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Autore: girasoledicarta    16/01/2018    3 recensioni
Il Paese delle Meraviglie che si era inventata Bridget, copiando spudoratamente da Carroll, viveva in condizioni di estrema felicità, lealtà e aiuto reciproco. Tutti i suoi abitanti godevano della perfetta armonia con i popoli confinanti con cui avevano trattato un patto per mantenere la pace nei diversi Patriam – così erano chiamati i Paesi di quel mondo magico –.
Bridget aveva sette anni quando iniziò a immaginarsi il suo Paese delle Meraviglie. Tutte le sere, prima di dormire, aggiungeva fatti e personaggi, costruendo pian piano una storia nel suo diario segreto.
Il suo Paese delle Meraviglie crebbe, così come Bridget. A quattordici anni iniziò a interessarsi di moda e di ragazzi e smise di fantasticare tanto come un tempo. Quel diario lo apriva ogni qualvolta che ricordava di averlo, per aggiungere qualche particolare nei disegni. Ma il racconto si era fermato in un punto ben preciso. Nel momento in cui stava per scoppiare una guerra tra Wonderland e un Patrium confinante, Malum.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Vigilia di una nuova vita


C’è almeno un punto
in ogni sogno,
dove non si può
toccare il fondo: un ombelico,
in un certo senso,
che è il suo punto
di contatto con l’ignoto.
(Sigmund Freud)


 
Quella fredda mattina in Memphis scendevano in grande quantità fiocchi di neve, posandosi sulle case, sui giardini, sulle vie trafficate e sui quartieri tranquilli.
In quel piccolo angolo di periferia dove viveva Bridget, stavano per succedere cose alquanto strane che lei non avrebbe mai potuto immaginare.
Bridget aveva dei lunghi e ricci capelli rossi, accompagnati da due grandi e graziosi occhi azzurri, quasi color ghiaccio. Era una ragazza conosciuta nel suo quartiere per il suo essere molto diffidente, ma allo stesso tempo tenera. E in parecchie situazioni spiacevoli, sapeva dimostrarsi davvero coraggiosa.
Quando aprì gli occhi una realtà meravigliosa si fece spazio nella sua mente. Era il 24 dicembre. Il suo diciottesimo compleanno. La vigilia di Natale. Ed era pure in vacanza.
Dopo essersi presa qualche secondo per pensare a tutte le cose che avrebbe dovuto fare, scostò le lenzuola e la coperta con un sorriso – succedeva rare volte – e corse ad aprire gli scuri. Quel giorno era ufficialmente maggiorenne. Non sarebbe dovuta andare a scuola e il giorno seguente sarebbe stato Natale. In poche parole, era uno dei giorni più belli di tutta la sua vita.
Senza neanche fare alcuna tappa in bagno e senza togliere il pigiama, fece per scendere in salotto saltellando ma, facendo questo in estrema velocità, urtò lo scaffale di libri appoggiato al muro in corridoio. Le caddero sui piedi circa una decina di tomi, a sua detta inutili, frantumando allegoricamente in mille pezzetti le dita che imploravano pietà.
Iniziò a raccoglierli. Tutti appartenevano al padre, un medico e uomo di grande cultura: Le basi farmacologiche della terapia, Odontoiatria restaurativa, Atlante di Anatomia Fisiopatologica e Clinica, Microbiologia medica e... Wonderland?
L'ultimo libro che le aveva sbriciolato il piede non centrava assolutamente nulla con i noiosi libri scientifici di Mark.
Bridget, curiosa di sapere cosa fosse, lo aprì. Nella prima pagina c’era il disegno di una mappa di questa cosa chiamata il Paese delle Meraviglie.
Forse è una copia scarabocchiata del libro di Lewis Carroll, pensò la ragazza. Continuò a sfogliare. Nella facciata seguente, stava scritto Il Paese delle Meraviglie di Bridget Cooper.
