Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Anonimadelirante    17/01/2018    3 recensioni
Cersei – Cersei, ch’era stata come una fata di un racconto, che le era sembrata così bella e gentile e inaccessibile, a cui s’era rivolta come ad una madre, ma con più ammirazione – l’aveva lasciata crogiolarsi nella sua disperazione ancora un po’. Poi, con tono affranto e occhi brillanti di verde compatimento aveva sussurrato, tiepida come velluto contro la pelle: «Tu capisci, vero, piccola mia? Joffrey è un uomo buono, ma non può sposare una lady con un padre ed un fratello che l’hanno tradito.»
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Cersei Lannister, Joffrey Baratheon, Sansa Stark, Tyrion Lannister
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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N/A: prima fics su GoT assolutamente non prevista. Colpa del #COWT8 che fa scrivere cose contro la propria volontà.
Non l'ho riletta, ho la febbre, non so neanche se ho beccato la consecutio. Non è decisamente qualcosa che pubblicherei, se non avessi una scandevza. Tant'è:
(ma prima o poi tornerò ad aggiustare i casini, per quanto possibile)


 

 

 

L'amore alla fine dell'Estate



L’aveva sognato per lungo tempo: ed ogni volta era bellissimo, elegante, pieno di sorrisi e balli ed inchini. Il vento sarebbe stato una brezza tiepida e la neve si sarebbe sciolta in favore di crochi e rose blu e semi che, a ben pensarci, probabilmente non sarebbero mai potuti germogliare nello stesso periodo dell’anno.
Avrebbero ballato – avrebbero ballato per ore ed ore ed ore e tutti li avrebbero guardati, ammirati, adorati. Il suo vestito sarebbe stato bellissimo: di pelliccia, ma scollato, con lunghe maniche ricamate in oro, e i capelli sarebbero stati acconciati in boccoli lasciati morbidi sulla schiena scoperta.
Aveva passato interi pomeriggi alla finestra della sua camera, intere mattinate a ricamare sul tombolo a fianco di Jeyne Poole, mentre septa Mordane rimproverava Arya della sua malagrazia, nottate intere troppo piena di quel sogno felice per poter dormire: il suo matrimonio.
Sarebbe stato fantastico. Se ne sarebbe parlato ovunque, ogni menestrello avrebbe cantato delle sue guance rosee e del sorriso innamorato dell’uomo che l’avrebbe condotta davanti agli Alberi-Diga: Il principe di mille vittorie fregiato, Ai piedi di lei s’era inchinato, Amami bella, amami stella, prendi il mio cuore in cambio d’un fiore.
Ogni ragazza avrebbe desiderato avere il suo mantello e i capelli rossi come i suoi per poterli arricciare in onde di fuoco. Suo padre l’avrebbe accompagnata fino al centro del Parco degli Dei, dove aspettava il Gran Maestro, e le avrebbe sorriso con uno di quei suoi sorrisi rapidissimi, morbidi, traboccanti d’onore – l’avrebbe stretta a sé per un istante soltanto, Sono fiero di te avrebbero detto i suoi occhi, e poi si sarebbe voltato verso sua madre, Caitlyn Tully sposata in Stark, con lo stesso sguardo di sempre, lo stesso sguardo che suo marito avrebbe riservato a lei.
Il banchetto, poi, il banchetto sarebbe stato un susseguirsi di portate deliziose: arrosti e carne salata, polli cotti con bacche di mirto e sfornati di maiale su letti di patate cotte a fuoco lentissimo, ed un vino così dolce da sembrare latte col miele.
(Dimmi com’è l’amore, diceva una canzone che ben ricordava, Ha del vino lo stesso sapore, Della pelliccia il tepore, dei draghi l’ardore. E: Dimmi com’è l’amore, continuava, È quando non senti che il cuore.)
I Vecchi Dei avrebbero benedetto l’unione di Lady Sansa Stark di Grand’Inverno e chiunque lei avesse amato e nei Sette Regni non si sarebbe parlato d’altro per anni.

 

(«Sposami» le avrebbe detto lui. Sarebbe stato un giorno di sole, in una regione di sogno che assomigliava a come immaginava Dorne, ma aveva i fiumi impetuosi di Delta delle Acque ed era appena a qualche ora di cavalcata da Grand’Inverno – ed eppure era brillante, assolata, calda. «Sposami» le avrebbe detto, stringendole una mano. «Ti prego.»
Sarebbe stata la prima volta che si prendeva tutta quella libertà, che la sfiorava, che non la salutava con un inchino ed uno Spero sia una bella giornata, per voi, mia signora.
Quel giorno sarebbe stato diverso. Quando l’avesse vista si sarebbe aperto in un sorriso largo, sincero, assoluto, e le si sarebbe avvicinato con grandi falcate, come sempre – ma non si sarebbe fermato a qualche passo da lei. No, non quella volta: quella volta l’avrebbe guardata con un’urgenza segreta e si sarebbe sporto verso di lei con una sorta di elegante foga nello stringerle le dita fra le sue (forti, ruvide, come quelle di Robb – però cento, mille volte più curate e pulite di quelle di Robb), per bisbigliare: «Sposami. Ti prego, sposami. Io ti amo. Ti amo così tanto.»
Così. Sarebbe andata così: Sansa se lo sarebbe aspettato, un poco, l’avrebbe desiderato con ardore, certo, ma ne sarebbe rimasta stupita comunque – una stretta le avrebbe annodato lo stomaco ed avrebbe sorriso pianissimo, il viso in fiamme mai meno che bello: «Anch’io vi amo, mio signore» avrebbe risposto allora, con una certa prontezza, nonostante la voce tremante. Vi amo da sempre, avrebbe pensato, ma non avrebbe fatto in tempo a dirlo. Mai una volta in tutti i suoi sogni ci era riuscita: perché a quel punto lui si era già chinato su di lei per appoggiare le proprie labbra alle sue – sarebbe stato bellissimo. Un bacio piccolo, frettoloso, ma lunghissimo, lieve, morbido, asciutto. Sarebbe stato caldo.)

 

«Bisogna stare attenti a quel che si desidera» aveva detto una volta, tempo, molto tempo addietro, la Vecchia Nan. Bran si era bloccato per un istante soltanto e l’aveva fissata con aria contrariata. Poi aveva ripreso a raccontare delle guerre che avrebbe vinto, da grande, degli eserciti che avrebbe sconfitto, dei mostri che avrebbe affrontato, dei popoli che avrebbe conquistato, dei cattivi che avrebbe ucciso. Sansa non aveva alzato neppure gli occhi dal suo tombolo, allora, ma aveva sorriso un sorriso piccolissimo, divertito, quasi annoiato: non aveva dato peso ai racconti di Bran, ché Bran avrebbe avuto esattamente ciò che andava raccontando, sì, certo, come no, ma soprattutto tornei e belle lady da corteggiare, non appena l’avesse piantata con quei suoi giochi da bambino e si fosse svegliato adulto, cavaliere – né aveva ascoltato la balia perché a volte, povera donna, diceva cose da scema: semplicemente, c’erano desideri infantili e desideri da donna. Lei avrebbe sposato un principe, un cavaliere, un eroe da fiaba, e lui sarebbe stato così bello e gentile ed elegante – portato per le danze almeno quanto per la spada.
Sarebbe andata così, perché era così che doveva andare: perché era così che andava in ogni ballata.

