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Autore: Koa__    17/01/2018    14 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Impromptu
 




 
 



 
Chopin
 



 
L’amarezza arrivò coi primi d’ottobre, di pari passo con l’ingiallirsi delle foglie. A tempo con la frescura delle prime sere d’autunno e l’umidità che, al pari di un velo, pareva voler impregnare persino il suo umore. Sebbene non si lasciasse mai del tutto coinvolgere da niente che non fosse chimica e musica, quando i caldi d’estate cedevano il passo al bigio autunno, anche a Sherlock Holmes sembrava un po’ di spegnersi. Come se il cambiare delle stagioni fosse il responsabile dell’intristirsi del suo sguardo o dell’apatia di cui erano zuppe tutte le sue mezze parole. Non era mai questa la ragione, per il semplice fatto che lui non era il tipo d’uomo i cui pensieri erano influenzabili dal clima, rigido o mite che fosse. Eppure quel pomeriggio si ritrovò immobile davanti alla finestra dello studio adiacente all’aula nella quale teneva le sue lezioni, a far nulla eccetto che fissare il giardino spoglio. La pioggia insistente del mattino aveva affogato i prati e le aiuole ormai prive di fiori, sporcando anche i viali di una fanghiglia viscida e scivolosa. Nonostante avesse smesso di piovere, però, ottobre non accennava a voler regalare una qualche gioia. Il cielo, ancora rannuvolato di grigio, non concedeva sprazzi di sereno e il vento pareva alzarsi d’intensità ogni qual volta si sollevava lo sguardo in direzione delle fronde degli alberi chiazzate d’arancio. Nello studiare con pigra disattenzione il triste spettacolo che gli si parava di fronte, Sherlock si ritrovò a sbuffare e nel contempo a rilasciare sospiri infastiditi. Se si fosse trovato nell’intimità del proprio appartamento, il muro del soggiorno ne avrebbe certamente patito le più drastiche conseguenze. La noia era infatti la sua compagna più fedele, forse la sola amica che aveva. Di lei, Sherlock amava ogni cosa e nel contempo la odiava, così come detestava l’immobilità e il non aver molto da fare. Un cruccio gli arricciò le labbra mentre ritornava a ricordare la promessa fatta al rettore, ormai più di un anno prima, di non portare armi da fuoco in ateneo. Niente pistole, nessun divertimento. Era stato costretto a giurarlo dopo aver traforato il muro dell’aula magna di pallottole, terrorizzando l’intera Oxford. Uno scherzo con il quale si era quasi giocato la carriera, cavandosela con una ramanzina e grazie a un assegno gentilmente offerto da suo fratello Mycroft assieme a tante sincere scuse. Quella volta si era sentito come se il mondo intero non avesse altro scopo se non quello di rendergli la vita ancor più difficile. No, neanche quel giorno la noia lo aveva colto alla sprovvista, poiché negli anni aveva nutrito come una sorta di abitudine fisica che lo conduceva inesorabilmente verso l’indolenza. Era un problema oramai quotidiano che si presentava alla porta al pari della sua padrona di casa ogni mattina. Sapeva che tra una lezione e l’altra non aveva niente da fare, di certo nulla che riuscisse a tenere a bada il suo cervello attivo. Di tanto in tanto qualche mistero affascinante allietava una o due ore, ma il più delle volte era la musica l’unico buon compromesso all’impazzire. Naturalmente, lo fu anche in quell’inizio di ottobre.

