Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
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Autore: Dobhran    12/01/2018    0 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe»
Matteo, 10, 16.






19.





Sbattei la porta di casa con tanta violenza che metà vicinato probabilmente riuscii a sentirla e feci altrettanto con quella della macchina, come se produrre più rumore possibile mi aiutasse a tenere a bada i pensieri. Presi a pugni il volante fino a sentirmi ridicola, e quando mi lasciai andare contro il sedile la negatività tornò ad insinuarsi lenta ed infida nella mia mente. Mi sentivo infantile a permettere alle lacrime di avere la meglio, perciò frenai il pianto e mi concentrai sul mio respiro fino a rendere lui e il battito cardiaco perfettamente regolari.
Ero riuscita a farmi rovinare ancora l’umore da quella donna, avevo giurato che non sarebbe più successo, che avrei sempre avuto la meglio, invece anche quella volta la lotta mi aveva lasciata con l’amaro in bocca e due tipi diversi di dolore ad intrecciarsi in una danza pericolosa per darmi il tormento, fino a non permettermi più di distinguere tra la collera nei confronti di mia madre e la nostalgia bruciante per mio fratello.
Lei aveva condannato Christopher all’oblio e io mi ero ripromessa di non perdonarle questo affronto. La prima notte senza di lui era stata durissima, una veglia infinita, ma nulla in confronto all’amara scoperta fatta il mattino seguente.
Ogni foto di Chris era scomparsa, la felpa che fino al giorno prima era appesa accanto alla porta d’ingresso era stata eliminata, le sue scarpe, così come ogni più piccola traccia della sua esistenza, erano state rimosse. Tutto tolto di mezzo, come gli effetti personali di un appestato.
L’istinto mi aveva suggerito di affrontare mia madre, ma non avevo neppure avuto il bisogno di chiedere spiegazioni per quel gesto. Il gelo e la negazione che le avevo letto negli occhi avevano parlato chiaro e mi avevano fatto capire che non avrebbe accettato discussioni. Ancora non sapevo con certezza il perché quelle foto erano svanite, ma bastava il solo pensiero per stringermi lo stomaco in una morsa di risentimento e per farmi ribollire il sangue nelle vene. Ogni volta che un torto mi spingeva a litigare con lei o ad avere una discussione, quel ricordo mi sfiorava il cuore e l’odio mi annebbiava la vista.
Che razza di madre era? Come poteva fingere che Chris non fosse mai venuto al mondo? Come poteva ignorare l’esistenza di un ragazzo che era stato il collante della nostra famiglia? Ogni pasto, dal momento della sua morte in avanti, era stato un concentrato di silenzio e pensieri inespressi, fino alla rottura definitiva del matrimonio dei miei. Non potevo biasimare papà per averla lasciata, dato che a stento la sopportavo io quand’era in casa.
In un’infinità di occasioni mi ero chiesta quando finalmente sarei stata in grado di prendere il coraggio a due mani per sputarle addosso tutto il veleno che i suoi comportamenti mi avevano fatto crescere nell’animo.
Ora che mi ero sfogata non ero certa di esserne soddisfatta. Un nuovo tarlo mi rodeva i pensieri, non mi ero aspettata da parte della donna una tale reazione. Fino a quel momento l’avevo vista come una dama di ferro capace di resistere a qualsiasi emozione, invece per la prima volta avevo scorto autentico dolore nel suo sguardo. Avevo passato così tanto tempo a vederla come un pezzo di ghiaccio che la consapevolezza improvvisa che anche lei fosse umana mi aveva sconvolta. Non avrei potuto sentirmi l’animo così in subbuglio nemmeno se avesse confermato le mie accuse.
Non farti intenerire. Mormorò una voce dentro di me. Lei è il tuo nemico, non merita comprensione, né perdono, né gentilezza. Dovresti odiarla.
Sì, avevo tutto il diritto di provare rancore nei confronti di mia madre.
Ci impiegai qualche minuto a trovare la forza di accendere il motore dell’auto, confortata dal buio del garage e da quel bozzolo di silenzio in cui avrei voluto accoccolarmi per tutta la sera. Un nuovo sms di Louis mi persuase che era il momento di ritornare alla realtà e di scacciare con forza quei cattivi pensieri, e mi spronò a partire.