Così improvvisamente iniziò a ricordare che apparteneva proprio a lei: lo utilizzava quasi ogni giorno quando era piccola.
Senza pensarci troppo, decise che non le sarebbe più servito, quindi lo buttò immediatamente in uno degli scatoloni delle cose da buttare. Sua madre Susan quel pomeriggio lo avrebbe fatto sparire.
Quando Bridget arrivò in salotto trovò sua sorella a bere una tazza di caffè. Si chiamava Maya e aveva vent'anni. Quando la vide fece un balzo e corse ad abbracciarla.
Per un attimo Bridget stava dimenticando che era il suo diciottesimo compleanno e per qualche secondo non capì il motivo di quel tenero attentato.
«Sei vecchia» sussurrò Maya nell’orecchio della sorella.
«Parla quella» ribatté l’altra sciogliendo la stretta.
«Pel di Carota»
«Non chiamarmi così»
Bridget aveva sempre odiato quel soprannome che tutta la mia famiglia e tutti i suoi amici usavano da quando era piccola solo per il colore dei suoi capelli. Maledetto papà, pensava sempre ridendo, se non somigliassi esteticamente a lui sarebbe tutto più semplice.
Sospirò sentendo la risata della sorella.
«Mamma e papà?» chiese a Maya, non vedendo i suoi genitori.
Lei alzò le spalle. «A farsi un giro»
Mandò un cenno d'assenso a sua sorella e si sedette comodamente sul divano con una brioche tra le mani. Allungò il braccio per arrivare al telecomando e poi accese la TV.
«Un’ondata di gelo e maltempo…» stava esordendo un uomo al telegiornale, quando la porta venne spalancata da Susan e Mark.
«Buon compleanno tesoro!» dissero in coro, andando ad abbracciare la loro figlia.
I suoi genitori erano sempre stati delle persone molto affettuose, ed era una cosa che Bridget aveva sempre apprezzato, ed erano anche due adulti molto saggi, motivo per cui li ammirava moltissimo.
Mark era un uomo di cinquant’anni, alto e con due spalle molto larghe. I suoi capelli erano lisci e arancioni e i suoi occhi di un azzurro chiarissimo, entrambe le caratteristiche ereditate poi dalla figlia Bridget. Di carattere era molto pacato, sapiente, tranquillo e rilassato, personalità molto simile a quella di Maya.
Susan invece era tutto il contrario del marito. Era una donna di quarantacinque anni, con gli occhi marroni e i capelli neri e lisci, come quelli della figlia Maya. Caratterialmente era molto ansiosa, coraggiosa e tanto affettuosa, indole trasmessa a Bridget.
«Grazie» rispose Bridget, ricambiando l’abbraccio.
 
Dopo pranzo, Bridget si diresse verso la sua cartolibreria di fiducia che distava a due minuti di camminata. La ragazza si avviò a piedi, dopo essersi coperta per bene.
Durante la passeggiata, i suoi scarponcini pestavano sulla neve fresca che scendeva senza sosta; un freddo gelido si insinuava tra la sciarpa della ragazza e il silenzio invernale, rotto esclusivamente dal rumore del passaggio di qualche automobile, rilassava Bridget e tutti gli altri passanti.
Quando arrivò a destinazione non indugiò a spalancare a porta del negozio per entrare immediatamente in un posto caldo. Una volta aperta, sentì un tintinnio. Un ciondolo a forma di stella cometa grigia era attaccato sopra la porta. Strano, pensò subito Bridget, osservandolo con gli occhi rivolti verso la decorazione, non c'era mai stato prima d'ora. Jade, la negoziante, una donna di circa trent’anni molto socievole ma strana, li ha sempre odiati quegli aggeggi che suonano appena qualcuno varca la soglia. Ma forse quell’anno aveva deciso di metterlo come addobbo di Natale.
