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Autore: Nina Ninetta    16/01/2018    9 recensioni
Prima classificata al contest "Plus Ultra - Oltre i nostri limiti" indetto da _Akimi sul forum di EFP
Prima classificata al Contest "-Totem-Il vero volto dell'anima-" indetto da E.Comper sul Forum di EFP, ma valutata da mistery_koopa
Nell'aprile del 1972 Cecilia si trasferisce in Cile con la sua famiglia. Il cambiamento non è facile per lei che fatica ad accettarlo, ma una nuova amicizia le farà conoscere un Paese diverso, tanto da farle cambiare opinione. Fino al golpe di stato...
Quinta classificata al Contest "Il Linguaggio Segreto dei Fiori" indetto da _Ayaka_ sul forum di EFP.
Settima classificata al contest "Salvatore Quasimodo contest" indetto da katniss_jackson sul forum di EFP”.
Genere: Generale, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Santiago



 
Nell'aprile del 1972 io e la mia famiglia ci trasferimmo in Cile.
Qualcuno aveva riempito la testa di mio padre di sogni e speranze che laggiù sembravano spuntare come papaveri in mezzo a un prato verde.
A sedici anni venni letteralmente sradicata dalla mia città natale – Roma –, dalle mie radici, dalla mia cultura, dalle mie amiche.
Dal mio tutto.
Odiai Santiago per giorni e giorni. I giorni divennero settimane e le settimane mesi. I mesi anni. Detestai la capitale sotto le Ande perché la ritenevo responsabile se all’improvviso ero stata catapultata dall’altra parte dell’oceano, senza conoscere la lingua né le abitudini di quelle persone gentili e goffe, dalla voce cantilenante e il sorriso sempre pronto. Credo che abituarmi al loro modo di esprimersi sia stata la parte più difficile, quella che mi dava maggiormente sui nervi. Escluse le volte in cui le ragazze della mia scuola mi chiedevano se i miei lunghi e ricci capelli biondi fossero veri.
«Ma sono veri?»
«No, è una parrucca» rispondevo allontanandomi a grandi passi, quasi per paura che potessero contagiarmi con il loro tipico tono piagnucoloso.
Dopo scuola mi fermavo ad ammirare il mare da un punto che svettava sulla città, il cosiddetto Cerro San Cristobal, perché la vista delle Ande alle mie spalle mi inquietava. Era come se quelle cime perennemente innevate potessero crollarmi addosso da un momento all’altro. Invece il mare simboleggiava la libertà: una sorta di buco della serratura, attraverso il quale potevo sbirciare tutto quello che avevo lasciato a casa, in Italia. I pescherecci che tornavano al porto dopo una giornata di lavoro; le imbarcazioni che si stagliavano all’orizzonte parevano dirette verso l’infinito, dandomi l’impressione di non dover tornare più, di essere partite per chissà dove: una meta lontana e irraggiungibile.
Come la mia bella penisola.
Talvolta sognavo di imbarcarmi clandestinamente su una di quelle barche per solcare gli oceani e fare ritorno nella mia terra, dove ad attendermi ci sarebbero stati…
Già, chi ci sarebbe stato?
Quella scoperta mi fece capitolare. Dopo appena un anno di vita cilena la certezza che dall’altra parte del Mondo a trepidare per il mio ritorno non ci fosse nessuno mi gettò completamente nello sconforto.
Poi tutto cambiò.
 
