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Autore: lady igraine    15/01/2018    0 recensioni
Le Terre di Confine, dopo la Caduta del Regno di Neanna, da duecento anni sono governate dal Conclave, una misteriosa congrega di Maghi che stringe nelle proprie mani il destino dei Regni indipendenti.
Ma quando un incubo antico, quello che ormai è solo un racconto per spaventare i bambini, riemerge dall’oscurità, ogni equilibrio è destinato a spezzarsi.
E Sianna, cresciuta nella sicurezza della sua valle isolata, protetta da presenze rassicuranti che la seguono fin dall’infanzia, è l’inizio di quella crepa che incrinerà il suo mondo, e ne ignora la ragione.
Eppure è lei che La Morte sta cercando e, per sopravvivere, Sianna deve presto fare i conti con un passato più complesso di quanto possa anche solo immaginare.
***
«Te l’ho già detto. Le tue linee non sono complete. Non so come spiegarlo… ma il tuo è un futuro che non posso vedere. È come se l’altra metà del tuo destino non fosse incisa sulla tua mano ma da qualche altra parte, come se appartenesse a qualcun altro»
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ULTIMO CAVALIERE DELLA PIETRA

 

CAPITOLO SETTIMO







La camerata della foresteria era spaziosa e semplice, l’arredamento essenziale comprendeva solo i loro letti, un paio di cassettoni, uno scrittoio e una finestra con delle imposte di legno da cui Sianna studiava il flusso di persone e gli animali, i bambini che giocavano.

Se si sporgeva, riusciva a intravvedere anche il frutteto che colorava un fianco della collina. Le piaceva il profumo che le erbe aromatiche spandevano dal Giardino dei Semplici e l’invitante fumata dei pesci arrostiti che sentiva quando si avvicinava l’ora di cena, dato che la foresteria era posizionata vicino alle cucine.

Anche se l’accesso a molte zone del monastero era loro proibito, a Sianna interessava poco vedere i dormitori delle sacerdotesse e dei sacerdoti, o le celle, le bastava trascorrere il tempo all’aperto con Tanet e il suo pessimo umorismo, o stare con Lisy e Kea ad accarezzare i musi dei cavalli nelle stalle e ad imboccarli con del fieno.

Prese un’ultima boccata d’aria fresca prima di ritrarsi per lasciarsi cadere pesantemente sul letto. Gael ne approfittò subito e balzò sulla sua pancia piatta, zampettando buffamente verso il suo viso. A Poco meno di una spanna, emise versi striduli e indisposti, e Sianna lesse in quegli occhi rosati, nell’iride marcata da una sanguigna linea rossa perfettamente sferica, il rimprovero dell’animale.

Gli accarezzò gentilmente il piumaggio con la mano guantata, ed il falco inclinò la sua testolina e si gonfiò di palese soddisfazione.

Era sempre stato insolito, Gael. Ricordava come era da cucciolo, quando lo aveva appena raccolto ed era ostile con tutti, quanto tempo era trascorso prima che diventasse meno aggressivo, come poi si fosse affezionato a lei in maniera così morbosa e naturale da renderlo un compagno fedele e affettuoso, tanto da permetterle di lasciarlo costantemente libero.

Il falco non la abbandonava mai, la seguiva con cieca fiducia, ovunque, e quando gli parlava sembrava essere in grado di comprenderla, la ascoltava e le ubbidiva.

Mentre la mano affondava nelle piume candide, la sua attenzione venne raccolta dai guanti che nascondevano la pelle diafana lasciando scoperte, come rami sbiancati dalle intemperie, le dita magre e sottili, affilate. Eireen alla fine aveva vinto, l’aveva convinta a nascondere la benedizione che l’aveva segnata fin dall’infanzia. Un poco ne era rimasta ferita, era il ricordo più vivido di suo padre, l’unico in verità, ma la sacerdotessa era parsa abbastanza preoccupata da convincerla senza che facesse polemiche.

«Maledizione!» riconobbe dall’imprecazione Lisanda un attimo prima che questa spalancasse la porta, in una scia di borbottii irati e sconnessi. Sianna alzò svogliatamente la testa per piegarla verso l’amica «Che ti prende?»

Lisy sollevò furibondamente una mano al soffitto «È evidente che le divinità hanno deciso che devo perderci un arto, non c’è altra spiegazione! Qualcuno deve avermi fatto il malocchio»

«O più semplicemente sei goffa» la punzecchiò Iris, comparendo alle spalle della gemella con le braccia incrociate sotto il seno e un sorriso di scherno a macchiarle le labbra. Anche così, erano simili in maniera disarmante, due immagini riflesse allo specchio e due caratteri radicalmente diversi, opposti.

Sianna si lasciò andare ad una risata «Io opto per la seconda! Che ti sei fatta stavolta, ti sei tagliata ancora?»

«Che siate dannate» sbuffò Lisy, gonfiando una guancia in un moto d’insofferenza «Sì mi sono tagliata, e fa un male cane. Tu, inutile erborista, invece di commentare non potresti, che so, fare qualcosa?»

Di malavoglia Sianna si mise a sedere, spodestando un Gael indisposto che, per punizione, cercò di beccarle le dita «Ti dovrei mandare da Tanet suppongo. O da Arfon sarebbe più giusto? Non è quel vecchiaccio il “guaritore”?»

Sibilò l’ultima parola con sfacciato scherno, ma le amiche non se ne meravigliarono né ci badarono particolarmente, solo Iris manifestò la sua insofferenza roteando gli occhi. La sua antipatia per l’anziano, sviluppata già dopo un paio d’incontri e cresciuta nell’imbarazzo delle occhiate sospette e diffidenti che Arfon le dedicava, era nota ormai ai più.

Arfon la faceva sentire bambina, piccola e impotente davanti al disprezzo. Crescendo, aveva sperato di non doversi mai più sentire così meschina e fragile, ma gli occhi del vecchio erano il riflesso di anni di ostracismo che non era mai davvero riuscita a scordare.

«È un modo alternativo per dichiarare la tua inutilità» constatò Lisanda, ignorando il suo cinico commento, incrociando le braccia al petto a celare le mani dalle dita già parzialmente bendate. Lisanda non era tagliata per il lavoro manuale, aveva un talento innato nel farsi male e nonostante suo padre preparasse i dolci più buoni che Sianna avesse mai mangiato, non aveva ereditato alcuna inclinazione per l’arte culinaria. Era una viziata più brava a mangiare che a fare, e il fatto che Leoise avesse assegnato lei e la gemella alle cucine del refettorio l’aveva resa irritante e lamentosa.

Sianna in parte le invidiava: quella era la condizione a cui dovevano sottostare se desideravano rimanere al monastero e seguire le lezioni con i novizi sacerdoti. Loro non erano discendenti di buone famiglie, né erano state mandate al monastero ad apprendere le tradizioni come molti ragazzi che occupavano le camerate anche se poi non avrebbero preso i voti. Lei e le sue amiche erano semplicemente capitate, un incidente imprevisto. Succedeva, che i monasteri adottassero qualche bambino abbandonato per riempire le proprie fila di sacerdoti, ma per loro la questione era più delicata, erano adulte, senza preparazione.

Senza inclinazioni alla vita sacerdotale e al basico concetto di rinuncia.

E comunque, Sianna da tutto questo era stata esclusa, restava solo sotto la tutela di Eireen e la donna non le permetteva di interagire troppo con gli altri, lasciandole addosso un amaro senso d’insoddisfazione.

Prima che potesse rispondere a Lisanda, la porta venne spalancata di nuovo, con più irruenza, e questa volta a fare la sua entrata fu Marion, più vivace che mai nelle sue stoffe colorate e nel tintinnare dei campanelli della gonna. Teneva stretta una scatola di legno ed il sorriso raggiante faceva risaltare i denti bianchissimi in contrasto con la pelle abbronzata d’oro brunito.

«Non ci crederete mai, guardate cosa mi ha regalato William!» esclamò entusiasta, sventolando la suddetta scatola.

«Un contenitore per gli oggetti che non hai?» la istigò Sianna con un ghigno, solo per indisporla. E infatti Marion, sempre pronta a raccogliere le provocazioni, le fece subito una smorfia «Ovvio che no. Mi ha fatto dipingere delle carte nuove!»

Si avvicinò allo scrittoio e con impazienza fece scivolare disordinatamente tutto il contenuto sulla superficie di legno. Sianna scattò in piedi e si avvicinò imitata dalle gemelle.

«Ci sono tutte?»

La zingara era estasiata, le accarezzò piano, con la medesima dolcezza che una madre avrebbe dedicato nel vezzeggiare il proprio bambino, e quel sorriso sereno di bambina si schiuse lentamente e divenne così pieno e grande da sembrare quasi doloroso, i suoi denti erano perle incastonate tra le labbra papavero.

Sianna non poteva non guardarli sempre, scintillavano, le conferivano una bellezza misteriosa, esotica, arcaica come una di quelle antiche statue di bronzo dedicate agli dei e decorate di pietre preziose.

«Sembrerebbe di sì»

Anche lei si ritrovò ad allungare la mano per sfiorarle con la punta dei polpastrelli, a sentire la tempera in rilievo sporgere appena nel delineare figure anche per lei troppo note: il Bagatto, il Sole, la Temperanza.

Si soffermò qualche istante di più sulla carta dell’Angelo, seguì la forma del viso, i boccoli d’oro, la prese tra le mani per poterne ammirare l’eterea e delicata figura, l’espressione inflessibile e la tromba del giudizio tra le mani.

Se ne pentì all’istante, Marion già aveva trattenuto il respiro e socchiuso gli occhi vispi.

