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Autore: CottonCandyGlob    16/01/2018    0 recensioni
[Ghostbusters - Acchiappafantasmi]
Un bambino una volta parlava con le confezioni di plastica dei marshmallow. Nessuno avrebbe mai immaginato che per quel motivo un intero quartiere di New York venisse invaso da una poltiglia di zucchero, un giorno o l'altro.
Quel bambino, il piccolo Ray, adesso vorrebbe liberarsi di me per sempre.
E infatti eccolo qui, a scrivermi la sua lettera d'addio.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Marzo 6, 1985
North Moore Street
Stato di New York
 

Caro Omino della pubblicità dei marshmallow,
ho saputo dalla televisione che ormai sei arrivato alla veneranda età di trent’anni, e mi sentivo in dovere di farti i miei auguri. Lo so che il reclamo invitava dei bambini a farsi avanti per pregarti di rimanere sulle confezioni, ma sono le tre e mezza del mattino e se io chiudo un occhio sul fatto che questa sia solo l’ennesima trovata pubblicitaria, tu puoi fingere che io abbia sei anni. Che poi sei anni li ho compiuti solo ventisette anni fa, praticamente ieri.
L’ora tarda è proprio colpa di questo carico di anni che mi porto dietro, e non perché mamma non mi dica più a che ora andare a letto (quello non succede da un po’, purtroppo), ma perché se i miei amici mi trovassero concentrato davanti alla scrivania della nostra segretaria, impegnato a scrivere volontariamente una lettera ad una mascotte di una ditta di dolciumi, mi tormenterebbero per il resto della mia vita. E non potrei neanche fingermi ubriaco, perché loro lo sanno come divento io quando alzo il gomito, peccato non mi abbiano mai filmato per informare anche il sottoscritto. A quanto pare lo riconoscono a colpo d’occhio, e non vorrei che la mia goffa recitazione mi coprisse di ridicolo più del dovuto.
Eppure loro, o alcuni di loro, mi capirebbero riguardo al motivo per cui sei sempre stato una delle figure più importanti per me nell’infanzia (insieme a Dopey Dog, Capitan Steel, Elvis Presley). Il fatto è che da quando ho quasi messo a rischio la loro vita a causa tua, beh, non sei stato più così simpatico per tutti.


Questa dunque è la terza lettera che ti scrivo, quella che dovrebbe arrivarti soltanto perché riuscirei a finire effettivamente di scriverla: ho già fatto due tentativi su carta, ma mi hanno beccato subito e ho dovuto stracciarle. Così una settimana fa ho fatto una prova dopo la solita serata pizza, dal quale usciamo tutti sfiniti, dato che è quella che precede il nostro giorno libero. Nessuno ha sentito che mi alzavo, o che scendevo nell’atrio, forse perché si aspettano che io usi la pertica e non le scale. Spesso penso che mi credano fin troppo prevedibile.
E così eccomi qua, a cercare di ricordare quelle poche righe che ho strappato nel cestino in tanti piccoli pezzettini indecifrabili, dato che è già successo, in passato, che una lettera romanticamente spinta per una ragazza, tale Lucille Dawson, finisse per essere letta dalla persona sbagliata. Però, chi lo sapeva che un’amicizia potesse nascere da uno scherzoso ricatto? (Perché io credo nell’amicizia, e con tutto il cuore spero tutt’ora che obbligarmi ad entrare in sala proiezione al grido de “Gli alieni ci attaccano!” fosse soltanto un modo per divertirsi, io compreso).
Ti dirai, perché me lo viene a raccontare a me? Te l’ho detto, per me sei speciale, e posso condividere con te qualsiasi cosa, cose che mai potrei aprire ad altri. Probabilmente rende tutto più facile parlare a dell’inchiostro su una confezione che non ad un essere umano, forse sarò io ad essere un codardo e a non volermi confidare con nessuno. Eppure sono una persona molto aperta, insicura certo, ma non poi tanto chiusa.