«È tempo di Chopin» mormorò, parlando fra sé, mentre afferrava con decisione l’archetto e premeva con forza indice e medio sulle corde. Prese un respiro profondo e poco dopo una nota si elevò con decisione, riecheggiando nel minuscolo studio oberato di libri e cianfrusaglie. Era sua abitudine portare il violino al lavoro, perché sapeva che certi giorni si rivelava necessario trovare la giusta calma. Quell’equilibro mentale ed emotivo che soltanto un’armonia complessa era in grado di dargli. Ed eccolo quindi, Chopin. Il suo fraseggio delicato e di ampio respiro. L’armonia che andava a sorprendere un fortunato ascoltatore. L’intensità delle note a culminare in un crescendo impetuoso come un temporale estivo, che si riversava inaspettatamente in un susseguirsi di dolcezza. Chopin, sensibile e fragile, forse il solo in grado di pizzicare le trame indurite del suo cuore. Chopin che viaggiava leggero tra una corda e l’altra, riverberando in un suonare di violino malinconico. Amaro al pari del suo umore. Stranamente, pensò durante un non ben precisato passaggio, questo Notturno faticava a venire e in quell’ormai freddo pomeriggio suonava stonato e malfatto. A metà del brano, già Sherlock si era convinto di non essersi nemmeno avvicinato ad avere un suono decente. D’altronde era un perfezionista, pretendeva sempre il massimo da se stesso, persino nel suo intrattenere un qualcosa di amatoriale e non professionale. Se fosse stato in cerca di precisione, se si fosse trattato di Bach o Mozart e non di un mero autore romantico, si sarebbe fermato e avrebbe ricominciato da capo. Eppure non lo fece, semplicemente lasciò che le emozioni gli corressero addosso e scivolassero fuori. Presto, veloce, rapido e quindi di nuovo adagio, in un crescendo di note e l’animo si librò al pari di una piuma nel vento. Nulla lo faceva sentire vivo come suonare Chopin. Mai niente gli avrebbe regalato quella stessa sensazione di leggerezza, la medesima palpitante emozione di un cuore innamorato. Un cuore che batteva, galoppando furiosamente mentre la melodia si susseguiva con una certa stupefacente violenza, eccessiva per un autore ottocentesco. Quel Chopin, delicato come un fiore, divenne un riversarsi di sentimenti selvaggio, una cavalcata impetuosa. Sino a che, a salvarlo, inaspettatamente giunse il silenzio. Un assordante tacere che, opprimente, prese a piombargli addosso lasciandolo svuotato di ogni sentimento. Il Notturno era finito e adesso neanche più la sua eco gli faceva compagnia. Se n’erano andati, svaniti e frantumati nell’amarezza di ottobre. Un sorriso gli era nato spontaneo, ma preso com’era dall’estro della musica, a fatica se ne accorse. Eppure c’era e gli tirava il volto, gli inverdiva lo sguardo. Rasserenava il tamburellare frenetico delle dita. Chopin lo aveva salvato di nuovo.



«Professor Holmes?» La voce giunse fioca, come lontana. Era un sussurro impacciato e colmo d’imbarazzo e apparteneva a un qualcuno di sconosciuto. Un fiato quasi inudibile e, per il suo cervello, di ben poca importanza ma che ebbe l’insolito potere di spezzare i fili dei suoi pensieri, svegliandolo del tutto. Aveva smesso da minuti di suonare, ma ancora stringeva nelle mani violino e archetto. Gli occhi erano puntati al di fuori, in direzione del giardino e la bocca era chiusa in una smorfia di disappunto. Si era perso nella profondità di quell’elaborata mente che aveva, laddove sapeva esser difficile riemergere. Là, dove era sempre meglio stare e i cui abitanti erano assai più interessanti che nel mondo reale. Solitamente evitava di entrare nelle stanze più profonde del suo palazzo mentale quando sapeva di dover andare in aula o in laboratorio, eppure quel giorno era distratto. Chissà per quale ragione era ben poco concentrato qualsiasi cosa facesse. Avrebbe dovuto riporre lo strumento, riordinare e sistemare in vista della prossima lezione, ma i pensieri avevano finito col volatilizzarsi in un marasma poco definito. Si destò completamente grazie a un refolo d’aria più fresca che gli stuzzicò la pelle del viso, portando alle sue narici un profumo maschile di stampo acerbo, che giunse alla sua attenzione assieme all’ombra timida di un giovane. La sagoma di uno studente dimorava già da qualche istante sulla soglia del suo studio e il di lui sguardo, ritroso e spaventato, lo occhieggiava da dietro un paio di occhialoni spessi inforcati sul naso. Sapeva chi era? Forse. Lo aveva già visto gironzolare qua e là, ma qual era il suo nome? Proprio non se ne ricordava.

