L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA
CAPITOLO SETTIMO
Se si sporgeva,
riusciva a intravvedere
anche il frutteto che colorava un fianco della collina. Le piaceva il
profumo
che le erbe aromatiche spandevano dal Giardino dei Semplici e
l’invitante
fumata dei pesci arrostiti che sentiva quando si avvicinava
l’ora di cena, dato
che la foresteria era posizionata vicino alle cucine.
Anche se
l’accesso a molte
zone del monastero era loro proibito, a Sianna interessava poco vedere
i
dormitori delle sacerdotesse e dei sacerdoti, o le celle, le bastava
trascorrere il tempo all’aperto con Tanet e il suo pessimo
umorismo, o stare
con Lisy e Kea ad accarezzare i musi dei cavalli nelle stalle e ad
imboccarli
con del fieno.
Prese
un’ultima boccata d’aria
fresca prima di ritrarsi per lasciarsi cadere pesantemente sul letto.
Gael ne
approfittò subito e balzò sulla sua pancia
piatta, zampettando buffamente verso
il suo viso. A Poco meno di una spanna, emise versi striduli e
indisposti, e
Sianna lesse in quegli occhi rosati, nell’iride marcata da
una sanguigna linea
rossa perfettamente sferica, il rimprovero dell’animale.
Gli
accarezzò gentilmente il piumaggio
con la mano guantata, ed il falco inclinò la sua testolina e
si gonfiò di
palese soddisfazione.
Era sempre stato
insolito,
Gael. Ricordava come era da cucciolo, quando lo aveva appena raccolto
ed era
ostile con tutti, quanto tempo era trascorso prima che diventasse meno
aggressivo, come poi si fosse affezionato a lei in maniera
così morbosa e
naturale da renderlo un compagno fedele e affettuoso, tanto da
permetterle di
lasciarlo costantemente libero.
Il falco non la
abbandonava
mai, la seguiva con cieca fiducia, ovunque, e quando gli parlava
sembrava
essere in grado di comprenderla, la ascoltava e le ubbidiva.
Mentre la mano
affondava nelle
piume candide, la sua attenzione venne raccolta dai guanti che
nascondevano la
pelle diafana lasciando scoperte, come rami sbiancati dalle intemperie,
le dita
magre e sottili, affilate. Eireen alla fine aveva vinto,
l’aveva convinta a
nascondere la benedizione che l’aveva segnata fin
dall’infanzia. Un poco ne era
rimasta ferita, era il ricordo più vivido di suo padre,
l’unico in verità, ma
la sacerdotessa era parsa abbastanza preoccupata da convincerla senza
che
facesse polemiche.
«Maledizione!»
riconobbe
dall’imprecazione Lisanda un attimo prima che questa
spalancasse la porta, in
una scia di borbottii irati e sconnessi. Sianna alzò
svogliatamente la testa
per piegarla verso l’amica «Che ti
prende?»
Lisy
sollevò furibondamente
una mano al soffitto «È evidente che le
divinità hanno deciso che devo perderci
un arto, non c’è altra spiegazione! Qualcuno deve
avermi fatto il malocchio»
«O
più semplicemente sei
goffa» la punzecchiò Iris, comparendo alle spalle
della gemella con le braccia
incrociate sotto il seno e un sorriso di scherno a macchiarle le
labbra. Anche
così, erano simili in maniera disarmante, due immagini
riflesse allo specchio e
due caratteri radicalmente diversi, opposti.
Sianna si
lasciò andare ad una
risata «Io opto per la seconda! Che ti sei fatta stavolta, ti
sei tagliata
ancora?»
«Che siate
dannate» sbuffò
Lisy, gonfiando una guancia in un moto d’insofferenza
«Sì mi sono tagliata, e
fa un male cane. Tu, inutile erborista, invece di commentare non
potresti, che
so, fare qualcosa?»
Di malavoglia Sianna
si mise a
sedere, spodestando un Gael indisposto che, per punizione,
cercò di beccarle le
dita «Ti dovrei mandare da Tanet suppongo. O da Arfon sarebbe
più giusto? Non è
quel vecchiaccio il “guaritore”?»
Sibilò
l’ultima parola con
sfacciato scherno, ma le amiche non se ne meravigliarono né
ci badarono particolarmente,
solo Iris manifestò la sua insofferenza roteando gli occhi.
La sua antipatia
per l’anziano, sviluppata già dopo un paio
d’incontri e cresciuta
nell’imbarazzo delle occhiate sospette e diffidenti che Arfon
le dedicava, era
nota ormai ai più.
Arfon la faceva
sentire
bambina, piccola e impotente davanti al disprezzo. Crescendo, aveva
sperato di
non doversi mai più sentire così meschina e
fragile, ma gli occhi del vecchio
erano il riflesso di anni di ostracismo che non era mai davvero
riuscita a scordare.
«È
un modo alternativo per
dichiarare la tua inutilità» constatò
Lisanda, ignorando il suo cinico
commento, incrociando le braccia al petto a celare le mani dalle dita
già
parzialmente bendate. Lisanda non era tagliata per il lavoro manuale,
aveva un
talento innato nel farsi male e nonostante suo padre preparasse i dolci
più
buoni che Sianna avesse mai mangiato, non aveva ereditato alcuna
inclinazione
per l’arte culinaria. Era una viziata più brava a
mangiare che a fare, e il
fatto che Leoise avesse assegnato lei e la gemella alle cucine del
refettorio
l’aveva resa irritante e lamentosa.
Sianna in parte le
invidiava:
quella era la condizione a cui dovevano sottostare se desideravano
rimanere al
monastero e seguire le lezioni con i novizi sacerdoti. Loro non erano
discendenti di buone famiglie, né erano state mandate al
monastero ad
apprendere le tradizioni come molti ragazzi che occupavano le camerate
anche se
poi non avrebbero preso i voti. Lei e le sue amiche erano semplicemente
capitate, un incidente imprevisto. Succedeva, che i monasteri
adottassero
qualche bambino abbandonato per riempire le proprie fila di sacerdoti,
ma per
loro la questione era più delicata, erano adulte, senza
preparazione.
Senza inclinazioni
alla vita
sacerdotale e al basico concetto di rinuncia.
E comunque, Sianna da
tutto
questo era stata esclusa, restava solo sotto la tutela di Eireen e la
donna non
le permetteva di interagire troppo con gli altri, lasciandole addosso
un amaro
senso d’insoddisfazione.
Prima che potesse
rispondere a
Lisanda, la porta venne spalancata di nuovo, con più
irruenza, e questa volta a
fare la sua entrata fu Marion, più vivace che mai nelle sue
stoffe colorate e
nel tintinnare dei campanelli della gonna. Teneva stretta una scatola
di legno
ed il sorriso raggiante faceva risaltare i denti bianchissimi in
contrasto con
la pelle abbronzata d’oro brunito.
«Non ci
crederete mai,
guardate cosa mi ha regalato William!» esclamò
entusiasta, sventolando la
suddetta scatola.
«Un
contenitore per gli
oggetti che non hai?» la istigò Sianna con un
ghigno, solo per indisporla. E
infatti Marion, sempre pronta a raccogliere le provocazioni, le fece
subito una
smorfia «Ovvio che no. Mi ha fatto dipingere delle carte
nuove!»
Si avvicinò
allo scrittoio e
con impazienza fece scivolare disordinatamente tutto il contenuto sulla
superficie di legno. Sianna scattò in piedi e si
avvicinò imitata dalle
gemelle.
«Ci sono
tutte?»
La zingara era
estasiata, le
accarezzò piano, con la medesima dolcezza che una madre
avrebbe dedicato nel
vezzeggiare il proprio bambino, e quel sorriso sereno di bambina si
schiuse
lentamente e divenne così pieno e grande da sembrare quasi
doloroso, i suoi
denti erano perle incastonate tra le labbra papavero.
Sianna non poteva non
guardarli sempre, scintillavano, le conferivano una bellezza
misteriosa,
esotica, arcaica come una di quelle antiche statue di bronzo dedicate
agli dei
e decorate di pietre preziose.
«Sembrerebbe
di sì»
Anche lei si
ritrovò ad
allungare la mano per sfiorarle con la punta dei polpastrelli, a
sentire la
tempera in rilievo sporgere appena nel delineare figure anche per lei
troppo
note: il Bagatto, il Sole, la Temperanza.
Si soffermò
qualche istante di
più sulla carta dell’Angelo, seguì la
forma del viso, i boccoli d’oro, la prese
tra le mani per poterne ammirare l’eterea e delicata figura,
l’espressione
inflessibile e la tromba del giudizio tra le mani.
Se ne pentì
all’istante,
Marion già aveva trattenuto il respiro e socchiuso gli occhi
vispi.
«Il
Giudizio. Scelta
interessante» commentò pacatamente. Poi, con
l’atteggiamento inquisitorio di un
cerusico esperto, si prese il mento tra le dita e la osservò
con la fronte
corrucciata in linee parallele «È dritta o al
rovescio?»
«Per tutti i
Serafini, no eh?
Ti prego, non ricominciamo con questa storia. Non ho voglia di essere
vivisezionata, devo andare a dormire, tra qualche ora Tanet
verrà a chiamarmi e
non chiuderò occhio nemmeno stanotte!»
«Di
nuovo?» si lamentò
Lisanda, e Sianna pensò che era comico come riuscisse a
identificarsi con le
vittime di quelli che lei riteneva soprusi, a ricordare che i mantra
della sua
vita erano pochi, ma precisi e fondamentali.
Ed il sonno rientrava
tra
questi dettami ferrei.
«Dritta o
rovescia?» ribadì
invece Mari.
Sianna si concesse un
sospiro
sconfitto e voltò la carta, in modo tale che fosse visibile
a tutti «Sì, di
nuovo. E sì, è dritta»
borbottò.
Marion era
così spontanea che
ogni emozione le si dipingeva con estrema chiarezza in viso, e
l’espressione
gongolante, che accennava due fossette agli angoli della bocca,
rivelò tutta la
sua soddisfazione.
