazza.
Victor è sicuro, il suo corpo – com'è ora – non può essere attraversato dall'adrenalina, ma si sente un po' bambino e un po' ribelle quando, atterrando bruscamente a terra, si rende conto di essere arrivato a Central City.
Un edificio abbandonato occupa la sua vista, una vecchia recinzione gli ostacola momentaneamente il passaggio, ma se ne libera subito piegando quanto serve la rete metallica, anche se non può che chiedersi come faccia Barry a passare in un varco così piccolo.
Sospira lento, una volta arrivato a sfiorare con le dita artificiali la porta che lo divide dalla casa dell'altro; è ancora indeciso, non crede sia stata la migliore delle idee essersi allontanato dal proprio appartamento per arrivare fino a qui, una parte di lui si sente davvero un intruso e si domanda se sia la stessa sensazione che Barry ha provato quella sera, settimane fa, quando lo aspettava davanti alla sua finestra.
Vi è qualcosa di strano, un senso di attesa che aleggia nell'aria, che Victor ancora non riesce a decifrare; ci ha riflettuto per un intera notte – una delle poche passate in camera sua, non in laboratorio – ed è arrivato alla conclusione che, aperta la porta, il rapporto con Barry sarà costretto a cambiare, in un modo o nell'altro.
Non ha parlato con lui per giorni, non un silenzio voluto, ma entrambi erano occupati con qualcosa, anche il più piccolo degli impegni probabilmente, e Victor se n'è reso conto quando persino la compagnia di suo padre è diventata piacevole.
Una distrazione, un diversivo per dimenticarsi la strana conversazione con Diana, anche se le parole dell'amazzone hanno continuato a punzecchiarlo durante la notte, quando una persona normale dovrebbe dormire.
Victor ha riflettuto così a lungo sulla questione da averci perso la testa; ha analizzato tutte le ipotesi, dalla più semplice alla più complessa, ed è giunto alla conclusione che nulla di strano deve essere successo tra di loro.
Barry è stanco – è la prima scusa che ha trovato per lui, plausibile, ma scialba; una scusa che non implicasse cercare risposte a domande difficili, un modo per giustificarsi e per non accettare qualche responsabilità sulla vicenda.
Barry è stanco, forse lo è, ma non per colpa mia – è stato il passo successivo; Victor che alza astrattamente le mani in segno di resa, come il più incurante dei vigliacchi, anche se dentro di lui, nascosta tra metallo, cavi e dati sparsi, una piccola voce gli dice che è colpevole.
È almeno complice, anche in una minima parte, di quella stanchezza che Barry non manifesta, forse per orgoglio, anche se i membri della Justice League non sono ciechi e riconoscono quando il velocista non è al massimo della sua forma.