 

(«Sposami» le avrebbe detto. L’avrebbe raggiunta dietro una siepe di rododendro in fiore e si sarebbe inginocchiato ai suoi piedi, bellissimo e disperato: «Sposami.»
Sansa si sarebbe chinata verso di lui e gli avrebbe sussurrato pianissimo all’orecchio: «Sarò tua come tu sarai mio.»
Sarebbe stato Rahegan Targaryen, ad un torneo, a passare galoppando davanti a lei per posarle in grembo una corona di rose blu come i ghiacci che l’avevano resa bella come un bucaneve, ma meglio, perché sarebbe stato un Rahegan non sposato, alleato dei Baratheon (ed eppure altrettanto valoroso e galante) – magari un Martell o un Tyrell o perché no, un Florent. L’avrebbe avvicinata in un parco fiorito e si sarebbe inchinato, le avrebbe baciato la mano e le avrebbe sorriso – e tutto il resto del mondo sarebbe sparito.
Avrebbe avuto un sorriso gentile e gli occhi dolci e si sarebbe sempre fatto carico di difendere tutti dalle angherie dei prepotenti – ed avrebbe vinto sempre sempre sempre.)

 

Sarà il giorno più bello di tutta la mia vita, aveva pensato. Ed era stata una stupida, un’ingenua, una sciocca. Allora aveva creduto che ci sarebbero stati sorrisi e balli e non occhiate oscenamente soddisfatte, non teste mozzate su picche, non caldo appiccicoso e mosche infami e lacrime. No: aveva creduto – e ci aveva creduto così tanto, così ciecamente, con così tanto fervore – che sarebbe stato un giorno speciale e che di quel giorno si sarebbe raccontato per secoli – la bella lady Sansa ed il suo sposo (bellissimo, con sorrisi dorati e spada affilata, vincitore in ogni torneo, amato da tutti – e tutte avrebbero desiderato essere lei). Fra fiori rosa e drappi d’argento, S’aman come dal primo momento. Si sarebbe cantato di quella festa più che delle gesta di Nymeria in groppa al suo drago ed Arya non l’avrebbe fatta sfigurare in nessuna maniera: sarebbe stata buona, lì, senza dire cose sciocche o farne di imbarazzanti, composta, una volta tanto, e sarebbe stata felice per lei.
Tutti lo sarebbero stati.

Invidiosi e felici.


(Sarebbe dovuto essere quieto e lentissimo, baciarlo e sentirsi come quando aveva bevuto di nascosto un sorso di miele sciolto nel vino, ad un banchetto in onore a zio Benjen di ritorno dalla Barriera per qualche settimana.
Lui l’avrebbe dovuta amare.
Ma così non era stato.)

 

Aveva immaginato il giorno delle sue nozze per anni e per anni aveva cucito vestiti immaginando un giorno di poter ricamare quello che il suo sposo le avrebbe sfilato con delicatezza, dopo la fine dell’ultimo vorticoso ballo della giornata, per ammirarla alla luce tremula d’una candela.

 

 

 

Poi, era arrivato il re: Grand’Inverno s’era fatta frenetica di preparativi e Sansa non aveva fatto altro che aspettare aspettare aspettare – la regina, oh, come doveva essere bella la regina, coi capelli intrecciati seguendo i dettami della moda del Sud e le ciglia lunghe e le dita sottili, il sorriso gentile (no, non gentile: il sorriso regale) e le spalle dritte, il corpo esile, adatto alle danze. E il re. Il re, che dicevano grasso, ma che doveva essere maestoso, piuttosto, e avere gli occhi color di quel mare che non aveva mai visto. I loro figli, i loro figli, dovevano brillare di luce propria ed essere non solo graziosi e adorabili, ma anche inarrivabili: per forza – erano principi.
Joffrey – tutte parlavano di Joffrey. Lei e Jeyne Poole non facevano altro. A volte Jeyne si lasciava trasportare da come doveva essere, come le avevano detto che era, nonostante nessuno degli uomini del Nord l’avesse visto mai, coi capelli intessuti nell’oro, bravissimo con la spada, galante – s’alzava in piedi e batteva le mani, entusiasta. Lei, al contrario, rimaneva signorilmente accomodata sulla panca, con il tombolo in grembo, perché lei era stata educata, perché lei era una lady, perché a lei il principe si sarebbe rivolto con un inchino educato, seducente, meraviglioso – proprio come voleva il bon ton.

 

(Avrebbe avuto un sorriso stupendo, i capelli che sembravano raggi sole, le gote rosa e gli occhi come zaffiri. Avrebbe appoggiato le proprie labbra sulla sua mano e le avrebbe sorriso contro la pelle, guardandola fissa.

E sarebbe stato amore a prima vista.)

 

Poi, era arrivato il re (finalmente): e con lui era arrivata la corte – damigelle e cavalieri e le cappe dorate, mio dio, il corpo scelto della guardia reale, con armature che brillavano contro la neve come doveva brillare il sole del Sud; ed erano arrivati la regina e i suoi figli. Tommen, piccolo e paffuto, e Myrcella, elegantissima, ma sciatta. E poi, Joffrey: stupendo.
Joffrey – ch’era davvero biondo come i gioielli della madre erano preziosi e, anche se aveva occhi verdi come germogli e non blu come le profondità del mare che lambiva Approdo del Re, era il più bel ragazzo che Sansa avesse mai visto. Il suo corpo non era atletico come lei e Jeyne Poole l’avevano immaginato, ma era ancora così giovane, ed era così chiaramente nato per imbracciare una spada e… e ci sarebbe stato tempo. Ci sarebbe stato tempo, per i baci all’ombra di alberi che lei poteva solo immaginare, cresciuti nodosi e forti in giardini fioriti che non avevano mai conosciuto il gelo, per imparare ad amare i suoi occhi di giada e per guardarlo allenarsi, osservarlo vincere ogni torneo, sentire il cuore esplodere ogni volta che lui – sempre sempre sempre – le avesse dedicato un inchino, uno sguardo, un sorriso, una vittoria.


Per un po’, per un po’, era stato così. Magnifico. E lei aveva sognato dolci, al suo matrimonio, e balli e canti che dicevano Lady Sansa, rosa d’Inverno, Ammalò re Joffrey d’amore eterno.

 

(«Oh, Lady» aveva sospirato la notte prima della partenza, col respiro affannato dalle fantasie di mille feste che le correvano veloci davanti agli occhi. «Sarà fantastico. Tu sarai la prima metalupa ad arrivare ad Approdo – e tutti ti ammireranno e mi invidieranno e tu sarai sempre al mio fianco.»
L’aveva stretta sé e Lady s’era lasciata accarezzare, s’era voltata sulla schiena per farsi grattare il ventre delicato – e l’aveva fatto con la grazia ferina che i menestrelli attribuivano alle pantere di Dorne. Se non fosse stata così sciocca, così ingenua, così bambina, forse avrebbe visto in quel gesto, in quel ventre molle e caldo offerto alle sue carezze come un tributo, l’ombra del futuro che le aspettava.
«I lupi non sopravvivano al Sud» aveva scimmiottato il Gran Maestro. «Sciocchezze. Tu non sei un lupo qualsiasi. Sei Lady. Un animale degno della futura regina.»)