Ovviamente
lo aveva previsto
«Ovviamente
dritta» sottolineò
infatti con un sorriso più grande «Prevedibile. E
molto interessante»
Iris
l’agguantò saldamente per
un orecchio e lo tirò fino a strapparle un lamento non solo
di sorpresa «Non
fare la sibillina, piccola peste, dille quello che muori dalla voglia
di dire,
così possiamo ricominciare a fare quello che stavamo
facendo»
«Non stavamo
facendo niente»
osservò distrattamente Lisy, ancora concentrata sul taglio
che le segnava
l’indice. In cambio ricevette un buffetto sulla testa.
«Non me ne
lamentavo di
certo!»
«Va bene
Iris dico tutto, ma
lasciami!»
Come due bambine
domate da una
madre intransigente, Marion e Lisanda misero il broncio.
Sianna
intrecciò le braccia sotto
il seno e abbozzò un ghigno provocatorio «Ti
ascolto» esortò la più piccola.
Marion sbuffò, si sistemò le pieghe della gonna e
i campanelli tintinnarono
ancora. “La musica delle fate”, così Kii
chiamava quello scampanellio.
«È
interessante perché
significa “litigi e fraintendimenti”»
chiarì la bambina, arrossendo appena.
«E?»
Mari si morse le
labbra «E io
ho incrociato Ynyr, poco fa» lo disse con riluttanza, e
subito si nascose
dietro al corpo di Iris, ad usarla come scudo per proteggersi dalla sua
espressione truce.
Lisanda le
scompigliò i
capelli affettuosamente «Il tuo intuito colpisce sempre nel
punto giusto» la
lodò, ma Sianna questa volta ne provò solo un
affilato fastidio, una
soddisfazione che non voleva concedere loro. Strinse i pugni, prese un
grande
respiro e decise di ignorarle. Diede loro la schiena e tornò
a stendersi sul
suo letto, premurandosi di tirarsi la coperta fin sotto il naso.
Le amiche
l’avevano seguita
con gli occhi in silenzio, in attesa di uno scoppio che, aveva deciso,
non ci
sarebbe stato.
«Non dici
nulla?» la
interpellò Lisanda. La sua voce non era limpida,
c’era una nota velenosa, di
fastidio compresso che sfociava nella rabbia. Anche quando percepiva in
loro
sentimenti molto forti, così prepotenti da strizzarle lo
stomaco e le viscere,
difficilmente riusciva comunque a sentirsi toccata. Era più
che altro la
nausea, la brutta sensazione che doveva combattere, un rigetto verso le
emozioni altrui, sempre fin troppo invadenti.
Non aveva molto da
dire sulla
questione Ynyr.
Suo fratello era un
tasto
dolente che odiava sfiorare, perché semplicemente Ynyr
stesso lasciava poco
spazio alle parole. Non si erano più parlati dal giorno
della commemorazione, a
malapena si erano incrociati. Vivevano nello stesso monastero, eppure
evitarsi
era stato incredibilmente facile e spontaneo. L’indifferenza
di suo fratello
bruciava troppo perché le riuscisse di soffermarcisi sopra
senza infuriarsi con
il mondo intero, ed allora aveva deciso di fingere che non ci fosse mai
stato.
Era un braccio di
ferro, una
sfida costante per ristabilire i precari equilibri della loro
relazione, e per
quanto Sianna sentisse la sua mancanza e avesse desiderio di andare da
lui, per
orgoglio e necessità non era intenzionata a cedere. Si
teneva occupata per non
darsi eccessivo pensiero, ma puntualmente qualcosa pungolava la sua
coscienza
per impedirle di accantonarlo.
Spetta
a lui, solo a lui fare un passo indietro. Io ho fatto la mia
parte, ci ho provato a sostenerlo, ad esserci nel momento del bisogno,
ma è
impossibile farlo se neanche mi parla.
«Insomma,
fammi capire, siete
di nuovo immersi in una delle vostre impossibili liti da cui
è meglio tenersi
lontane?» Lisanda si lasciò cadere sul suo letto,
strappandole parte della
coperta.
«Ho
sonno»
«”ho sonno”»
le fece il verso la ragazzina, e la gemella maggiore le
diede man forte «Non puoi sempre fare così,
è come avere a che fare con una
bambina»
«Mai detto
di essere adulta»
«Sei peggio
di Mari»
«Ehi!»
protestò con evidente
indignazione la zingarella «Io non li faccio i
capricci!»
Sianna
sospirò pesantemente «Sentite,
è semplice: non mi va di parlarne e non mi va di vederlo.
Esattamente come non
va a lui, tra l’altro»
«Che
significa che sono immersi
fino al collo in una delle loro discussioni impossibili»
Kea, rientrata proprio
in quel
momento, non si era lasciata sfuggire l’occasione di
punzecchiarla, con il suo
tono basso e divertito.
«Chiamatela
come volete, non
m’importa. Ora vorrei dormire davvero»
Cacciò la
testa sotto la
coperta e serrò le palpebre, nella speranza che le amiche
cogliessero
l’antifona. Sentì il peso di Kea aggiungersi sul
materasso, accanto a Lisy. La
mano della sua migliore amica le accarezzò confortante la
spalla.
«Se
può interessarti, nemmeno
lui segue le lezioni dei novizi. Non esce praticamente mai, non so
nemmeno cosa
faccia, né dove lo tengano. Dovrebbe stare qui con noi, ma
non occupa nessuna
stanza per gli ospiti»
Sianna
iniziò a rosicchiarsi
con meticolosità le unghie «Lo sai come
è fatto. Avrà trovato un modo per
ingraziarseli tutti. Ynyr si rigira le persone come burattini, non mi
meraviglia per nulla»
Realizzò
che doveva realmente
essere andata così e si rimproverò da sola,
pensando che per tutto il tempo si
era preoccupata per lui inutilmente. Era arrivata persino a credere
che, forse,
suo fratello non fosse stato bene, ma la realtà doveva
essere ben diversa.
«Già,
può essere. Alla fine si
parla di Ynyr, per quanto odioso nessuno può dirgli di
no» chiuse il discorso
Kea. Si alzò e Lisanda, dopo un secondo di esitazione, la
seguì.
Era una
verità assoluta,
nessuno poteva realmente negargli qualcosa.
E questo la faceva
arrabbiare
solo di più.
***
“Come
puoi chiedermi di
fingere di non starti tradendo?”
Degli
occhi così caldi Sianna
non li aveva mai visti. Erano iridi di sole, morbide di una tenerezza
struggente, una carezza di velluto sul volto. La dolcezza di una mano
candida
che sapeva di protezione, di amore.
Seguiva
con lo sguardo i
movimenti delle dita lunghe ed eleganti, come se la sua esistenza
dipendesse da
quei gesti familiari che sembravano ricordi strappati ad una vita che
non le
apparteneva.
“…
mi prenderò cura di te
finché non sarai pronta. E anche allora, tesoro, non mi
avrai perso…”
Si
strinse le ginocchia al
petto, affondò il viso tra le braccia.
I
capelli di seta le ricaddero
sulle spalle, un mantello morbido in cui trovare un rifugio che la
proteggesse
dal dolore di quelle parole.
Un
dolore che non comprendeva
per una tenerezza che non aveva mai conosciuto.
Sapeva
poche cose, Sianna.
Sapeva
che quelle erano le sue
braccia, sue erano le gambe magre, sua la guancia che aveva ricevuto
quella
sfuggente carezza.
Sapeva
che suoi erano quei
capelli di fine argento.
***
Un passo stentato, un
altro ancora, e per poco Sianna non cadde
rovinosamente a terra. La trattenne per il mantello di lana qualcosa
che
realizzò con sgomento essere semplicemente una radice
impigliata. Si raccolse
con le braccia al petto, incastrando il cesto di vimini tra il polso e
il seno
per poter sfregare le mani sopra la veste, nel vano tentativo di
produrre del
calore.
Nonostante fosse
Samhradh inoltrato e il Tempo della Mietitura fosse il
più caldo dell’anno, la temperatura quella notte
era calata bruscamente. Il
vento frustava con le sue folate gelide e penetrava i vestiti leggeri
per
arrivarle fino alle ossa. Le tremavano le labbra, a tratti le battevano
i
denti.
Non riusciva ad
auspicarsi situazione peggiore, gli occhi gonfi e rossi
bruciavano dal sonno al punto che la vista le si appannava. Avrebbe
potuto
evitare quella caccia notturna solo se avesse piovuto, ovviamente si
era
augurata un temporale improvviso con ogni fibra del suo essere e,
altrettanto
ovviamente, come a farle dispetto, non era caduta neanche una goccia,
neppure
un sussurro di mal tempo. Non c’erano nuvole e le stelle
erano particolarmente
nitide.
Tanet camminava
qualche passo più avanti. Era abituato ad orari
improponibili e per questo era perfettamente sveglio e Sianna lo
detestava e
invidiava al contempo. Perlomeno aveva afferrato fin da subito che in
quei
momenti non doveva parlarle, doveva usare parole semplici solo se
necessario ed
entro una certa misura, o non sarebbe stata in grado di seguirlo, e su
queste
regole di basilare convivenza si basavano le loro escursioni notturne.
«Mettiti
dritta! Se qualcuno ti vedesse, ti scambierebbe per
un’amadriade. Ci mancherebbe solo questo» aveva
sbottato Tanet ad un tratto,
esasperato. Si sentiva spiritata e il suo corpo si muoveva
più per istinto che
per ragione, le palpebre si abbassavano come pesanti macigni
impossibili da
sostenere e a volte nemmeno se ne accorgeva. Capiva il fastidio del
sacerdote,
ma davvero non riusciva a costringersi.
Più
dolcemente, il maestro aveva soggiunto «Non ti avevo
raccomandato
di dormire?»
Si
stropicciò il viso debolmente «Io ci ho
provato»
Sembrava una
giustificazione fiacca, eppure era la verità.
«E cosa te
lo avrebbe impedito?»
Cacciò uno
sbadiglio che si mangiò metà della risposta,
riuscì a
biascicare «Incubi», poi inciampò in una
radice e Tanet le afferrò il braccio
prima che distruggesse il cesto e con esso tutto il contenuto, lavoro
già di
qualche ora.