Bridget diede uno sguardo intorno e si accorse di non essere entrata nella cartolibreria dove avrebbe semplicemente dovuto comprare del materiale per la scuola e un libro da regalare a sua sorella. Aggrottò la fronte e si chiese da quanto tempo esistesse un bar simile in quel quartiere. Era un ambiente buio, la cui unica luce proveniva dalle finestre semi-aperte e dal lampadario che emanava un fioco bagliore di un giallo scuro. Gli unici presenti erano un anziano signore dietro il bancone e due ragazze sedute a un tavolino con una bambina. L’uomo aveva una lunga barba grigia, indossava un tabarro nero e portava un monocolo sull’occhio destro, azzurro, e Bridget giurò di vedere in lontananza che l’occhio sinistro fosse invece marrone.
Senza farsi notare dal barista, uscì sconvolta, guardando poi l'insegna sopra la porta. Ci stava proprio scritto “cartolibreria” come tutte le altre volte. Può essere però che Jade abbia traslocato e che il proprietario si sia dimenticato di cambiare il nome, fu il pensiero di Bridget, per convincersi che non stesse avendo delle allucinazioni.
«Che cosa ti serve?» una voce alle sue spalle la fece voltare di scatto. Era una donna che parlava con un bambino.
«Le penne colorate» rispose lui.
I due entrarono in quella che era la cartolibreria e, curiosa, Bridget li seguì, per vedere la loro reazione una volta scoperto che quello in realtà era un bar. Ma una volta dentro, si ritrovò sempre in quello strano locale, e la madre e il figlio non c’erano, come se non fossero mai entrati.
Il barista la scrutò incuriosito, ma lei uscì spaventata. Che stava succedendo?
Dopo pochi secondi la donna con il bambino fecero ritorno. Lei teneva un sacchetto con all’interno le penne per il bambino.
Il cuore di Bridget cominciò a battere all'impazzata. Stava accadendo qualcosa di strano. Che fosse la troppa felicità per un giorno così tranquillo e all'insegna della gioia? O un effetto collaterale dei suoi diciotto anni?
Decise che non poteva rimanere col dubbio. Per la terza volta aprì la porta della cartolibreria/bar e si avvicinò al signore dietro il bancone che stava servendo un ragazzino. E questo quando è entrato?, si chiese Bridget, sentendosi sul punto di svenire.
«Buongiorno, desidera?» le disse l'uomo cercando di essere amichevole. A lei sembrava solo più inquietante di tutta quella situazione, con gli occhi di colore diverso come aveva notato qualche minuto prima.
«Io...» iniziò con voce acuta, ma poi l'abbassò accorgendosi che le persone presenti le avevano messo gli occhi addosso. «In realtà voglio sapere che posto è questo. Io volevo andare nella cartolibreria!»
Il barista la guardò passandosi lentamente una mano sulla fronte, confuso.
«Non so di cosa stai parlando»
«Mi sa dire che posto è questo?»
«Un bar» rispose con un sorriso. Poi, però, accadde qualcosa che non lei non si sarebbe aspettata nemmeno nei suoi sogni più assurdi. «Ah ma, Bridget! La famosa Bridget! Scommetto che sei tu! Giusto? Grazie davvero. Ci hai messo in una bella catastrofe. Ora chi risolve questa cosa? Tu! E.. Giusto, ti vado a chiamare Edward» e sparì in una porta dietro di lui.
La ragazza non seppe cosa pensare. Le venne quasi da ridere, era una situazione così strana! Pensò che forse la stavano prendendo in giro e che sicuramente era un pretesto per spaventarla, si immaginava che i suoi amici sarebbero saltati fuori da un momento all’altro spiegandole che era tutta una “festa a sorpresa”. O forse avevano sbagliato persona. C’erano tantissime altre ragazze di nome Bridget in Memphis.
L'uomo tornò con un ragazzo incappucciato che le fece segno di seguirlo.