Trovai nella poesia la mia ancora di salvezza. Senza rendermene conto nella testa si formavano frasi e pensieri che chiedevano di essere messi per iscritto, nero su bianco. Iniziai a usare la penna come un’arma per riversare la nostalgia su un pezzo di carta. In una settimana mi ritrovai con un piccolo quaderno a quadretti pieno per metà di tutto ciò che mi passava per la testa.
Il tema principale restava sempre e solo uno: la libertà.
Avrei voluto avere la libertà di scegliere il mio destino; la libertà di decidere dove e come vivere; la libertà di passeggiare per le strade della capitale cilena senza sentirmi comunque un’estranea.
Quando l’inverno lasciò il posto alla primavera del 1973 scovai un piccolo locale gestito da italiani. La pioggia in quel pomeriggio di maggio colse tutti di sorpresa. La gente in Plaza de Armas era come impazzita a causa del temporale che si stava riversando sulla città. Senza sapere bene dove stessi andando, mi ritrovai in un piccolo quartiere della capitale che non avevo mai attraversato prima di allora. Solo successivamente scoprii di essere finita in quello che gli abitanti del paese chiamano Barrio Italia. Qui il Tricolore sventolava quasi da ogni balcone, i venditori ambulanti urlavano i prezzi del pesce e della frutta nella mia lingua madre, una delle tante porte aperte lasciava libera di echeggiare nell’aria la melanconica voce di Massimo Ranieri.
Per un attimo mi parve di essere tornata a casa. O di star vivendo un sogno.
Peccato che la pioggia battente mi ricordò quanto fosse reale quella situazione, perciò entrai nel primo locale che sembrava aperto a quell'ora del primo pomeriggio, l’insegna citava “Il Garofano Rosa”. Non era molto grande, ma curato e pulito, sebbene l’arredamento presentasse un misto fra la cultura italiana e quella sudamericana. C’erano pochi tavoli occupati, perlopiù si trattava di persone sole, con lo sguardo perso nel vuoto e una mano aggrappata al proprio drink. Anche loro, come me, sembravano in cerca di qualcosa che evidentemente non riuscivano a trovare, oppure avevano ormai perduto per sempre. Forse un amore impossibile. Forse un sogno di gloria sfumato.
Di nuovo mi assalì la necessità di scrivere ciò che vedevo e di come la mia coscienza lo interpretasse. Tirai fuori il quadernetto e la biro che tenevo fra le pagine.
Con un tonfo sordo qualcuno posò al centro del mio tavolino un bicchiere con dentro un fiore in boccio, la sua sfumatura rosata sembrava dipinta da un artista impressionista. Sobbalzai, sbavando con l’inchiostro il foglio immacolato. Quando alzai gli occhi mi ritrovai di fronte un giovane ragazzo appena più grande di me, con la pelle color caramello e capelli scurissimi, così come gli occhi.
«È un garofano rosa, simboleggia la memoria eterna. Lo regaliamo a tutti i nostri nuovi clienti» spiegò nella sua lingua cantilenante. «Cosa ti porto, Riccioli d’Oro?»
«U-un caffè» risposi, senza volerlo davvero.
«Un caffè e basta?»
«Con latte.» Aggiunsi imbarazzata mentre lui continuava a fissarmi con uno strano sorrisetto dipinto sulle labbra sottili, poi finalmente si allontanò. Tirai un sospiro di sollievo vedendolo andar via, chinai di nuovo il capo sul quaderno dove una linea obliqua tagliava il foglio a metà. Ormai l’ispirazione era andata a farsi benedire.
«Prego» il ragazzo tornò, lasciando sul tavolo una tazzina fumante e un piattino con tre biscotti secchi. «Questi li offre la casa.»
Mi limitai a balbettare un grazie senza alzare il capo, ma lui non sembrava intenzionato ad andare via, forse perché la clientela scarseggiava a quell'ora.
«Sei nuova? Non ti ho mai visto da queste parti.» Chiese.
«Già, sono sempre nuova qui.» Dissi con un pizzico di cinismo.
«Ti piace la musica?»
«Come?» A quel punto lo guardai, la sua domanda aveva dell’irreale.
«Hai qualche preferenza?»
«Credo di no.» Ero sempre più confusa. Lo vidi avvicinarsi a un giradischi e scegliere fra i tanti 45 giri quello di Frank Sinatra, un attimo dopo le note di Blue Moon riempirono il silenzio del locale. Un uomo seduto al tavolino all’angolo a destra alzò il bicchiere verso il ragazzo in segno di salute.
 
“Blue Moon, yuo saw me standing alone
Without a drem in my heart
Without a love of my own.”
 
Lui tornò da me prendendo posto proprio alla mia sinistra, solo allora mi porse la mano.
«Io sono Santiago Videla Bellini.»
«Bellini?» Sorrisi. «Sei italiano?»
«Da parte di madre. Tu sei?»
«Cecilia.» Gli strinsi la mano, la sua presa era salda e rassicurante, il sorriso che mi rivolse caldo e luminoso.
«Sei una scrittrice?» Domandò poi, indicando il quaderno che tenevo aperto davanti a me. D’istinto lo chiusi, arrossendo un po’.
«Sono solo scemenze.» Risposi zuccherando il caffè per prendere tempo, intanto lui si accese una sigaretta e ne ispirò una lunga boccata, quindi afferrò il quadernetto e prese a leggere le prime pagine. Cercai di tirarglielo via, ma Santiago mi tenne lontana con un braccio e dovetti sporgermi su di lui più di quanto volessi per prendere ciò che era mio. Odorava di tabacco e dopobarba alla menta.
«Scrivi poesie, allora sei un poeta!» Esclamò con troppa enfasi, beccandosi un’occhiataccia come se mi avesse appena insultata.
«Si, come no!» Accennai un sorrisetto cinico.
«Hai mai letto il Sommo?»
«Chi?»
«Il Sommo Poeta… Il padre della poesia cilena…» Tentò di spiegarmi lui e quando scossi il capo sospirò incredulo. «Ma da dove vieni? Dalla luna, Riccioli d’Oro?»
 