 

 

 

Invece: Joffrey era diventato pian piano scortese e maligno e poi s’era fatto semplicemente crudele – l’aveva fatta picchiare con un sorriso vacuo in volto e le aveva fatto assistere alla testa di suo padre che rotolava sui gradini del Tempio con il volto distorto da cattiva allegria.

 

(Lady non era mai arrivata ad Approdo del Re, suo padre era morto, Arya sparita ed ogni istante era diventato terribile, lentissimo, un’agonia terrificante.)

 

 

 

«Ti sposerà» le disse Cersei avvicinandosi un calice di vino alle labbra color del sangue. «Perché mio figlio è un uomo buono, piccola mia.»
Sansa aveva chiuso gli occhi, aveva annuito e s’era morsa a sangue le guance per non replicare: Vi prego, no no no no.
«Scrivi la lettera, adesso. E nessuno soffrirà più. Tu e Joffrey vi sposerete e sarà la cerimonia più sfarzosa dei Sette Regni.» Un’occhiata benignamente divertita, un lampo, come, mentre le ciglia lunghissime le nascondevano gli occhi brillanti – smeraldi infondo ad un lago: «È questo che desideri, no?»

(C’era una favola, o c’era stata nei tempi dei racconti di septa Mordane, che ora stagnava nella sua mente – anche se la septa le aveva ripetuto più volte che non si trattava affatto d’una storia di fantasia – che raccontava di rubini, sangue e di un fiume sulla cui riva era morto un principe – ed era principe traditore, Sansa ne era sicura, ma riusciva a figurarsi soltanto le sue mani, bianche e affusolate, stringere la spada ed andare incontro al proprio destino. Le stesse mani con cui aveva raccolto ed intrecciato rose blu per una lady che non era sua moglie.
È questo che desideri, no?)

 

Sansa s’era affacciata ogni mattina ed ogni mattina aveva ingoiato la nausea, aveva respirato con la bocca, s’era rifiutata di soffermarsi sull’odore di carcassa che arrivava da sotto la sua finestra, s’era tappata le orecchie ed aveva creduto d’impazzire al ronzio continuo di sciami di mosche ingorde – era allora che ci aveva pensato: L’inverno sta arrivando. Faceva troppo, troppo caldo.
L’inverno sta arrivando: deve arrivare.
Deve.
S’era detta che forse era già arrivato, per lei, che forse il ghiaccio un giorno sarebbe stato così spesso da impedirle di respirare. Poi, però, s’era ricordata del lord suo padre e del suo sguardo piantato su Robb, l’ultima volta che si erano visti, quando poi lei, Eddard Stark e sua sorella Arya erano partiti col re e la sua corte (ed era stato l’inizio della fine): «L'inverno sta arrivando» ricordava avesse detto e Robb s’era costretto a sorridere un poco, di fronte al loro motto, perché è questo che uno Stark deve fare. Aveva annuito: «E Grand'Inverno lo accoglierà.»
E ogni uomo del Nord l'avrebbe accolto. L’inverno sarebbe arrivato e gli uomini del Nord gli sarebbero sopravvissuti.
Sarebbero stati giorni duri, tremendi, giorni che la Sansa che era partita lasciandosi alle spalle la propria infanzia senza nessuna preoccupazione non poteva neanche immaginare – ma era nata al Nord e dai ghiacci era stata forgiata: se qualcuno ad Approdo del Re fosse sopravvissuto alla fine dell'Estate, sarebbe stata lei.
Ovviamente sarebbe stata lei.

 

L'inverno sta arrivando, s’era detta. E l'aveva pensato con paura ed anticipazione insieme. Sta arrivando.

 

Paura e partecipazione e speranza.

 

L’attesa di una risposta da parte di Robb era stata terribile ed estenuante, giorno dopo giorno dopo giorno, a bisbigliare Io prego, prego, prego i Vecchi e i Nuovi Dei, a dire, con voce ferma e sguardo vuoto, Lo amo con tutto il mio cuore, a sognare una festa di nozze chiassosa, allegra, piena di rubini rossi (come il sangue) e oro di corone e capelli (a svegliarsi di colpo, notte dopo notte dopo notte, soffocando i singhiozzi contro il cuscino) – ed anche quando era stato chiaro che una missiva di ritorno non sarebbe arrivata, e quindi era stata chiara la risposta implicita di suo fratello, non aveva smesso un attimo di sperare che il giorno del suo matrimonio (e se glielo avessero detto soltanto qualche mese prima non solo non ci avrebbe creduto, ma anzi: si sarebbe arrabbiata, offesa, se ne sarebbe andata stizzita) non venisse mai.
Mai.
L’inverno sta arrivando, si era ripetuta. L’inverno sta arrivando, ogni istante di tortura, a tavola con Cersei, il suo futuro sposo e Tommen e Myrcella. Sta arrivando. Le era sembrato profetico, terribile. L’inverno sta arrivando. Erano parole dal gusto familiare, casalingo, ed eppure rigirarsele nella mente era come stringere fra i palmi nudi una lancia scheggiata.

 

Cersei – Cersei, ch’era stata come una fata di un racconto, che le era sembrata così bella e gentile e inaccessibile, a cui s’era rivolta come ad una madre, ma con più ammirazione – l’aveva lasciata crogiolarsi nella sua disperazione ancora un po’. Poi, con tono affranto e occhi brillanti di verde compatimento aveva sussurrato, tiepida come velluto contro la pelle: «Tu capisci, vero, piccola mia? Joffrey è un uomo buono, ma non può sposare una lady con un padre ed un fratello che l’hanno tradito.»
Chiedigli una grazia, era rimbombato nella mente di Sansa come una risata maligna e dolcissima, Lui ti ama, lui ti ascolterà (perché i principi, nelle fiabe della Vecchia Nan e nei racconti di storie vere di septa Mordane ascoltavano sempre quello che imploravano le loro signore). Chiedigli una grazia.
Sansa aveva accarezzato distrattamente l’idea della propria testa su una picca, s’era figurata con perfetta chiarezza le mosche camminarle sulle guance incolore ed i vermi scoppiarle gli occhi, scavarle nelle orbite, i corvi aggrapparsi ai suoi capelli stopposi – chiedigli una grazia. Poi aveva pensato a Robb e s’era stretta la gonna fra le mani. Se l’era immaginato fulgido della bellezza di loro madre, possente nella fierezza di loro padre, marciare in groppa ad un enorme, inverosimile, Vento Grigio – come aveva sentito sussurrare dai servi (come avrebbe creduto anche lei, sciocca ragazzina, se glielo avessero detto Jeyne Poole o Nan, quando ancora abitava a Grand’Inverno e non conosceva che il dolore della punta di un ago contro il polpastrello). Aveva annuito: «Capisco» ed ingoiato il sapore amaro e tiepido del vino col miele.
Grazie, grazie grazie grazie.
«Ma non preoccuparti» Cersei aveva incurvato le sue labbra bellissime, soffici, lucide di vino e di sugo d’arrosto, ed era stata chiarissima, per un attimo, la sua somiglianza con Joffrey «Ti troveremo un altro sposo.»