Con uno sbuffo
esasperato, il maestro l’aiutò a rimettersi
dritta, la
guardò negli occhi e accennò un sorriso
«Sei il solito disastro»
La sua mano bronzea
tra i capelli, in un goffo gesto d’affetto, era
ormai familiare.
«Vuoi
parlarmene?»
Sianna fece spallucce
e si allontanò di qualche passo.
La distanza fisica
l’aiutava a mantenere, banalmente, una distanza
emotiva. Sollevò il bavero del mantello fin sotto il naso,
cercando con un improbabile
arricciamento delle labbra di farlo restare in quella posizione
innaturale, per
proteggersi almeno un poco la gola dall’aria fredda.
Non ci
riuscì, e Tanet ancora la guardava, in attesa di una
risposta.
«Anche
volendo non ricordo granché» liquidò la
questione.
Il maestro non
insisté oltre e in quel silenzio sporcato
d’imbarazzo
ricominciarono la loro marcia notturna.
«Maestro,
dove stiamo andando ancora?»
Tra uno sbadiglio e
l’altro aveva avuto la lucidità di accorgersi che
Tanet aveva imboccato un abbozzo di sentiero tra le sterpaglie che
invece di
rientrare si inoltrava ulteriormente nella boscaglia.
«Sulle
sponde del fiume. Dobbiamo muoverci, l’aria si sta inumidendo
troppo e vorrei raccogliere qualche radice»
Con un sospiro di
disperazione Sianna si raccolse nelle proprie spalle,
rattrappendosi come se potesse perdere dimensione e avere meno
superficie a
contatto con l’aria fredda. Lo scrosciare del fiume
accompagnava i suoni
inquietanti degli animali notturni, il bubbolare di un gufo, il
frusciare del
fogliame e delle frasche a causa del vento, il crepitio del terreno
sotto i
piedi esperti di Tanet. Il rumore di un ramoscello spezzato la fece
sussultare,
si voltò e si guardò attorno, ma non
c’era nessuno e il maestro non aveva fatto
una piega.
Con
l’inquietante sensazione di avere mille occhi puntati
addosso, si
affrettò a raggiungere il giovane sacerdote.
L’acqua
nervosa del fiume schiumava contro le rocce, il vento la
trasportava in ventagli di gocce che le bagnarono il volto. La luce
aranciata
della luna piena filtrava appena dalla galleria di rami intrecciati che
ricopriva il corso d’acqua, le ombre si distendevano in un
effetto di
contrasti, assumendo forme grottesche.
Quell’impressione
di avere occhi che la seguissero non smise di
infastidirla, come dita gelide che sfioravano la base del collo
facendole
venire la pelle d’oca. Tanet le passò la lanterna
che li aveva guidati
nell’oscurità affinché lo illuminasse
mentre lavorava. Lo osservò sganciare il
falcetto d’argento che portava sempre legato alla cintura per
sezionare dei
fiori. L’arbusto era affusolato e longilineo, le arrivava
all’anca ma non ne
afferrava il colore.
«Questa
è un’Altea, ha ottime capacità
emollienti ed è più facile
trovarla lungo i corsi d’acqua. Ricordi la
famiglia?»
Sianna si fece
più vicina, per studiare meglio i boccioli che il
maestro stava selezionando con cura: erano fiori bianchi, con la
corolla a
cinque petali a forma di cuore. Tanet li raggruppava in mazzolini che
poi
fermava con dello spago.
«Credo sia
un malvaceo, giusto?»
«Giusto»
le sorrise lui, poi trotterellò pieno di energia verso
un’altra piccola piantina cresciuta a ridosso di un albero.
«Osserva
questo. Il Tremolo è incredibile, vedi le radici come sono
contorte? Arrivano molto in profondità e quando non possono
più scendere,
tornano in superficie e formano questo reticolo»
illustrò estasiato, quasi
sognante avrebbe detto Sianna, non fosse stato ridicolo per lei pensare
che
qualcuno potesse essere sognante per un’erbaccia infestante
pure difficile da
estirpare. Era privo di fiori, ma Tanet tagliò dei rami e
raccolse gruppi di
foglie.
Sianna non era molto
utile, si limitava a seguirlo come un’ombra
porgendogli ora la paletta, ora le corde. Lo osservava con attenzione
mentre
scavava attorno alle radici per estrarre dal terreno intere
pianticelle. Il
maestro la costringeva ad accompagnarlo per ragioni puramente
didattiche:
doveva solo guardare ed imparare, il sacerdote spendeva poche parole,
si
limitava a mostrarle il metodo, e per questo Sianna si costringeva a
scacciare
il sonno e a dare ad ogni gesto il giusto peso, anche se ad ogni
sbadiglio gli
occhi le si appannavano e non aveva fatto altro che sbadigliare da
quando si
era svegliata.
Talvolta, china su di
lui, veniva distratta da un filo di pensiero
sconnesso, un senso di straniamento che non poteva esimersi dal
provare. Tanet
era diverso, di una diversità visiva impossibile da
ignorare. Non era
un’impressione negativa, né fastidiosa, ma
c’era, era difficile fare i conti
con una differenza tanto palese. Quando gli camminava accanto,
realizzava ogni
volta come fosse la prima quanto fossero antitetici, e i primi tempi
toccarlo
era causa d’inquietudine, le sembrava quasi che avrebbe avuto
al tatto una
consistenza differente dalla sua.
Forse, era
più vecchio di
quanto apparisse, non era semplice inquadrarlo per via dei capelli
scuri e la
pelle bronzea come avesse bevuto il tramonto, una tonalità
più intensa di
quella di Marion, Lisanda e Iris. Tutto dei suoi lineamenti pigri
camuffava un’età
che doveva essere maggiore di quella di Eireen di almeno tre o quattro
anni.
Deve
venire da un luogo lontano, un posto dove c’è
sempre il sole e
deve fare caldo
«Non ci
credo, del
Tragoselino! Avvicinati Sianna» il tono puerile
catturò di nuovo la sua
concentrazione. Si accovacciò accanto a Tanet e lo
osservò scavare ancora.
«Quello che
sto
facendo è un sacrilegio, le radici del Tragoselino
andrebbero raccolte solo in
Earrach, ma ne siamo privi al momento» parlottò
più con se stesso che con lei.
Lo faceva, quando voleva convincersi di non star facendo assolutamente
nulla di
male.
Una volta estratto
dal terreno, fece pendere quell’intrico di filamenti e zolle
di terra davanti
ai suoi occhi «Questo è l’esempio
perfetto di radice a fittone. Il fittone è il
prolungamento del fusto e le radici secondarie si ramificano attorno,
vedi?»
Il maestro aveva
occhi scuri, che il riflesso guizzante della fiamma della lanterna
faceva
apparire neri e profondi, come quelli di Kea. Erano vividi di una luce
che non
era solo il fuoco, ma anche una passione costante che metteva in ogni
cosa in
cui si applicava. C’era qualcosa di commovente, quasi
innocente, nel suo
sorriso grande.
Quando ebbe
concluso, si spartirono le ceste.
La notte si era
quasi del tutto consumata, ma il sole sarebbe sorto di lì a
molte ore e, fino a
quel momento, le terre d’Ombra sarebbero rimaste in uno stato
di sospensione
tra l’oscurità e la luce, una fase onirica del
mondo, in cui il tempo non
scorreva ma si dilatava soltanto in un vuoto cangiante. I rumori
angoscianti
non erano cessati, Tanet non ci prestava attenzione probabilmente per
abitudine, ma Sianna non poteva esimersi dal provare la sensazione di
essere
guardata.
La fiducia
istintiva che sentiva per il maestro era l’unico motivo per
cui non si era
ancora precipitata urlante fuori dalla boscaglia.
«Maestro,
posso
farle una domanda?»
«Di solito
non ti
fai molti problemi a parlare» gli occhi si sbozzarono in
mezze lune allegre e
Tanet mosse il capo per rafforzare l’invito a proseguire.
«Ha imparato
l’uso
delle erbe da Eireen?»
Il sorriso non si
spense, si
fece se possibile ancora più grande, ma meno limpido. Forse
erano solo le
fiamme danzanti della lucerna a donare più ombre al suo
volto, ma Sianna non ne
era sicura.
«No, mi ha
insegnato mia
madre. Ero piccolo, era molto tempo prima che arrivassi nelle terre
d’Ombra»
scrollò rapidamente le spalle «Ma accanto a Eireen
ho imparato molto, non
conoscevo nulla di questa vegetazione»
Sianna
annuì di riflesso, in
realtà stava già valutando altro, stava
realizzando quanto piccolo e limitato
fosse il suo mondo e lei stessa, così minuscola da non
riuscire nemmeno a
concepire quanto potesse essere quel “lontano”
dalla terra che le aveva dato i
natali. Pareva impossibile che il mondo continuasse oltre Dubhar.
Eppure, Tanet
a volte parlava di cose irreali, quasi impossibili, e ne parlava con la
nostalgia distratta di un ricordo che non voleva essere ripescato, ma
semplicemente trovava da sé il modo di farsi strada nel
presente.
«Se lei non
è nato qui, come
ci è arrivato?»
L’angolo
della bocca del
maestro s’inclinò in una piega più
cupa, la voce però dissimulò quella lieve
ondata di malinconia.
«Mi ha
portato qui un’anziana
signora, sedici, diciassette anni fa. È passato
così tanto che nemmeno mi
ricordo più quanto. Era una donna strana già
allora, era forte e nodosa come
una quercia, e sottile come uno stecco. Non ricordo tante cose, ma lei
sì,
nitidamente» sospirò, con una sfumatura di
tenerezza quasi «Era incredibilmente
rude, eppure mi accolse lo stesso. Per uno come me, che non aveva
più nulla,
persino quella vecchiaccia era l’immagine della salvezza! Con
lei c’era Eireen
quel giorno. Eireen è insopportabile lo so, ma era la cosa
più familiare, per
questo è stato facile seguirle e incominciare
l’apprendistato qui, per non
essere divisi»
Inclinò la
testa per poterla
guardare.