«Neanche per idea» ribatté lei, incrociando le braccia.
Il ragazzo si tolse il cappuccio mostrando un ammasso di folti e ribelli capelli neri. I suoi occhi erano altrettanto scuri, profondi e quasi accusatori, con uno sfregio particolare sotto quello sinistro che gli conferiva un aspetto al tempo stesso affascinante ma misterioso. Aveva un filo di barba e le sue spalle larghe gli attribuivano un atteggiamento minaccioso.
Se quello fosse stato davvero uno scherzo, Bridget avrebbe seguito quel ragazzo considerata la sua bellezza, ma loro sembravano così seri che pensava di rischiare davvero la morte.
Lo sconosciuto la prese per il braccio e la spinse in quella porta dove era andato prima il barista. Lei smise di preoccuparsi. Che avrebbe potuto farle di male? Insomma, aveva già capito che era tutto uno scherzo.
Si ritrovò in un ascensore abbastanza spazioso, con le pareti di pietra, e si mise immediatamente nell'angolo per stare il più lontano possibile dall'individuo.
«Non ti mangio» borbottò, schiacciando pulsanti a raffica sul piccolo schermo attaccato alla parete.
Bridget scrollò le spalle, senza dargli una risposta. Non sapeva che cosa pensare. Se non era uno scherzo, allora che ci faceva lei? Sarebbe dovuta scappare come avrebbero fatto tutte le persone normali?
Edward si voltò a guardarla con espressione seria.
«Che c'è?» chiese lei stizzita. Non le interessava più del suo fascino, del posto sconosciuto e del suo compleanno, voleva solo una spiegazione e tornarsene a casa. Si chiese perché non avesse chiesto a sua sorella di accompagnarla, nonostante fosse abituata ad uscire sempre da sola.
A quel punto fu Edward a non risponderle, infatti riprese a fare quello che stava facendo.
Dopo un tempo che sembrò interminabile l'ascensore si fermò e si aprì.
Il posto in cui i due si ritrovarono era una sala, non troppo grande e arredata con una grande quantità di quadri raffiguranti persone con sguardi inquietanti, minacciosi e alteri.
Le pareti erano rivestite di una carta da parati rossa, e c’era un’unica finestra, chiusa, all’estremità della stanza. Gli scuri erano chiusi, quindi non si poteva vedere all’esterno. L’unica luce proveniva da una lampada appoggiata a un comò.
Al centro c’era un tavolo in legno, con sopra un’infinità di fogli in disordine e una penna d’oca con il barattolo di inchiostro lì affianco, ed erano poste due poltrone una di fronte all’altra, separate solo da quella specie di scrittoio.
«Siediti» le disse il ragazzo che prese posto su una poltrona. Bridget si sedette su quella di fronte a lui, sentendosi tremendamente a disagio. Non ci capiva niente! Non aveva mai visto quel posto e mai avrebbe potuto immaginare di vivere una situazione del genere.
«Voglio sapere cosa ci faccio qui»
«Perché? Non lo sai?» Edward scoppiò a ridere.
«No» rispose lei, non trovandoci nulla di divertente.
Il ragazzo smise di prenderla in giro.
«Ma io scherzavo! Non è possibile che tu non lo sappia! Non sai dove ti trovi? Neanche questo?» esclamò.
«No!» ribatté lei, facendogli capire che era davvero esasperata, confusa e spaventata. Pensava che fosse tutta un’allucinazione. Stava davvero diventando pazza? O quello era uno stupido scherzo?
«Per tutti i Graoully…»
«Continuo a non capire»
«Non ho ancora iniziato a spiegarti»
Bridget non rispose.
«Sei davvero così tarda?» le chiese lui, con una punta di divertimento e una di aggressività nella voce.
«Ehi!» scattò in piedi puntandogli un dito contro.
«D’accordo, calmati. Iniziamo dal principio. Wonderland ti dice niente?»




 
   
 
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