(«Sarebbe così bello, se fossimo sorelle. Non lo pensi anche tu, lady Sansa?»
Margaery era perfetta, padrona di sé stessa, bellissima, delicata: «Ad Alto Giardino, Loras potrebbe fare piantare una siepe di rose blu. Da noi le chiamiamo Rose d'Inverno.»
Sansa aveva annuito, l'aria torrida della canicola ad appiccicarle le trecce sulla nuca. La Sansa che passava le mattine a ricamare e i pomeriggi a sospirare con i racconti di Jeyne Poole nelle orecchie, ne sarebbe stata entusiasta, estasiata: avrebbe immaginato giardini fioriti di blu e canti accompagnati da arpe – e Loras, d'altronde, era esattamente il lord dei suoi sogni. Se lo sarebbe figurato sorriderle, soffice – lui, di certo, le avrebbe stretto le mani fra le dita: «Vi amo» avrebbe detto. «Vi amo così tanto. Vi amo ogni giorno di più, mi sembra d’impazzire.»
«Se mi amate» avrebbe risposto lei, cercando nel suo viso una sola goccia di incertezza – e non ne avrebbe trovata – «Sposatemi» intraprendente come non lo era mai stata prima. «E io sarò vostra come voi sarete mio.»


«Sarebbe stupendo, mia signora.»
Non ci aveva creduto neppure per un istante.

 

Non le aveva spiegato che a Grand’Inverno le rose non fiorivano, mai, neanche nei mesi più miti dell’anno, e che quella delle rose dalle corolle color del ghiaccio colte dai principi per le proprie amate era solo una diceria dell’Estate – se non peggio: una storia vera e maledetta, petali pallidi macchiati di sangue rubino.)

 

 

 

«Non preoccuparti.» 

L'inverno sta arrivando.

«Ti troveremo un altro sposo.» 

Le dita di Cersei avevano stretto il calice ricolmo di vino «Il vostro matrimonio sarà migliore di quanto immagini.»

L’inverno sta arrivando e lo aspetteremo insieme.

 

 

 

(«Non devi preoccuparti, mia signora» le aveva detto Maergery con quel suo sorriso da madre, da amante, da donna imbattibile: stupendo. Da regina nata: «Mi sei cara come una sorella, non lascerò mai che ti accada nulla di male.»
Sansa era stata disperatamente tentata dal chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dalle sue rassicurazioni, ma poi due mosche s'erano posate sul vassoio dei pasticcini e Sansa aveva sentito il cuore gonfiarsi d'angoscia. Maergery, invece, non aveva neanche abbassato le sguardo: le aveva sorriso, dolcissima, incurante, mentre le sue dita abbronzate ed eleganti s’agitavano con distrazione verso il tavolo per scacciarle – non era sembrato importante.
Lo era.
Sansa aveva sentito lo stomaco stringersi e le labbra incurvarsi in un sorriso piccolissimo, quasi di scuse: «Siete molto dolce, mia regina.»)

 

 

L’altro sposo era stato Tyrion. Tyrion il Nano, Tyrion il Folletto, Tyrion leone maledetto, che non aveva lasciato che Joffrey bruciasse in ruggenti fiamme d’Alto Fuoco, ma anzi: gli aveva lasciato ogni merito della riuscita della battaglia. Tyrion, bruttissimo e volgare, nato abominio, incapace di camminare dritto, figurarsi di tenere in mano una spada. Tyrion, che in fondo non era altro che un ennesimo sogno infranto.
Tyrion, ubriacone deforme, il miglior cliente di ogni bordello dei Sette Regni.
Jayne Poole ne avrebbe riso: Lady Sansa, rosa blu-inverno, Colta da un mostro scampato all’Inferno.
Sansa l’aveva fissato e fissato e fissato, ma neppure una volta era riuscita a scoprirgli addosso uno sguardo simile a quello di Joffrey o un sorriso come quello di Cersei.
(Ma non si sarebbe fatta ingannare, non questa volta: il Nano, lo sapevano tutti, era furbo quanto brutto.)

 

 

L’altro sposo era stato Tyrion Lannister, che dicevano avesse pisciato dalla Barriera al fianco del bastardo di suo padre e che ci fosse arrivato così ubriaco da rischiare di cadere dall’altra parte, dove vivono i mostri suoi pari.
Il vestito che le avevano portato in camera era di broccato dorato, lavorato minuziosamente da mani non sue, pesante, lungo, bellissimo. Le ancelle le avevano intrecciato i capelli rossi come lingue di fuoco, glieli avevano pettinati a lungo, glieli avevano ammirati attraverso lo specchio, frementi d’invidia che assomigliava tristemente alla compassione: li avevano appuntati alle tempie con fili d’oro, incrociati sulla nuca, fatti scivolare sulle spalle. Lei si era guardata per tutto il tempo, mentre la vestivano e le massaggiavano la pelle con olio profumato e la coccolavano come non le accadeva da tempo – e tutto quello che era riuscita a pensare, durante i preparativi per il suo matrimonio, era stato: Finirà. Tutto questo finirà. Nessuna tortura, per quanto ben congegnata, poteva durare in eterno, la sua vita non era eterna, e l’inverno… l’inverno sarebbe arrivato a mitigare – no, meglio a spegnere il sole impietoso del Sud. Presto.
Prima di quanto anche solo potesse immaginare (ma sempre più tardi di quanto avrebbe voluto).
Aveva chiuso gli occhi e si era lasciata annodare il vestito stretto in vita e poi li aveva riaperti e s’era detta: È tutto ciò che hai sognato. Da sempre. Sposare un nobile con un vestito splendido ed una bella cerimonia. Per qualche istante, era persino riuscita a sorridere.
Poi era arrivato Tyrion e il panico le era montato nuovamente in petto.
(Anche se Tyrion era stato stranamente gentile, anche se non aveva sorriso a sua volta, mai, neppure per un istante, anche se l’aveva guardata negli occhi con una pena infinita – e nessun grammo di divertimento.
Ma Tyrion era pur sempre un Lannister, anche se venuto male. Non doveva dimenticarselo mai: anche se era il peggiore, fra i Lannister protettori dell’Ovest, era pur sempre lo zio di Joffrey.)