«Il Giudizio. Scelta interessante» commentò pacatamente. Poi, con l’atteggiamento inquisitorio di un cerusico esperto, si prese il mento tra le dita e la osservò con la fronte corrucciata in linee parallele «È dritta o al rovescio?»

«Per tutti i Serafini, no eh? Ti prego, non ricominciamo con questa storia. Non ho voglia di essere vivisezionata, devo andare a dormire, tra qualche ora Tanet verrà a chiamarmi e non chiuderò occhio nemmeno stanotte!»

«Di nuovo?» si lamentò Lisanda, e Sianna pensò che era comico come riuscisse a identificarsi con le vittime di quelli che lei riteneva soprusi, a ricordare che i mantra della sua vita erano pochi, ma precisi e fondamentali.

Ed il sonno rientrava tra questi dettami ferrei.

«Dritta o rovescia?» ribadì invece Mari.

Sianna si concesse un sospiro sconfitto e voltò la carta, in modo tale che fosse visibile a tutti «Sì, di nuovo. E sì, è dritta» borbottò.

Marion era così spontanea che ogni emozione le si dipingeva con estrema chiarezza in viso, e l’espressione gongolante, che accennava due fossette agli angoli della bocca, rivelò tutta la sua soddisfazione.

 

Ovviamente lo aveva previsto

 

«Ovviamente dritta» sottolineò infatti con un sorriso più grande «Prevedibile. E molto interessante»

Iris l’agguantò saldamente per un orecchio e lo tirò fino a strapparle un lamento non solo di sorpresa «Non fare la sibillina, piccola peste, dille quello che muori dalla voglia di dire, così possiamo ricominciare a fare quello che stavamo facendo»

«Non stavamo facendo niente» osservò distrattamente Lisy, ancora concentrata sul taglio che le segnava l’indice. In cambio ricevette un buffetto sulla testa.

«Non me ne lamentavo di certo!»

«Va bene Iris dico tutto, ma lasciami!»

Come due bambine domate da una madre intransigente, Marion e Lisanda misero il broncio.

Sianna intrecciò le braccia sotto il seno e abbozzò un ghigno provocatorio «Ti ascolto» esortò la più piccola. Marion sbuffò, si sistemò le pieghe della gonna e i campanelli tintinnarono ancora. “La musica delle fate”, così Kii chiamava quello scampanellio.

«È interessante perché significa “litigi e fraintendimenti”» chiarì la bambina, arrossendo appena.

 «E?»

Mari si morse le labbra «E io ho incrociato Ynyr, poco fa» lo disse con riluttanza, e subito si nascose dietro al corpo di Iris, ad usarla come scudo per proteggersi dalla sua espressione truce.

Lisanda le scompigliò i capelli affettuosamente «Il tuo intuito colpisce sempre nel punto giusto» la lodò, ma Sianna questa volta ne provò solo un affilato fastidio, una soddisfazione che non voleva concedere loro. Strinse i pugni, prese un grande respiro e decise di ignorarle. Diede loro la schiena e tornò a stendersi sul suo letto, premurandosi di tirarsi la coperta fin sotto il naso.

Le amiche l’avevano seguita con gli occhi in silenzio, in attesa di uno scoppio che, aveva deciso, non ci sarebbe stato.

«Non dici nulla?» la interpellò Lisanda. La sua voce non era limpida, c’era una nota velenosa, di fastidio compresso che sfociava nella rabbia. Anche quando percepiva in loro sentimenti molto forti, così prepotenti da strizzarle lo stomaco e le viscere, difficilmente riusciva comunque a sentirsi toccata. Era più che altro la nausea, la brutta sensazione che doveva combattere, un rigetto verso le emozioni altrui, sempre fin troppo invadenti.

Non aveva molto da dire sulla questione Ynyr.

Suo fratello era un tasto dolente che odiava sfiorare, perché semplicemente Ynyr stesso lasciava poco spazio alle parole. Non si erano più parlati dal giorno della commemorazione, a malapena si erano incrociati. Vivevano nello stesso monastero, eppure evitarsi era stato incredibilmente facile e spontaneo. L’indifferenza di suo fratello bruciava troppo perché le riuscisse di soffermarcisi sopra senza infuriarsi con il mondo intero, ed allora aveva deciso di fingere che non ci fosse mai stato.

Era un braccio di ferro, una sfida costante per ristabilire i precari equilibri della loro relazione, e per quanto Sianna sentisse la sua mancanza e avesse desiderio di andare da lui, per orgoglio e necessità non era intenzionata a cedere. Si teneva occupata per non darsi eccessivo pensiero, ma puntualmente qualcosa pungolava la sua coscienza per impedirle di accantonarlo.

 

Spetta a lui, solo a lui fare un passo indietro. Io ho fatto la mia parte, ci ho provato a sostenerlo, ad esserci nel momento del bisogno, ma è impossibile farlo se neanche mi parla.

 

«Insomma, fammi capire, siete di nuovo immersi in una delle vostre impossibili liti da cui è meglio tenersi lontane?» Lisanda si lasciò cadere sul suo letto, strappandole parte della coperta.

«Ho sonno»

«”ho sonno”» le fece il verso la ragazzina, e la gemella maggiore le diede man forte «Non puoi sempre fare così, è come avere a che fare con una bambina»

«Mai detto di essere adulta»

«Sei peggio di Mari»

«Ehi!» protestò con evidente indignazione la zingarella «Io non li faccio i capricci!»

Sianna sospirò pesantemente «Sentite, è semplice: non mi va di parlarne e non mi va di vederlo. Esattamente come non va a lui, tra l’altro»

«Che significa che sono immersi fino al collo in una delle loro discussioni impossibili»

Kea, rientrata proprio in quel momento, non si era lasciata sfuggire l’occasione di punzecchiarla, con il suo tono basso e divertito.

«Chiamatela come volete, non m’importa. Ora vorrei dormire davvero»

Cacciò la testa sotto la coperta e serrò le palpebre, nella speranza che le amiche cogliessero l’antifona. Sentì il peso di Kea aggiungersi sul materasso, accanto a Lisy. La mano della sua migliore amica le accarezzò confortante la spalla.

«Se può interessarti, nemmeno lui segue le lezioni dei novizi. Non esce praticamente mai, non so nemmeno cosa faccia, né dove lo tengano. Dovrebbe stare qui con noi, ma non occupa nessuna stanza per gli ospiti»

Sianna iniziò a rosicchiarsi con meticolosità le unghie «Lo sai come è fatto. Avrà trovato un modo per ingraziarseli tutti. Ynyr si rigira le persone come burattini, non mi meraviglia per nulla»

Realizzò che doveva realmente essere andata così e si rimproverò da sola, pensando che per tutto il tempo si era preoccupata per lui inutilmente. Era arrivata persino a credere che, forse, suo fratello non fosse stato bene, ma la realtà doveva essere ben diversa.

«Già, può essere. Alla fine si parla di Ynyr, per quanto odioso nessuno può dirgli di no» chiuse il discorso Kea. Si alzò e Lisanda, dopo un secondo di esitazione, la seguì.

Era una verità assoluta, nessuno poteva realmente negargli qualcosa.

E questo la faceva arrabbiare solo di più.

 

 

***

 

 

“Come puoi chiedermi di fingere di non starti tradendo?”

 

Degli occhi così caldi Sianna non li aveva mai visti. Erano iridi di sole, morbide di una tenerezza struggente, una carezza di velluto sul volto. La dolcezza di una mano candida che sapeva di protezione, di amore.

Seguiva con lo sguardo i movimenti delle dita lunghe ed eleganti, come se la sua esistenza dipendesse da quei gesti familiari che sembravano ricordi strappati ad una vita che non le apparteneva.

 

“… mi prenderò cura di te finché non sarai pronta. E anche allora, tesoro, non mi avrai perso…”

 

Si strinse le ginocchia al petto, affondò il viso tra le braccia.

I capelli di seta le ricaddero sulle spalle, un mantello morbido in cui trovare un rifugio che la proteggesse dal dolore di quelle parole.

Un dolore che non comprendeva per una tenerezza che non aveva mai conosciuto.

Sapeva poche cose, Sianna.

Sapeva che quelle erano le sue braccia, sue erano le gambe magre, sua la guancia che aveva ricevuto quella sfuggente carezza.

Sapeva che suoi erano quei capelli di fine argento.

 

***

 

Un passo stentato, un altro ancora, e per poco Sianna non cadde rovinosamente a terra. La trattenne per il mantello di lana qualcosa che realizzò con sgomento essere semplicemente una radice impigliata. Si raccolse con le braccia al petto, incastrando il cesto di vimini tra il polso e il seno per poter sfregare le mani sopra la veste, nel vano tentativo di produrre del calore.

Nonostante fosse Samhradh inoltrato e il Tempo della Mietitura fosse il più caldo dell’anno, la temperatura quella notte era calata bruscamente. Il vento frustava con le sue folate gelide e penetrava i vestiti leggeri per arrivarle fino alle ossa. Le tremavano le labbra, a tratti le battevano i denti.

Non riusciva ad auspicarsi situazione peggiore, gli occhi gonfi e rossi bruciavano dal sonno al punto che la vista le si appannava. Avrebbe potuto evitare quella caccia notturna solo se avesse piovuto, ovviamente si era augurata un temporale improvviso con ogni fibra del suo essere e, altrettanto ovviamente, come a farle dispetto, non era caduta neanche una goccia, neppure un sussurro di mal tempo. Non c’erano nuvole e le stelle erano particolarmente nitide.

Tanet camminava qualche passo più avanti. Era abituato ad orari improponibili e per questo era perfettamente sveglio e Sianna lo detestava e invidiava al contempo. Perlomeno aveva afferrato fin da subito che in quei momenti non doveva parlarle, doveva usare parole semplici solo se necessario ed entro una certa misura, o non sarebbe stata in grado di seguirlo, e su queste regole di basilare convivenza si basavano le loro escursioni notturne.