“Blue Moon, you knew just what I was there for,
You heard me saying a prayer for
Someone I really coud care for.”
 
Santiago Videla Bellini si alzò in piedi e tirò fuori dalla tasca una specie di opuscolo sgualcito e sbiadito che mi porse come fosse una reliquia. Con molte probabilità per lui lo era davvero.
Sulla copertina - di un brutto marroncino - c’era scritto a caratteri cubitali “Canto General de Pablo Neruda”.
«Ma questo non è il tizio che si è candidato alle scorse elezioni?» Chiesi. Ovviamente conoscevo il Neruda poeta e artista, ma mi ero ripromessa di leggere solo i miei grandi autori italiani. Santiago però parve non sentirmi nemmeno, rispondendo con superficialità.
«Si, ma adesso ci penserà Allende a fare del Cile una grande potenza economica mondiale.» Sfogliò velocemente le prime pagine, cercando qualcosa di preciso. «Questa è la mia preferita» disse con gli occhi che gli luccicavano. «”Los Libertadores.”»
 
“And then they suddenly appare before me
The only one my arms will ever hold
I heard somebody whisper please adore me
And when I looked the moon had turned to gold.”
 
“I liberatori.” Il concetto di libertà mi perseguitava senza darmi tregua, tuttavia per la prima volta sentii che la libertà avrebbe potuto assumere forme da me insperate e inimmaginabili, come il ragazzo che tenevo di fianco, con la pelle color caramello e gli occhi color cioccolato.
«Tienilo.» Mi disse infine. «Leggilo e poi me lo riporti, così mi dici che ne pensi.»
Rivederlo. In quel momento non riuscii a spiegarmi il motivo per cui il pensiero di poterlo rincontrare mi riempisse di gioia facendomi sentire sollevata, probabilmente ero solo in cerca di una seconda chance da concedere a quella città e, neanche a dirlo, questa mi era stata servita su un piatto d’argento da un ragazzo che portava il suo stesso nome: Santiago.
 
“Blue Moon, now I’m no longer alone
Without a dream in my heart
Without a love of my own.”
 

*****

 
Il giorno dopo ero di nuovo a “Il Garofano Rosa” per recapitare il piccolo libro di poesie al suo legittimo proprietario. Santiago Videla Bellini mi accolse con un sorriso meravigliato e un nuovo piatto di biscotti secchi al miele. Sembrò restarci male quando gli dissi che avevo già letto le opere contenute in quella raccolta.
Onestamente? Un po' ero rimasta delusa. Nei suoi scritti Pablo Neruda inneggiava alla libertà, ma non era la mia libertà. La sua era un'altra forma di liberazione, era la lotta dei popoli per far valere i propri diritti; era l'abuso e la schiavitù che avevano messo in ginocchio una terra - il Sud America - cancellandone quasi ogni identità.
No, non era la libertà che agognavo in quel preciso momento della mia vita.
«La tua preferita?» Domandò prendendo il libro che gli porgevo.
«Non saprei.»
«Non ti sono piaciute.» Sospirò lui abbozzando un sorriso sghembo, io abbassai lo sguardo. A volte i suoi occhietti vispi e nerissimi mi mettevano a disagio. «Ma come fai a non emozionarti leggendo questi versi?» Aveva l'aria di uno che non poteva credere a quello che aveva appena visto e udito, voltò la sedia e si accomodò su di essa cavalcioni, recitando ad alta voce qualche verso di Neruda: sembrava conoscere a memoria quello che leggeva.
«Non è ciò che cerco.» Dissi d'un tratto senza neanche rendermene conto e per poco non mi tappai la bocca con una mano. Cosa mi veniva in mente di confidare a uno sconosciuto le mie paure e la mia solitudine, pensieri che avevo rivelato solo ad un quaderno a quadretti.
«Non è quello che cerchi?» Ripeté Santiago sollevando il sopracciglio destro, quindi si sporse un po' di più verso di me. «E cos'è che cerchi, precisamente?»
«La libertà.» Risposi e prima che lui potesse replicare sul fatto che fosse proprio l'argomento trattato nel libro che mi aveva prestato, proseguì il mio discorso. «Questa è la libertà di un intero popolo. Io cerco la mia libertà. Una libertà che non si trova in questa parte di mondo.»
«Non ti piace il Cile?» D'improvviso parve rattristarsi.
«Non è la mia terra.» Spiegai, raccontandogli a grandi linee la mia storia. Allora lui si alzò di scatto, battendo un palmo sul tavolo, era tornato felice.
«Ho capito! Non lo conosci abbastanza!»
«Prego?»
«Il Cile, intendo. Non lo conosci abbastanza per amarlo.» Si diede un pugno sul petto. «Ci penso io: te lo farò amare così tanto che non vorrai lasciarlo più.»
Mai parole si rivelarono più profetiche.
 