Sianna
sentì il familiare nodo
allo stomaco, la presa ferrea di una mano che le strizzava le viscere.
Era la
sensazione di una rassegnazione triste, quella che l’aveva
assalita, una
rassegnazione che era di Tanet e che pure anche lei avvertiva sulla sua
pelle.
Sopraffatta da tutto
quell’affetto, quel legame profondo che avvertiva come un
filo tra i due
sacerdoti, deviò lo sguardo e finse di prestare attenzione
al terreno.
«Ho risposto
a tutto, piccola
curiosa?»
«Devi
volerle molto bene»
Tanet sorrise e non
rispose.
Il Tempo della
Mietitura si
era consumato in fretta e aveva ceduto il passo al Tempo della
Battitura. Dai
dolci pendii della collina su cui torreggiava il monastero, non si
ammiravano
più campi dorati, abbaglianti di grano maturo, ma solo
stoppie lasciate a mezza
altezza che davano l’impressione di un piccolo esercito
perfettamente
allineato.
Sarebbero servite per
i
pascoli, dopo: questo almeno le aveva spiegato il maestro. Dopo la Quarta festa dei Fuochi, era
questo che intendeva, la causa
della concitazione costante che fermentava nel borgo e rendeva gli
abitanti
entusiasti e pieni di vita. Nel suo precedente villaggio, forse per la
collocazione
in montagna tra i boschi, si festeggiava in maniera differente, ma a
Lochlainn l’evento
manteneva la sua precisa valenza di festa del Raccolto, la prima delle
tre
feste che avrebbero preceduto la Stagione delle Piogge.
In quel clima di gioia
e scampanellanti
campane che scandivano ogni ora della giornata, il suo malumore non
aveva fatto
altro che crescere. Tanet l’aveva esclusa da tutto quel
tumulto entusiasta,
ammirava i preparativi delle bancarelle del mercato, di spalti, di
giochi e
intrattenimenti, come una spettatrice annoiata. Addobbi vivaci si
stendevano da
un tetto all’altro, merletti vezzosi che decoravano le vie, e
numerose lanterne
di pergamena ritagliavano figure che la luce dei lumini proiettava nel
buio
della sera, emanando figure astratte antropomorfe o animalesche, in
elaborati
teatrini d’ombra che intrattenevano i bambini estasiati.
Le capitava di
soffermarsi ad
ammirare gli artigiani intenti in quel lavoro così
artistico, ma il maestro le
permetteva sempre scarse interazioni con chiunque non fosse Eireen,
Arfon o le
sue amiche.
«Servi a
me» l’aveva
rimproverata una volta, tagliando corto qualunque suo tentativo di
protesta. I
suoi servizi erano stati in realtà estremamente limitati e
banali. Qualche
giorno prima, Tanet l’aveva costretta ad
un’estenuante raccolta di mirtilli.
Avevano riempito così tante ceste che Sianna aveva
facilmente perso il conto.
«È
una credenza importante, se
i mirtilli sono abbondanti, allora anche il raccolto lo
sarà. Ogni dolce sarà a
base di mirtilli»
A lei nemmeno erano
mai
piaciuti «Esistono seriamente persone che ci
credono?»
Il maestro
l’aveva soppesata
con incredibile serietà, gli occhi seri e indagatori si
erano ristretti sotto
le sopracciglia ad ala «Non è strano che i
contadini ci credano. È strano che
tu non riesca nemmeno lontanamente a considerare che sia vero»
Non si era spiegato
oltre, e
Sianna si era dovuta limitare ad ingoiare tutto il proprio scetticismo
sotto
l’ennesima coltre di frustrazione.
Seguendo sempre le
orme di
tradizioni per lei prive di logica, si ritrovava quel giorno alla
ricerca di
vischio di quercia. Quando lo avesse trovato, insieme a Tanet ed Eireen
avrebbe
intrecciato le corone sacre che le sacerdotesse avrebbero indossato la
sera
della festa, per i sacri riti degli Oracoli e i Giudizi
dell’Assemblea. Aveva
trascorso la mattinata in quella ricerca esasperata, ma né
lei né Tanet erano
venuti a capo del problema, quel vischio era particolarmente raro e
iniziava ad
annoiarsi.
«Ho
l’impressione che mi
stiate tenendo buona» diede un calcio ad un sassolino che
intralciava il suo
cammino e questo rotolò pigramente poco più
avanti, finendo inghiottito da un
cespuglio.
«Soffri di
egocentrismo,
Sianna Eilan»
Sentire il suo nome
completo
le causava una smorfia istintiva, aveva il retrogusto dei rimproveri di
sua
madre. Guardò Tanet di sottecchi, per un momento
valutò di essere onesta e di
dirgli che non gli credeva nemmeno per errore, che lo percepiva quando
le
mentiva ed era inutile tentare d’ingannarla se poi palesava
le sue emozioni in
maniera tanto cristallina. Però non lo fece,
sospirò con aria sconsolata e si
limitò a borbottare «Sarà, ma inizio a
pensare che non lo troveremo mai»
Il maestro rimase in
un
silenzio meditabondo per qualche istante.
«Possiamo
sempre imbrogliare»
Sianna
s’irrigidì ed un’espressione
di puro turbamento si disegnò sul suo volto quando Tanet
rise sfacciatamente
«Guarda che non è mica una cosa tanto grave! Il
vischio è vischio, nessuno se
ne accorgerebbe. E poi, non ho mai creduto molto in queste
pratiche»
«Come
sarebbe a dire che non
ci crede? Se l’ultima volta, con quegli stupidi mirtilli, mi
ha fatto passare
per un’eretica! Sembrava una questione di vita o di morte a
sentire voi»
Tanet
abbozzò un sorrisetto
sornione «Beh, non è necessario che noi ci
crediamo, basta che loro lo credano
per renderlo reale, no?
Da’ loro del vischio qualunque e ci vedranno la
magia»
Sianna
arricciò le labbra in
un’abituale smorfia di disappunto «Sarà,
ma non ne sono proprio convinta»
Si guardò
attorno, più per non
prestare attenzione al cinico individuo che le camminava accanto con
pacatezza
fin troppo ostentata, che per concentrarsi sulla loro ricerca. Non ci
credeva a
quelle usanze, ma non le piaceva ingannare e avrebbe preferito evitarsi
il
disagio di doverlo fare. In quell’istante un lampo di luce
sinistro balenò in
lontananza, tra le foglie. Il tempo di vederlo, e già era
scomparso, Sianna
s’immobilizzò, folgorata dalla
familiarità di quella sensazione.
Tanet nel mentre
sbuffava
«Possiamo sempre tenerla come ultim…»
«L’ha
vista?» lo interruppe
senza nemmeno accorgersene.
Il maestro
inarcò un
sopracciglio «Che cosa?»
Esitò, si
guardò ancora
intorno. Temeva di essersi immaginata tutto, ma poi, di nuovo,
un’improvvisa
sfera di luce comparve e venne inghiottita dal verde.
«Eccola!»
lo urlò che già
aveva iniziato a correre, prima che Tanet potesse capire ed
acciuffarla. Corse
a perdifiato, saltando le radici e scostando con le mani i rami, la
braccia
portate avanti per difendersi il volto da quelle dita raggrinzite e
acuminate
che le frustavano la pelle nuda. Sfondò una barriera di
edera che ricadeva
poeticamente dagli alberi e creava l’effetto di un velo,
incespicò e cadde. Rotolò
sgraziatamente e quando finalmente l’attrito
arrestò il rovinoso scivolone,
Sianna si ritrovò distesa supina a fissare un cielo azzurro,
incredibilmente
limpido.
La sfera di luce era
scomparsa, stordita realizzò che forse non c’era
mai stata, che si era fatta
ingannare da un suo personale desiderio. Si mise a sedere e si
ricompose un
poco, sbattendo la tunica lacera sulle ginocchia e già
sporca in maniera
indecente, poi tornò a guardarsi attorno e le
mancò il fiato per la meraviglia
e la sorpresa.
Era capitata in una
piccola
radura delimitata da un anello di querce.
I raggi di sole
penetravano a
macchie dalle frasche ed avevano la sfumatura delicata di una nebbia
verde, il
caprifoglio selvatico cresceva rigoglioso, si attorcigliava lungo i
tronchi
degli alberi con la stessa sacralità ed eleganza di un
fregio scolpito nella
pietra. Sotto di lei il terreno era morbido di umidità,
muschio e pioggia, lo
tastò con le punte delle dita e senza pensarci troppo
tornò a distendersi. Lo
squarcio di cielo fiordaliso feriva la composizione delle cime
arruffate degli
alberi come un taglio sanguinante estate e calore.
Chiuse gli occhi,
serrò le
palpebre e restò in silenzio, in attesa, a crogiolarsi in
quel sentimento
strano di pace e amarezza insieme, nell’essersi illusa di
aver riconosciuto e
trovato qualcosa che aveva perduto.
Aveva seriamente
pensato che
quella luce fosse lui, ma se ci
rifletteva
attentamente, non era possibile, lo capiva. Alla fine Tanet la
raggiunse,
spuntando da un cespuglio con l’aria arruffata, il volto
contratto dallo sforzo
e dal sudore e il fiato corto. Si liberò dei rametti
impigliati nella propria
casacca inveendo tutto il suo fastidio, Sianna lo studiò con
la coda
dell’occhio e alla fine si lasciò andare ad una
profonda risata.
«Piccola
disgraziata! Non
farlo mai più!»
«Maestro,
lei è troppo
scettico e non ha pazienza» lo rimbeccò
bonariamente con un accenno di sorriso
sulle labbra, mentre ascoltava i rumori dei passi affrettati del
sacerdote che
la raggiungevano.
«E questo
che vorrebbe dire?»
Sianna
sollevò pigramente la
mano, ad indicare con l’indice teso le querce che
delimitavano la radura: tra le
ramificazioni più alte spuntavano sfere perfette di vischio.
«Ah»
«Eh»
rise lei.