«Mettiti dritta! Se qualcuno ti vedesse, ti scambierebbe per un’amadriade. Ci mancherebbe solo questo» aveva sbottato Tanet ad un tratto, esasperato. Si sentiva spiritata e il suo corpo si muoveva più per istinto che per ragione, le palpebre si abbassavano come pesanti macigni impossibili da sostenere e a volte nemmeno se ne accorgeva. Capiva il fastidio del sacerdote, ma davvero non riusciva a costringersi.

Più dolcemente, il maestro aveva soggiunto «Non ti avevo raccomandato di dormire?»

Si stropicciò il viso debolmente «Io ci ho provato»

Sembrava una giustificazione fiacca, eppure era la verità.

«E cosa te lo avrebbe impedito?»

Cacciò uno sbadiglio che si mangiò metà della risposta, riuscì a biascicare «Incubi», poi inciampò in una radice e Tanet le afferrò il braccio prima che distruggesse il cesto e con esso tutto il contenuto, lavoro già di qualche ora.

Con uno sbuffo esasperato, il maestro l’aiutò a rimettersi dritta, la guardò negli occhi e accennò un sorriso «Sei il solito disastro»

La sua mano bronzea tra i capelli, in un goffo gesto d’affetto, era ormai familiare.

«Vuoi parlarmene?»

Sianna fece spallucce e si allontanò di qualche passo.

La distanza fisica l’aiutava a mantenere, banalmente, una distanza emotiva. Sollevò il bavero del mantello fin sotto il naso, cercando con un improbabile arricciamento delle labbra di farlo restare in quella posizione innaturale, per proteggersi almeno un poco la gola dall’aria fredda.

Non ci riuscì, e Tanet ancora la guardava, in attesa di una risposta.

«Anche volendo non ricordo granché» liquidò la questione.

Il maestro non insisté oltre e in quel silenzio sporcato d’imbarazzo ricominciarono la loro marcia notturna.

«Maestro, dove stiamo andando ancora?»

Tra uno sbadiglio e l’altro aveva avuto la lucidità di accorgersi che Tanet aveva imboccato un abbozzo di sentiero tra le sterpaglie che invece di rientrare si inoltrava ulteriormente nella boscaglia.

«Sulle sponde del fiume. Dobbiamo muoverci, l’aria si sta inumidendo troppo e vorrei raccogliere qualche radice»

Con un sospiro di disperazione Sianna si raccolse nelle proprie spalle, rattrappendosi come se potesse perdere dimensione e avere meno superficie a contatto con l’aria fredda. Lo scrosciare del fiume accompagnava i suoni inquietanti degli animali notturni, il bubbolare di un gufo, il frusciare del fogliame e delle frasche a causa del vento, il crepitio del terreno sotto i piedi esperti di Tanet. Il rumore di un ramoscello spezzato la fece sussultare, si voltò e si guardò attorno, ma non c’era nessuno e il maestro non aveva fatto una piega.

Con l’inquietante sensazione di avere mille occhi puntati addosso, si affrettò a raggiungere il giovane sacerdote.

L’acqua nervosa del fiume schiumava contro le rocce, il vento la trasportava in ventagli di gocce che le bagnarono il volto. La luce aranciata della luna piena filtrava appena dalla galleria di rami intrecciati che ricopriva il corso d’acqua, le ombre si distendevano in un effetto di contrasti, assumendo forme grottesche.

Quell’impressione di avere occhi che la seguissero non smise di infastidirla, come dita gelide che sfioravano la base del collo facendole venire la pelle d’oca. Tanet le passò la lanterna che li aveva guidati nell’oscurità affinché lo illuminasse mentre lavorava. Lo osservò sganciare il falcetto d’argento che portava sempre legato alla cintura per sezionare dei fiori. L’arbusto era affusolato e longilineo, le arrivava all’anca ma non ne afferrava il colore.

«Questa è un’Altea, ha ottime capacità emollienti ed è più facile trovarla lungo i corsi d’acqua. Ricordi la famiglia?»

Sianna si fece più vicina, per studiare meglio i boccioli che il maestro stava selezionando con cura: erano fiori bianchi, con la corolla a cinque petali a forma di cuore. Tanet li raggruppava in mazzolini che poi fermava con dello spago.

«Credo sia un malvaceo, giusto?»

«Giusto» le sorrise lui, poi trotterellò pieno di energia verso un’altra piccola piantina cresciuta a ridosso di un albero.

«Osserva questo. Il Tremolo è incredibile, vedi le radici come sono contorte? Arrivano molto in profondità e quando non possono più scendere, tornano in superficie e formano questo reticolo» illustrò estasiato, quasi sognante avrebbe detto Sianna, non fosse stato ridicolo per lei pensare che qualcuno potesse essere sognante per un’erbaccia infestante pure difficile da estirpare. Era privo di fiori, ma Tanet tagliò dei rami e raccolse gruppi di foglie.

Sianna non era molto utile, si limitava a seguirlo come un’ombra porgendogli ora la paletta, ora le corde. Lo osservava con attenzione mentre scavava attorno alle radici per estrarre dal terreno intere pianticelle. Il maestro la costringeva ad accompagnarlo per ragioni puramente didattiche: doveva solo guardare ed imparare, il sacerdote spendeva poche parole, si limitava a mostrarle il metodo, e per questo Sianna si costringeva a scacciare il sonno e a dare ad ogni gesto il giusto peso, anche se ad ogni sbadiglio gli occhi le si appannavano e non aveva fatto altro che sbadigliare da quando si era svegliata.

Talvolta, china su di lui, veniva distratta da un filo di pensiero sconnesso, un senso di straniamento che non poteva esimersi dal provare. Tanet era diverso, di una diversità visiva impossibile da ignorare. Non era un’impressione negativa, né fastidiosa, ma c’era, era difficile fare i conti con una differenza tanto palese. Quando gli camminava accanto, realizzava ogni volta come fosse la prima quanto fossero antitetici, e i primi tempi toccarlo era causa d’inquietudine, le sembrava quasi che avrebbe avuto al tatto una consistenza differente dalla sua.

Forse, era più vecchio di quanto apparisse, non era semplice inquadrarlo per via dei capelli scuri e la pelle bronzea come avesse bevuto il tramonto, una tonalità più intensa di quella di Marion, Lisanda e Iris. Tutto dei suoi lineamenti pigri camuffava un’età che doveva essere maggiore di quella di Eireen di almeno tre o quattro anni.

 

Deve venire da un luogo lontano, un posto dove c’è sempre il sole e deve fare caldo

 

«Non ci credo, del Tragoselino! Avvicinati Sianna» il tono puerile catturò di nuovo la sua concentrazione. Si accovacciò accanto a Tanet e lo osservò scavare ancora.

«Quello che sto facendo è un sacrilegio, le radici del Tragoselino andrebbero raccolte solo in Earrach, ma ne siamo privi al momento» parlottò più con se stesso che con lei. Lo faceva, quando voleva convincersi di non star facendo assolutamente nulla di male.

Una volta estratto dal terreno, fece pendere quell’intrico di filamenti e zolle di terra davanti ai suoi occhi «Questo è l’esempio perfetto di radice a fittone. Il fittone è il prolungamento del fusto e le radici secondarie si ramificano attorno, vedi?»

Il maestro aveva occhi scuri, che il riflesso guizzante della fiamma della lanterna faceva apparire neri e profondi, come quelli di Kea. Erano vividi di una luce che non era solo il fuoco, ma anche una passione costante che metteva in ogni cosa in cui si applicava. C’era qualcosa di commovente, quasi innocente, nel suo sorriso grande.

Quando ebbe concluso, si spartirono le ceste.

La notte si era quasi del tutto consumata, ma il sole sarebbe sorto di lì a molte ore e, fino a quel momento, le terre d’Ombra sarebbero rimaste in uno stato di sospensione tra l’oscurità e la luce, una fase onirica del mondo, in cui il tempo non scorreva ma si dilatava soltanto in un vuoto cangiante. I rumori angoscianti non erano cessati, Tanet non ci prestava attenzione probabilmente per abitudine, ma Sianna non poteva esimersi dal provare la sensazione di essere guardata.

La fiducia istintiva che sentiva per il maestro era l’unico motivo per cui non si era ancora precipitata urlante fuori dalla boscaglia.

«Maestro, posso farle una domanda?»

«Di solito non ti fai molti problemi a parlare» gli occhi si sbozzarono in mezze lune allegre e Tanet mosse il capo per rafforzare l’invito a proseguire.

«Ha imparato l’uso delle erbe da Eireen?»

Il sorriso non si spense, si fece se possibile ancora più grande, ma meno limpido. Forse erano solo le fiamme danzanti della lucerna a donare più ombre al suo volto, ma Sianna non ne era sicura.

«No, mi ha insegnato mia madre. Ero piccolo, era molto tempo prima che arrivassi nelle terre d’Ombra» scrollò rapidamente le spalle «Ma accanto a Eireen ho imparato molto, non conoscevo nulla di questa vegetazione»

Sianna annuì di riflesso, in realtà stava già valutando altro, stava realizzando quanto piccolo e limitato fosse il suo mondo e lei stessa, così minuscola da non riuscire nemmeno a concepire quanto potesse essere quel “lontano” dalla terra che le aveva dato i natali. Pareva impossibile che il mondo continuasse oltre Dubhar. Eppure, Tanet a volte parlava di cose irreali, quasi impossibili, e ne parlava con la nostalgia distratta di un ricordo che non voleva essere ripescato, ma semplicemente trovava da sé il modo di farsi strada nel presente.