La prima volta che riesco a mettere a fuoco in cui avemmo uno dei nostri tanti dialoghi (e da bambino erano parlati) fu quando cercavo di mettermi da solo contro Harry Miller, quel bambino insopportabile che si portava al campeggio le sue macchinine di legno colorate, tutte dipinte di vernice. Odiavo quelle dannate macchinine, tutti stavano a pendere dalle sue labbra. Non so se Harry fosse di famiglia ricca, ma sicuro era che faceva pubblicità di sé in modo sproporzionato, e per questo io lo odiavo. Insomma, poi è ovvio che odiare da bambini si dice tanto per dire, ma il piccolo me sepolto nel mio cervello preferirebbe precisarlo lo stesso. Da precisare è anche che non ero invidioso di quelle macchinine, visto che ne avevo un paio pure io, anzi avrei potuto persino fare finta che mi piacessero, per sopravvivere in quel campeggio almeno le due settimane in cui i miei genitori sarebbero stati in vacanza.
D’altronde Carl era stato promosso da quell’estate ed era salito di grado: aldilà del fatto che da lì sarebbe iniziata la grande scalata dell’elmetto provetto, mio fratello maggiore aveva sempre meno scuse da inventare per evitarmi o fingere di non conoscermi.
Quindi, almeno all’inizio, io ero amico di quel Miller. Poi venne la sera in cui il capo-truppa ci lasciò liberi di stare alzati fino a tardi, e quella scenata me la ricordo bene.
Avevo solo fatto due versetti innocui muovendo su e giù una delle mie macchinine, e mi era da subito arrivato un reclamo. Suonava tipo “Guarda che le macchine della polizia non fanno così”. Il bambino si chiamava Randall, suo papà faceva il poliziotto, mi raccontò. Dato che il mio faceva il medico, scelsi l’ambulanza e ci mettemmo a giocare per conto nostro a fare i rumori più molesti del traffico urbano, finchè mezzo gruppo, annoiato dalle “gare” di Harry, finì per aggiungersi al gran fracasso. Il capo-truppa era rientrato di gran fretta a farci stare tutti in silenzio.
“Facevamo i rumori delle macchine, Gary”. Non me lo aveva neppure chiesto, Gary lo sapeva che se era colpa mia quasi sempre non riuscivo a stare zitto. “La mia macchina non fa rumore” si era alzato Harry quando eravamo rimasti soli. “Cos’è la tua?” gli aveva chiesto uno. Per ironia oggi direi si trattasse di un carro funebre, ma a sei anni e mezzo ne ero veramente curioso.
“Una macchina normale, le mie macchine sono normali, non fate rumore con le mie macchine! Non giocateci così!”.
“Tu puoi farlo, Raymond” e tentai di ringraziarlo, addirittura, interrotto da “Le tue macchine sono stupide”.
Anche adesso mi raffreddo dentro al pensiero. Cosa avrei dovuto dire? Continuai a giocare in quel silenzio, tanto imbarazzante da diminuire sempre di più la voce, fino a che uscii dalla porta della casetta e mi rintanai di fronte al fuoco, stringendo le mie macchinine, e piangendo un po’ per sfogarmi.


 Non è bello sentirsi dare dello stupido, allora non potevo reggerlo. Tu arrivasti nel momento in cui mi accorsi che Gary e una ragazza grande stavano abbracciati dall’altro lato del falò. Erano tutti spettinati e stropicciati. Solo ora capisco quanto fosse imbarazzante, per loro, e per me.
Mi offrirono un marshmallow da arrostire sul fuoco, non che ne avessi voglia, a quell’ora. Gary mi chiese, più di dovere che di cortesia, perché stessi piangendo, ma io cercai subito di asciugarmi tutto quanto. Avevo promesso ai miei che mi sarei comportato bene, forse credevo che non rispondendo loro non mi vedessero. E pensare che adesso da adulto questo strano potere dell’invisibilità mi torna perfettamente sensato. Sarà che ne vedo, di cose strane.
Dopo poco mi lasciarono lì da solo, con la confezione a farmi compagnia. La prima volta che parlammo, caro il mio Omino, io di marshmallow non ne avevo mangiato che uno, per giunta mezzo bruciato. Un bambino normale avrebbe mangiato tutto il pacchetto e non ci avrebbe pensato. Ma io non ero normale, ricordi?
Riconosco che è davvero da stupidi a questo punto, scrivertelo, perché questa storia tu l’avevi già sentita quella notte. E la notte dopo, e quella dopo ancora. Piangevo davanti al fuoco una volta su due, e tu eri l’unica cosa che mi ricordasse un amico.
Mia madre non ti avrebbe mai comprato, neanche morta. La zia invece era di gran lunga più brava nel viziarci, e, quando ci invitava nella sua grossa casa da attempata signorina, probabilmente mettevo su un chilo o due prima di tornare dai miei. Sicuramente mi hai ascoltato probabilmente parlare dei miei genitori. D’accordo, ti usavo in modo assai invadente, ma sai, ero ancora piccolo. Ero piccolo anche quando ho iniziato l’adolescenza, più piccolo di mia sorella minore, che sembrava nata per essere “grande”.