Quando il ragazzo saltò sul sedile del passeggero accanto a me, nemmeno il suo sorriso enorme riuscii a contagiarmi e ogni tentativo di distrarlo dal mio cattivo umore fu vano. Evidentemente mi si leggeva in fronte che qualcosa non andava, perché dopo un piccolo monologo su quanto fosse felice di vedere ancora Jude, Louis iniziò ad indagare.
«Accidenti che muso lungo. Attenta che potrebbe infilartisi tra i pedali dell’auto». Riuscì a strapparmi un sorriso e quando si sporse verso di me per osservare la mia reazione, un’ondata di profumo mi fece tossicchiare.
«Buona la tua acqua di colonia, ma non era necessario farcisi la doccia».
«Dicono che acchiappa un sacco. Dai, dimmi che succede». Si allacciò la cintura di sicurezza ancor prima che potessi intimargli di farlo, segno inequivocabile di quanto si sforzasse di compiacermi. Gli raccontai tutto tralasciando il dettaglio di me che uscivo di testa e che accusavo mia madre di essere un genitore degenere, e da parte del mio amico ottenni una pacca sul ginocchio e un tono comprensivo.
«Se vuoi un parere da parte dello zio Louis, prima di tutto non dovevi sprecare così la balla della serata cinema, e in secondo luogo non preoccuparti, anche la prima volta la strega ha ringhiato, ma nulla di più. Ti ha perdonata, giusto? Non ti ha nemmeno messa in punizione, fosse mia madre mi avrebbe fatto il sedere a strisce».
«Non mi ha ammazzata perché ci è quasi riuscito qualcun altro, ma non pensare che non mi abbia fatto pesare il mio colpo di testa. Non oso immaginare quanto mi rinfaccerà questa litigata…e non ho usato la scusa del film perché non voglio dare spiegazioni. L’unica a poter decidere per me sono io». Mi ricordai di lei che si rifugiava in camera e della mestizia con cui non aveva reagito ai miei insulti. No…non mi avrebbe rinfacciato un bel niente, forse non mi avrebbe più rivolto la parola. Una stretta allo stomaco confermò i miei sospetti: non ero fiera del mio comportamento.
Rallentai e mi fermai al primo semaforo rosso, guardandomi intorno mentre Louis iniziava un nuovo discorso e si dilungava sui suoi progetti per il futuro. Non era la prima volta che ne parlavamo, ma le novità erano poche. Come capitava spesso con le questioni serie, le frasi erano sempre le stesse. Suo padre voleva che andasse a lavorare, la madre sperava che potesse studiare e diventare qualcuno di importante e Louis si trovava tra l’incudine e il martello, nella totale incapacità di scegliere. Non era facile entrare in un’università prestigiosa senza snocciolare una quantità di soldi non indifferente, o senza ottenere una borsa di studio, e sapevo che forse i genitori di Louis non volevano affrontare una spesa del genere. Le possibilità di studio erano altre, ovviamente, ma la titubanza del ragazzo non aiutava a dare una svolta alla questione.
Una donna anziana ed ingobbita all’altro lato della strada gettò nel cassonetto un sacchetto dell’immondizia e tornò barcollando all’ingresso della sua casa. I suoi occhi si posarono per un istante su di me e le sue labbra formarono una parola che attraverso i rumori della città e il finestrino mi giunse muta. Superba.
Dietro di me qualcuno si attaccò al clacson. Sobbalzai sul sedile e ripartii, notando che il semaforo era verde. Rivolsi un’altra occhiata alla donna, ma feci in tempo solo a scorgere la sua gonna scura sparire in casa.
«Tutto bene, Amber? Sei piuttosto distratta stasera, pensi ancora a tua madre?» Louis mi fissava preoccupato. I suoi capelli anche nella penombra della sera apparivano perfettamente in ordine e il viso era come sempre liscio e in naturale armonia con la fanciullezza dei suoi occhi. Mi sentii in colpa per aver ignorato le sue parole.
Con un sospiro etichettai la vecchia come una pazza che parlava da sola e mi rimproverai per la mia debolezza. Ora mancava solo che cominciassi a immaginare le cose. Quel sogno mi aveva davvero sconvolto le idee.
Mi giustificai dando la colpa ad un gatto che aveva attirato la mia attenzione e proseguii in silenzio il viaggio, finché non riuscii a trovare parcheggio. Da lì riuscii a scorgere la luna nelle ultime fasi della crescita e l’insegna cremisi del Mephisto.