«Se lei non è nato qui, come ci è arrivato?»

L’angolo della bocca del maestro s’inclinò in una piega più cupa, la voce però dissimulò quella lieve ondata di malinconia.

«Mi ha portato qui un’anziana signora, sedici, diciassette anni fa. È passato così tanto che nemmeno mi ricordo più quanto. Era una donna strana già allora, era forte e nodosa come una quercia, e sottile come uno stecco. Non ricordo tante cose, ma lei sì, nitidamente» sospirò, con una sfumatura di tenerezza quasi «Era incredibilmente rude, eppure mi accolse lo stesso. Per uno come me, che non aveva più nulla, persino quella vecchiaccia era l’immagine della salvezza! Con lei c’era Eireen quel giorno. Eireen è insopportabile lo so, ma era la cosa più familiare, per questo è stato facile seguirle e incominciare l’apprendistato qui, per non essere divisi»

Inclinò la testa per poterla guardare.

Sianna sentì il familiare nodo allo stomaco, la presa ferrea di una mano che le strizzava le viscere. Era la sensazione di una rassegnazione triste, quella che l’aveva assalita, una rassegnazione che era di Tanet e che pure anche lei avvertiva sulla sua pelle.

Sopraffatta da tutto quell’affetto, quel legame profondo che avvertiva come un filo tra i due sacerdoti, deviò lo sguardo e finse di prestare attenzione al terreno.

«Ho risposto a tutto, piccola curiosa?»

«Devi volerle molto bene»

Tanet sorrise e non rispose.

 

 

Il Tempo della Mietitura si era consumato in fretta e aveva ceduto il passo al Tempo della Battitura. Dai dolci pendii della collina su cui torreggiava il monastero, non si ammiravano più campi dorati, abbaglianti di grano maturo, ma solo stoppie lasciate a mezza altezza che davano l’impressione di un piccolo esercito perfettamente allineato.

Sarebbero servite per i pascoli, dopo: questo almeno le aveva spiegato il maestro. Dopo la Quarta festa dei Fuochi, era questo che intendeva, la causa della concitazione costante che fermentava nel borgo e rendeva gli abitanti entusiasti e pieni di vita. Nel suo precedente villaggio, forse per la collocazione in montagna tra i boschi, si festeggiava in maniera differente, ma a Lochlainn l’evento manteneva la sua precisa valenza di festa del Raccolto, la prima delle tre feste che avrebbero preceduto la Stagione delle Piogge.

In quel clima di gioia e scampanellanti campane che scandivano ogni ora della giornata, il suo malumore non aveva fatto altro che crescere. Tanet l’aveva esclusa da tutto quel tumulto entusiasta, ammirava i preparativi delle bancarelle del mercato, di spalti, di giochi e intrattenimenti, come una spettatrice annoiata. Addobbi vivaci si stendevano da un tetto all’altro, merletti vezzosi che decoravano le vie, e numerose lanterne di pergamena ritagliavano figure che la luce dei lumini proiettava nel buio della sera, emanando figure astratte antropomorfe o animalesche, in elaborati teatrini d’ombra che intrattenevano i bambini estasiati.

Le capitava di soffermarsi ad ammirare gli artigiani intenti in quel lavoro così artistico, ma il maestro le permetteva sempre scarse interazioni con chiunque non fosse Eireen, Arfon o le sue amiche.

«Servi a me» l’aveva rimproverata una volta, tagliando corto qualunque suo tentativo di protesta. I suoi servizi erano stati in realtà estremamente limitati e banali. Qualche giorno prima, Tanet l’aveva costretta ad un’estenuante raccolta di mirtilli. Avevano riempito così tante ceste che Sianna aveva facilmente perso il conto.

«È una credenza importante, se i mirtilli sono abbondanti, allora anche il raccolto lo sarà. Ogni dolce sarà a base di mirtilli»

A lei nemmeno erano mai piaciuti «Esistono seriamente persone che ci credono?»

Il maestro l’aveva soppesata con incredibile serietà, gli occhi seri e indagatori si erano ristretti sotto le sopracciglia ad ala «Non è strano che i contadini ci credano. È strano che tu non riesca nemmeno lontanamente a considerare che sia vero»

Non si era spiegato oltre, e Sianna si era dovuta limitare ad ingoiare tutto il proprio scetticismo sotto l’ennesima coltre di frustrazione.

Seguendo sempre le orme di tradizioni per lei prive di logica, si ritrovava quel giorno alla ricerca di vischio di quercia. Quando lo avesse trovato, insieme a Tanet ed Eireen avrebbe intrecciato le corone sacre che le sacerdotesse avrebbero indossato la sera della festa, per i sacri riti degli Oracoli e i Giudizi dell’Assemblea. Aveva trascorso la mattinata in quella ricerca esasperata, ma né lei né Tanet erano venuti a capo del problema, quel vischio era particolarmente raro e iniziava ad annoiarsi.

«Ho l’impressione che mi stiate tenendo buona» diede un calcio ad un sassolino che intralciava il suo cammino e questo rotolò pigramente poco più avanti, finendo inghiottito da un cespuglio.

«Soffri di egocentrismo, Sianna Eilan»

Sentire il suo nome completo le causava una smorfia istintiva, aveva il retrogusto dei rimproveri di sua madre. Guardò Tanet di sottecchi, per un momento valutò di essere onesta e di dirgli che non gli credeva nemmeno per errore, che lo percepiva quando le mentiva ed era inutile tentare d’ingannarla se poi palesava le sue emozioni in maniera tanto cristallina. Però non lo fece, sospirò con aria sconsolata e si limitò a borbottare «Sarà, ma inizio a pensare che non lo troveremo mai»

Il maestro rimase in un silenzio meditabondo per qualche istante.

«Possiamo sempre imbrogliare»

Sianna s’irrigidì ed un’espressione di puro turbamento si disegnò sul suo volto quando Tanet rise sfacciatamente «Guarda che non è mica una cosa tanto grave! Il vischio è vischio, nessuno se ne accorgerebbe. E poi, non ho mai creduto molto in queste pratiche»

«Come sarebbe a dire che non ci crede? Se l’ultima volta, con quegli stupidi mirtilli, mi ha fatto passare per un’eretica! Sembrava una questione di vita o di morte a sentire voi»

Tanet abbozzò un sorrisetto sornione «Beh, non è necessario che noi ci crediamo, basta che loro lo credano per renderlo reale, no? Da’ loro del vischio qualunque e ci vedranno la magia»

Sianna arricciò le labbra in un’abituale smorfia di disappunto «Sarà, ma non ne sono proprio convinta»

Si guardò attorno, più per non prestare attenzione al cinico individuo che le camminava accanto con pacatezza fin troppo ostentata, che per concentrarsi sulla loro ricerca. Non ci credeva a quelle usanze, ma non le piaceva ingannare e avrebbe preferito evitarsi il disagio di doverlo fare. In quell’istante un lampo di luce sinistro balenò in lontananza, tra le foglie. Il tempo di vederlo, e già era scomparso, Sianna s’immobilizzò, folgorata dalla familiarità di quella sensazione.

Tanet nel mentre sbuffava «Possiamo sempre tenerla come ultim…»

«L’ha vista?» lo interruppe senza nemmeno accorgersene.

Il maestro inarcò un sopracciglio «Che cosa?»

Esitò, si guardò ancora intorno. Temeva di essersi immaginata tutto, ma poi, di nuovo, un’improvvisa sfera di luce comparve e venne inghiottita dal verde.

«Eccola!» lo urlò che già aveva iniziato a correre, prima che Tanet potesse capire ed acciuffarla. Corse a perdifiato, saltando le radici e scostando con le mani i rami, la braccia portate avanti per difendersi il volto da quelle dita raggrinzite e acuminate che le frustavano la pelle nuda. Sfondò una barriera di edera che ricadeva poeticamente dagli alberi e creava l’effetto di un velo, incespicò e cadde. Rotolò sgraziatamente e quando finalmente l’attrito arrestò il rovinoso scivolone, Sianna si ritrovò distesa supina a fissare un cielo azzurro, incredibilmente limpido.

La sfera di luce era scomparsa, stordita realizzò che forse non c’era mai stata, che si era fatta ingannare da un suo personale desiderio. Si mise a sedere e si ricompose un poco, sbattendo la tunica lacera sulle ginocchia e già sporca in maniera indecente, poi tornò a guardarsi attorno e le mancò il fiato per la meraviglia e la sorpresa.

Era capitata in una piccola radura delimitata da un anello di querce.

I raggi di sole penetravano a macchie dalle frasche ed avevano la sfumatura delicata di una nebbia verde, il caprifoglio selvatico cresceva rigoglioso, si attorcigliava lungo i tronchi degli alberi con la stessa sacralità ed eleganza di un fregio scolpito nella pietra. Sotto di lei il terreno era morbido di umidità, muschio e pioggia, lo tastò con le punte delle dita e senza pensarci troppo tornò a distendersi. Lo squarcio di cielo fiordaliso feriva la composizione delle cime arruffate degli alberi come un taglio sanguinante estate e calore.

Chiuse gli occhi, serrò le palpebre e restò in silenzio, in attesa, a crogiolarsi in quel sentimento strano di pace e amarezza insieme, nell’essersi illusa di aver riconosciuto e trovato qualcosa che aveva perduto.

Aveva seriamente pensato che quella luce fosse lui, ma se ci rifletteva attentamente, non era possibile, lo capiva. Alla fine Tanet la raggiunse, spuntando da un cespuglio con l’aria arruffata, il volto contratto dallo sforzo e dal sudore e il fiato corto. Si liberò dei rametti impigliati nella propria casacca inveendo tutto il suo fastidio, Sianna lo studiò con la coda dell’occhio e alla fine si lasciò andare ad una profonda risata.