 

 

La cerimonia, prevedibilmente, era stata inutilmente sfarzosa, chiaramente denigrante. Sansa aveva camminato pianissimo, gli occhi fissi sul sorriso incoraggiante di Maergery (Maergery, ch’era come lei e Jeyne s’erano immaginate dovesse essere la sposa di un re, con la pelle profumata di sole e sorrisi bianchi come gigli selvatici. Ed era così gentile con lei, così dolce, voleva esserle amica, mentre lei, lei, lei – lei era così abbietta da sentirsi sollevata dal non essere più al suo posto). Joffrey le aveva offerto il braccio e l’aveva ripresa, maligno: «Tuo padre è morto» chiedigli una grazia chiedigli una grazia chiedigli una grazia lui ti ascolterà deve farlo sarai la sua sposa non potrà rifiutarsi chiediglielo lui ti ama (e come ogni principe delle favole non scontenterebbe mai la sua principessa) «E come padre del reame è mio dovere accompagnati da tuo marito» aveva sorriso come un bambino capriccioso che ha appena ottenuto tutto quello che vuole e l’aveva sentito distintamente godere, al suo fianco, di ogni doloroso passo che avevano mosso verso l’altare. Gli invitati l’avevano guardata con una sorta di compatimento divertito, mentre avanzava, s’erano morsi le labbra per non ridere, le donne avevano nascosto le loro espressioni di scherno dietro le dita, gli uomini avevano distolto lo sguardo. Lei aveva cercato di sorridere. Aveva ingoiato la rabbia e il vomito e la bile e le lacrime, aveva fissato Maergery, vicino a Loras e a sua nonna, aveva superato Cersei senza cercarla con gli occhi. Era salita su ogni gradino col cuore sempre più pesante. E poi s’era fermata. Davanti al suo futuro sposo. Avanti al Folletto.
L’inverno, s’era detta, stringendo i denti. Puoi farcela. Fino a quando non giungerà. Resisti.
Oh, sì, l’inverno sarebbe arrivato, presto, prestissimo, e avrebbe lavato via ogni umiliazione con la sua neve benefica, avrebbe lenito ogni ferita col suo cielo plumbeo e gravido di tempeste, avrebbe reso ogni istante sopportabile, da dietro una lastra di ghiaccio. Sta arrivando.
«Ehm. Potresti..? Puoi?» e di colpo si ricordò che le cerimonie del Sud non erano diverse da quelle Nord, che ad Approdo del Re così come a Grand’Inverno il marito doveva coprire le spalle della sposa con un mantello, in segno di protezione. Che un marito avrebbe dovuto arrivare alle spalle della sua sposa.
(Si ricordò, anche, di aver sognato – in una vita che non sembrava neppure più la sua, tanto era lontana nel tempo e nello spazio – che un cavaliere le donasse il proprio mantello di seta, che ce l’avvolgesse, che la stringesse fra le braccia e le baciasse le tempie, sotto un Albero-Diga, che le sussurrasse: Siete bellissima, vi amo, vi amo, sono così fortunato ad avervi trovata.)
Il suo cuore ebbe uno spasmo. Un battito sordo, simile al tonfo di una testa staccata dal corpo dal colpo netto d’una scure, e che poi rotoli sul marmo del piazzale d’un tempio in minuscoli tonfi più piccoli di gradino in gradino. Aveva chiuso gli occhi, per un istante, aveva escluso dalla sua mente ogni risata, ogni persona, ogni pensiero che non fosse la neve che cadeva soffice oltre la finestra della camera che era stata sua, a Grand’Inverno, e s’era chinata.
In ginocchio davanti al Folletto, non aveva riaperto gli occhi neanche quando li aveva sentiti bruciare come tizzoni ardenti conficcati nella pelle.
Mentre si rialzava, mentre il prete diceva: «Vostra grazia – vostra grazia, miei signori, mie signore: siamo qui al cospetto degli Dei e degli uomini per testimoniare l’unione di un uomo e sua moglie…» il mantello con cui Tyrion Lannister il Nano l’aveva coperta le era pesato addosso come se fosse stato una lapide.
«…Un corpo. Un cuore. Un’anima. Ora e per sempre.»
Come una condanna siglata dal re.

 

La cena era stata un trascinarsi lentissimo di stridii di sedie su pavimenti. Il Folletto – Tyrion, chiamami Tyrion – ad un certo punto era stato così ubriaco da crollare con la faccia nell’arrosto. Purtroppo, si era rialzato immediatamente dopo, ridendo sguaiatamente.
Sansa lo guardò con lo stomaco stretto, mentre si puliva la bocca sporca di vino nella tovaglia e si sentì parlare come attraverso ad un tunnel: «Con il tuo permesso, mio signore.»
La risposta non tardò ad arrivare e lei si alzò, barcollante, per camminare per la sala: camminare fra la gente che aveva smesso di fissarla con scherno per parlare del cibo e scherzare – ma che pure di tanto in tanto le lanciava ancora un’occhiata di divertito, per nulla sentito, compatimento – era meglio che stare al tavolo con Tyrion Lannister al proprio fianco e lo sguardo bruciante di Joffrey addosso. Joffrey, che aveva sorriso tutto il tempo lo stesso sorriso che le aveva rivolto quando gli aveva chiesto di risparmiare la vita a suo padre e quando le aveva mostrato le teste sulle picche e quando aveva ordinato a Ser Clegan di picchiarla. Si sentiva soffocare.
«Mia signora…» Varys le aveva fatto paura, quand’era arrivata ad Approdo del Re. Era pelato e pallido e il suo sorriso era languido, le sue mani grassocci vermi bianchi viscidi di sudore. Adesso, non le faceva che un po’ d’effetto: «Mio signore» rispose quindi con voce ferma, anche se con gli occhi continuò a cercare un angolo in cui appartarsi per qualche minuto e riprendere fiato.
Lui le sorrise: «Le stelle sono bellissime, questa sera, mia signora. È un buon auspicio, dicono.»
Quand’era stata a Grand’Inverno, Sansa aveva passato lunghe notti a fissare le stelle e cercare di ritrovarvi i principi che la Vecchia Nan le aveva detto finivano lì, quando cadevano in battaglia. S’era chiesta con una stretta di dolorosa apprensione se il suo principe non ci stesse mettendo così tanto tempo ad arrivare perché imprigionato in un disegno nel cielo. Era stata un bambina così stupida. Si era crogiolata in dolori infantili, ed aveva goduto dei brividi che lo struggimento sciocco delle favole senza lieto fine le procuravano: «Al Nord utilizziamo le stelle per orientarci, quando le bufere modificano il paesaggio» si risolse a rispondere forzando un sorriso.
«Ma certo» annuì Varys «Lo si fa anche in mare» poi si fermò e parve riflettere per un istante, soppesandola con lo sguardo «Ma c’è della bellezza anche nelle cose utili, non è vero?
La posizione delle stelle dice che sarà un buon matrimonio, il tuo, mia signora. Se credete a questo genere di cose. Ma infondo, perché non crederci? Tyrion Lannister è un uomo particolare, se mi permettete, ma a conoscerlo si scopre che è un uomo buono.»
(È un uomo buono, mio figlio, lui ti ama, chiedigli una grazia, ti sposerà, non potrà rifiutarti mai nulla.)
Sansa aveva sentito l’arrosto spingerle nella trachea e si era allontana in tutta fretta.