Ma hai presente quando iniziai davvero ad abusare di te? Dopo che, il terzo anno di liceo, l’allora mio migliore amico Trevis mi fece provare la prima sigaretta della mia vita. Ne seguirono parecchie, perdevo il conto al giorno, e mi faceva paura la possibilità che mamma, o papà, o Carl, Jean, la zia, o chiunque, se ne accorgesse. Sarebbe stato disastroso.
Così un giorno scoprii che l’odore e il gusto nauseante dei marshmallow annullava e sfumava quello incredibilmente amaro e sublime delle sigarette. All’inizio era per coprire le tracce, poi, non so come, divenne il mio modo per smettere di fumare: potevo benissimo saltare la fase sigaretta e mangiarli direttamente, dov’era il problema? Persino Jean, mia sorella, aveva smesso di fissarmi male a tavola, probabilmente perché era da un pezzo che non mi sbirciava fumare, aspettando il momento per ricattarmi.
La mia solita fortuna mi diede una brutta influenza, che necessitava di visita dal medico. Ero nel panico, mi serviva un complice.
Il medico purtroppo (beh, in fondo stava facendo il suo lavoro, il poverino) portò tutto a galla e mi costrinse ad ammettere di fronte a mia zia di essere stato (e non aver smesso di esserlo, perché mai mi riuscì di farla finita) un fumatore accanito, mettendola in seria preoccupazione per un principio di diabete che mi aveva trovato nel sangue.
E quella che io credevo essere la mia fine per mano di una zia tutto sommato severa, fu un’amorosa ramanzina di vita, in cui lei mi disse con la mano sul cuore di moderare la razione sia dell’una che dell’altra parte, che anche lei fumava e sapeva fosse sbagliato, e le sembrava da stupidi quindi morire di diabete per delle caramelle.
“Voglio che tu stia bene”. Non ho mai capito a cosa alludesse, forse scherzava, però non mi dispiace pensare che mi volesse in qualche modo felice.


Poi sono arrivati gli studi, gli esami, il dottorato, la scienza mi ha riempito il cervello, l’ha imbottito, e non ho fatto più caso a te. Restavo sveglio fino a tardi sui libri, a fare calcoli, cercando di non spegnermi mai, perché per la prima volta qualcuno mi aveva detto che ero una persona intelligente e che avrei potuto sfondare. Non ho sfondato, ma che mi ero messo in testa, almeno ho seguito il mio istinto, caro Omino, e di questo ne vado fiero.
Fuori dal liceo, dentro il college, fuori dal college, dentro la Gramer, fuori dalla Gramer, dentro la Columbia, fuori dalla Columbia, di nuovo dentro alla Columbia (per miracolo), fuori a pedate dalla Columbia. Questo il grande lungo elenco dei miei impegni in cui tu non mi eri mai servito.


Per questo mi chiedo ancora adesso come sia mai possibile che in quel momento, quello in cui un semidio sumero, il Viaggiatore, il Gozeriano, ha chiesto esplicitamente la forma in cui volevamo trasformarlo, io abbia deciso di usare te.
Insomma, lo ammetto, ho ignorato gli altri. Ma davvero, come pensavano di poter svuotare la mente? Prima o poi a qualcuno sarebbe arrivato qualcosa in testa e chissà cosa sarebbe potuto succedere. Io in quel nanosecondo non aveva fatto altro che pensare e riempirmi la testa di cose: andiamo, una divinità ti chiede di poter rendere reale qualsiasi oggetto, seriamente, non lo sfruttiamo? Ho sempre il pensiero fisso che se avessi trovato per il Distruttore una forma che rasentava la bontà assoluta, forse la storia sarebbe cambiata. Avremmo avuto una specie di artefatto divino, roba da studiare, ma ci pensate?
Allora l’ho fatto. Una lista mentale delle cose migliori del mondo, come pace, serenità, libertà… ma non erano oggetti. Due picosecondi dopo, amore, amicizia, euforia, tenerezza, dolcezza, dolcezza, sorrisi, dolcezza. Dolcezza?
“No, Ray, non quello”.
La fregatura era che avevo già pensato al “quello”. Ormai il disastro l’avevo fatto.