Come mi era stato raccontato, la clientela era cresciuta dall’ultima volta che ero stata lì, la si vedeva assiepata sotto l’insegna, fumando, saltellando distrattamente sul posto per scaldarsi o anche solo prendendo una boccata d’aria in attesa di rientrare e immergersi nuovamente nel ritmo sfiancante della musica. Come un gruppo di avvoltoi in pausa dopo una scorpacciata, ma non ancora del tutto appagati e perciò pronti a rigettare ben presto i becchi affilati nella carcassa. Il paragone mi fece rabbrividire, o forse era l’aria fresca del mare a formarmi la pelle d’oca sulle braccia.
Riconobbi subito il buttafuori che avevo conosciuto l’altra volta e la ragazza bionda che a quanto pareva non gli si scollava di dosso nemmeno per un istante. Quando mi vide, il rossetto rosso sangue si aprì a rivelare un sorriso smagliante. Dalle labbra le uscì uno sbuffo di fumo, poi ne prese un’altra boccata aspirando la sigaretta e facendo brillare la punta.
«Sei tornata. Che piacevole sorpresa» mormorò, e ad ogni parola il fumo sfuggiva dalla sua bocca in piccole volute. «Il Mephisto fa quest’effetto a molte persone. Può capitare qualsiasi cosa, ma è difficile toglierselo dalla testa. È…inebriante». Con un cenno della testa si rivolte a Louis. «Jude ti aspetta di sotto, è impegnato al bancone, ma ha detto che sei un cliente d’eccezione. Questa sera è tutta vostra, ragazzi».
Ancheggiando andò verso la porta d’entrata, facendo risuonare i tacchi sul pavimento, e ce la tenne aperta in attesa che facessimo il nostro ingresso. Il suo sguardo pesantemente incorniciato dal trucco nero si spostò da me a Louis con fare quasi divertito.
Ringraziammo e scendemmo le familiari scale. Superammo le mani di pietra e il lungo corridoio decorato ad arte. I miei occhi, come mossi da volontà indipendente dal resto del corpo, si posarono sul dipinto che tra tutti gli altri più mi aveva attratta e sconvolta. La miriade di dannati straziati dai demoni. Ormai dopo l’incubo di quella notte mi sembrava quasi di sentirli strillare e chiedere aiuto, di percepire il loro stesso dolore, di essere diventata una di loro.
Nebbia e musica ci guidarono fino al bancone e Jude, non appena ci avvistò, aggirò il tavolo in pietra e corse verso di noi, baciandoci con affetto su entrambe le guance e facendo arrossire Louis fino alle scarpe.
«Sono davvero felice che tu sia qui» esclamò. «Amber, è un piacere vedere anche te.» Mi posò la mano sulla spalla e si fece più vicino, per sovrastare il volume del brano.
«L’ultima volta non ho abbiamo avuto occasione di parlare molto quindi…beh, ti chiedo scusa per quello che è successo. È terribile quando qualcosa di tanto violento accade senza che nessuno possa evitarlo. Sono felice che tu stia bene».
«Grazie, sei molto gentile». Louis mi guardò con il sorriso negli occhi e un’espressione che sembrava sussurrare: Te l’avevo detto che era adorabile.
Il ragazzo ci fece segno di avvicinarci al bancone. «Prego, questa serata siete miei ospiti, potete avere tutto ciò che volete». Fece una smorfia maliziosa che regalò tutta al mio amico.
Rivestì in fretta i panni del perfetto e servizievole cameriere e noi occupammo due posti liberi per miracolo. Di tanto in tanto aiutava i suoi colleghi a servire il resto della clientela, ma non aveva mentito. Era come se sulle magliette io e Louis avessimo scritto Vip e che avessimo la priorità su tutto. C’era un che di gratificante nell’avere così tanta importanza ed ero felice per Louis nel constatare che Jude non gli toglieva gli occhi di dosso.
Dopo la prima volta e il colloquio con la polizia, mi sentivo in colpa ad assumere di nuovo alcolici con Louis sotto la mia responsabilità, perciò mi accontentai di una bibita analcolica e osservai divertita Louis approfittare della gentilezza del barista per scroccargli un paio di drink. Jude ci assicurò che offriva la casa.