«Non si torna indietro, coraggio.»
Mormora, un sussurro che si disperde poco dopo, sostituito da un silenzio quasi solenne, come se Victor stesse aspettando una sentenza di vita o morte; non teme il giudizio di Barry, è certo che il ragazzo lo accoglierà a breve con uno dei suoi soliti sorrisi, forse uno più forzato del solito, ma Victor lo apprezzerà lo stesso perché, non ha ancora capito il motivo, vedere Barry allegro è una delle poche cose che lo fa sentire un ragazzo normale, almeno per poco.
Bussa così alla porta, le nocche metalliche che riproducono un suono distorto, quasi fastidioso, anche se è sufficiente per attirare l'attenzione del proprietario che, in un breve attimo è già davanti a lui, senza neppure chiedere chi sia il misterioso ospite prima di aprire.
«Ciao Barry.»
Disinteressato, il suo tono di voce lo fa sembrare annoiato, pentito di essere giunto fino a lì, come se qualcuno lo avesse obbligato a lasciare le quattro mura di casa; non è la verità, ma Victor non è un genio dell'apparire, e l'unica cosa che può fare è mostrare un'espressione che lo faccia sembrare normale, non come una persona senza anima a vagare per Central City.
«Ehm, ciao, hey, come mai qui?»
Un lampo di pentimento nei suoi occhi scuri, si illuminano di vergogna, quasi, come se si stesse rimproverando da solo; Barry non voleva essere così diretto, Victor lo capisce dal suo volto, o forse è solo un'impressione che rende la sua opinione distorta.
Lo guarda, prima di parlare di nuovo; lo guarda così a lungo da sentirsi quasi in imbarazzo, ma è da giorni – se non settimane – che non incontra il suo sguardo e quello che vede in lui è un'unione di tante sensazioni diverse, incontrollate e impetuose.
Le sue guance sono arrossate, di quel lieve porporino che ravviva la sua pelle, che lo fa apparire vulnerabile, anche se Victor non la considera una debolezza, anzi, invidia questa parte di lui perché teme di non aver mai conosciuto un altro giovane così, umano quanto Barry.
E si chiede di nuovo se sia giusto essersi presentato senza preavviso; sembra spaesato, Allen, mentre attende una sua risposta, lo vede mordersi l'interno della guancia, un tic per trattenere il nervosismo, anche se sotto lo sguardo attento di Victor, non è altro che un indiretto modo per palesare la propria ansia.
«Sarebbe un “Non dovresti essere qui” o più un “Che sorpresa, entra pure”
Un sorriso ironico gli pizzica le labbra, sbuffa per trattenere una risata, ma la reazione di Barry è troppo, anche per un ragazzo serio come lui, e non trattiene il divertimento nel vederlo arrossire ancora di più.
«No, non ci sono problemi; è solo che casa mia, sai, credo di aver lasciato un po' di disordine in giro.»
Lo vede spostarsi per lasciarlo entrare, ancora timoroso, ma Victor non si ferma e a passo lento – tremendamente lento – varca la soglia, invaso da un sottile profumo che gli solletica le narici.
È una sensazione strana, non si è mai realmente soffermato sul proprio olfatto dopo l'incidente, ma ora ha quasi l'impressione di essere ritornato totalmente umano ed è forse la cosa più incantevole che abbia provato da quando si è risvegliato.
Un profumo fruttato, arancia fresca – e forse – un pizzico di mirtillo, e il solo pensiero basta per ricordarsi dei dolci che mangiava quando era piccolo; altri tempi, ma pur sempre un'emozione travolgente.
Un sottile, impercettibile sorriso si forma sulle sue labbra e si accorge solo dopo, mentre una canzone in una lingua che non conosce risuona nella stanza, che Barry lo sta ancora guardando.
Si volta verso di lui in un momento particolare, una calorosa fiamma al suo fianco illumina una parte del suo viso e sembra oscurare tutto il resto, anche se, effettivamente, non ci molte altre fonti di luci nella stanza.
«Mandarin Cranberry
Barry indica la candela, quasi bisbiglia, come se ci fosse motivo per cui vergognarsene; Victor si limita ad accennare con la testa, ancora distratto dalla situazione e solo il rumore della porta che si chiude lo riporta alla realtà, ricordandosi del nervosismo che, purtroppo, non è rimasto fuori dal rifugio.

«Vado – vado a spegnere la musica.»
Barry attraversa la stanza ad una velocità normale, rispetta la sciocca regola di non andare veloce in circostanze che non lo richiedono e Victor lo segue con gli occhi; cauto, intravede in uno degli schermi un paio di ragazze che si muovono a ritmo, ma scompaiono poco dopo lasciando spazio ad un profondo nero.
Nella via del ritorno, Barry afferra un pacchetto di marshmallow – rigorosamente kosher – abbandonato su una delle poltrone e si ferma esattamente lì, parlando solo quando Victor si convince ad avvicinarsi, ancora piuttosto guardingo.
«Puoi sederti lì.»
Indica l'unico spazio rimasto libero, la sua seconda poltrona preferita, e Victor si abbandona su di essa come se fosse rimasto in piedi per troppo tempo anche se, in realtà, ha passato quasi l'intero giorno sotto osservazione con suo padre.
Nulla di troppo divertente, ma la giornata aveva già preso una piega noiosa e concluderla con un potenziale litigio è una scelta intelligente, artistica, almeno.
«Non è tanto disordinata, camera mia è peggio, fidati.»
È la prima cosa che dice, vuole spezzare il silenzio ad ogni costo e la sua è una mezza verità: la sua stanza non è realmente così disordinata, ma è un modo per dire che la casa di Barry non è poi male.
La immaginava peggiore, più cupa e forse anche triste, ma trova qualcosa del ragazzo in ogni suo angolo ed è accogliente, anche se non trova nessun ricordo particolarmente personale in giro.
Computer, console, utensili di vario genere; qualche confezione di noodles a terra, ma nulla che lo faccia sembrare una persona diversa dagli altri.
Poi l'armatura, con il suo scintillante rosso, occupa uno spazio della stanza come tutto il resto, ma è ciò che attira di più l'attenzione di Victor.
Alle volte si dimentica dei poteri di Barry, pensa a lui come un qualsiasi studente, ma poi ricorda ciò che hanno passato assieme, alla dura lotta e alla Sala di Giustizia.
La stessa sala in cui si evitano da giorni, non uno sguardo né una piccola conversazione; qualche saltuaria parola, non più di un saluto alla mattina o un addio a fine giornata.
E Victor si domanda come abbiano fatto ad arrivare a quel punto, ancora non lo capisce, anche se l'aver deciso di presentarsi a casa sua dovrebbe sciogliere – finalmente – il misterioso quesito.
«Un'altra stanza piena di trofei, immagino.»
Vi è del misero sarcasmo, nelle parole appena pronunciate da Barry; un sorriso ironico è lì, sul suo volto, e Victor lo guarda abbastanza a lungo da intravedere un'ostilità che non ha mai riconosciuto nei suoi occhi.
È naturale, la freddezza tra di loro, dopo ripetuti giorni di lontananza, anche se Victor non riesce e non vuole mostrarsi arrabbiato davanti a lui; si ripete che non ne ha motivo e l'amicizia che lo lega a Barry è l'unica cosa che, nella sua vita, gli ricorda i momenti in cui anche lui era un ragazzo e non un dannato cyborg.