Sfrecciare per le strade della capitale cilena, a bordo del suo Cinquantino rosso, rasentava la mia idea di libertà.  
«Aggrappati.» Mi disse un giorno mentre si apprestava a dribblare il traffico della città.
«Come?» Gli chiesi, intanto che le guance mi si coloravano per l'imbarazzo, poi sentii lo scatto in avanti del motorino e feci appena in tempo ad afferrarmi alla sua vita prima di capitolare sull'asfalto.
Innanzitutto mi condusse dinnanzi alla casa di Pablo Neruda, La Chascona. Mi ritrovai di fronte una casa dalla forma circolare, dipinta d'azzurro, rivolta verso la Cordigliera delle Ande. Santiago mi spiegò che il poeta aveva altre due case: una a Valparaiso e Isla Negra. Per qualche minuto nessuno dei due parlò, ognuno immerso nei propri pensieri, entrambi ancora accomodati sul motorino; infine fu lui il primo a rompere il silenzio, mettendo in moto affermò di avere fame e, senza neanche attendere una mia risposta, imboccò una stradina nascosta che sbucò un paio di chilometri più in là, in un quartiere che non avevo mai visitato. Santiago arrestò la nostra corsa nei pressi di un vecchio locale, dall'insegna appena leggibile. Tra lettere sbiadite e sbilenche mi parve di leggere La Piojera. Entrando fui subito colpita da un forte odore di spezie e cibo, i tavoli erano di legno, così come le sedie e il resto dell'arredamento, scarno e rustico. La cameriera lasciò un fugace bacio sulla guancia di Santiago, lui le disse qualcosa sottovoce e lei starnazzò. Quindi lo seguii per il locale, fino a sederci a uno dei tavoli al centro della piccola sala. Dopo poco la stessa cameriera lasciò davanti a noi due boccali traboccanti di pisco1. Lei mi rivolse un sorriso, seguito da un occhiolino, e la osservai meglio: aveva folti capelli scuri raccolti in una treccia laterale, la pelle ambrata e fianchi sinuosi. A occhio e croce le avrei dato una trentina d'anni, ma con il tempo ho imparato che dell'età, in quell'angolo di mondo, hanno una percezione diversa di quella di noi europei.
«Facciamo così.» Disse all'improvviso Santiago accendendosi una sigaretta e tenendola fra indice e pollice. «Dimmi cos’è che non ti piace del mio Paese.»
«I terremoti.» Risposi senza preamboli né vergogna. «Ci sono troppi vulcani, è come essere circondati da decine di bombe a orologeria, pronte a esplodere da un momento all’altro. Mi innervosisce.» Lui si limitò a increspare le labbra in un sorriso, ma non proseguì la conversazione.
Mangiammo un piatto enorme di chorillana2. Il pisco cominciò a fare effetto quasi immediatamente e iniziai a sentirmi meno disinibita, perciò gli chiesi in che rapporti fosse con la cameriera de La Piojera. Santiago rise a squarciagola, raccontandomi che Morena aveva appena ventitré anni e quattro figli da crescere. Suo marito era sparito da un giorno all’altro e lei si era ritrovata costretta a rimboccarsi le maniche e mandare avanti la baracca, quasi completamente crollata.
«Ecco!» Esclamai con la bocca piena e puntandogli un indice contro. «Questa è un’altra cosa che non mi piace di Santiago.» Ingoiai e bevvi un lungo sorso di bevanda. «Da una parte ci sono i ricchi. Dall’altra ci sono i poveri. È una divisione netta, non ci sono vie di mezzo.» Mi sporsi sul tavolo e presi dal portacenere di legno la cicca che intanto si stava consumando senza che nessuno la fumasse, così lo feci io. «Qui in Cile non avete vie di mezzo. È tutto bianco o tutto nero.»
«E tu, Cecilia?» Domandò lui allungandosi per togliermi la sigaretta dalle mani, quando se la portò alle labbra fu come se qualcuno mi avesse dato un pungo nello stomaco. «Tu da che parte stai?»
Non risposi. Il pisco aveva ormai rallentato ogni cellula o neurone del mio corpo.
«A La Piojera ci riuniamo per parlare dei problemi che affliggono questo Paese, per aiutare la minoranza Mapuche3 che viene perseguitata da anni.» Il suo sguardo si fece più intenso. «Per difendere il governo di Salvador Allende.»
«Perché dovrebbe essere difeso?» Ormai per me era come parlare e muovermi al rallentatore.
Santiago si mise in piedi, fuori era ormai buio e disse che attardarsi per le strade della capitale era pericoloso, meglio tornare a casa mentre in giro c’era ancora qualcuno.
 