«Piccola disgraziata! Non farlo mai più!»

«Maestro, lei è troppo scettico e non ha pazienza» lo rimbeccò bonariamente con un accenno di sorriso sulle labbra, mentre ascoltava i rumori dei passi affrettati del sacerdote che la raggiungevano.

«E questo che vorrebbe dire?»

Sianna sollevò pigramente la mano, ad indicare con l’indice teso le querce che delimitavano la radura: tra le ramificazioni più alte spuntavano sfere perfette di vischio.

«Ah»

«Eh» rise lei.

«Sono solo pratico. Su, alzati, prima finiamo questa storia, prima posso tornare a fare il mio lavoro»

«Che sarebbe dire a me quello che devo fare?» lo pungolò ampliando il suo sorriso sfacciato. Tanet scrollò le spalle, le mise bruscamente una mano fra i capelli e sfregò con forza, strappandole una lamentela tra le risate. Quando la liberò era arruffata come un gufo irritato, la chioma annodata le ricadeva dovunque, sopra agli occhi, rendendo il suo aspetto, già discutibile, terribilmente tragico.

«Dovresti legarti questa chioma indomita, prima di poterti lamentare»

Si alzò scrollandosi come un animale bagnato «Non c’è alcun legame tra le due cose» ribatté saccente, e Tanet liberò l’ennesimo, esasperato sospiro.

Ignorandola, si concentrò sui cesti intrecciati che portava al braccio e recuperò un falcetto rituale d’oro avvolto in un panno. Glielo porse con un ghigno «Già che sei così onesta e attaccata alle tradizioni, a te va il compito di salire là sopra a recuperarlo. Usa questo senza farti problemi»

Sianna deglutì a fatica un abbondante blocco di saliva, quasi solido nella bocca d’improvviso secca. Accarezzò con gli inquieti occhi azzurri la quercia in tutta la sua imponenza, comprese quelle buffe palle di vischio grandi quanto la sua testa, dai contorni perfettamente definiti che sembravano decorazioni naturali. Anche solo l’altezza dei rami più bassi le faceva provare una nausea discreta.

«Non vorrei mai privarla di un simile onore» la voce tremola, appena venata di panico, la tradì.

«Sianna Eilan, non avrai paura spero!»

Le guance le bruciarono di umiliazione «Certo che no! L’ho fatto centinaia di volte! Forse dimentica dove sono cresciuta, io ci sono nata tra gli alberi» che l’altezza la terrorizzasse, quello lo tenne per sé. Afferrò il falcetto, lo legò alla corda in vita, e si appigliò ad un nodo del legno con cui si aiutò a issarsi.

Da bambina lo faceva spesso, senza alcun timore. Un giorno però, uno strano senso di vertigine l’aveva presa a tradimento, le era sembrato di trovarsi distante mille braccia da terra, si era sentita cadere e schiantare ed il dolore era stato tanto forte e terrorizzante che, nonostante avesse realizzato di essere al sicuro, era rimasto dentro di lei un riverbero, una sensazione di già vissuto. Da quel momento, era sto difficile fare fronte a quella paura ancestrale, radicata con una forza destabilizzante in lei senza ragione alcuna. Negli anni, se possibile, si era acuita, ma il suo smisurato orgoglio abbacchiato non riusciva ad accettare quel limite immotivato e a modo suo, con testarda caparbietà, si era fatta violenza per gestirla.

«Adesso vedrà»

«Non borbottare»

Raggiunse i rami più bassi, si protese, si aggrappò ad una sporgenza e arrivò ad una biforcazione nella quale sostò. Sotto le sue dita, il muschio umido e viscido si mischiava al ruvido della corteccia. Prese fiato e ricominciò la scalata.

 

Non guardare giù

 

Giunta alle fronde più alte, scelse un ramo solido e lo percorse strisciando sulla pancia, abbracciata saldamente al tronco largo.

«Posso sapere che stai facendo?»

Sianna si morse la lingua, per evitare di dare una risposta poco consona che l’avrebbe costretta a guardarlo. Il maestro però, perverso sadico che adorava infierire, ridacchiò con scherno abbastanza forte da farsi sentire. Strizzò le palpebre decisa a non guardare in basso, rossa d’imbarazzo, e proseguì fin quando qualcosa non le pizzicò il naso, causandole un istintivo starnuto. Spalancò gli occhi e con sorpresa si ritrovò con la faccia quasi infilata in una palla di vischio. Balzò all’indietro, quasi perse l’equilibrio e la risata divertita di Tanet la raggiunse ancora.

«Maestro, è arrivato il momento che qualcuno le dica la verità: lei non è divertente, neanche un po’!»

«Io mi trovo abbastanza divertente»

Sianna arricciò il naso «Avessi mai visto qualcuno ridere» ribatté ostica. Il Maestro tacque, Sianna riuscì a percepire tutta la sua indignazione.

«Muoviti piccola serpe o giuro che ti lascio qui»

«Con il rischio di divenire spergiuro? Lo sappiamo entrambi che non mi lascerebbe mai qui da sola» ribatté, fingendo una sicurezza che non era certa di provare. Si mise a cavallo del ramo e iniziò a tagliare i rametti di vischio colmi di bacche bianche, traslucide. Le lasciava cadere nel vuoto ed il maestro si affrettava a recuperarle tra un borbottio e l’altro. Non le ci volle molto per concludere il lavoro, ad un tratto Tanet la invitò a scendere «Ne abbiamo a sufficienza, muoviti»

Un panico traditore le afferrò la nuca in un moto di nausea, le strizzava le viscere in spasmi sgradevoli. Guardò in basso, spontaneamente, e la presa di coscienza improvvisa dell’altezza fece fare al suo stomaco una spiacevole capriola. La vertigine le tolse il fiato, provò ancora quell’immediata sensazione di precipitare nel vuoto, il dolore alla schiena e lo schianto.

Il rumore del tonfo, le sue ossa che si spaccavano contro il suolo.

Sangue, piume insanguinate e lacrime per un male allucinante che la annichiliva.

Si attaccò istintivamente al ramo, lo abbracciò stretto.

«No!»

Tanet ridacchiò «Dai, sciocca, vieni giù!»

Strizzò gli occhi per trattenere il pianto e il magone che le serrava la gola «No!» ribadì risoluta «Non voglio!»

L’ansia che provava era tale che non le riusciva di percepire la presenza del maestro, tantomeno le sue sensazioni o la perplessità che comunque le riusciva di immaginare sul suo volto grazie al peso del suo silenzio.

«Ma stai scherzando?»

«No!»

«Va bene, allora prova a calmarti e respira profondamente. Non puoi mica restare lassù!»

«Vogliamo scommettere?» lo sfidò per orgoglio, ma già non riusciva più a controllare il respiro, il cuore batteva impazzito contro il costato. Era una paura strana, che non era legata solo alla sensazione del cadere, ma all’impressione di qualcosa di catastrofico nella caduta.

«Vuoi davvero rimanere lì?»

«Certo che no!»

«E allora perché diavolo non scendi?»

«Perché non voglio» ringhiò disperata.

La voce di Tanet si aprì ancora un varco nella sua mente annebbiata dall’attacco di panico «Hai davvero paura delle altezze?» l’ilarità che permeava quella sua domanda retorica la irritò e la fece scattare sulla difensiva

«Assolutamente no!»

«Senti, vengo a prenderti»

«No!» alzò la testa di scatto, per riflesso, ed un senso di profonda vertigine le offuscò la vista, un capogiro improvviso a tradimento che non aiutò il suo stomaco provato: prima che potesse trattenersi, stava già rigettando la colazione.

Tanet urlò con disgusto «Ma che schifo! Sianna, è una cosa rivoltante!»

Il sapore amaro della bile aumentò la nausea, le impastò la bocca e si sposò con l’umiliazione più cocente della sua vita. Come fuori dal suo corpo, si vedeva a terra, una bambola spezzata ed inquietante, sanguinante nei suoi arti fuori posto.

Un giocattolo grottesco intriso di sofferenza. Non capiva cosa le succedesse, ma quell’immagine diventava sempre più viva e terrificante nel tempo, ed ora a terra non vedeva Tanet, vedeva quest’altra se stessa in agonia e le mancava il fiato «Se ne vada. Farò da sola, vada via!»

Voleva affrontare quella chimera, quello spirito che la perseguitava come fosse infestata dall’anima di un morto che condivideva con lei, per ragioni sconosciute, il trauma della sua morte. Non si era trovata altra spiegazione a quella fobia che non le apparteneva, ma non avrebbe mai potuto spiegarlo al maestro senza risultare pazza, e quindi le rimaneva solo il disagio della costernazione più totale.

Tanet esitò «Aspettami qui» borbottò infine «Vado a recuperare una scala e torno»

Ascoltò il rumore dei suoi passi che si allontanavano farsi più leggeri fino a sparire. Si ritrovò sola, prese un grande respiro, si pulì la bocca screpolata con la manica logora del proprio abito e tornò a guardare in basso la carcassa visionaria di quell’anima morta. Lentamente, in un movimento che pareva uno sforzo logorante, quel corpo devastato inclinò la testa, la fissò negli occhi.

Le sue iridi eterocrome erano inconfondibili anche da quella distanza, Sianna ne rimase quasi incantata, ricambiò quello sguardo duro e profondo che non sembrava appartenere ad un essere mortale, che stonava con il dolore che le sue membra sfracellate emanavano.

 

Chi sei tu?

Perché sembra tanto che tu non possa provare dolore, se è la paura del tuo dolore a paralizzarmi?