«Sono solo
pratico. Su,
alzati, prima finiamo questa storia, prima posso tornare a fare il mio
lavoro»
«Che sarebbe
dire a me quello
che devo fare?» lo pungolò ampliando il suo
sorriso sfacciato. Tanet scrollò le
spalle, le mise bruscamente una mano fra i capelli e sfregò
con forza,
strappandole una lamentela tra le risate. Quando la liberò
era arruffata come
un gufo irritato, la chioma annodata le ricadeva dovunque, sopra agli
occhi,
rendendo il suo aspetto, già discutibile, terribilmente
tragico.
«Dovresti
legarti questa
chioma indomita, prima di poterti lamentare»
Si alzò
scrollandosi come un
animale bagnato «Non c’è alcun legame
tra le due cose» ribatté saccente, e
Tanet liberò l’ennesimo, esasperato sospiro.
Ignorandola, si
concentrò sui
cesti intrecciati che portava al braccio e recuperò un
falcetto rituale d’oro
avvolto in un panno. Glielo porse con un ghigno
«Già che sei così onesta e
attaccata alle tradizioni, a te va il compito di salire là
sopra a recuperarlo.
Usa questo senza farti problemi»
Sianna
deglutì a fatica un abbondante
blocco di saliva, quasi solido nella bocca d’improvviso
secca. Accarezzò con
gli inquieti occhi azzurri la quercia in tutta la sua imponenza,
comprese
quelle buffe palle di vischio grandi quanto la sua testa, dai contorni
perfettamente definiti che sembravano decorazioni naturali. Anche solo
l’altezza dei rami più bassi le faceva provare una
nausea discreta.
«Non vorrei
mai privarla di un
simile onore» la voce tremola, appena venata di panico, la
tradì.
«Sianna
Eilan, non avrai paura
spero!»
Le guance le
bruciarono di
umiliazione «Certo che no! L’ho fatto centinaia di
volte! Forse dimentica dove
sono cresciuta, io ci sono nata tra gli alberi» che
l’altezza la terrorizzasse,
quello lo tenne per sé. Afferrò il falcetto, lo
legò alla corda in vita, e si
appigliò ad un nodo del legno con cui si aiutò a
issarsi.
Da bambina lo faceva
spesso,
senza alcun timore. Un giorno però, uno strano senso di
vertigine l’aveva presa
a tradimento, le era sembrato di trovarsi distante mille braccia da
terra, si
era sentita cadere e schiantare ed il dolore era stato tanto forte e
terrorizzante che, nonostante avesse realizzato di essere al sicuro,
era
rimasto dentro di lei un riverbero, una sensazione di già
vissuto. Da quel
momento, era sto difficile fare fronte a quella paura ancestrale,
radicata con
una forza destabilizzante in lei senza ragione alcuna. Negli anni, se
possibile, si era acuita, ma il suo smisurato orgoglio abbacchiato non
riusciva
ad accettare quel limite immotivato e a modo suo, con testarda
caparbietà, si
era fatta violenza per gestirla.
«Adesso
vedrà»
«Non
borbottare»
Raggiunse i rami
più bassi, si
protese, si aggrappò ad una sporgenza e arrivò ad
una biforcazione nella quale
sostò. Sotto le sue dita, il muschio umido e viscido si
mischiava al ruvido
della corteccia. Prese fiato e ricominciò la scalata.
Non
guardare giù
Giunta alle fronde
più alte,
scelse un ramo solido e lo percorse strisciando sulla pancia,
abbracciata
saldamente al tronco largo.
«Posso
sapere che stai
facendo?»
Sianna si morse la
lingua, per
evitare di dare una risposta poco consona che l’avrebbe
costretta a guardarlo. Il
maestro però, perverso sadico che adorava infierire,
ridacchiò con scherno
abbastanza forte da farsi sentire. Strizzò le palpebre
decisa a non guardare in
basso, rossa d’imbarazzo, e proseguì fin quando
qualcosa non le pizzicò il
naso, causandole un istintivo starnuto. Spalancò gli occhi e
con sorpresa si
ritrovò con la faccia quasi infilata in una palla di
vischio. Balzò
all’indietro, quasi perse l’equilibrio e la risata
divertita di Tanet la
raggiunse ancora.
«Maestro,
è arrivato il
momento che qualcuno le dica la verità: lei non è
divertente, neanche un po’!»
«Io mi trovo
abbastanza
divertente»
Sianna
arricciò il naso
«Avessi mai visto qualcuno ridere»
ribatté ostica. Il Maestro tacque, Sianna
riuscì a percepire tutta la sua indignazione.
«Muoviti
piccola serpe o giuro
che ti lascio qui»
«Con il
rischio di divenire
spergiuro? Lo sappiamo entrambi che non mi lascerebbe mai qui da
sola» ribatté,
fingendo una sicurezza che non era certa di provare. Si mise a cavallo
del ramo
e iniziò a tagliare i rametti di vischio colmi di bacche
bianche, traslucide.
Le lasciava cadere nel vuoto ed il maestro si affrettava a recuperarle
tra un
borbottio e l’altro. Non le ci volle molto per concludere il
lavoro, ad un
tratto Tanet la invitò a scendere «Ne abbiamo a
sufficienza, muoviti»
Un panico traditore le
afferrò
la nuca in un moto di nausea, le strizzava le viscere in spasmi
sgradevoli.
Guardò in basso, spontaneamente, e la presa di coscienza
improvvisa
dell’altezza fece fare al suo stomaco una spiacevole
capriola. La vertigine le
tolse il fiato, provò ancora quell’immediata
sensazione di precipitare nel
vuoto, il dolore alla schiena e lo schianto.
Il rumore del tonfo,
le sue
ossa che si spaccavano contro il suolo.
Sangue, piume
insanguinate e
lacrime per un male allucinante che la annichiliva.
Si attaccò
istintivamente al
ramo, lo abbracciò stretto.
«No!»
Tanet
ridacchiò «Dai, sciocca,
vieni giù!»
Strizzò gli
occhi per
trattenere il pianto e il magone che le serrava la gola
«No!» ribadì risoluta
«Non voglio!»
L’ansia che
provava era tale
che non le riusciva di percepire la presenza del maestro, tantomeno le
sue
sensazioni o la perplessità che comunque le riusciva di
immaginare sul suo
volto grazie al peso del suo silenzio.
«Ma stai
scherzando?»
«No!»
«Va bene,
allora prova a
calmarti e respira profondamente. Non puoi mica restare
lassù!»
«Vogliamo
scommettere?» lo
sfidò per orgoglio, ma già non riusciva
più a controllare il respiro, il cuore
batteva impazzito contro il costato. Era una paura strana, che non era
legata
solo alla sensazione del cadere, ma all’impressione di
qualcosa di catastrofico
nella caduta.
«Vuoi
davvero rimanere lì?»
«Certo che
no!»
«E allora
perché diavolo non
scendi?»
«Perché
non voglio» ringhiò
disperata.
La voce di Tanet si
aprì
ancora un varco nella sua mente annebbiata dall’attacco di
panico «Hai davvero
paura delle altezze?» l’ilarità che
permeava quella sua domanda retorica la
irritò e la fece scattare sulla difensiva
«Assolutamente
no!»
«Senti,
vengo a prenderti»
«No!»
alzò la testa di scatto,
per riflesso, ed un senso di profonda vertigine le offuscò
la vista, un
capogiro improvviso a tradimento che non aiutò il suo
stomaco provato: prima
che potesse trattenersi, stava già rigettando la colazione.
Tanet urlò
con disgusto «Ma
che schifo! Sianna, è una cosa rivoltante!»
Il sapore amaro della
bile
aumentò la nausea, le impastò la bocca e si
sposò con l’umiliazione più cocente
della sua vita. Come fuori dal suo corpo, si vedeva a terra, una
bambola
spezzata ed inquietante, sanguinante nei suoi arti fuori posto.
Un giocattolo
grottesco
intriso di sofferenza. Non capiva cosa le succedesse, ma
quell’immagine
diventava sempre più viva e terrificante nel tempo, ed ora a
terra non vedeva
Tanet, vedeva quest’altra se stessa in agonia e le mancava il
fiato «Se ne
vada. Farò da sola, vada via!»
Voleva affrontare
quella
chimera, quello spirito che la perseguitava come fosse infestata
dall’anima di
un morto che condivideva con lei, per ragioni sconosciute, il trauma
della sua
morte. Non si era trovata altra spiegazione a quella fobia che non le
apparteneva, ma non avrebbe mai potuto spiegarlo al maestro senza
risultare
pazza, e quindi le rimaneva solo il disagio della costernazione
più totale.
Tanet esitò
«Aspettami qui»
borbottò infine «Vado a recuperare una scala e
torno»
Ascoltò il
rumore dei suoi
passi che si allontanavano farsi più leggeri fino a sparire.
Si ritrovò sola,
prese un grande respiro, si pulì la bocca screpolata con la
manica logora del
proprio abito e tornò a guardare in basso la carcassa
visionaria di quell’anima
morta. Lentamente, in un movimento che pareva uno sforzo logorante,
quel corpo
devastato inclinò la testa, la fissò negli occhi.
Le sue iridi
eterocrome erano
inconfondibili anche da quella distanza, Sianna ne rimase quasi
incantata,
ricambiò quello sguardo duro e profondo che non sembrava
appartenere ad un
essere mortale, che stonava con il dolore che le sue membra sfracellate
emanavano.
Chi
sei tu?
Perché
sembra tanto che tu non possa provare dolore, se è la paura
del
tuo dolore a paralizzarmi?
Se lo era chiesto ogni
volta
che aveva affrontato quell’entità invisibile a
chiunque, perfino agli spettri. Forse
non era uno spirito, non era reale, era solo una sua delirante visione,
eppure
si faceva più concreta e chiara quando capitava che Sianna
la richiamasse.
Quegli occhi distanti di una freddezza ultraterrena erano
sufficientemente
inquietanti da darle almeno il sollievo di sapere che erano troppo
lontani e
quella donna era troppo distrutta per potersi avvicinare a lei.
Lo scricchiolio di un
ramoscello spezzato ruppe il contatto visivo che aveva instaurato con
la
propria visione.
