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Autore: Raptor Pardus    12/01/2018    0 recensioni
"La prima cosa che ricordava era l’impatto dei suoi piedi col suolo.
La seconda i suoi compagni a terra.
La terza era la fabbrica dove si era nascosto, in attesa che lo trovassero.
Non capiva se era preda o cacciatore, ma non importava.
Ciò che importava era attaccare o venire sopraffatti, uccidere o morire."
Genere: Azione, Guerra, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Silenzio

 
La prima cosa che ricordava era l’impatto dei suoi piedi col suolo.
La seconda i suoi compagni a terra.
La terza era la fabbrica dove si era nascosto, in attesa che lo trovassero.
Non capiva se era preda o cacciatore, ma non importava.
Ciò che importava era attaccare o venire sopraffatti, uccidere o morire.
Il nemico era vicino, sentiva il rumore dei suoi passi sui frammenti di vetro e sulle lamiere arrugginite, tra gli apparati industriali spenti di una fabbrica che sarebbe potuta essere ancora attiva.
Camminava lentamente, pesando ogni suo movimento, evitando il contatto con ogni muro e con ogni macchinario.
Fuori dalla fabbrica il vento notturno ululava innaturale, ma non riusciva a coprire tutti i minuscoli rumori che il suo avversario emetteva: il rumore del suo respiro, innanzitutto, e lo scricchiolio delle sue scarpe sul pavimento, persino il battito accelerato del suo cuore che risuonava potente come una fanfara di percussioni.
Perché combattevano non lo sapeva, però sapeva che solo uno di loro due sarebbe uscito da quell’edificio.
Quanto tempo era passato da quando aveva aperto gli occhi?
Da quanto combatteva per la sua esistenza?
La risposte a queste domande erano nebulose nella sua mente, ma sapeva inconsciamente che coincidevano.
Il suo avversario era ormai vicino, doveva concentrarsi, visualizzare il presente, analizzare l’ambiente dentro cui si trovava e calcolare ogni probabilità, e nessun risultato era incoraggiante.
Quel duello non era per niente equilibrato, non era logico continuarlo; i sensori del suo equipaggiamento non funzionavano, i suoi compagni non rispondevano alle sue richieste di soccorso e la sua testa era piena di domande.
Era solo.
E aveva paura, anche se non avrebbe dovuto provarla.
Forse era semplice spirito di conservazione, ma anche quello in origine sarebbe dovuto venire meno.
Come era finito lì?
Combattendo, o forse era fuggito.
Un boato invase il palazzo, un proiettile volò contro di lui, rimbalzando sul pannello di metallo che componeva il suo rifugio.
Era stato scoperto, doveva muoversi.
Balzò in avanti e rotolò fuori dalla sua copertura, infilandosi in un altro di quegli infiniti corridoi che attraversavano tutto il fabbricato.
Attivò il fucile e verificò l’energia rimasta, troppo poca per uno scontro a fuoco prolungato.
Doveva agire silenziosamente, con l’inganno, o quella sarebbe stata la sua ultima notte.
Un tuono fece vibrare i vetri ancora integri, poi lo scrosciare della pioggia invase le sale del casolare.
Alzò la testa, cercando un appiglio sul soffitto attraversato da tubi, arretrando lentamente, l’arma puntata contro l’angolo da cui si era infilato là dentro.
Il cacciatore avanzava, ora a passo deciso, verso di lui, sicuro di averlo in pugno.
Credeva che la sua ritirata fosse un segno di debolezza.
Non aveva tutti i torti, ma aveva abbassato troppo la guardia.
Uno dei tubi svoltava improvvisamente verso la parete, infilandosi in una larga bocchetta.
Esattamente ciò che cercava.
Attese un secondo tuono, poi saltò in alto e si aggrappò al tubo, issandosi sopra di esso e strisciando verso il suo nuovo nascondiglio.
Coperto dall’oscurità, attese che il cacciatore girasse l’angolo e cadesse nella sua trappola.
Ormai era lì, all’imboccatura del corridoio, di nuovo guardingo.
Aveva capito che qualcosa non andava.
Avanzò lento, la pistola in pugno, alta davanti a lui, pronta a sparare, la torcia nell’altra mano, a illuminare la via rischiarata solo dai lampi incostanti del temporale.
Ora era lui la preda.
L’aveva capito, come dimostravano i battiti accelerati del suo cuore.
Ormai era sotto di lui.
Saltò sul suo avversario e lo scaraventò a terra, schiacciandolo col suo peso, un piede sull’addome per non farlo alzare.
Il duello era finito, lo sapeva anche lui, glielo si leggeva negli occhi umidi.
Non disse nulla, alzò la pistola e sparò, centrandolo in pieno volto.
Il proiettile penetrò il metallo della suo faccia, conficcandosi a pochi millimetri dal suo occhio.
Nessun danno grave.
Lui puntò il suo fucile e fece fuoco, eliminando la minaccia in pochi istanti.
L’uomo smise di respirare quasi subito, il suo braccio cadde di lato, la pistola ancora in mano.
Ebbe un senso di déjà-vu, ma forse erano solo stringhe di memoria di un’altra unità più vecchia, terminata molto tempo prima, forse nemmeno della sua serie.
Non sapeva perché combattessero, né da quanto, sapeva solo che lo facevano, e che non sarebbe finita presto.
Chi lo aveva creato aveva in mente tutto quello?
O forse erano altre le sue funzioni base?
O semplicemente gli era stata data una scelta e lui aveva solo intrapreso la strada più ardua?
No, i robot non scelgono.
I robot non si fanno domande, non pensano, non sognano, i robot non hanno emozioni.
Lui avrebbe continuato a combattere perché così gli era stato ordinato, e i robot non mettono in discussione gli ordini.
Rinfoderò il fucile all’interno del braccio e si incamminò verso l’uscita, in cerca dei suoi altri compagni.
Fuori ancora pioveva, sentiva l’acqua scorrere sui pochi sensori tattili che ancora gli funzionavano, e le stelle in cielo brillavano numerose, facendo compagnia alla pallida luna che assisteva a quello spettacolo desolante.
Nessuna astronave all’orizzonte, nessuna cannoniera in volo carica di droidi da battaglia, nessun drone levitante coi suoi cannoni a rotaia.
Era solo, abbandonato al suo destino.
Ripensò all’umano che aveva appena ucciso.
Non aveva detto nulla prima di morire, nonostante almeno lui avesse il dono della voce.
Che sofferenza era invece essere costretto a udire continuamente qualsiasi rumore ed essere condannato per sempre al silenzio.
Perché un robot non parla.
Però nemmeno soffre.
Rimase in piedi davanti all’uscita della fabbrica, ammirando la distesa industriale ai suoi piedi, finché in lontananza non vide brillare i funghi atomici che illuminarono il cielo come l’alba e l’onda d’urto non lo spazzò via.

   
 
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