 

«Congratulazioni, mia signora» per qualche estatico istante aveva dimenticato lo sguardo di Joffrey che le grattava la pelle. Poi, le sue unghie si erano piantate in quella sottile del suo polso e Sansa era stata costretta a voltarsi: «Molte grazie» aveva bisbigliato, cercando di liberarsi senza strattoni. «Altezza.»
Lui aveva sorriso di nuovo quel suo sorriso terribile: «Ce l’hai fatta, hai sposato un Lannister. Presto da un Lannister avrai un bambino. È un bel sogno che si realizza, giusto? Che giorno meraviglioso.»
Sarebbe stato bellissimo, aveva pensato l’ingenua Sansa che ricamava seduta vicino al camino. Stupendo. Al banchetto tutti si sarebbero complimentati con lei e i suoi fratelli avrebbero fatto a gara con gli altri lord per rubarla allo sposo almeno il tempo di un ballo. Il suo amato l’avrebbe fissata tutto il tempo, mai si sarebbe fatto distrarre, e se avesse parlato con qualcun altro l’avrebbe fatto soltanto per confessare quant’era felice, al fianco di lady Sansa – sua moglie, finalmente. Lei avrebbe passato la serata con la testa leggera di felicità e quando poi avrebbero avuto dei figli sarebbe stato dolce e delicato, al chiaro di luna. E i loro bambini avrebbero avuto gli occhi di suo marito e i capelli rossi come i suoi e sarebbero stati piccoli lord e piccole lady, bellissimi, educati, elegantissimi.
E invece.
(Solo l’idea delle mani deformi di Tyrion Lannister sulla sua pelle le rendeva difficile respirare.)
«Sì, vostra grazia.»
Gli occhi di verdi di Joffrey erano scintillati di maligno divertimento: «Suppongo che non abbia molta importanza quale Lannister ti metterà incinta» Vi amo, avrebbe sussurrato il suo sposo e sarebbe stato gentile, attentissimo, e quando avesse finito avrebbero parlato a lungo di che nome avrebbero dato alle loro creature «Forse ti farò visita, questa notte, dopo che mio zio sarà crollato – ti piacerebbe?» chiedigli una grazia, chiedigliela, vedrai, è un uomo buono «Pensi di no?»
L’invero sta arrivando, si costrinse a pensare. Immaginò Vento Grigio correre fra la neve e ululare nella notte, elegante come solo un lupo al Nord può essere. Sta arrivando. Aspettalo.
«…Ah, d’accordo, Ser Merys e Ser Boros ti terranno ferma.»
Ma nonostante l’immagine di Estate e Cagnaccio che giocavano davanti al focolare come quando ancora Grand’Inverno era casa sua, non era riuscita a frenare i tremori e Joffrey se n’era accorto – ovviamente se ne era accorto – perché  l’aveva stretta ancora più forte per il polso e poi aveva urlato, sovrastando le chiacchiere di tutta la sala: «La cerimonia della messa a letto!»
La trascinò nuovamente al centro della stanza, strattonandola sotto gli occhi divertiti e pietosi di ogni invitato.
Tyrion biascicò qualcosa che Sansa non capì, ma che le serrò lo stomaco dall’angoscia.
«Dov’è il tuo rispetto per la tradizione, zio?» gli rispose a tono il principe, invece, «Venite tutti, prendetela e portatela al letto nuziale – toglietele subito quell’abito, tanto non le servirà più, adesso» ogni parola era un coltello piantato nel petto, una fitta che le partiva dal braccio per arrivarle a pulsare nelle tempie, un conato dal sapore sempre più disgustoso. Joffrey s’era voltato con una risata di gola «Dame, occupatevi di mio zio: non è pesante.»
Le risate degli invitati erano risuonate nelle sue orecchie come campane d’una messa a morto.
«Non ci sarà alcuna cerimonia» rispose Tyrion, chiudendo gli occhi. E forse lo stava ripetendo, forse aveva detto proprio questo, prima, non era importante.
(«Non sarebbe dignitosa, una rissa la sera del matrimonio – disse. Disse proprio così» aveva raccontato septa Mordane una sera, a lei e a Jeyne, quando le avevano chiesto del matrimonio di Ned Stark e Caitlyn Tully. A Sansa era sembrato stupido, perché le tradizioni erano fatte per essere rispettate. A pensarci adesso, doveva essere stato con sollievo disperato che sua madre aveva accolto le parole del giovane lord a cui era andata in sposa – forse aveva iniziato ad amarlo proprio in quell’istante.)
«Ci sarà la cerimonia, se io lo comando» Joffrey strinse gli occhi e serrò la presa sulla sua carne: ci sarebbero rimasti i segni. Forse avrebbe dovuto portare un bracciale dorato per coprirli: il giorno dopo, quando tutto fosse finito – in una maniera orribile che non voleva immaginare, ma pur sempre finito, almeno per qualche ora, finito. Riuscì a stento a ricacciare le lacrime in fondo alla gola.
(Avrebbero ballato a lungo, si era immaginata Sansa, e tutti avrebbero chiesto a suo marito se potevano avere l’onore. Lui avrebbe risposo Sì, sì certo – perché era stato educato – ma l’avrebbe fissata con rammarico, col cuore spezzato dal doversi allontanare da lei anche solo per qualche minuto.)
Tyrion ringhiò. E piantò un coltello sul tavolo: «E allora» biascicò, ma riuscì a sembrare credibile nonostante non si reggesse in piedi «ti scoperai la tua sposa con un bel cazzo di legno.»
«Cosa hai detto?! Cosa hai detto!?»
(Sarebbe stato un uomo così dabbene, così dolce, così delicato – al corrente di tutte le usanze e delle migliori buone maniere. Non avrebbe mai dovuto neanche alzare la voce, perché tutti avrebbero trovato naturale rispettarlo ed amarlo anche solo a guardarlo – tutti, lei compresa, ma lui non avrebbe avuto occhi che per lei.)
Era dovuto intervenire Tywin Lannister, primo cavaliere del re – suo suocero. Era stato terribile ed umiliante, ma nulla di nuovo: seguire il suo sposo nella camera, sotto gli occhi di tutti – l’ennesima camminata al patibolo.
(Non sarebbe mai dovuto intervenire nessuno, in alcuna conversazione, perché il lord suo marito sarebbe stato galante e gentile e così bello e maestoso che nessuno avrebbe mai detto nulla di meno che cortese, in sua presenza.)

 

 

«Quanti anni hai?» le aveva chiesto Tyrion, quand’erano stati soli, nell’intimità terrificante della loro stanza (quando aveva risposto le era parso che stesse per rigettare tutto il banchetto sul pavimento). E poi: «Fermati. Non posso. Non posso farlo. Potrei, ma non… se mio padre vuole che qualcuno venga fottuto cominci da sé stesso.»
Non sarebbe dovuta andare così – no no no no. Eppure era stato un sollievo.
Magari, solo magari, Tyrion Lannister si sentiva stretto quel matrimonio quanto lei.


Spose d’Inverno, Amore eterno, Spose d’Estate: Mai amate.
Meglio così.

 

(Ai tempi dei racconti e dei ricami aveva creduto che avrebbe tremato d'aspettativa. Che lui le avrebbe sfilato il vestito da lei stessa cucito con dolcezza infinita – che l’avrebbe fissata come si fissa una stella.
La stoffa sarebbe scivolata a terra producendo un rumore lieve, come una rosa staccata dal gambo – petali d’un colore impossibile che frusciano in grembo ad una lady promessa ad un altro – e lui avrebbe chiesto: Siete forse nata dai miei sogni, mia signora?)