Probabilmente a causa di quello che gli avevo detto, Santiago mi presentò la natura incontaminata appena fuori dalla capitale. I laghi azzurri circondati da una natura rigogliosa, i vulcani che fumavano sembravano guardiani silenziosi e meticolosi. Valparaiso si dimostrò una cittadina di mare allegra e colorata; anche qui la casa di Pablo Neruda – La Sebastiana – era visitata e fotografata dai turisti alla stregua di un vero museo. Durante la strada del ritorno mi strinsi a lui, adagiando il capo contro la sua schiena, godendomi il panorama che la costa offriva. Santiago cominciò a canticchiare una canzone che non faticai a riconoscere. Era la stessa che aveva fatto da colonna sonora al nostro primo incontro: Blue Moon, di Frank Sinatra.
«The only one my arms will ever hold. Blue Moon, now I'm no longer alone.» Bisbigliai con lui, avvertendo il mio e il suo cuore battere un po' più forte.
Un altro fattore a cui facevo fatica ad abituarmi era il fatto che la colonnina di mercurio durante i mesi estivi, in quella parte di mondo, sfiorava appena i 15°C. Tuttavia, nel 73' pareva che perfino le stagioni si fossero normalizzate; infatti, nonostante fosse luglio inoltrato, le temperature furono decisamente alte e me ne resi conto alla mia prima visita a Viña del Mar, nella regione di Valparaiso, dove le spiagge della cosiddetta "Città giardino" (come la chiamavano i conquistadores) erano colme di gente, perlopiù stranieri.
Santiago mi diede appuntamento alla fermata dell'autobus a Plaza de Arms alle 8 di mattina, senza ulteriori spiegazioni. Quando gli feci notare che avevo la scuola lui fece spallucce, sostenendo che una bugia non aveva mai ucciso nessuno. Ne dubitai, ma per la prima volta da quando ero in Cile mentii ai miei genitori, i quali mi parvero anche sollevati di sapere che quel pomeriggio mi sarei fermata a casa di una compagna di classe per studiare insieme. Avranno pensato che finalmente fossi riuscita a integrarmi...
Invece salii a bordo di un pullman sgangherato e stracolmo che percorse circa 130 chilometri in due ore e poco più.
Viña del Mar era un vero spettacolo della natura, con le sue immense spiagge bagnate dal Pacifico e la vegetazione che cresceva fra le case diroccate.
Tirai via le scarpe da ginnastica e i calzini, sollevando appena la gonna a pieghe lunga sotto al ginocchio per evitare che le onde del mare la bagnassero. La sensazione della sabbia sulla pelle nuda mi donò una sensazione di gioia che ormai non provavo da tempo, che anzi avevo quasi dimenticato esistere. Lui rimase indietro, a osservarmi divertito: dovetti sembrargli una specie di pazza che non aveva mai visto una spiaggia.
«Dai, vieni!» Lo incalzai. «Voglio bagnarmi i piedi nell'acqua.»
«Sei matta?! Ti verrà un malanno, l'oceano è ghiacciato!» Tentò di dissuadermi Santiago, ma un attimo dopo lo stavo giù trascinando verso il bagnasciuga, entrambi a piedi nudi. Aveva ragione, l'acqua del Pacifico era davvero fredda, eppure non mi fregava affatto.
«Questa è la mia libertà.» Dissi d'un tratto, mentre ero seduta sulla sabbia con lui sdraiato al mio fianco a fumare una sigaretta, lo sguardo rivolto al cielo. Non rispose e io ripresi a fissare l'orizzonte, dove il sole iniziava a tramontare. Santiago si mise seduto, le ginocchia piegate e le braccia adagiate su di esse. D'improvviso il cielo si tinse di viola con pennellate di rosa: non avevo mai visto nulla di simile, né lo avrei più fatto in tutta la mia vita. Allora, di fronte a quel dipinto naturale, compresi il motivo per cui mi aveva portato lì: era il suo asso nella manica, l'ultima chance che gli restava per farmi adorare quel Paese dalle mille sfaccettature, così crudo per certi versi, eppure dannatamente meraviglioso per altri.
«Santiago.» Lo chiamai, ancora rivolta verso il tramonto. «Qual è la tua libertà?» Mi voltai, ritrovandomi i suoi occhi neri fissi nei miei. A volte il suo sguardo penetrante sembrava quello di un falco, in grado di incunearsi nei miei pensieri più segreti e intimi, svelandoli senza pudore.
«La mia libertà è fare ciò che mi sento di fare. Viaggiare, leggere, aiutare chi soffre. Innamorarmi di chi voglio.» Si fece più vicino, carezzandomi la guancia sinistra con la mano, quindi scostò i miei riccioli biondi dietro l'orecchio. «Baciarti.» Concluse, posando la bocca sulla mia che di rimando si schiuse per assaporare appieno il suo tocco delicato, poi decisamente più energico e dannatamente sensuale.
Era il mio primo bacio.
 