 

Se lo era chiesto ogni volta che aveva affrontato quell’entità invisibile a chiunque, perfino agli spettri. Forse non era uno spirito, non era reale, era solo una sua delirante visione, eppure si faceva più concreta e chiara quando capitava che Sianna la richiamasse. Quegli occhi distanti di una freddezza ultraterrena erano sufficientemente inquietanti da darle almeno il sollievo di sapere che erano troppo lontani e quella donna era troppo distrutta per potersi avvicinare a lei.

Lo scricchiolio di un ramoscello spezzato ruppe il contatto visivo che aveva instaurato con la propria visione.

Come si era formata, la donna scomparve, ma non l’inquietudine che l’attraversava in scosse nervose. Si guardò inquieta attorno, sollevò la testa arruffata e con sua sorpresa vide accanto a sé una familiare e diafana sfera di luce. Era quasi camuffata dai raggi solari di quella giornata serena, ma Sianna la conosceva troppo bene per potersi confondere.

Con meraviglia si rese conto che non l’aveva immaginata, era stata la sfera stellata a condurla in quella radura, anche se sembrava impossibile.

«Non può essere»

Allungò le dita bianche per sfiorare la superficie del globo. Era morbido come pelliccia, emanava un calore tale da intorpidirle la mano di un tepore dolce e familiare. Era senza dubbio una Hoshi no Tama.

«Kii?» chiamò piano, incerta.

Si guardò ancora attorno, sentiva dei rumori, come se qualcuno si stesse arrampicando sul tronco della quercia. Raccolse il suo coraggio e fece scivolare le gambe a cavallo del ramo. Si voltò, chiamò ancora «Kii, sei davvero tu?»

«Posso sapere cosa ci fai qua sopra?»

I muscoli le si irrigidirono e quasi perse l’equilibrio per lo spavento.

Si era aspettata l’imprevedibile, ma non di ritrovarsi faccia a faccia con suo fratello. Ynyr compì un ultimo balzo e si issò sul ramo davanti a lei, accovacciato come una pantera, le sopracciglia bionde corrucciate e quella sua aria insofferente nella piega della bocca, nelle palpebre socchiuse in una flemma annoiata. I ciuffi ribelli della frangia gli nascondevano la fronte e parzialmente gli occhi.

«Ti rigiro la domanda!» esclamò incredula.

Trasecolò se possibile ancora di più quando vide fare capolino, dalla spalla del fratello, il musino rosso e bianco, adorabile e dolce, di una piccola volpe dagli occhi intelligenti e l’espressione impertinente «E cosa ci fai con Kii!»

Ynyr si sfregò la casacca nera che gli ricadeva larga sul corpo magro, la fissò intensamente per un lungo, pesante istante, e le sue pupille scure, minuscoli puntini in campo azzurro, ripercorsero la sua figura, soffermandosi troppo sulle sue gambe scoperte dall’abito che si era arrotolato quando si era arrampicata. Quell’occhiata la rese consapevole dello stato poco decoroso nel quale versava, Sianna si sentì nuda e cercò goffamente di riabbassare l’orlo della gonna il più possibile.

Fu solo un momento, subito il fratello chinò il capo e deviò la sua attenzione, a disagio.

«La tua palla di pelo» soffiò con fastidio «Mi sta addosso da giorni. Ti ha portata qui per incontrarti, quando ti ha visto da sola qua sopra ha iniziato a tormentarmi»

Afferrò la piccola volpe per la collottola e se la scrollò di dosso, poi gliela porse con lo stesso tatto che si sarebbe potuto dedicare ad un oggetto, più che a un animale «Riprenditela, o ci faccio una pelliccia»

Sospeso nel vuoto, Kii dimenò le zampine all’aria in segno di protesta, soffiando buffi suoni.

«Ynyr, non trattarlo male!»

Sianna recuperò la kitsune e se la strinse al petto, lasciando che Kii le leccasse il volto in un raro gesto di tenerezza. La sua Hoshi no Tama continuava a veleggiare sospesa sopra le loro teste, si muoveva come trasportata dalla brezza, sembrava davvero un sole o una piccola stella, uno spettacolo che aveva il dono di affascinarla sempre.

«Non ci credo che sia davvero qui! Perché non me lo hai detto? Pensavo non lo avrei più rivisto!» doveva essere un rimprovero, eppure le era sfuggita tutta l’esasperazione, la disperazione per quei lunghi silenzi e l’improvviso astio di suo fratello, che proprio non riusciva a spiegarsi.

Il viso d’Ynyr non mutò, né si fece strada almeno un piccolo accenno d’espressione, una ruga.

«Non è un mio problema» la liquidò pacatamente «E comunque, non impari mai la lezione»

Punta sul vivo, Sianna riprese pienamente coscienza di dove si trovasse e il colore defluì dal suo volto. Che il fratello poi le lasciasse intendere, con il suo atteggiamento, che non era disposto a scherzare o a chiacchierare amabilmente, abbassò ulteriormente il suo morale. Si portò la mano alla bocca, per trattenere un conato e nasconderlo.

Le sopracciglia di Ynyr si aggrottarono «L’hai vista ancora?»

Annuì piano e lo vide sussultare. C’era una sorta di inquietudine in lui, ma il fratello era l’unico con cui il suo dono, la sua eccessiva percezione, non funzionava, e per questo i suoi pensieri erano a Sianna sempre oscuri e indefiniti.

«Ti ha avvicinato?»

«No» esitò, prese un bel respiro «Ma mi ha guardata, stavolta. Dritta negli occhi, mi vedeva come io vedevo lei»

Anche Ynyr scolorò e per un momento sembrò smarrito. Le afferrò bruscamente il polso, strinse con troppa forza «Non permetterle mai di avvicinarsi a te. Qualunque cosa succeda, non importa quanto tu sia curiosa. Non permetterle mai di toccarti, chiaro?»

Spaventata, Sianna si affrettò ad annuire ancora.

Non era la prima volta che Ynyr la metteva in guardia su quell’ancestrale creatura, ma non c’era mai stata in lui una tale urgenza, una simile ansia. Lui non la poteva vedere, eppure sembrava spaventato da lei come se sapesse qualcosa che a Sianna sfuggiva, e questo era l’elemento di maggiore disturbo in tutta quella faccenda.

Rassicurato, Ynyr seppellì nuovamente qualunque forma di umanità dietro la sua inscalfibile facciata. Le diede la schiena, e con un semplice gesto del capo le fece capire di avvicinarsi.

Sianna abbracciò stretta la volpe, per farsi forza, poi la liberò perché il piccolo spettro potesse abbarbicarsi sulla sua spalla. La kitsune la circondò con la sua coda vaporosa e quando Sianna la sentì affrancata, in maniera anche abbastanza dolorosa, si accostò al fratello, gli gettò le braccia al collo e si agganciò con le gambe intorno alla sua vita.

Ynyr sospirò di incomprensibile frustrazione quando lo strinse, poi si mosse e Sianna chiuse gli occhi per non vedere il vuoto sotto di sé mentre il fratello la portava giù da quella quercia infernale.

Non appena il ragazzo toccò suolo le appoggiò le mani sulle cosce e fece pressione per invitarla a scendere. I muscoli della sua schiena si contrassero in uno strano spasmo, una postura rigida, come se qualcosa non andasse, come ci fosse un pensiero che non poteva condividere con lei, perché non era in grado di comprenderlo. C’erano molte cose di lui che le erano sempre sfuggite nonostante fossero cresciuti assieme e fossero molto uniti, in quei momenti di straniamento Ynyr sembrava perdere l’uso della parola, era incredibile allora come i suoi occhi riuscissero ad allontanarsi dal mondo e a risultare spietati. Quella sua capacità di provare indifferenza a comando la feriva più di quanto fosse disposta ad ammettere.

Scese a terra e le gambe le cedettero. Si lasciò cadere nell’erba morbida e rivestita di muschio, Kii si innervosì e le conficcò le unghie nella schiena. Ci era abituata, ma faceva male lo stesso.

Ynyr le rivolse uno sguardo laconico.

Non si parlavano dal giorno della commemorazione, Sianna pensò che fosse il giusto momento per porre fine a quell’insensata separazione, ma suo fratello le diede la schiena e si allontanò senza aggiungere una parola.

«Ma… davvero?» gli urlò contro furiosa.

Tornò a guardarla da sopra la spalla, l’incarnazione della sufficienza e della presunzione «Vuoi qualcosa?»

«Sei serio?»

Ynyr abbozzò un sorriso di scherno «Riformulo: ti aspetti qualcosa?»

Ringhiò «Figurati» e si sforzò di regalargli il medesimo ghigno sfrontato «Da te assolutamente nulla»

 

Non ti dico dove puoi metterti il “grazie” che da idiota pensavo pure di doverti!

 

Il fratello scrollò le spalle e quella sua aria laconica e enigmatica la caricò di dubbi e perplessità che proprio non trovavano ragione

«È un sollievo. Kii, fa’ in fretta, non ho tutto il giorno» lo osservò raccogliere una grande sacca appoggiata a terra, ai piedi della quercia, e andarsene senza mai voltarsi.

Kii scese a terra con un elegante guizzo, una fiamma rossa e bianca. La sua Hoshi no Tama li aveva seguiti pigramente illuminando di un bagliore spettrale le ombre degli alberi e i fili d’erba. La Kitsune si sporse, l’annusò, spalancò le fauci e la ingoiò tutta intera. Il suo corpo si sfamò di quella luce, la assorbì e divenne tanto brillante da essere insostenibile. Sianna chiuse gli occhi e si nascose dietro il dorso della mano. Fasci luminosi filtravano tra le dita e le rischiaravano di rosso.