Un agente di polizia chiaramente incaricato di sorvegliare il locale dopo l’incidente, era seduto ai divanetti chiacchierando con due ragazze poco vestite. Mi chiesi se la loro presenza lo distraesse, ma la risposta mi fu subito chiara, vedendo i suoi occhi da pesce lesso. Gli uomini erano pur sempre uomini, anche con una divisa addosso.
Addio alla sicurezza. Pensai. E io dovrei fidarmi della polizia? Scommetto che agenti del genere non riuscirebbero ad acciuffare Simon nemmeno se camminasse loro di fronte.
Per quanto fossi convinta che quelle preoccupazioni fossero ben fondate, mi sforzai di non farmi rovinare la serata da ulteriori angosce. Era tutto a posto, non sarebbe successo nulla di male. Non una seconda volta.
Dopo una mezz’ora Jude lasciò il timone ad una collega e trascinò con se Louis a giocare a biliardo anche se era negato per quel genere di attività. Rimasi a guardarlo per un tempo che mi parve interminabile, aggrappata al mio drink. Era tipico di Louis essere elettrizzato per qualsiasi cosa, ma l’espressione che gli lessi nel volto era di pura gioia e più intensa del solito, anche quando avrebbe dovuto mantenere una certa concentrazione per guadagnare punti al gioco. Jude era gentile e paziente, di tanto in tanto gli posava una mano sulla schiena o sulla spalla con fare premuroso, facendomi provare una stratta al cuore ogni volta che notavo sul viso del mio migliore amico la reazione a quei gesti. Mi interrogai un paio di volte se quello che provavo era gelosia, ma avevo guardato con diffidenza le ragazze che lo trovavano carino così tante volte che ormai sapevo riconoscerne i sintomi o escluderli.
Ero sinceramente felice per lui, con un retrogusto amaro di nostalgia come se quella serata rappresentasse una svolta fondamentale da una fase all’altra delle nostre vite. Mi sentivo malinconica come una madre che si rendeva conto che il proprio figlio era cresciuto e che presto se ne sarebbe andato. Patetico, ma vero.
«Chiedo scusa» una voce soave, quasi incerta, distolse la mia attenzione dall’ultimo tiro di Louis, impedendomi di vedere il risultato. Quando mi voltai incontrai il giovane viso di una ragazza e il suo sorriso appena accennato. Con dita lunghe e sottili indicò la sedia lasciata libera dal mio amico.
«Questo posto è occupato?» Scossi la testa, in silenzio, guardandola di sfuggita, ma notando subito in lei qualcosa di familiare, senza tuttavia riuscire a collocarla con precisione nella memoria. Un ragazzo ben piazzato dai capelli biondi e tirati all’indietro con una passata di gel mormorò un ringraziamento e salì sullo sgabello con un movimento fluido, aiutando poi elegantemente la ragazza a sederglisi in grembo. A quanto pareva, l’unica a non riuscire ad adagiarsi con classe su quegli alti trespoli ero io.
Ritornai a Louis e alla sua nuova carriera come giocatore di biliardo, tenendo il ritmo della musica con le dita sulla pietra del bancone, ma l’immagine della ragazza era come un’interferenza fastidiosa nella mia mente. Un paio di volte sbirciai il suo profilo, le sue guance rosee e le sue labbra in movimento, impegnate in una concitata conversazione. L’entusiasmo sembrava quello tipico di chi si era lasciato conquistare dallo stile particolare del Mephisto.
Quando interruppe la chiacchierata con il biondo per ordinare da bere, si accorse del mio sguardo fisso su di sé e mi sorrise. «Qualcosa non va?» chiese, con gentilezza. Ebbi il buon senso di mostrarmi imbarazzata per quell’invadenza da parte mia.
«Scusami, non vorrei sembrarti una maniaca». Lei ridacchiò, un suono di campanelle nell’inferno di quella confusione. «Non temere, di maniaci ne ho incontrati tanti e tu non ne hai l’aspetto. Temevo di avere qualcosa in faccia». Si passò una mano pallida sulla guancia, come per scacciare un baffo di sugo dopo una scorpacciata di spaghetti.
«No, affatto. Il tuo aspetto mi è familiare, ci siamo già incontrate?»