«Cianfrusaglie, sono inutili ormai.»
Esclama in risposta, anche se non riesce più a stare fermo ed è costretto ad alzarsi, vagando nella stanza senza un particolare interesse.
Si concentra solo per un attimo sulla fiamma vicino all'entrata che oscilla lenta, la candela rallegra l'atmosfera, distraendolo persino dai movimenti dietro di sé.
«Parlavo per invidia, non dovresti buttarli.»
Quando si volta, Barry è poco distante da lui, l'ultimo marshmallow scompare nella sua bocca e Victor scuote la testa, sorridendo, perché alle volte non può che vederlo come un bambino.
Lo stupisce, questo suo lato, poiché impressa nella sua mente rimane la serietà del suo sguardo quando parlava di sua madre – durante quella famosa notte – e vederlo più spensierato provoca in lui un senso di malinconia inesplicabile.

Cerca di comprendere il suo dolore, la solitudine che può avere provato e crede di aver finalmente capito il suo errore: non ha mai prestato reale attenzione alla vita di Barry, non insieme a lui, e l'unica volta in cui gli aveva domandato conforto, Victor non lo aveva ascoltato abbastanza, o almeno, non quanto ne avesse bisogno.
«Non ti ho mai chiesto come si chiamava tua madre.»
Una domanda improvvisa rende l'atmosfera greve, scompare il dolce profumo d'arancia e nella stanza, ora completamente buia, solo dei fulmini blu creano un bagliore di luce attorno a loro.
Ancora silenzio, Victor sa che Barry non è più davanti a lui, non percepisce il suo respiro ed è proprio quando cerca di localizzarlo che la luce ritorna.
La tranquilla candela si è spenta, sono le lampadine sopra la sua testa a brillare e la stanza appare più piccola di quanto non avesse immaginato prima.
«Hai detto di aver letto il mio file.»
Trema un poco, la voce di Barry; Victor sa di non aver scelto una mossa onesta, ma sfrutta la macchina per analizzare il suo sistema e sente quanto il suo cuore stia battendo veloce in questo preciso istante.
«Sì, è vero, ma voglio sentirti parlare di lei.»
Barry pare perplesso, è legittimato ad esserlo, ma la diffidente accoglienza insospettisce Victor ad ogni minuto passato nell'edificio; ammette di essere spazientito dal suo comportamento, ma arrivati a questo punto, teme di essere troppo incuriosito di scoprire da che cosa sia data tanta prudenza.
«Si chiamava Nora, ma non fa molta differenza saperlo, giusto?»
Trattiene un brusco , dopo averlo ascoltato; vorrebbe dirgli che conoscersi meglio gioverebbe alla squadra, ma sarebbe una bugia alla quale neppure Barry crederebbe.
Conoscere il suo passato non è più una questione di fiducia, è solo interesse personale, anche se non è più certo che l'altro lo consideri suo amico.