Una puntina di me, l’inconscio magari, dice che lo volevo fin dall’inizio, che pure alto un grattacielo, posseduto da un dio sumero, calpestando tutto Central Park West, io ti volevo lì. Perché? Che ne so, forse mi mancavi, forse ti volevo davvero incontrare dopo averti parlato per anni su una confezione di plastica.
Neanche un minuto dopo averti guardato con occhi commossi, ero già pronto a colpirti con una scarica di positroni. Bell’amico, eh? Non fraintendermi, era per salvarmi la vita. Sarebbe stato il colmo tirare le cuoia per colpa tua!
Adesso che vedo tutto e realizzo tutto, capisco che mi ero sbagliato su di te. Ti avevo sempre considerato la mia soluzione, la spiaggia dove sfogarmi, invece tu non c’eri mai stato. Anzi mi avevi impedito di smettere di fumare con il tuo dannato glucosio, e poi, in parte per cause mie, avevi tentato di uccidermi!
Siamo sinceri, faccia a faccia. Mi sono fatto qualche esame di psicologia al college (nel senso che ho supportato chi non ne aveva voglia di farlo) e ho trovato un nodo filosofico interessante su me e te, lo vuoi sentire?
Per tanto tempo, anzi troppo, lo “stupido” l’ho fatto davvero. E non parlo di quando ero bambino, quando ero solo, triste, senza genitori, accantonato; parlo di quando non mi ero accorto che non mi saresti servito mai più.
Tu, Omino dei marshmallow, eri il pretesto per continuare a vedere il bambino che c’era dentro di me.
Solo che dentro di noi non esistono bambini. C’erano bambini prima di noi adulti, noi ora siamo grandi e basta. Sono io, capisci? Sono sempre stato io. Bambino, ragazzo, adulto, sono sempre stato soltanto io, tu non ci sei, non mi servi.
E’ come il cervello, o ce l’hai o non ce l’hai. Ma non si diventa intelligenti all’improvviso, come non si diventa sognatori. Io mi definisco un sognatore, uno con la testa fra le nuvole, costantemente. E ci manca solo che inizi a parlare con l’inchiostro a ventotto anni.
So che è la più grande idiozia che tu avrai mai sentito. Si chiama autocommiserazione.


A discapito di tutto questo, io ti ringrazio lo stesso.
Senza te che ti metti a ruggire sbucando da un palazzo di ventiquattro piani, io non ci sarei mai arrivato. Ogni pedina era al posto giusto, tu, quel mio strano alter ego zuccheroso, eri lì per farmi a pezzi, mentre chi aveva voluto il vero me, quello che senza accorgermene tiravo fuori spontaneamente, beh, era al mio fianco, per andarsene insieme a me. Era nient’altro che l’ennesima gara da college, sarei arrivato secondo, al solito, anche “dall’altra parte”.
Wow, questa lettera sta diventando troppo drammatica. Preferisco l’ironia, non mia, della sorte.
Vedi, quella cosa che ha mille nomi, tra cui Destino, Karma e quant’altro, ha voluto darmi parecchie soddisfazioni.
E sarei poco sincero a dire che tutta la mia gioia stia nelle mie amicizie e nelle mie conoscenze.
Diciamo che Harry Miller adesso fa il dentista. Ha fatto carriera, il ragazzo. Chissà però come si trova con tutti quei trapani fastidiosi e la gente che strilla, spero almeno alla fine si sia comprato una macchina silenziosa, e abbia una moglie silenziosa. Abbia tutto il suo normale, glielo auguro tanto.
Vorrei chiamarlo un giorno per dirgli che io ho avuto alla fine la mia macchina stupida, che era un’ambulanza, poi è stata un carro funebre, poi l’ho dipinta, ed è diventata il mio gioiello, la più rumorosa di tutta la Grande Mela. Ah, e ci caccio fantasmi.
Vivo in una caserma dei pompieri e sognatevi pure di trovarmi piangere di fronte un falò.