Come si era formata,
la donna
scomparve, ma non l’inquietudine che l’attraversava
in scosse nervose. Si
guardò inquieta attorno, sollevò la testa
arruffata e con sua sorpresa vide
accanto a sé una familiare e diafana sfera di luce. Era
quasi camuffata dai
raggi solari di quella giornata serena, ma Sianna la conosceva troppo
bene per
potersi confondere.
Con meraviglia si rese
conto
che non l’aveva immaginata, era stata la sfera stellata a
condurla in quella
radura, anche se sembrava impossibile.
«Non
può essere»
Allungò le
dita bianche per
sfiorare la superficie del globo. Era morbido come pelliccia, emanava
un calore
tale da intorpidirle la mano di un tepore dolce e familiare. Era senza
dubbio
una Hoshi no Tama.
«Kii?»
chiamò piano, incerta.
Si guardò
ancora attorno,
sentiva dei rumori, come se qualcuno si stesse arrampicando sul tronco
della
quercia. Raccolse il suo coraggio e fece scivolare le gambe a cavallo
del ramo.
Si voltò, chiamò ancora «Kii, sei
davvero tu?»
«Posso
sapere cosa ci fai qua
sopra?»
I muscoli le si
irrigidirono e
quasi perse l’equilibrio per lo spavento.
Si era aspettata
l’imprevedibile, ma non di ritrovarsi faccia a faccia con suo
fratello. Ynyr
compì un ultimo balzo e si issò sul ramo davanti
a lei, accovacciato come una
pantera, le sopracciglia bionde corrucciate e quella sua aria
insofferente
nella piega della bocca, nelle palpebre socchiuse in una flemma
annoiata. I
ciuffi ribelli della frangia gli nascondevano la fronte e parzialmente
gli
occhi.
«Ti rigiro
la domanda!»
esclamò incredula.
Trasecolò
se possibile ancora
di più quando vide fare capolino, dalla spalla del fratello,
il musino rosso e
bianco, adorabile e dolce, di una piccola volpe dagli occhi
intelligenti e
l’espressione impertinente «E cosa ci fai con
Kii!»
Ynyr si
sfregò la casacca nera
che gli ricadeva larga sul corpo magro, la fissò
intensamente per un lungo,
pesante istante, e le sue pupille scure, minuscoli puntini in campo
azzurro,
ripercorsero la sua figura, soffermandosi troppo sulle sue gambe
scoperte
dall’abito che si era arrotolato quando si era arrampicata.
Quell’occhiata la
rese consapevole dello stato poco decoroso nel quale versava, Sianna si
sentì
nuda e cercò goffamente di riabbassare l’orlo
della gonna il più possibile.
Fu solo un momento,
subito il
fratello chinò il capo e deviò la sua attenzione,
a disagio.
«La tua
palla di pelo» soffiò
con fastidio «Mi sta addosso da giorni. Ti ha portata qui per
incontrarti,
quando ti ha visto da sola qua sopra ha iniziato a
tormentarmi»
Afferrò la
piccola volpe per
la collottola e se la scrollò di dosso, poi gliela porse con
lo stesso tatto
che si sarebbe potuto dedicare ad un oggetto, più che a un
animale
«Riprenditela, o ci faccio una pelliccia»
Sospeso nel vuoto, Kii
dimenò
le zampine all’aria in segno di protesta, soffiando buffi
suoni.
«Ynyr, non
trattarlo male!»
Sianna
recuperò la kitsune e
se la strinse al petto, lasciando che Kii le leccasse il volto in un
raro gesto
di tenerezza. La sua Hoshi no Tama continuava a veleggiare sospesa
sopra le
loro teste, si muoveva come trasportata dalla brezza, sembrava davvero
un sole
o una piccola stella, uno spettacolo che aveva il dono di affascinarla
sempre.
«Non ci
credo che sia davvero
qui! Perché non me lo hai detto? Pensavo non lo avrei
più rivisto!» doveva
essere un rimprovero, eppure le era sfuggita tutta
l’esasperazione, la
disperazione per quei lunghi silenzi e l’improvviso astio di
suo fratello, che
proprio non riusciva a spiegarsi.
Il viso
d’Ynyr non mutò, né si
fece strada almeno un piccolo accenno d’espressione, una ruga.
«Non
è un mio problema» la
liquidò pacatamente «E comunque, non impari mai la
lezione»
Punta sul vivo, Sianna
riprese
pienamente coscienza di dove si trovasse e il colore defluì
dal suo volto. Che
il fratello poi le lasciasse intendere, con il suo atteggiamento, che
non era
disposto a scherzare o a chiacchierare amabilmente, abbassò
ulteriormente il
suo morale. Si portò la mano alla bocca, per trattenere un
conato e
nasconderlo.
Le sopracciglia di
Ynyr si
aggrottarono «L’hai vista ancora?»
Annuì piano
e lo vide
sussultare. C’era una sorta di inquietudine in lui, ma il
fratello era l’unico
con cui il suo dono, la sua eccessiva percezione, non funzionava, e per
questo
i suoi pensieri erano a Sianna sempre oscuri e indefiniti.
«Ti ha
avvicinato?»
«No»
esitò, prese un bel
respiro «Ma mi ha guardata, stavolta. Dritta negli occhi, mi
vedeva come io
vedevo lei»
Anche Ynyr
scolorò e per un
momento sembrò smarrito. Le afferrò bruscamente
il polso, strinse con troppa
forza «Non permetterle mai di avvicinarsi a te. Qualunque
cosa succeda, non
importa quanto tu sia curiosa. Non permetterle mai di toccarti,
chiaro?»
Spaventata, Sianna si
affrettò
ad annuire ancora.
Non era la prima volta
che
Ynyr la metteva in guardia su quell’ancestrale creatura, ma
non c’era mai stata
in lui una tale urgenza, una simile ansia. Lui non la poteva vedere,
eppure
sembrava spaventato da lei come se sapesse qualcosa che a Sianna
sfuggiva, e
questo era l’elemento di maggiore disturbo in tutta quella
faccenda.
Rassicurato, Ynyr
seppellì
nuovamente qualunque forma di umanità dietro la sua
inscalfibile facciata. Le
diede la schiena, e con un semplice gesto del capo le fece capire di
avvicinarsi.
Sianna
abbracciò stretta la
volpe, per farsi forza, poi la liberò perché il
piccolo spettro potesse
abbarbicarsi sulla sua spalla. La kitsune la circondò con la
sua coda vaporosa
e quando Sianna la sentì affrancata, in maniera anche
abbastanza dolorosa, si
accostò al fratello, gli gettò le braccia al
collo e si agganciò con le gambe
intorno alla sua vita.
Ynyr
sospirò di
incomprensibile frustrazione quando lo strinse, poi si mosse e Sianna
chiuse
gli occhi per non vedere il vuoto sotto di sé mentre il
fratello la portava giù
da quella quercia infernale.
Non appena il ragazzo
toccò
suolo le appoggiò le mani sulle cosce e fece pressione per
invitarla a
scendere. I muscoli della sua schiena si contrassero in uno strano
spasmo, una
postura rigida, come se qualcosa non andasse, come ci fosse un pensiero
che non
poteva condividere con lei, perché non era in grado di
comprenderlo. C’erano
molte cose di lui che le erano sempre sfuggite nonostante fossero
cresciuti
assieme e fossero molto uniti, in quei momenti di straniamento Ynyr
sembrava
perdere l’uso della parola, era incredibile allora come i
suoi occhi
riuscissero ad allontanarsi dal mondo e a risultare spietati. Quella
sua
capacità di provare indifferenza a comando la feriva
più di quanto fosse
disposta ad ammettere.
Scese a terra e le
gambe le
cedettero. Si lasciò cadere nell’erba morbida e
rivestita di muschio, Kii si
innervosì e le conficcò le unghie nella schiena.
Ci era abituata, ma faceva
male lo stesso.
Ynyr le rivolse uno
sguardo
laconico.
Non si parlavano dal
giorno
della commemorazione, Sianna pensò che fosse il giusto
momento per porre fine a
quell’insensata separazione, ma suo fratello le diede la
schiena e si allontanò
senza aggiungere una parola.
«Ma…
davvero?» gli urlò contro
furiosa.
Tornò a
guardarla da sopra la
spalla, l’incarnazione della sufficienza e della presunzione
«Vuoi qualcosa?»
«Sei
serio?»
Ynyr
abbozzò un sorriso di
scherno «Riformulo: ti aspetti qualcosa?»
Ringhiò
«Figurati» e si sforzò
di regalargli il medesimo ghigno sfrontato «Da te
assolutamente nulla»
Non
ti dico dove puoi metterti il “grazie” che da
idiota pensavo pure
di doverti!
Il fratello
scrollò le spalle
e quella sua aria laconica e enigmatica la caricò di dubbi e
perplessità che
proprio non trovavano ragione
«È
un sollievo. Kii, fa’ in
fretta, non ho tutto il giorno» lo osservò
raccogliere una grande sacca
appoggiata a terra, ai piedi della quercia, e andarsene senza mai
voltarsi.
Kii scese a terra con
un
elegante guizzo, una fiamma rossa e bianca. La sua Hoshi no Tama li
aveva
seguiti pigramente illuminando di un bagliore spettrale le ombre degli
alberi e
i fili d’erba. La Kitsune si sporse,
l’annusò, spalancò le fauci e la
ingoiò tutta
intera. Il suo corpo si sfamò di quella luce, la
assorbì e divenne tanto
brillante da essere insostenibile. Sianna chiuse gli occhi e si nascose
dietro
il dorso della mano. Fasci luminosi filtravano tra le dita e le
rischiaravano
di rosso.
Aspettò che
la fonte di luce
si consumasse, poi sbatté le palpebre per eliminare i
puntini e le macchie
arancioni impresse nella cornea: davanti a lei non c’era
più un animale, ma un
ragazzino rannicchiato, con il volto celato da una grottesca maschera
dalle
fattezze di una volpe. Bianca, lucida, con la bocca atteggiata ad un
ghigno
inquietante e gli occhi sottili, due linee chiuse di un muso dormiente.