«Thomas» disse pur senza voltarsi, fingendosi indaffarato. Era certo d’aver indovinato, o almeno così credeva. Avrebbe dovuto chiederglielo, un professore avrebbe fatto così. Un professore differente da com’era lui, dei suoi studenti avrebbe saputo ben più che nome e cognome. Magari se aveva una ragazza o amici. Lui, però, era Sherlock Holmes e viveva da tutta la vita al di fuori di schemi sociali e strani riti d’approccio. Preferiva dedurre, era sempre meglio che intessere relazioni ed era decisamente più divertente. E infatti, così come aveva sempre fatto, preferì tacere e proseguì con le proprie attività come se nulla fosse successo. Quasi avesse coscienza d’ogni cosa e soprattutto come se non fosse stato minuti a fissare il vuoto. Ripose quindi lo strumento nella custodia con spaventosa premura, regalando un accenno di carezza non vista al legno liscio. Una lentezza esasperante nel coprilo col panno di peltro, stando attento a che ogni punto non prendesse luce, fu certo che quello era il sintomo più evidente di quanto difficile era lo staccarsi dal suo Chopin. Non avrebbe dovuto rimuginarci troppo, anzi doveva concentrarsi, si ripeté prima di precipitarsi verso la scrivania stracolma di cartelle e fogli sparpagliati senza un preciso ordine. Stranamente, i pensieri si quietarono nell’attimo stesso in cui si mise a rovistare tra appunti e cartelline. Pur non avendo niente da trovare, lui perseguiva a rovistare. Come se lì si nascondesse quel rigore mentale che stava drasticamente venendo meno.

«Sono Davidson, professore. Il suo assistente da quest’anno, ricorda? Da tre settimane.»
«Mh, sì» annuì, distrattamente. In realtà non lo ricordava affatto, doveva aver rimosso la conversazione dal cervello ed era stato troppo occupato per poter notare i dettagli. Anche se, a pensarci bene, si era chiesto come facessero tè e Times a materializzarsi tutte le mattine. Aveva creduto che apparissero e basta, quasi si trattasse una sorta di magia. O magari era Mrs Hudson, la quale compiva sempre ogni sforzo pur di alleviare il suo cattivo umore. Quella donna sarebbe stata capace di spingersi fin lì col vassoio e l’immancabile piattino di biscotti, riusciva anche a immaginarsela. Sì era ridicolo, ma era ciò di cui era stato convinto nei giorni passati e aveva finito col ripetersi che fosse vero.
«Sei tu che mi prepari il tè?» domandò, stupendosi di se stesso per la stupida domanda. Il ragazzo non rispose, limitandosi ad annuire timidamente. Solo a quel punto, Sherlock gli concesse un’occhiata. Era un giovane dalla folta chioma di capelli rossi, occhi vispi e intelligenti ma ritrosi. I denti mordevano appena le labbra in un chiaro sintomo di insicurezza. Un paio di spesse lenti gli trasfiguravano le fattezze del viso, enfatizzando lentiggini e occhi verdi. Aveva dedotto la sua altezza notevole osservando la punta dei piedi, ma ora che lo studiava con più attenzione era chiaramente più alto di quanto non avesse intuito. C’erano anche dei calli sulle dita, unghie rosicchiate e un leggero ingobbamento della schiena. Corpo esile ed eccessivamente magro, non scolpito da muscoli o grasso. Aveva già notato simili dettagli? Si chiese, accantonando il pensiero nell’attimo appena successivo. Sicuramente li aveva trovati di scarsa importanza, esattamente come adesso. Che c’era di interessante in un ventenne solo e con pochi amici le cui passioni ondeggiavano tra chimica e computer? Di certo nulla d’adatto per la sua mente eccezionale.
«Ho chiesto al suo assistente dell’anno scorso quali fossero le sue abitudini giornaliere, è stato molto preciso sul tipo di miscela che le piace bere, a quanto zucchero preferisce e a, beh, tutto quanto.»
«Mh, sì, va bene» mormorò, senza dar sfogo della miriade di pensieri che gli vorticava nel cervello e che riguardavano non soltanto quel ragazzo, ma anche Lucas (chi era Lucas?) ottobre e persino Chopin. «La mia scrivania è un disastro» disse invece «dovresti dare una sistemata.»
«Subito! Però prima, ecco, il professor Stamford mi ha detto di darle questo» disse, porgendogli una busta. Si trattava di una di un tipo formale, di dimensioni assai ridotte e che Sherlock non si preoccupò neanche d’aprire. Gli fu sufficiente un’occhiata e il vedere il proprio nome e cognome vergato in bella calligrafia, per capire ogni cosa. La più logica deduzione da fare era che si trattava della scrittura di un uomo, presumibilmente quella di Mike stesso. Comunque di un qualcuno di discretamente colto, ma di poco avvezzo ad attività di quel genere e che aveva finito con lo spazientirsi per lo sforzo eccessivo. Pertanto aveva scritto molto. Per quanto la carta fosse pregiata e di gradevole aspetto, si riusciva facilmente a notare una certa fretta nella maniera in cui l’invito era stato scritto e, di seguito, imbustato. Sherlock lo dedusse dopo aver fatto caso all’inchiostro blu che aveva macchiato il bordo più in alto, oltre che dall’angolo sulla sinistra, quello più in basso, che era stato stropicciato. Sorrise, lasciandosi divorare da un ingenuo divertimento, il buon vecchio Mike doveva esser stato messo ai lavori manuali contro la propria volontà. Ammirava quell’uomo, sinceramente. Per quanto fosse banalmente nella media in quanto a intelletto e noiosi la stragrande maggioranza dei discorsi che faceva, era di buon cuore. Quello Stamford era l’unica persona che frequentava a tollerare la sua presenza e a non desiderare di fuggire a gambe levate dopo neanche un paio di battute scambiate. Neppure Mycroft amava la sua compagnia allo stesso modo, e proprio suo fratello che era la persona con un’indole più simile alla sua che esistesse in tutta l’Inghilterra. Il professor Stamford invece era sincero e genuino, lui gli sorrideva amichevolmente e amava sentirlo parlare di questo o quello. Delle volte pranzavano al medesimo tavolo, nei giorni in cui Sherlock mangiava, e non una volta Mike aveva evitato di raggiungerlo o finto di non vederlo. Al contrario, pareva sinceramente affascinato dalle cose che diceva. Lo ascoltava, sorrideva. Spesso rispondeva. Si interessava alla sua vita fuori dall’università, in una maniera che Sherlock ancora adesso riteneva incomprensibile. Questo quando non si lasciava andare a strane osservazioni sul genere di: “Nessuno parla della chimica con la stessa passione con cui lo fa lei, professor Holmes” borbottava, ridendo, prima di addentare un altro boccone di roast-beef. A simili considerazioni non rispondeva mai, si limitava a un quieto e imbarazzato silenzio. Naturalmente tutto questo non significava certo che sarebbe andato alla sua stupida festa. Mai niente lo avrebbe trascinato fin lì per alcuna ragione al mondo.