Quella stessa sera ci unimmo ad un gruppo hippie raccolto intorno a un falò alto due metri. Un ragazzo dai lineamenti caucasici e lunghi capelli biondi si destreggiava con la chitarra; un paio di ragazze intonavano una canzone spregiudicata a proposito dell'amore carnale; qualcuno dondolava il capo seguendo il ritmo lento della musica, un bicchiere in mano e una sigaretta fumante nell’altra; una coppia si scambiava irruenti baci senza badare al resto della comitiva. Alcune coperte di lana, dalla fantasia a quadri, erano abbandonate sulla sabbia, perciò Santiago ne prese una quando iniziai a tremare al suo fianco. Si accomodò alle mie spalle, circondandomi il bacino con le sue gambe e sistemando su di noi la coperta come fosse un mantello che avvolse entrambi. Avvertii una mano carezzarmi con delicatezza il piccolo seno sinistro e quando lui fu sicuro che non lo avrei respinto, s’intrufolò al di sotto del maglioncino di cotone bianco. Con la mano libera giocherellò con l’elastico dei miei slip, ancora una volta per tastare il terreno. Intanto la mia unica preoccupazione pareva essere diventata quella di tenere chiusa la coperta, celando al mondo ciò che invece stava accadendo al di sotto di essa. Tuttavia, iniziavo a perdere la cognizione di ogni cosa: degli hippie in festa; della coppia che continuava a sbaciucchiarsi senza ritegno; dello sciabordio delle onde e della sabbia umida sulla quale stavo seduta. Santiago mi sussurrò qualcosa all’orecchio che neanche compresi, mi sentivo come se avessi bevuto litri e litri di pisco, tutto intorno a me si muoveva piano, le voci ovattate. Ricordo solo che mi aiutò ad alzarmi e tenendoci per mano, ci allontanammo dal resto della truppe, portando con noi la coperta di lana. Camminammo per diversi metri, attenti a non farci prendere dalle onde del Pacifico, poi trovammo uno scoglio sulla spiaggia e lui distese la coperta proprio vicino a esso. Senza che le mani si lasciassero, ci sedemmo. Tremavo come una foglia, ma non ho mai saputo spiegarmi se per il freddo o per altro. I suoi palmi sulla mia pelle nuda erano caldi, la sua lingua sfrontata, le parole che mi sussurrava all’orecchio dolci.
Fu così che mi liberai anche della verginità.
Peccato che tutto sarebbe cambiato, di nuovo.
 