Il
corpo rachitico, dalla linea irregolare e la schiena ricurva di un
animale
pronto a scattare, era celato da un abito che arrivava alle caviglie.
Le
maniche larghe lo ricoprivano interamente, nascondendo le mani sottili,
quelle
dita lunghe e affilate che Sianna aveva imparato a conoscere, e
un’ampia
cintura fermata con un nodo sul davanti gli stringeva la vita,
accentuando la
sua figura efebica.
I piedi erano nudi e
sporchi
di terra, aguzzi, ma il ragazzino mascherato non vi prestò
alcuna attenzione,
rimase indolente, immobile, a fissarla attraverso una maschera che poco
gli
concedeva di visuale. Sianna lo afferrò bruscamente per la
collottola e quasi
lo sollevò da terra, portando il proprio viso ad un soffio
dalla maschera
bianca.
«Mi devi
parecchie
spiegazioni, Kii, o mi sbaglio? Cosa ci fai con mio
fratello?» osservò
l’enigmatica espressione pacata della maschera e per qualche
ragione si alterò
«Anzi, cosa ci fai tu, qui?»
La domanda
uscì permeata di
fastidio, nonostante in realtà fosse più che
felice di ritrovare la kitsune.
Era la confusione e il risentimento che suo fratello le aveva lasciato
addosso
ad alterarla, riuscendo perfino a sormontare e cancellare la
curiosità e
l’entusiasmo che l’avevano spinta ad inseguire una
sfera stellata.
Il ragazzo volpe
sghignazzò
beffardo, la mano artigliata scostò la maschera e la
poggiò sulla testa, a
mostrare un volto efebico quanto il suo corpo, affilato, con gli zigomi
alti
costellati di efelidi, la bocca tagliente e vagamente ferina, le
sopracciglia
sottili e gli occhi sanguigni ravvicinati. La chioma bianca che sfumava
nel fulvo
sulle punte era corta e scompigliata, la maschera aveva schiacciato
un’orecchia
pelosa che spuntava tra le ciocche ribelli, residuo della sua natura di
fiera.
Tutto di Kii faceva pensare ad un astuto animale inselvatichito, non ad
un
ragazzino di non più di tredici anni.
La kitsune, a
tradimento,
azzerò la distanza tra i loro volti e le leccò le
labbra. Sianna lo respinse
bruscamente, imprecando «Sei il solito maledetto»
Kii atterrò
come un animale
avrebbe fatto, si piegò sulle ginocchia e inclinò
il capo, soppesandola in
silenzio.
Allora, Sianna si
pulì la
bocca con il dorso della mano e sospirò «Come fai
ad essere qui?»
«Vi ho
persi»
Non era abituata a
sentire la
sua voce reale e non solo interiore. C’era ancora il
rimasuglio di un latrato
acuto che la rendeva poco umana, nonostante l’articolazione
dei suoni.
«Ho fiutato
il vento per
settimane, prima di ritrovare la scia del tuo odore»
«Ci hai
persi?»
Kii si
grattò flemmaticamente
la guancia con il polso, socchiuse gli occhi taglienti, così
simili alla sua controparte
animale che per un attimo le due immagini si sovrapposero e il ragazzo
assomigliò in modo inquietante alla sua maschera statica.
«Sì,
il giorno dopo quella
notte. I tuoi umani ti hanno portata via»
«Con i miei
umani intendi
Daniel e Henry, suppongo. Non capisco perché mi hai cercata
comunque, hai
abbandonato la valle. Non pensavo potessi allontanarti dalle altre
kitsune»
Erano così
poche, le volpi in
grado di diventare yokai, dovevano riuscire a sopravvivere oltre i
cinquanta, a
volte i cento anni, e i clan di kitsune si facevano sempre
più ristretti nel
tempo, molti erano scomparsi. I cuccioli come Kii erano custoditi
gelosamente,
erano un lascito, la speranza di una continuità.
Il ragazzino
però non sembrava
curarsene «Ordini. La mia padrona mi ha detto di trovarti,
dovevo assicurarmi
della tua incolumità»
Kii e Ynyr avevano, a
modo
loro, qualcosa in comune: il tono inespressivo con cui erano soliti
esprimersi.
Certo, la kitsune
aveva
perlomeno la scusante di non essere umana, un’attenuante che
suo fratello di
certo non poteva vantare. Si chinò sul ragazzino e gli
scompigliò
affettuosamente i capelli selvaggi «La tua misteriosa
padrona, sempre lei eh?
Tornerai da lei ora?»
Più come un
gatto che faceva
le fusa, piuttosto che una volpe, Kii sfregò la testa e la
guancia contro la
sua mano, con un movimento languido del capo e gli occhi socchiusi
«No, è
presto. Devo stare qui e controllarti»
Continuò
ad assecondare i suoi vanitosi bisogni di attenzione, pur se accigliata
«Ma
perché Ynyr? Tu non lo sopporti. Potevi venire direttamente
da me»
Il
ragazzino arricciò il musino e si ritrasse bruscamente, con
stizza e un
uggiolio gutturale in gola «Tu sei sempre circondata da
troppi umani»
Era
un discorso trito e ritrito, Kii si risentiva quando non poteva
avvicinarla,
anche in passato, per colpa degli uomini. Ne aveva un terrore atavico,
quasi
incomprensibile per lei, e questa paura causava un paradosso assurdo:
Kii la
cercava solo quando sapeva di non poterle parlare, era un suo metodo
per farla
sentire in colpa e vincolarla a lui, da piccola volpe viziata e
capricciosa
qual era.
Il
suo sbuffare la fece ridere «Sono umana anche io»
gli rammentò sorridendo.
La
volpe ghignò ancora, mostrando una chiostra acuminata di
denti «Un altro tipo
di umana, certo»
Lo osservò
mentre si stirava,
distendeva le braccia a terra a cacciava un grande sbadiglio, come se
un
animale lo fosse ancora. Nonostante l’apparenza, proprio non
riusciva a limare
i suoi aspetti più primitivi, né a nascondere la
propria coda e le orecchiette
pelose e morbide. Ancora non sapeva gestire il suo camuffamento, per
questo non
gli piacevano gli uomini, non era in grado di celarsi tra loro come
facevano
invece i membri più anziani della sua specie.
Nei suoi movimenti
oziosi, la
Hoshi no Tama, dalle sembianze ora di una grossa perla legata con una
catenina
al suo collo, scivolò fuori dall’abito e
penzolò mollemente nel vuoto.
Sianna ebbe come
un’illuminazione «Come hai fatto a ritrovarla?
L’avevi affidata a me, ed io
pensavo di averla smarrita quella notte»
Quando si era
risvegliata era
a Lochlainn, le ci erano voluti giorni per recuperare quanti
più frammenti
possibili di memorie, e solo successivamente si era accorta di aver
smarrito la
sfera stellata dell’amico, troppo tardi per poter fare
qualcosa a riguardo.
Kii
sbatacchiò le grandi
orecchie, i capelli erano candida neve sporcata di rosso, gli occhi
sanguigni
si socchiusero e la studiarono con una perplessità fin
troppo manifesta.
«Non
l’hai persa, me la sono
ripresa. Io ero lì» inclinò il capo
«Ma tu non lo ricordi. Deliravi. Tu non hai
riflessi, non hai memorie, devo sentire per te se non senti da
sola»
Sianna
sbatté le palpebre
confusa davanti a quella raccolta di parole senza senso.
Io
non ti capisco, non ti capirò mai maledetto spettro
E non poteva nemmeno
sperare
che chiedere le avrebbe fruttato almeno qualche risposta e non solo
un’altra
sfilza di domande.
«Kii?»
«Mhm»
«Un giorno
me lo dirai perché
la Dama del Lago ti ha mandato da me?»
Non si riferiva
semplicemente
a quel momento, ma già ai loro primi, destinati incontri.
Kii sbadigliò ancora,
mostrandole l’antro della bocca, i denti aguzzi come
stalattiti e stalagmiti
affilate, poi le sorrise scaltro «Ci piacciono certi tipi di
umani» rispose
sibillino, infrangendo in lei qualunque speranza di sottrargli qualche
verità.
Rassegnata si mise a
sedere a
terra e incrociò le gambe. Studiò il terreno e
individuò un bastoncino, con
quello tra le dita iniziò distrattamente a disegnare nel
terriccio umido,
spodestando zollette di muschio. Il ragazzo volpe si
acciambellò accanto a lei
e poggiò la testa sulle sue cosce, con un gorgoglio
soddisfatto simile a delle
fusa.
Sianna si
bloccò, lo guardò
per un lungo istante, ma venne ignorata.
«Voi spettri
siete
impossibili» mormorò assorta. Aveva già
smesso di provare a pensare a Kii e a
tutto ciò che la sua comparsa poteva comportare,
perché in realtà era
consapevole dell’inutilità dei suoi sforzi. La
Kitsune era molto più testarda, viziata
e impossibile di lei, era una sfida persa sul nascere.
Si
concentrò invece sul
legnetto, provò a scrivere il suo nome ma la mano tremava e
le rune uscivano
mosse, scarabocchi informi, fili di pensieri ingarbugliati.
Sussultò e
Kii con lei quando
avvertirono un rumore in lontananza, di qualcosa di ingombrante che
strisciava.
La volpe drizzò le orecchie, annusò la brezza
«Un essere umano» digrignò i
denti, la voce intrisa di disprezzo e di un suono più fondo
e gutturale,
bestiale «La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi
doni»
Sianna si
affrettò ad annuire
«Sì, non credo li abbiano persi. Devo
assicurarmene? È così importante?»
I passi si fecero
più
distinti, così come il fracasso di un oggetto che veniva
trascinato. Kii si
risistemò la maschera sul viso efebico, afferrò
rapidamente la perla che
portava al collo, grande quanto un chicco d’uva, e ruppe la
catenina con un
movimento secco.