«L’anniversario di matrimonio degli Stamford: noioso e prevedibile. Banale» sentenziò, mettendo fine alla discussione.
«Ma signore, il professore si è tanto raccomandato.»
«Celebrare la firma di un contratto con una festa è già una cosa idiota di per sé, farlo per i successivi trent’anni della propria esistenza significa essere incorreggibili, Lucas. Può esserci al mondo qualcosa di più insopportabile che un branco di pomposi idioti in smoking che ballano maluccio e bevono champagne costosissimo? Perle ai porci, a parer mio» borbottò, parlando più che altro con se stesso mentre si faceva ritto e raggiungeva la finestra. Finestra davanti alla quale si fermò, di nuovo. Raccolse le mani in un intreccio confuso dietro la schiena e quindi irrigidì le spalle, poi sputò un pesante sospiro e intanto si conficcò le unghie nei palmi delle mani. Un tentativo alquanto vano di sedare il desiderio di non riprendere il mano il violino e mettersi a suonare. «C’è dell’altro?» si limitò ad aggiungere mentre già il suo sguardo aveva preso a perdersi per il giardino spoglio. Era ancora ottobre, notò, amareggiato.
«Avrebbe una lezione tra cinque minuti. L’aula è quasi piena, ma si è dimenticato di farmi sapere quali saranno le sue intenzioni per oggi.»