*****

 
L’11 settembre 1973 il governo di Salvador Allende fu rovesciato da un golpe militare, capeggiato dal generale Augusto Pinochet e per il Cile fu l’inizio della fine.
Tutte le radio e le tv locali vennero oscurate, mentre le strade si riempivano di carri armati e camion dell’esercito, elicotteri e aerei volavano a bassa quota facendo rimbombare i vetri delle case.
Fu peggio di un terremoto.
Nessuno sapeva cosa stesse succedendo. Alla gente che scendeva in strada a chiedere spiegazioni ai militari, veniva intimato di rientrare immediatamente e di attendere nuove disposizioni. Qualche ora più tardi quattro generali in divisa da combattimento fecero la loro comparsa sul canale nazionale, annunciando che il governo di Salvador Allende era finito, che l’ex presidente – intenzionato a sterminare i suoi oppositori - era ormai morto grazie al loro prodigioso intervento, infine scandirono una serie di regole a cui il popolo avrebbe dovuto attenersi. Alle loro spalle, in bella mostra, la bandiera cilena.
Il mio primo pensiero corse ovviamente a Santiago Videla Bellini, ai suoi incontri a La Piojera, dove si riuniva con gli altri a discutere i problemi che affliggevano il Paese e a progettare piani per difendere il governo comunista di Allende,convinti che se non avessero fatto nulla per il popolo cileno, in un certo senso la colpa per la situazione in cui il Cile riversava sarebbe ricaduta anche sulle proprie teste. 
E se li avessero scovati?
E se Santiago avesse fatto una pazzia?
Mentre mio padre telefonava a chiunque conoscesse per capire meglio la situazione e ciò che avremmo dovuto fare, e mia madre andava avanti e indietro per la casa, con le mani strette sotto il mento a pregare il Signore di aiutarci, io sgattaiolai via, con il cuore in sussulto e una paura viscerale a offuscarmi la mente. L’unica cosa che riuscivo a pensare era raggiungere Santiago e accertarmi che stesse bene.
Le strade brulicavano di militari, vidi civili pestati solo perché chiedevano loro spiegazioni, alcune donne disperate urlavano il loro doloro inginocchiate vicino a corpi apparentemente senza vita. Riuscii a raggiungere il barrio Italia senza farmi notare; a differenza del centro della città qui le stradine erano deserte e lugubri. Bussai alla porta del locale di Santiago, chiamandolo a squarciagola. Dopo qualche minuto di puro terrore la porta di legno del bar si spalancò e me lo ritrovai di fronte, più sconvolto di me. Mi abbracciò forte, senza neanche darmi il tempo di parlare, quindi mi trascinò nel buio dell’attività di famiglia, sprangando la porta d’ingresso.
«Cielo, Cecilia, che ci fai qui?» Chiese, continuando a tenermi il volto fra le mani. «È pericoloso, ma non hai visto la televisione? Hanno dichiarato lo stato di guerra, sai che vuol dire?»
In tutta risposta scossi il capo, a stento trattenevo le lacrime che lui cercava di asciugarmi dalle guance, ma invano.
«Ogni diritto umano e civile è stato revocato, Cecilia. Hanno occupato il Paese, l’esercito ha il pieno potere adesso.» Tentò di spiegarmi, però io continuavo a non comprendere una parola di quello che mi diceva, com’era possibile una cosa del genere?
All’improvviso si udirono degli spari, d’istinto ci abbassammo fino a toccare il pavimento, lui mi teneva un braccio intorno alle spalle. Restammo così per un tempo illimitato, poi ci rialzammo.
«Devi tornare a casa, Cecilia.»
«No!» Esclamai, afferrandomi a lui. «Voglio restare con te.» Dissi, stampandogli un bacio sulle labbra, ma Santiago mi allontanò con garbo, ferendomi più di quanto stesse succedendo alla sua città.
«I tuoi saranno in pensiero. Vieni, ti riaccompagno a casa, prima che faccia buio.» Non mi guardò negli occhi mentre lo diceva, semplicemente percorremmo la strada del ritorno tenendoci per mano, sgusciando fra le strade di Santiago del Cile per non farci beccare dai militari.
Mia madre quasi svenne vedendomi sana e salva, a me quasi venne un infarto quando invece mi accorsi delle valigie nella sala d’ingresso.
«Cosa sono?» Domandai, tenevo ancora Santiago per mano.
«Dobbiamo recarci all’ambasciata italiana, metti qualcosa in una borsa.» Spiegò mio padre intendo a riordinare gli ultimi affetti. «Hanno detto che gli stranieri hanno 48 ore per lasciare il Paese, poi verranno trattati come tutti gli altri.»
«Che vuol dire?» Avevo la testa che mi scoppiava di immagini e informazioni.
«Ci rimpatriano, cara.» Rispose mamma carezzandomi una guancia. «Torniamo a casa.»
«No…» Bisbigliai tra me e me. Solo allora mi rivolsi a Santiago al mio fianco, ormai le lacrime venivano giù senza che potessi fermarle.
«Cecilia.» Cominciò lui.
«No!» Ripetei ancora una volta, aggrappandomi al suo collo. «Io non voglio lasciarti.»
«Cecilia, ehi, ascoltami.» Mi tenne per le braccia in modo che potessimo guardarci dritto negli occhi, quegli stessi occhi che mi avevano permesso di guardare il suo mondo, il Cile appunto, attraverso di essi. «And when I looked the moon had turned to gold.» Recitò a memoria il verso di Frank Sinatra, sfiorando i miei riccioli color oro.
«Vieni via con me, sei figlio di un’italiana, sono sicura che non faranno troppe storie se spieghiamo loro la situazione. Io… io…» Ormai deliravo, ma non me ne rendevo conto. Santiago mi sorrise, il sorriso più dolce e caparbio che abbia mai visto sul volto di un uomo.
«Cecilia.» Attirò la mia attenzione scuotendomi appena. «Questa è la mia terra, lo capisci? Questa è la mia libertà e resterò qui a difenderla e a riconquistarla per la patria, fin quando ne avrà bisogno.»
Allora compresi. La libertà di Santiago Videla Bellini era la stessa che il sommo poeta cileno decantava e celebrava nelle sue opere. Era la forza di un popolo che lottava nel nome della libertà comune. Era una libertà più grande - e perciò pericolosa – della mia, che improvvisamente mi parve piccola e insulsa.
«Cecilia, sono venuti a prenderci, dobbiamo andare.» Ci interruppe papà cominciando a portare fuori le valige, oltre la porta d’ingresso intravidi una macchina con due bandierine italiane sventolanti.
Il desiderio che avevo agognato per quasi un anno si stava avverando davanti ai miei occhi, era come se il mio Paese fosse venuto a salvarmi alla stregua di un principe azzurro sul cavallo bianco, ma io non riuscivo a staccarmi da quel ragazzo latino, dalla carnagione color caramello e folti capelli bruni. Lo guardai negli occhi un’ultima volta, sforzandomi di portare via con me quanti più particolari possibili. Santiago mi passò una mano fra i capelli e mi attirò a sé, regalandomi uno di quei baci che lasciano senza fiato, da romanzo ottocentesco, che mai più avrei dimenticato. Infine adagiò la fronte alla mia, intanto che mamma mi diceva che dovevamo andare, era ora.
«Buona vita, Cecilia.» Mi augurò.
«Non morire.» Riuscii a dire senza balbettare troppo, poi indietreggiai di un paio di passi tenendogli la mano fino a quando fu possibile, senza abbassare mai lo sguardo. Sulla soglia della porta mi voltai ancora una volta indietro, lui era ancora lì, proprio come lo avevo lasciato. «Santiago.» Lo chiamai. «Il Cile è un Paese che merita di essere difeso.» Mi sforzai di sorridere.
«Lo so.» Furono le ultime parole che mi rivolse.
 