Sorriderò, Omino, a rivederti sulle confezioni (dal vivo non ci tengo più tanto), a pensare che in fondo, con questa lettera, io ti sto parlando di nuovo. E poi penso che tu sei solo una trovata pubblicitaria, e io un ultratrentenne che scrive alle cinque del mattino una lettera che leggerà uno svogliato addetto alla corrispondenza.
Salve, caro addetto alla corrispondenza, chiunque lei sia. Che voglia, sopportarmi fin qua.
Grazie di cuore di aver letto questo poema,
Ray Stantz
 
P.S. Che le sia chiaro, i fantasmi esistono!
 
 
…………………
Avanti, non l’ha mica presa come una minaccia? Mica noi possiamo aizzare i fantasmi, contro di lei! Si rilassi, signor addetto. Andrà tutto bene. Stavo scherzando, è uno scherzo, quello che ho scritto sulla busta.
Le è piaciuta la lettera? Io l’ho trovata illuminante. Per questo lei doveva leggerla e doveva farla arrivare al suo supersupervisore. Spero ci invii quel premio che ha promesso.
Se non arriva, lei ha davvero un cuore di pietra. E non mi venga a dire che è scorretto che una minima differenza di età lo squalifichi dal concorso. Pensi che sorpresa che avrebbe se lo venisse a sapere!
Se non le basta, ci sono cinquecento dollari nella busta. E se se li frega sappia che in qualche modo i fantasmi trovo il modo di convincerli a mangiarle le scarpe.


Quale marmocchio scriverebbe mai una cosa più spinta e dannatamente sentimentale? Lo ammetta, questa lettera ha tutto: lo stile, il carattere, il dramma, la suspance, il gran finale. Ovviamente io ci sono in mezzo, e questo fa da solo un motivo per pubblicarla. Prenda nota di quello che Ray Stantz le ha detto, a lei e all’Omino.
Sì, beh, soprattutto all’Omino. Guardi che ha dato la colpa a qualcun altro, e questa è la cosa più strana che possa fare, ancora stento a crederci. Si è abituato così tanto a prendersi la colpa al posto mio, che gli viene automatico.
Eppure guardi, ha detto che in qualche modo io gli ho voluto bene. Niente passato, gli voglio bene. E che pensava?
Anche io gliene voglio. Per questo gli ho fregato questi fogli e li ho inviati.
Ho capito che forse voglio riparare quel vecchio incidente con Lucille, perché io, Peter Venkman, ho un cuore, Santo Cielo. E poi tutti credono che io lo tratti come il mio cagnolino, che lo usi. Sicuri? Sa dove sarei finito senza di lui? Forse in qualche buco a fare l’elemosina. E se io invece non lo avessi fatto bere, quel pomeriggio, lui non avrebbe firmato per quell’ipoteca e ci staremmo ancora girando i pollici. Invece guardalo, ha la sua macchina, il suo lavoro, la sua dignità. Ho fatto felice un essere umano, no?
La pubblichi, la prego. Sa, anche lei ha un Omino, e anche io ne avevo uno. Solo che il mio era Peter Venkman, mentre ho scoperto che il mio vero io è Peter Venkman. L’unica differenza è che il secondo ha incontrato Ray Stantz, uno che il cervello ce l’ha sul cuore, ed è diventato uno stronzo sentimentale.

Alle volte però è ancora più forte di me: gli faccio mandare giù una bottiglia di vodka soltanto per sentirlo cantare i Platters. E poi, ovviamente, canto anche io.



Angoletto Autrice:
Niente, avevo pubblicato già questa storia su Wattpad, dove la storia si perde tra i tag di tendenza e i fandom più popolari, quindi ho pensato che magari potevo usarla per una buona azione e cioè aiutare la sezione Ghostbusters a diventare una sezione vera in modo che la gente sia pronta a credere in noi (finalmente).
Questa one-shot l'ho scritta di fretta una sera in cui mi è capitato di fare una Dubsmash (sono ormai fuori moda, ed è a quel punto che arrivo io, come sempre) proprio della scena dell'Omino di marshmallow e mi si sono catapultate in testa idee carine, ovviamente riguardo a uno di quella lista di personaggi che sposerei, se solo trovassi nella vita reale.
In realtà ho dovuto indicare, per essere precisissima nella classificazione EFP, che si tratta di un Otherverse, dato che molte cosette sono prese dal libro del primo film e dalla serie animata. Solo che ci sono tante altre cose da dire, e chissà che non ne venga fuori una storia.
Per ora spero che sia piaciuta e che non sia finita in OOC :)

 
  
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