Aveva ragione, rifletté mentre annuiva con fare distratto. Non aveva detto nulla, ma per il semplice e imbarazzante fatto che non ricordava di avere un nuovo assistente. Erano settimane che era convinto di parlare con Lucas! Chi era Lucas? Che idiota, con chi diavolo aveva discusso tutto quel tempo? A chi aveva detto cosa fare o dove andare? Avrebbe dovuto prestare più attenzione a certe cose, si convinse mentre indossava la giacca e poi l’abbottonava. Era ottobre, d’altronde.
«C’è un fascicolo sulla scrivania» lo informò, pur senza voltarsi. Aveva infatti raggiunto la porta e, dopo averne aperto uno spiraglio, si era messo a spiare la folla di studenti che iniziavano a occupare l’aula. Mancava ancora qualche minuto, ma non era consuetudine di Sherlock Holmes l’entrare il farsi vedere senza che tutti fossero al proprio posto. Amava le entrate ad effetto e farsi vedere al pari di un modello che sfila in passerella. Lo dicevano tutti, che era vanitoso. Forse prendendolo addirittura in giro, ma di questo gl’importava relativamente poco.
«Una cartellina verde» specificò «ho preparato un test per oggi, niente di serio. Vedi se abbiamo copie a sufficienza. Ah e prima di farlo, sai dirmi chi è quello?»

“Quello”, Sherlock lo stava osservando fin da quando aveva raggiunto la porta e si era messo con onesto interesse a far passare lo sguardo su giovani visi studenteschi. “Quello” era invece una faccia mai notata e di certo non di un qualcuno che era solito frequentare l’aula di chimica, e che proprio per questo aveva attirato le sue attenzioni. Tanto per cominciare era un uomo di più o meno la sua età, probabilmente un poco più vecchio, che girovagava per l’aula guardandosi attorno in maniera curiosa. Non era certamente un suo studente, però. Specialmente se si considerava il passato militare, deducibile dal taglio di capelli e dal portamento, oltre che dall’abbronzatura fresca che sottolineava la recente conclusione di una missione. Magari all’estero. Aveva una leggera zoppia, ovviamente psicosomatica e camminava con un bastone. Fu in quel momento, mentre faceva caso al suo sedersi tra le seggiole della prima fila, che si chiese che cosa avesse portato quel tizio a congedarsi dall’esercito. Pensiero che avrebbe dovuto esser scalzato da altro, come dai dubbi su cosa volesse da lui, ma sui quali si ritrovò a non pensar nemmeno. Lo aveva già incontrato? No, decisamente no gli ricordò un angolo del suo cervello. Un uomo simile se lo sarebbe ricordato, si disse mentre scacciava con forza il pensiero.
«Si tratta del professor Watson» lo informò Davidson dopo aver spiato a propria volta oltre il minuscolo spiraglio ancora aperto. «John Watson, si è avvicendato alla cattedra di biologia e genetica in sostituzione del professor McDougall, che ha avuto un infarto qualche settimana fa. È arrivato da una settimana, non lo sapeva?» Sapeva? Si era distratto ed era tutta colpa di quel dannato autunno e della sua malinconia. Forse Mike gliel’aveva detto, avrebbe dovuto iniziare a starlo a sentire quando parlava.
«Mh» bofonchiò, meditabondo e senza levargli mai gli occhi di dosso «sai cosa può volere da me?»
«Non ne ho idea» gli rispose questi facendo spallucce mentre tornava ai propri doveri. Fu in quel momento, ancora non perdendo di vista il tamburellare di dita abbronzate che picchiettavano su di un bastone di legno, che Sherlock Holmes si rese conto che tutta quell’amarezza che per ore aveva tediato la sua esistenza, era del tutto scomparsa. Perché quel certo John Watson, noioso, non lo era affatto. Ci pensò sinceramente, per un lungo quanto infinito istante durante il quale sul suo volto s’allargò un accenno di sorriso. Un soggetto insolito, certamente lo era. Un medico soldato con una zoppia psicosomatica… interessante, si disse mentre si convinceva del fatto che ottobre si stava rivelando migliore delle aspettative. E quando poco dopo ebbe spalancato la porta dell’aula e fu entrato a passo deciso, gli occhi di tutti furono per lui. Naturalmente anche quelli di John Watson. Una manciata di istanti più tardi, al centro della grande e scura lavagna, una domanda capeggiava tra formule e problemi.

Afghanistan o Iraq?
 
 


Continua 





Note: Il banner è stato creato dalla bravissima _Akimi appositamente per questa storia. La ringazio infintamente perché ha fatto un lavoro stupendo con le due immagini che le avevo dato.

Credits immagini: QUI e QUI

Ringrazio Novizia_Ood (lei saprà per cosa) e Marilia__88 per essermi stata a sentire.
   
 
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