Ci fecero salire sul primo volo per Roma quella sera stessa. Dal finestrino dell’aereo dissi addio al Palazzo della Moneda, alla Cordigliera delle Ande con le cime perennemente innevate, all’Oceano Pacifico e alla miriade di vulcani disseminati qua e là. Salutai un’ultima volta tutto quello che avevo odiato e che adesso non volevo lasciare. Nella mente le parole di una poesia che avevamo recitato insieme solo pochi giorni prima non smetteva di assillarmi:
 
“ … il tempo precipita come un masso sulla mia anima
che vuole certezze, e più non ha sillabe da offrire,
se non quelle silenziose del sangue legate al tuo nome…”

Seguii gli sviluppi della dittatura di Pinochet dalla mia bella Italia, piangendo e temendo per la vita di Santiago Videla Bellini ogni santo giorno, fino al 1987, quando finalmente i cileni furono chiamati a votare il loro nuovo presidente.
Non ho mai più avuto notizie di lui, né ho provato a mettermi in contatto nell’era dei social network con qualcuno che eventualmente potesse dirmi qualcosa; certo, avrei avuto bisogno dei miei nipoti che a destreggiarsi in queste stregonerie tecnologiche sono più bravi di me.
So che i morti registrati in quel lembo di terra a sud del continente americano, durante il regime, sono stati migliaia, per non contare i dispersi e i corpi mai rinvenuti; eppure me lo immagino ancora seduto su di uno scoglio, sulla spiaggia di Vina del Mar, a contemplare il tramonto dipinto di viola e rosa, con una sigaretta fra le labbra e la poesia “Los Libertadores” di Pablo Neruda fra le mani, simile a un falco che non si lascia sfuggire nulla. Mai.
  
 
 
 
 
 
“ … o mia vita, mio amore senza fine.”
 
 
 
NOTE
1 Bevanda alcolica tipica del posto, è un distillato di mosto di vino e tecnicamente può essere considerato il brandy o l’acquavite di Cile e Perù.
2 Una sorta di hamburger sommersa da patatine fritte e salse di ogni tipo.
3 Popolo amerindo originario del Cile.
 
  
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