Il gioiello
pulsò di un caldo
bagliore. Crebbe di luminosità, e più cresceva
più il corpo del ragazzino si
prosciugava di quella luce che veniva riassorbita dalla sfera. Le
unghie
affilate mutarono davanti al suo sguardo attento in artigli, la peluria
sottile
delle braccia crebbe, s’infoltì e si
trasformò in morbido pelo; la maschera
volpina si fuse alla pelle, si allungò modificandosi in un
muso furbetto, gli
occhi si assottigliarono, la calotta cranica si estese e le gambe
divennero
zampe.
Nella perla si
condensò tutta
la luce, la sfera si sollevò nell’aria come
sospinta da una carezza e riprese
il suo naturale aspetto di Hoshi no Tama. Il ragazzino era tornato ad
essere
una piccola, indisponente volpe.
Il globo galleggiava
familiare
davanti a lei, splendente come una stella cadente. Sianna poteva ancora
ricordare
la nostalgia del giorno in cui, per la prima volta, aveva scorto una
sfera
stellata. Un corteo infinito di globi infuocati, simili a lanterne di
carta che
avevano creato un sentiero nell’oscurità e avevano
attirato la bambina che era
stata come una falena verso le fiamme.
Kii
arrotolò la coda morbida
attorno al globo di luce e le lanciò un’ultima,
penetrante occhiata
Guardati
le spalle, Sianna.
Guardati
dagli uomini.
«Sianna? Sei
viva?» la voce
del maestro giunse inaspettata e la fece sussultare per la sorpresa.
Kii non le
diede la possibilità di replicare, iniziò a
correre e in un lampo venne
inghiottito dal sottobosco. Sianna si appoggiò al tronco
della quercia e attese
che Tanet comparisse anche fisicamente, già che aveva
spaventato la kitsune prima
che questa le desse uno straccio di informazione.
Era ancora troppo
meravigliata
per mettere davvero a fuoco di aver incontrato di nuovo Kii, si era
convinta
che non avrebbe più rivisto lo spettro, soprattutto
perché aveva avuto la
certezza di aver smarrito la sua sfera stellata.
Una volpe non poteva
sopravvivere a lungo senza la sua Hoshi no Tama, questo le era stato
spiegato
molto bene. Eppure Kii era vivo e vegeto, e in un modo che le sfuggiva
aveva
recuperato quella sua strana anima di luce.
Perché
ti sei avvicinato tanto ad un centro abitato? Proprio tu che
diffidi più di chiunque degli esseri umani?
Cosa
non mi racconti stupida volpe?
Tanet riemerse
finalmente
nella radura, masticando un’imprecazione e poi
un’altra. La sua figura venne
rischiarata da una pioggia di pepite di sole, che fecero risaltare a
chiazze le
gocce di sudore sulla fronte. Aveva con sé una scala a pioli
che lasciò cadere
con un tonfo quando la vide stesa nel prato, perfettamente rilassata e
incolume.
«Ti sei
presa gioco di me?»
Sianna
valutò di mentirgli,
solo per non dargli la soddisfazione di sapere che realmente aveva
avuto paura.
Era tanto scioccato però, che accantonò
immediatamente l’idea di una bugia per
non farlo arrabbiare sul serio. Inoltre, aveva sempre confessato i suoi
misfatti e le sue bugie in tempi brevi, in passato, non aveva mai avuto
il
nervo necessario a sopportare il senso di colpa di una menzogna e aveva
solo
collezionato insuccessi.
Scosse piano la testa
«No»
Tanet si
grattò la nuca, poi
sospirò e si sedette accanto a lei «E come cavolo
sei scesa?»
«Mi ha
tirato giù mio
fratello. Era nei dintorni, deve averci sentito»
Omise, per abitudine,
la
presenza della volpe e quello strano dialogo che le aveva lasciato
addosso un
profondo senso d’inquietudine.
Si stava ripetendo
ancora le
parole della volpe, perciò non realizzò subito
l’aria sconvolta del maestro.
«Hai un
fratello?» le chiese
con la fronte aggrottata in un cipiglio pensieroso, basito.
Non
ho mai parlato di Ynyr, nemmeno una volta.
Nemmeno
per errore
Aveva protetto
inconsciamente
l’esistenza di suo fratello, l’aveva custodita come
un segreto e non se ne era
resa conto. Ynyr era sempre stato, per lei, una ferita aperta e
costantemente
infetta, eppure non aveva mai scelto di condividerlo con nessuno,
nemmeno in
passato, e fu strano accorgersi che certi vizi erano destinati a durare
nel
tempo.
Se Tanet non conosceva
quel
ragazzo, allora Ynyr non si trovava nemmeno nei dormitori dei
sacerdoti, ed
allora capire cosa stesse facendo quel teppista con cui condivideva il
sangue
diventava ancora più difficile.
«Sì,
ho un fratello. Ma non
parliamo molto ultimamente»
Da
quando nostra madre è morta
Avrebbe voluto
aggiungere.
Avrebbe dato qualunque cosa per capire quale meccanismo mentale quella
perdita
avesse fatto scattare in lui, per spingerlo a comportamenti tanto
incomprensibili. Si trattenne dal lamentarsi solo perché
odiava le uscite
infelici ed odiava risultare patetica.
Tanet storse la bocca,
si
rialzò, spolverò un poco i vestiti inzaccherati e
le porse la mano per aiutarla
a issarsi.
Le sorrise. Uno di
quei suoi
sorrisi tranquilli e pacati, che trasmettevano serenità e
sicurezza «Fossi in
te non mi preoccuperei troppo. Tra fratelli è normale
discutere, no?»
Sianna
arrangiò un sorriso,
solo perché voleva che quella conversazione si consumasse
presto. Tra lei e
Ynyr c’era sempre stato un precario equilibrio, un legame
morboso, a tratti
difficile. Quell’equilibrio, il filo sottile che li aveva
collegati fino a quel
momento, si era spezzato, e non aveva idea di dove questa rivoluzione
li
avrebbe condotti, né era certa di volerlo scoprire. Quel
distacco era un
tormento tanto costante da aver permeato la sua esistenza, un piccolo
dolore
sordo a cui si stava, suo malgrado, abituando.
Era tante cose, ma non
normale.
Suo fratello era
un’anima
imperscrutabile e lontana, se nascondeva qualcosa non lo avrebbe mai
capito
finché lui stesso non ne avesse parlato.
«Probabilmente
ha ragione lei»
Spostò i
capelli lunghi che le
si adagiarono sulle spalle come una coperta. Recuperò le
ceste, mentre il
maestro raccoglieva la scala a pioli e se la caricava in spalla.
Si avviarono fianco a
fianco,
in silenzio.
“La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi
doni”, quella
domanda tra le tante che avrebbe potuto ricevere, aveva risvegliato un
certo
nervosismo. Non era così che aveva immaginato di
riabbracciare la piccola
volpe, amica fidata e compagna di giochi in un’infanzia di
solitudine.
Gli
spettri hanno troppi segreti.
Pur sapendolo, non si
era mai
allontana dallo Yokai, né aveva temuto la sua ambigua
padrona che da lontano
l’aveva sempre osservata attraverso la kitsune. Ora, anche i
suoi doni si
tramutavano in un arcano inquietante.
Andrò
da Lisy, dopo, e mi assicurerò che non li abbiano persi o
quella
sciocca kitsune diventerà ingestibile.
Riguardo suo fratello
invece,
decise di inghiottire il nervoso e di aspettare che si riassestasse da
solo,
probabilmente più per viltà personale che non per
una qualche forma di
concessione nei suoi riguardi.
«Puoi
passare da Arfon per
portargliene una?» Tanet indicò una delle due
ceste, interrompendo il filo
corrente dei suoi pensieri inconcludenti.
Storse la bocca
«Preferirei
non fare più consegne. Non a lui, quel vecchio non mi
piace»
Preferì non
specificare che il
suo rifiuto nei confronti dell’anziano era più che
altro paura, ma ne provava
molta. Tanet acuì lo sguardo in un dubbioso taglio a
mezzaluna, un implicito
invito a spiegarsi, così sospirò rassegnata
«L’ho sentito di nuovo. Mi ha
chiamata ancora così»
«Demonio?»
Si morse le labbra
«Anche.
Diciamo che non parla di me in modo troppo amichevole»
minimizzò con un’alzata
di spalle. Il maestro annuì assorto «Stai
indossando i guanti?»
Sollevò la
mano all’altezza
del viso, per mostrargli la pelle coperta da un leggero strato di
stoffa nera.
«E allora
cosa temi?»
Sianna
arricciò il naso.
Non sapeva come
spiegare che
qualcosa in lei, nel suo aspetto e nel suo essere, era fonte di
repulsione per
le persone che la circondavano. Non sapeva e non voleva spiegarlo ad
uno dei
pochi che sembrava immune a quella distanza naturale che si poneva tra
lei e il
prossimo. Sarebbe stato inaccettabile, se il maestro avesse preso
coscienza di
quel “qualcosa”, e l’avesse allontanata.
Il suo broncio ammorbidì Tanet, che
allungò una mano ad accarezzarle la testa «Ho
capito. Me ne occuperò io»
«Grazie»
Un pungente odore di
bile le
soffiò sul volto e al sorriso seguì
spontaneamente una smorfia di disgusto. Non
le fu difficile individuare la macchia sulle brache del ragazzo.
«Maestro?»
«Sì?»
«Prima
però si cambi!»
ANGOLO AUTRICE
Ben
ritrovati!
Ho tempi
veramente titanici, ma potete perdonarmelo,
alla fine c’è sempre la speranza che torno, non
sparisco mai del tutto!
Ringrazio
già subito tutti i nobili animi che
riescono a tenere ancora la storia tra le preferite, le ricordate e le
seguite
nonostante le ere geologiche che intercorrono tra un capitolo e
l’altro. Ci sto
lavorando, tenterò di velocizzare i tempi.
Per il
resto… adoro Kii, è uno dei personaggi
che preferisco, ma si vedrà palesemente la predilezione che
ho per lui!
Non
compaiono posti nuovi o personaggi nuovi,
quindi mi risparmio la didascalia… e niente, spero vi
piaccia e spero mi
facciate sapere qualcosa.
Le
recensioni sono sempre mooolto gradite
oltre che stimolanti per il mio scrivere!
A presto!