«Io non ti ho mai vista, ma forse tu hai visto me» spiegò, un istante prima che il ragazzo intervenisse nel discorso.
«Lei è una modella».
«Oh, io pensavo più che altro ad una compagna dell’asilo o delle elementari, ma ecco spiegato il mistero. Probabilmente ti ho visto su qualche rivista, sempre che tu sia quel tipo di modella».
Si strinse nelle spalle. «Sono versatile, ho fatto un po’ di tutto».
Annuii poco convinta, ancora intenta a collocare da qualche parte quei suoi capelli lunghi fino alla vita, di un rosso tendente al castano. Mi sembrava di aver visto cento volte quegli occhi tanto scuri da sembrare pozzi neri e il tocco rosa sulle guance. O forse era la sua espressione vissuta, quasi antica a trarmi in inganno. Una rivista patinata o cartelloni pubblicitari non erano i mezzi migliori per la diffusione di una bellezza così insolita. Il ragazzo accanto a lei non aveva occhi che per lei.
Me ne stetti in disparte, a tratti incapace per vicinanza a ignorare brandelli della conversazione tra i due e a tratti catturata dal riflesso delle luci stroboscopiche e dei corpi danzanti sulle bottiglie di liquore dietro il bancone. I camerieri indossavano ancora i cornetti luminosi, come piccoli diavoli da quattro soldi, piuttosto ridicoli tutto sommato, ma se non altro erano utili per individuare i baristi nella penombra delle fauci di Lucifero.
Dopo qualche minuto cominciai ad annoiarmi, dopo aver cercato in tutta la sala qualche particolare degno della mia attenzione. In pista le mosse divennero subito troppo ripetitive, il poliziotto aveva smesso di interessarmi dal momento stesso in cui avevo capito che dopo le birre e i cocktail che si era scolato non sarebbe stato in grado di distinguere il sedere di un orso dalla sua stessa madre. Una delle due ragazze che gli stavano addosso aveva il mento proprio sulla spalla di lui e sembrava pendere dalle sue parole.
Louis cominciò la seconda partita, lanciandomi uno sguardo esultante e facendo ciao ciao con la mano. Mi sentivo la mamma paziente in attesa che il figlioletto scendesse dalle giostre.
È la sua serata. Mi dissi. Non devi divertirti per forza.
Era così. La prima volta che avevo messo piede lì dentro mi ero detta che non avevo mai visto un locale altrettanto favoloso e che mai avrei provato pari entusiasmo per un altro luogo. Ero convinta che nessuno avrebbe mai potuto convincermi del contrario, ma ogni minuto che passava perdeva sempre più fascino ai miei occhi, sebbene non fosse cambiato nulla.
«Non sembri particolarmente felice di essere qui. Non ti piace?» La ragazza si era sporta verso di me e mi fissava con occhi profondi e inintelligibili, stringendo tra le mani un calice di vino rosso che faceva roteare distrattamente. «Io adoro questo posto».
«Piace anche a me, sono solo un po’ pensierosa».
«Qualcosa ti affligge, mia cara?»
«Niente di serio. Sto guardando il mio amico giocare, laggiù. Diciamo che sono la sua accompagnatrice». Il biondo attese che finissi la coca cola, poi mi rivolse un ampio sorriso. «Ti unisci a noi per un po’ di vino?»
«Servizio taxi, stasera. Non posso bere alcol, ma grazie».
«Dannate regole» commentò, senza insistere troppo. Era incredibile quanto quella conversazione assomigliasse a quella tenuta con Simon, ma quella volta ero ben intenzionata a non trasgredire le regole. Se per uno scherzo del destino mi avesse fermato la polizia per un controllo, quella sera, dovevo essere pura e immacolata come un angelo, altrimenti sì che mia madre mi avrebbe appesa al muro.
Con una stretta allo stomaco il ricordo di lei che fuggiva da me mi fece ricadere nel senso di colpa. Era ancora in camera? Aveva provato a chiamarmi? Lì dentro non c’era campo, mi ripromisi di controllare appena uscita. Non che avessi intenzione di parlare con lei, ma volevo sapere se aveva giocato tutte le sue carte per convincermi a non andare.