 

«Non entrerò nel tuo letto. Finché non sarai tu a volerlo» le disse Tyrion la prima notte di nozze. Le era sembrato così strano. Così gentile. Così poco simile a Cersei e Joffrey.
«E se non lo volessi mai, mio signore?» aveva domandato quindi, spinta da una forza invisibile – e aspettare una risposta era stato come affacciarsi alla finestra e vedere le teste di suo padre e di septa Mordane e dei cavalieri fedeli al Nord in fila sulle picche, come avere le unghie di Joffrey piantate nella pelle, come scoprire di star sanguinando per la prima volta.
«E così» aveva mormorato lui in risposta. «La mia veglia comincia.»
Non le era sembrato arrabbiato, però, solo amareggiato – e per qualche motivo non le era parso di essere lei la causa di quello stato d’animo.

Grazie – grazie grazie grazie.

 

(«Non dovrete avere paura più di nulla, mia signora» le avrebbe detto lui, salendo le scale.
«Vi proteggerò io – ci sono io» le avrebbe baciato la pelle con lentezza, si sarebbe preso tutta la notte per impararne il volto a memoria.)

 

A letto, con una candela ad illuminare il viso deforme e dormiente di suo marito Tyrion Lannister, la scimmia demoniaca, assopito sul divanetto dall’altra parte della stanza, Sansa aveva sentito la voce di una Jayne Poole bambina ridacchiare: L’inverno arriva, arriva, arriva Arriva l’inverno, inverno, inverno Riposo eterno Trema ragazza: arriva l’inverno! Principe crudele, principe giusto È di ghiaccio la sua corazza.
Sarebbe arrivato l’inverno. Ma certo. Sarebbe arrivato Robb in groppa a Vento Grigio, come credevano tutti quegli sciocchi che non avevano mai visto un lupo. Sarebbe arrivato e lei lo avrebbe aspettato.

 

Shae camminava dietro di loro come un’ombra amica. Passeggiavano con calma lungo i viali di Approdo del Re, evitando gli sguardi di scherno con una morsa allo stomaco, quando aveva sentito Tyrion borbottare qualcosa. Dei nomi: ser Eldrich Sansfild e lord Desmond Creicol.
Sansa s’era volta in tempo per vederli lanciare loro un’occhiata e ridere. Ser Eldrich Sansfild e lord Desmond Creicol: «Fai una lista delle persone che vuoi morte?» domandò Sansa, nel disperato tentativo di scorgere in lui qualcosa che glielo facesse odiare, che glielo allontanasse, un aspetto di lui che assomigliasse alla crudeltà divertita di Joffrey o a quella dolce come il miele sciolto in lunghi sorsi di vino di Cersei.
«Perché ridono di me? Io non sono come Joffrey. No, la morte sarebbe davvero troppo. Avere paura della morte, invece…»
Sansa conosceva il bruciore dell’umiliazione sulla pelle: «Ascoltami, cerca solo di ignorarli.»
«Mia signora» il sorriso di Tyrion non era stato amaro neanche la metà di quello che si sarebbe aspettata. «Le persone ridono di me da molto tempo prima che schernissero te. Io sono il mezzo uomo, la scimmia demoniaca, il Folletto.»
Sansa scosse la testa: «Tu sei un Lannister», doveva pur valere qualcosa, «Io invece sono la figlia sventurata del traditore Ned Stark.»
«Figlia sventurata e scimmia demoniaca. Siamo fatti l’uno per l’altra.»
Sansa non era riuscita ad impedirsi di sorridere. Forse – forse, se non proprio un compagno, se non un marito, Tyrion Lannister poteva essere per lei qualcosa di simile ad un alleato.

 

 

 

Robb non era arrivato affatto. Cersei s’era premurata di aspettare che Sansa sentisse la descrizione di come gli avessero tagliato la testa, di come gli avessero cucito sul collo il ringhioso muso del metalupo che lo accompagnava, prima di zittire lo scudiero che le stava raccontando: Le nozze rosse, le chiamano, mia signora – lui era sobbalzato, s’era voltato, ed era arrossito: Sansa non aveva distolto lo sguardo nemmeno per un secondo, mentre lui sprofondava in inchini imbarazzati e scappava dalla stanza borbottando scuse. Tutto quello che le era riuscito di pensare, mentre ingoiava a vuoto un sapore acre che le cresceva sul fondo della gola, era che quell’uomo assomigliava vagamente ad una brutta parodia di Jamie Lannister – quel Jaime Lannister che era smontato da cavallo, quando la corte era arrivata a Grand’Inverno, e le si era inchinato con uno scintillio di maliziosa supponenza, negli occhi color di foglia. Quello stesso Jaime Lannister che suo fratello aveva tenuto prigioniero e che era infine tornato con una mano in meno.
«Mi dispiace che tu abbia sentito, piccola mia» le disse Cersei quando furono sole. «Ma dovresti essere contenta: i traditori sono stati sconfitti» e il suo sorriso era stato nascosto dal bicchiere con cui brindava alla vittoria. Sansa aveva risposto: «Ho pregato ogni giorno i Vecchi e i Nuovi Dei.»
I suoi occhi erano rimasti immobili, asciutti, fissi sulla mosca appoggiata sul bordo del calice d'oro che la regina reggeva fra le dita lunghe ed eleganti. Ho pregato ogni giorno. Ogni giorno. Ogni giorno ogni giorno ogni giorno.
Cersei aveva annuito, soddisfatta.
L'inverno sta arrivando, aveva ululato Vento Grigio nella sua mente, con la voce di suo fratello, e Robb le aveva sorriso da una picca, fra loro padre e septa Mordane. Ed io sarò qui ad aspettarlo.
«Con permesso» si era inchinata, ed aveva aspettato, gli occhi fissi sulle zampine della mosca che si sfregavano fra loro freneticamente.
«Ma certo, mia cara, vai a riposare.»

 

Mentre camminava per i corridoi, aveva sentito l’aria di Approdo del Re fin nelle ossa – afosa e umida, come il fiato di una bestia rabbiosa che le ringhiava sul collo.

 

 

Le regine delle mosche non si accorgevano mai.

 

 

 

 

 