Aspettò che la fonte di luce si consumasse, poi sbatté le palpebre per eliminare i puntini e le macchie arancioni impresse nella cornea: davanti a lei non c’era più un animale, ma un ragazzino rannicchiato, con il volto celato da una grottesca maschera dalle fattezze di una volpe. Bianca, lucida, con la bocca atteggiata ad un ghigno inquietante e gli occhi sottili, due linee chiuse di un muso dormiente. Il corpo rachitico, dalla linea irregolare e la schiena ricurva di un animale pronto a scattare, era celato da un abito che arrivava alle caviglie. Le maniche larghe lo ricoprivano interamente, nascondendo le mani sottili, quelle dita lunghe e affilate che Sianna aveva imparato a conoscere, e un’ampia cintura fermata con un nodo sul davanti gli stringeva la vita, accentuando la sua figura efebica.

I piedi erano nudi e sporchi di terra, aguzzi, ma il ragazzino mascherato non vi prestò alcuna attenzione, rimase indolente, immobile, a fissarla attraverso una maschera che poco gli concedeva di visuale. Sianna lo afferrò bruscamente per la collottola e quasi lo sollevò da terra, portando il proprio viso ad un soffio dalla maschera bianca.

«Mi devi parecchie spiegazioni, Kii, o mi sbaglio? Cosa ci fai con mio fratello?» osservò l’enigmatica espressione pacata della maschera e per qualche ragione si alterò «Anzi, cosa ci fai tu, qui?»

La domanda uscì permeata di fastidio, nonostante in realtà fosse più che felice di ritrovare la kitsune. Era la confusione e il risentimento che suo fratello le aveva lasciato addosso ad alterarla, riuscendo perfino a sormontare e cancellare la curiosità e l’entusiasmo che l’avevano spinta ad inseguire una sfera stellata.

Il ragazzo volpe sghignazzò beffardo, la mano artigliata scostò la maschera e la poggiò sulla testa, a mostrare un volto efebico quanto il suo corpo, affilato, con gli zigomi alti costellati di efelidi, la bocca tagliente e vagamente ferina, le sopracciglia sottili e gli occhi sanguigni ravvicinati. La chioma bianca che sfumava nel fulvo sulle punte era corta e scompigliata, la maschera aveva schiacciato un’orecchia pelosa che spuntava tra le ciocche ribelli, residuo della sua natura di fiera. Tutto di Kii faceva pensare ad un astuto animale inselvatichito, non ad un ragazzino di non più di tredici anni.

La kitsune, a tradimento, azzerò la distanza tra i loro volti e le leccò le labbra. Sianna lo respinse bruscamente, imprecando «Sei il solito maledetto»

Kii atterrò come un animale avrebbe fatto, si piegò sulle ginocchia e inclinò il capo, soppesandola in silenzio.

Allora, Sianna si pulì la bocca con il dorso della mano e sospirò «Come fai ad essere qui?»

«Vi ho persi»

Non era abituata a sentire la sua voce reale e non solo interiore. C’era ancora il rimasuglio di un latrato acuto che la rendeva poco umana, nonostante l’articolazione dei suoni.

«Ho fiutato il vento per settimane, prima di ritrovare la scia del tuo odore»

«Ci hai persi?»

Kii si grattò flemmaticamente la guancia con il polso, socchiuse gli occhi taglienti, così simili alla sua controparte animale che per un attimo le due immagini si sovrapposero e il ragazzo assomigliò in modo inquietante alla sua maschera statica.

«Sì, il giorno dopo quella notte. I tuoi umani ti hanno portata via»

«Con i miei umani intendi Daniel e Henry, suppongo. Non capisco perché mi hai cercata comunque, hai abbandonato la valle. Non pensavo potessi allontanarti dalle altre kitsune»

Erano così poche, le volpi in grado di diventare yokai, dovevano riuscire a sopravvivere oltre i cinquanta, a volte i cento anni, e i clan di kitsune si facevano sempre più ristretti nel tempo, molti erano scomparsi. I cuccioli come Kii erano custoditi gelosamente, erano un lascito, la speranza di una continuità.

Il ragazzino però non sembrava curarsene «Ordini. La mia padrona mi ha detto di trovarti, dovevo assicurarmi della tua incolumità»

Kii e Ynyr avevano, a modo loro, qualcosa in comune: il tono inespressivo con cui erano soliti esprimersi.

Certo, la kitsune aveva perlomeno la scusante di non essere umana, un’attenuante che suo fratello di certo non poteva vantare. Si chinò sul ragazzino e gli scompigliò affettuosamente i capelli selvaggi «La tua misteriosa padrona, sempre lei eh? Tornerai da lei ora?»

Più come un gatto che faceva le fusa, piuttosto che una volpe, Kii sfregò la testa e la guancia contro la sua mano, con un movimento languido del capo e gli occhi socchiusi «No, è presto. Devo stare qui e controllarti»

Continuò ad assecondare i suoi vanitosi bisogni di attenzione, pur se accigliata «Ma perché Ynyr? Tu non lo sopporti. Potevi venire direttamente da me»

Il ragazzino arricciò il musino e si ritrasse bruscamente, con stizza e un uggiolio gutturale in gola «Tu sei sempre circondata da troppi umani»

Era un discorso trito e ritrito, Kii si risentiva quando non poteva avvicinarla, anche in passato, per colpa degli uomini. Ne aveva un terrore atavico, quasi incomprensibile per lei, e questa paura causava un paradosso assurdo: Kii la cercava solo quando sapeva di non poterle parlare, era un suo metodo per farla sentire in colpa e vincolarla a lui, da piccola volpe viziata e capricciosa qual era.

Il suo sbuffare la fece ridere «Sono umana anche io» gli rammentò sorridendo.

La volpe ghignò ancora, mostrando una chiostra acuminata di denti «Un altro tipo di umana, certo»

Lo osservò mentre si stirava, distendeva le braccia a terra a cacciava un grande sbadiglio, come se un animale lo fosse ancora. Nonostante l’apparenza, proprio non riusciva a limare i suoi aspetti più primitivi, né a nascondere la propria coda e le orecchiette pelose e morbide. Ancora non sapeva gestire il suo camuffamento, per questo non gli piacevano gli uomini, non era in grado di celarsi tra loro come facevano invece i membri più anziani della sua specie.

Nei suoi movimenti oziosi, la Hoshi no Tama, dalle sembianze ora di una grossa perla legata con una catenina al suo collo, scivolò fuori dall’abito e penzolò mollemente nel vuoto.

Sianna ebbe come un’illuminazione «Come hai fatto a ritrovarla? L’avevi affidata a me, ed io pensavo di averla smarrita quella notte»

Quando si era risvegliata era a Lochlainn, le ci erano voluti giorni per recuperare quanti più frammenti possibili di memorie, e solo successivamente si era accorta di aver smarrito la sfera stellata dell’amico, troppo tardi per poter fare qualcosa a riguardo.

Kii sbatacchiò le grandi orecchie, i capelli erano candida neve sporcata di rosso, gli occhi sanguigni si socchiusero e la studiarono con una perplessità fin troppo manifesta.

«Non l’hai persa, me la sono ripresa. Io ero lì» inclinò il capo «Ma tu non lo ricordi. Deliravi. Tu non hai riflessi, non hai memorie, devo sentire per te se non senti da sola»

Sianna sbatté le palpebre confusa davanti a quella raccolta di parole senza senso.

 

Io non ti capisco, non ti capirò mai maledetto spettro

 

E non poteva nemmeno sperare che chiedere le avrebbe fruttato almeno qualche risposta e non solo un’altra sfilza di domande.

«Kii?»

«Mhm»

«Un giorno me lo dirai perché la Dama del Lago ti ha mandato da me?»

Non si riferiva semplicemente a quel momento, ma già ai loro primi, destinati incontri. Kii sbadigliò ancora, mostrandole l’antro della bocca, i denti aguzzi come stalattiti e stalagmiti affilate, poi le sorrise scaltro «Ci piacciono certi tipi di umani» rispose sibillino, infrangendo in lei qualunque speranza di sottrargli qualche verità.

Rassegnata si mise a sedere a terra e incrociò le gambe. Studiò il terreno e individuò un bastoncino, con quello tra le dita iniziò distrattamente a disegnare nel terriccio umido, spodestando zollette di muschio. Il ragazzo volpe si acciambellò accanto a lei e poggiò la testa sulle sue cosce, con un gorgoglio soddisfatto simile a delle fusa.

Sianna si bloccò, lo guardò per un lungo istante, ma venne ignorata.

«Voi spettri siete impossibili» mormorò assorta. Aveva già smesso di provare a pensare a Kii e a tutto ciò che la sua comparsa poteva comportare, perché in realtà era consapevole dell’inutilità dei suoi sforzi. La Kitsune era molto più testarda, viziata e impossibile di lei, era una sfida persa sul nascere.

Si concentrò invece sul legnetto, provò a scrivere il suo nome ma la mano tremava e le rune uscivano mosse, scarabocchi informi, fili di pensieri ingarbugliati.

Sussultò e Kii con lei quando avvertirono un rumore in lontananza, di qualcosa di ingombrante che strisciava. La volpe drizzò le orecchie, annusò la brezza «Un essere umano» digrignò i denti, la voce intrisa di disprezzo e di un suono più fondo e gutturale, bestiale «La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi doni»

Sianna si affrettò ad annuire «Sì, non credo li abbiano persi. Devo assicurarmene? È così importante?»

I passi si fecero più distinti, così come il fracasso di un oggetto che veniva trascinato. Kii si risistemò la maschera sul viso efebico, afferrò rapidamente la perla che portava al collo, grande quanto un chicco d’uva, e ruppe la catenina con un movimento secco.