«Non ci siamo presentati». La ragazza mi tese la mano. «Mi chiamo Mary Elizabeth, e lui è Kevin, il mio compagno. Ma tu puoi anche chiamarmi Ofelia, ormai è un soprannome che usano tutti i miei amici. Buffo, ma sono conosciuta più con questo appellativo che con il mio vero nome, papà non sarebbe contento dopo tutti gli sforzi per trovarne uno». Avvicinò il calice al naso minuto e inspirò profondamente, poi ne prese un piccolo sorso e sorrise. «Delizioso».
«Perché ti chiamano Ofelia?» chiesi, curiosamente.
«Un artista lo ha scelto come soprannome per me, qualche anno fa. È un personaggio che lo affascinava molto, ne era quasi ossessionato».
«Era?»
«È morto».
«Povero John» sentenziò Kevin. Poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da lei, senza che ne comprendessi bene il motivo. Immaginai che mi stessero prendendo amichevolmente in giro, ma il senso di quella battuta a dire il vero, non mi era chiaro. Comportamento tipico degli amanti, crearsi un mondo di riferimenti tutto loro. Mi schiarii la voce, un poco a disagio.
«Beh, Ofelia è un bel nome. Evocativo» mi trovai a dire semplicemente, facendo saltellare i rimasugli di ghiaccio nel bicchiere. Mary Elizabeth, o Ofelia, vuotò il calice e alzò il dito per farsene portare un altro. Al suo gesto un cameriere si mosse alla svelta per soddisfare la richiesta, come se nel locale ci fosse solo lei. Il fascino poteva essere utile anche per quello.
«È la prima volta che vieni qui…come hai detto che ti chiami?»
«Amber. No, sono stata qui un po’ di tempo fa…» fui sul punto di dire che la prima volta non era andata molto bene, ma mi trattenni. Non avevo bisogno dei loro occhi fissi sul foulard. «Ma è difficile apprezzarlo in una sola uscita».
Kevin batté una mano sul bancone. «Concordo!» Esclamò. «San Francisco offre molto, ma il Mephisto era quello che ci voleva. Dico, avete visto i dipinti?»
«E gli specchi?» fece Ofelia, quasi completando i pensieri del suo ragazzo.
«L’esempio perfetto della bellezza estetica».
«Ho sentito di qualche prete che ha protestato».
Feci uno sbuffo e mi strinsi nelle spalle. «Quando mai loro non protestano per qualcosa che non sia uscito dalle loro divine bocche?»
«Già, come se potesse succedere qualcosa di male a divertirsi un po’. Se il locale avesse a che fare con angioletti puri e santi nessuno ci metterebbe piede. Sai che noia!» Kevin strinse la ragazza un po’ più a sé, posandole la guancia sul braccio, ma fissando me.
«Beh, in effetti qualcosa è successo» disse con fare cospiratorio. «Ho sentito che circa una settimana fa è avvenuto un incidente nei bagni».
Abbassai lo sguardo, sperando che il mio viso divenisse d’improvviso imperscrutabile. Feci finta di nulla e mi schiarii la voce. «Davvero?»
Ofelia annuì con un sorrisino. «Una ragazza è stata aggredita, dicono con un coccio di bottiglia. Un modo piuttosto rozzo per fare del male a qualcuno».
«E sporco» aggiunse il biondo. «C’era sangue ovunque, mi stupisce che non sia morta».
Ofelia mi fissò con gli occhi che brillavano. «Mi stupisce maggiormente che Hazaq non abbia finito il lavoro».
Alle sue parole mi sentii mancare. Mi afferrai al tavolo per non crollare dalla sedia e inspirai a fondo. La testa mi ronzava e quel nome riecheggiò tra i miei pensieri come uno sparo.
«Come hai detto scusa?» Avevo capito male, dovevo per forza aver capito male. Mi sporsi verso i due e ripetei la domanda, alzando la voce. Kevin non rispose, impegnato a ridacchiare contro il fianco della giovane, ma lei mantenne una certa serietà, non fosse per un sorriso malvagio che le increspava le labbra rosate.
Allungò una mano verso di me, sfiorandomi la fronte con la punta delle dita. Quel semplice contatto bastò a raggelarmi, aggiunto alla delizia che le leggevo negli occhi.
«Hai capito bene. Non ha finito il lavoro, ma le ha aperto un bel sorriso nella gola…pardon, ti ha aperto un bel sorriso nella gola, Amber Hale, e io non vedo l’ora di vedere la fine di questo giochetto».


  
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