E giunge alla conclusione che Diana deve avere ragione, il suo cambiamento non riguarda solo la scuola o il padre.
Vi è qualcosa di diverso, altro, un segreto, crede, che va oltre alle loro famiglie, alla Justice League e a qualsiasi parola scambiata tra loro poco prima.
Una questione che Victor non riesce a capire e teme che la colpa sia della macchina, vuole che sia così; ha perso un certo tono di empatia dalla sua morte, ed è più semplice accettare quella mancanza, ora che una parte di lui è completamente artificiale.
«Vic, non sono infastidito dall'averti qui, ma credo di – di non voler discutere di questo adesso; forse nemmeno adesso, credo mai?»
Legge stanchezza nel suo sguardo, un velato imbarazzo che lo riporta al suo tic - un piccolo, ma non invisibile morso all'interno della guancia – e a un'espressione che scalderebbe il cuore di Victor, se ancora ne avesse uno.
Ed è a quel punto che Victor si muove verso di lui, i metri che li dividono non sono molti, ed esita un breve attimo, prima di parlare, ponderando su quali siano le parole giuste per esprimere ciò che vorrebbe dirgli.
«Lo hai detto tu, non ti piace avere segreti
Diventano un'arma, le sue stesse parole; è una piccola rivincita che Victor ottiene, anche se l'espressione afflitta dipinta sul volto di Barry non gli provoca nessun senso di piacere; non è neanche colpa, ciò che prova nel vederlo indeciso, ma lo spiraglio di dubbio che intravede gli fa credere di essere arrivato alla soluzione dell'enigma.
«Arthur aveva torto, non è mai semplice con te.»
Le parole sono seguite da un tenue tocco, una timida carezza di una mano che percorre quel lembo di pelle che rende ancora Victor umano.
E Victor lo sente, percepisce il calore delle dita di Barry, i polpastrelli contro la sua guancia e anche i corpi che si fanno più vicini, tanto da riconoscere il palpitare del cuore dell'altro.
Gli sguardi non si incontrano, le pupille di Barry scompaiono dietro le palpebre e il suo respiro irregolare si infrange contro il viso di Victor, una sensazione tiepida e terribilmente umana.
È terribilmente umano, il gesto di Barry: un bacio, nella sua più semplice forma, di labbra che ne sfiorano altre, incerte, tremanti e inesperte.
Il suo viso è così vicino da poterne vedere i piccoli dettagli: i nei che punteggiano la pelle diafana, i ciuffi di capelli che ricadono capricciosi sulla fronte e le ciglia lunghe, ricurve, a cui Victor non aveva mai prestato attenzione, guardandolo spesso nella sua armatura.
E nessuno si muove; riconosce un sapore dolce sulla sua bocca, scioccamente pensa di odiare i marshmallow, pieni dello zucchero di cui sembra avere così tanto bisogno.
È un attimo, forse uno di più, ma è quella sensazione che rimane quando si dividono; il resto è solo un insieme di emozioni confuse, un senso di sorpresa, nascosto nell'animo profondo di Victor, ma anche di colpa, e infine di realizzazione, perché lo aveva detto, una volta entrato in quel casa tutto sarebbe cambiato.

«Io-»«Non pensavo-»
Le voci si sovrappongono, un solo sguardo di intesa viene scambiato in quel momento, ma entrambi capiscono, quasi senza aver bisogno di aggiungere altre parole inutili.
«Barry, io così, non posso-»
«Lo so, non lo pretendo.»
La sua risposta pare sincera, ma Victor nota le venature di delusione che increspano i suoi occhi e una parte di lui - forse un frammento di quel Victor passato - vorrebbe dirgli che ne è dispiaciuto, ma non può provare nulla di simile, non ora, non nella sua situazione.
«Devo lavorare, credo di dover lavorare all'armatura adesso, ciao Vic.»
Barry chiude gli occhi e rimane immobile, senza vederlo andare via, senza voltarsi un'ultima volta quando stringe con le dita la maniglia della porta.


E Victor lo lascia nel silenzio, anche se la sua mente viene attraversata da un unico, sciocco pensiero.
Le macchine non hanno una psyché, non provano dispiacere.
Io non sono una macchina.
Vero?

 
  
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