Il gioiello pulsò di un caldo bagliore. Crebbe di luminosità, e più cresceva più il corpo del ragazzino si prosciugava di quella luce che veniva riassorbita dalla sfera. Le unghie affilate mutarono davanti al suo sguardo attento in artigli, la peluria sottile delle braccia crebbe, s’infoltì e si trasformò in morbido pelo; la maschera volpina si fuse alla pelle, si allungò modificandosi in un muso furbetto, gli occhi si assottigliarono, la calotta cranica si estese e le gambe divennero zampe.

Nella perla si condensò tutta la luce, la sfera si sollevò nell’aria come sospinta da una carezza e riprese il suo naturale aspetto di Hoshi no Tama. Il ragazzino era tornato ad essere una piccola, indisponente volpe.

Il globo galleggiava familiare davanti a lei, splendente come una stella cadente. Sianna poteva ancora ricordare la nostalgia del giorno in cui, per la prima volta, aveva scorto una sfera stellata. Un corteo infinito di globi infuocati, simili a lanterne di carta che avevano creato un sentiero nell’oscurità e avevano attirato la bambina che era stata come una falena verso le fiamme.

Kii arrotolò la coda morbida attorno al globo di luce e le lanciò un’ultima, penetrante occhiata

Guardati le spalle, Sianna.

Guardati dagli uomini.

 

«Sianna? Sei viva?» la voce del maestro giunse inaspettata e la fece sussultare per la sorpresa. Kii non le diede la possibilità di replicare, iniziò a correre e in un lampo venne inghiottito dal sottobosco. Sianna si appoggiò al tronco della quercia e attese che Tanet comparisse anche fisicamente, già che aveva spaventato la kitsune prima che questa le desse uno straccio di informazione.

Era ancora troppo meravigliata per mettere davvero a fuoco di aver incontrato di nuovo Kii, si era convinta che non avrebbe più rivisto lo spettro, soprattutto perché aveva avuto la certezza di aver smarrito la sua sfera stellata.

Una volpe non poteva sopravvivere a lungo senza la sua Hoshi no Tama, questo le era stato spiegato molto bene. Eppure Kii era vivo e vegeto, e in un modo che le sfuggiva aveva recuperato quella sua strana anima di luce.

 

Perché ti sei avvicinato tanto ad un centro abitato? Proprio tu che diffidi più di chiunque degli esseri umani?

Cosa non mi racconti stupida volpe?

 

 

Tanet riemerse finalmente nella radura, masticando un’imprecazione e poi un’altra. La sua figura venne rischiarata da una pioggia di pepite di sole, che fecero risaltare a chiazze le gocce di sudore sulla fronte. Aveva con sé una scala a pioli che lasciò cadere con un tonfo quando la vide stesa nel prato, perfettamente rilassata e incolume.

«Ti sei presa gioco di me?»

Sianna valutò di mentirgli, solo per non dargli la soddisfazione di sapere che realmente aveva avuto paura. Era tanto scioccato però, che accantonò immediatamente l’idea di una bugia per non farlo arrabbiare sul serio. Inoltre, aveva sempre confessato i suoi misfatti e le sue bugie in tempi brevi, in passato, non aveva mai avuto il nervo necessario a sopportare il senso di colpa di una menzogna e aveva solo collezionato insuccessi.

Scosse piano la testa «No»

Tanet si grattò la nuca, poi sospirò e si sedette accanto a lei «E come cavolo sei scesa?»

«Mi ha tirato giù mio fratello. Era nei dintorni, deve averci sentito»

Omise, per abitudine, la presenza della volpe e quello strano dialogo che le aveva lasciato addosso un profondo senso d’inquietudine.

Si stava ripetendo ancora le parole della volpe, perciò non realizzò subito l’aria sconvolta del maestro.

«Hai un fratello?» le chiese con la fronte aggrottata in un cipiglio pensieroso, basito.

 

Non ho mai parlato di Ynyr, nemmeno una volta.

Nemmeno per errore

 

Aveva protetto inconsciamente l’esistenza di suo fratello, l’aveva custodita come un segreto e non se ne era resa conto. Ynyr era sempre stato, per lei, una ferita aperta e costantemente infetta, eppure non aveva mai scelto di condividerlo con nessuno, nemmeno in passato, e fu strano accorgersi che certi vizi erano destinati a durare nel tempo.

Se Tanet non conosceva quel ragazzo, allora Ynyr non si trovava nemmeno nei dormitori dei sacerdoti, ed allora capire cosa stesse facendo quel teppista con cui condivideva il sangue diventava ancora più difficile.

«Sì, ho un fratello. Ma non parliamo molto ultimamente»

 

Da quando nostra madre è morta

 

Avrebbe voluto aggiungere. Avrebbe dato qualunque cosa per capire quale meccanismo mentale quella perdita avesse fatto scattare in lui, per spingerlo a comportamenti tanto incomprensibili. Si trattenne dal lamentarsi solo perché odiava le uscite infelici ed odiava risultare patetica.

Tanet storse la bocca, si rialzò, spolverò un poco i vestiti inzaccherati e le porse la mano per aiutarla a issarsi.

Le sorrise. Uno di quei suoi sorrisi tranquilli e pacati, che trasmettevano serenità e sicurezza «Fossi in te non mi preoccuperei troppo. Tra fratelli è normale discutere, no?»

Sianna arrangiò un sorriso, solo perché voleva che quella conversazione si consumasse presto. Tra lei e Ynyr c’era sempre stato un precario equilibrio, un legame morboso, a tratti difficile. Quell’equilibrio, il filo sottile che li aveva collegati fino a quel momento, si era spezzato, e non aveva idea di dove questa rivoluzione li avrebbe condotti, né era certa di volerlo scoprire. Quel distacco era un tormento tanto costante da aver permeato la sua esistenza, un piccolo dolore sordo a cui si stava, suo malgrado, abituando.

Era tante cose, ma non normale.

Suo fratello era un’anima imperscrutabile e lontana, se nascondeva qualcosa non lo avrebbe mai capito finché lui stesso non ne avesse parlato.

«Probabilmente ha ragione lei»

Spostò i capelli lunghi che le si adagiarono sulle spalle come una coperta. Recuperò le ceste, mentre il maestro raccoglieva la scala a pioli e se la caricava in spalla.

Si avviarono fianco a fianco, in silenzio.

La Dama vuole sapere se custodite ancora i suoi doni”, quella domanda tra le tante che avrebbe potuto ricevere, aveva risvegliato un certo nervosismo. Non era così che aveva immaginato di riabbracciare la piccola volpe, amica fidata e compagna di giochi in un’infanzia di solitudine.

 

Gli spettri hanno troppi segreti.

 

Pur sapendolo, non si era mai allontana dallo Yokai, né aveva temuto la sua ambigua padrona che da lontano l’aveva sempre osservata attraverso la kitsune. Ora, anche i suoi doni si tramutavano in un arcano inquietante.

 

Andrò da Lisy, dopo, e mi assicurerò che non li abbiano persi o quella sciocca kitsune diventerà ingestibile.

 

Riguardo suo fratello invece, decise di inghiottire il nervoso e di aspettare che si riassestasse da solo, probabilmente più per viltà personale che non per una qualche forma di concessione nei suoi riguardi.

«Puoi passare da Arfon per portargliene una?» Tanet indicò una delle due ceste, interrompendo il filo corrente dei suoi pensieri inconcludenti.

Storse la bocca «Preferirei non fare più consegne. Non a lui, quel vecchio non mi piace»

Preferì non specificare che il suo rifiuto nei confronti dell’anziano era più che altro paura, ma ne provava molta. Tanet acuì lo sguardo in un dubbioso taglio a mezzaluna, un implicito invito a spiegarsi, così sospirò rassegnata «L’ho sentito di nuovo. Mi ha chiamata ancora così»

«Demonio?»

Si morse le labbra «Anche. Diciamo che non parla di me in modo troppo amichevole» minimizzò con un’alzata di spalle. Il maestro annuì assorto «Stai indossando i guanti?»

Sollevò la mano all’altezza del viso, per mostrargli la pelle coperta da un leggero strato di stoffa nera.

«E allora cosa temi?»

Sianna arricciò il naso.

Non sapeva come spiegare che qualcosa in lei, nel suo aspetto e nel suo essere, era fonte di repulsione per le persone che la circondavano. Non sapeva e non voleva spiegarlo ad uno dei pochi che sembrava immune a quella distanza naturale che si poneva tra lei e il prossimo. Sarebbe stato inaccettabile, se il maestro avesse preso coscienza di quel “qualcosa”, e l’avesse allontanata. Il suo broncio ammorbidì Tanet, che allungò una mano ad accarezzarle la testa «Ho capito. Me ne occuperò io»

«Grazie»

Un pungente odore di bile le soffiò sul volto e al sorriso seguì spontaneamente una smorfia di disgusto. Non le fu difficile individuare la macchia sulle brache del ragazzo.

«Maestro?»

«Sì?»

«Prima però si cambi!»

 

 
ANGOLO AUTRICE

 

Ben ritrovati!

Ho tempi veramente titanici, ma potete perdonarmelo, alla fine c’è sempre la speranza che torno, non sparisco mai del tutto!

Ringrazio già subito tutti i nobili animi che riescono a tenere ancora la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite nonostante le ere geologiche che intercorrono tra un capitolo e l’altro. Ci sto lavorando, tenterò di velocizzare i tempi.

Per il resto… adoro Kii, è uno dei personaggi che preferisco, ma si vedrà palesemente la predilezione che ho per lui!

Non compaiono posti nuovi o personaggi nuovi, quindi mi risparmio la didascalia… e niente, spero vi piaccia e spero mi facciate sapere qualcosa.

Le recensioni sono sempre mooolto gradite oltre che stimolanti per il mio scrivere!

 

A presto!

 

  
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