Le nozze di Re Joffrey Baratheon e Maergery Tyrell furono esattamente quelle che la piccola lady Sansa di Grand’Inverno aveva sognato per sé: ricche, dorate, con mille e mille portate, e danze e canti e giullari – giovani vergini dalla pelle lucida di olio che si contorcevano in spettacoli ipnotici, fanciulli dai sorrisi perfetti che versavano zuppe di gamberi e fette d’agnello. C’era un menestrello che cantava struggente Il pelo d’oro, Rosso invero, E lunghi artigli ha, in onore del leone che si stava sposando quel giorno.
I doni erano ricchissimi: coppe d’oro, gioielli, profumi rinomati, armi dalle fogge più strane. Una spada in acciaio di Valyria che Arya avrebbe adorato. Un libro, rilegato in oro e pelle lavorata finemente, da parte di Tyrion Lannister, il Folletto, suo marito.
Sansa aveva ammirato ogni cosa, aveva gustato ogni portata, aveva bevuto un poco di vino.
Aveva stretto i denti e ingoiato fiotti di rabbia e soffocato urla affondato i denti nella lingua fino a sentire il sapore del sangue – dei nani circensi si erano esibiti nei panni di suo fratello Robb, il Re del Nord e degli altri pretendenti al trono. Aveva sentito Tyrion, rigido, vicino a lei, non emettere un fiato e si era scoperta furiosa con Joffrey anche per suo conto. Era rimasta immobile, stupita di non provare neanche eccessiva difficoltà nell’impedirsi di piangere, a fissare un punto indefinito oltre a sé – tutti avevano applaudito, quando il nano che interpretava Robb aveva perso la testa di lupo e tutti avevano riso quando la parodia di Joffrey l’aveva raccolta con gesti osceni.
(Tutti, meno un uomo dallo sguardo scurissimo, che la Sansa che aveva studiato per ore con septa Mordane aveva individuato immediatamente come il secondogenito della famiglia di Dorne – terzogenito, se si considerava la defunta Ellaria; l’aveva fissata senza fare un piega, i suoi palmi premuti sul tavolo mentre tutti gli altri battevano le mani, e lei l’aveva guardato di rimando, per lunghi attimi, fino a quando Joffrey non aveva riso ancora più forte, sputando il vino, stringendole il petto in una morsa di artigli.
Tutti avevano riso, meno lei, meno l’uomo che aveva al suo fianco e quella che la fissava rabbioso attraverso la folla).
Il principe era entusiasta, oltre che vagamente ubriaco, Margery elegantissima e superba, nell’ignorare la sua palese e completa mancanza di creanza. Quando si era rivolto a Tyrion, Sansa aveva urlato, nella sua mente, pur di non ascoltare: L’inverno sta arrivando. Roboante, con le sue bufere impietose, avrebbe seppellito tutti – tutti, tutti, tutti – gli abitanti di Approdo del Re. Non sarebbe rimasto nessuno. A parte lei. Nessuno. L’Estate, presto, finirà.
Aveva immaginato il viso di Joffrey. Il suo sorriso beffardo sbiadirsi, i suoi occhi verde pallido farsi vuoti – aveva immaginato la sua testa piantata su una picca, e vicino a lui ci sarebbe stata Cersei, ci sarebbe stato Jamie Lannister, ci sarebbero stati il volto decrepito di Walderfrey e quelli anonimi dei suoi innumerevoli figli. Si era concentrata sul rimanere immobile, la più bella cerimonia di sempre, con le spalle dritte, tutti ne parleranno ovunque, anche quando Tyrion gli aveva risposto, lasciandolo evidentemente insoddisfatto e furioso – tanto che s’era alzato, verranno ricordati per anni, lo splendore impareggiabile di Maergery dei Tyrell, la ricchezza delle celebrazioni in onore di re Joffrey e la sua signora, e si era avvicinato. E poi, poi, aveva rovesciato il proprio boccale di vino fra i capelli di suo marito: «Un’ottima annata» aveva decretato lui con voce fermissima, una calma esercitata in anni ed anni di umiliazioni ed angherie, neppure un accenno di rabbia o vergogna, e Sansa s’era sentita travolta da un’ammirazione che non voleva provare (non nei confronti di un Lannister). «È un peccato sprecarlo.»
Il viso di Joffrey, allora, s’era contorto in qualcosa di osceno, terrificante: «Non l’ho sprecato--»
«Amor mio!» Margery, bellissima nel suo vestito color cielo, fulgida di un’eleganza degna del fiore più bello di Alto Giardino, aveva allungato una mano verso Joffrey e gli aveva sorriso. «Torna da me. È il momento del brindisi di mio padre.»
«E come potrei brindare senza vino?» aveva replicato il suo novello sposo. Ci aveva pensato per qualche istante soltanto, prima che sul suo viso pallido e orribile sbocciasse il sorriso che popolava gli incubi di Sansa: «Zio – puoi farmi tu da coppiere. Mansione che si addice ad un codardo.»
Tyrion non aveva perso un colpo: «Maestà, sarà un grande onore.»
«Non voleva essere… un onore
A quel punto, Tyrion si era alzato, con quella sua andatura discontinua che rendeva imbarazzanti i momenti solenni e toglieva d’impatto a quelli terribili, e l’aveva guardata… con aria di scuse, quasi, come se non fosse stato lui a cuocere nella pubblica umiliazione. Il cuore di Sansa, lo stomaco, i polmoni – tutto quanto s’era annodato strettissimo e aveva provato l’impulso di alzarsi in piedi e piangere e urlare e scappare e avventarsi su Joffrey e--
Il tonfo del calice d’oro purissimo che cadeva sul palchetto di legno con un tonfo sordo e poi tintinnava rotolando sotto il tavolo riportò nella sua mente la testa di suo padre Ned che si staccava dal collo e il sangue che sporcava il marmo bianchissimo dell’ingresso del tempio. (Chiedigli una grazia è un brav’uomo ti ascolterà chiedigli una grazia un principe non potrebbe mai rifiutare nella alla dama del suo cuore.)
Prima ancora di poterlo decidere era accucciata e poi si sollevava oltre la tavolata per porgere la coppa di Joffrey a Tyrion. Tyrion sbatte le palpepre, come congelato dall’azione. Joffrey la guardò come se la volesse morta… il che, in effetti, era probabilmente vero. E lei voleva morto lui. Oh, lo voleva così tanto.
(Non ricordava di aver desiderato tanto ardentemente neppure baciarlo.)
Lanciò un sorriso timido a Tyrion: forse, si disse, forse non poteva essere una buona moglie, forse non voleva esserlo – non voleva che la toccasse, non voleva dargli dei figli, non voleva il suo cognome – ma poteva essere, di questo ne era sicura, una buona amica. Un’alleata.
«Inginocchiati davanti al tuo re» riprese Joffrey, chiaramente deciso a finire lo spettacolo.
Ma Tyrion non si mosse. Rimase fermo, con gli occhi brucianti di rabbia, a porgergli il calice. «Ho detto: inginocchiati.»
Sansa si sentiva girare la testa: un attimo prima avrebbe voluto vedere Joffrey agonizzante e quello dopo pregava perché Tyrion si inginocchiasse, perché non stuzzicasse ulteriormente il cane rabbioso che avevano per re. 
«Inginocchiati!»
Ti prego ti ti prego ti prego – ma non sapeva neppure lei per chi o per cosa e soprattutto che Dei stesse pregando.
(Chiedigli una grazie, chiedigliela, avanti.)
Qualcuno, comunque, rispose.
E rispose la Fanciulla oppure rispose la Madre oppure, ancora, risposero gli Antichi. Non aveva importanza: «Guarda, la torta!» esclamò Maergery, trillante.
La Sansa che era cresciuta a Grand’Inverno, la Sansa bambina stupida ed ingenua che era stata, aveva sognato una torta del genere, per la sua cerimonia nuziale. Aveva sognato vino dolce e torta al limone, dalla consistenza morbidissima di nuvola e sì, anche lo stormo di colombe bianche che si levò in volo fra la folla esultante. 
Eppure, eppure, eppure: adesso riusciva a scorgere solo le piume sporche della colomba che era stata tranciata in due dalla spada di Joffrey. L’idea del sangue che s’allargava sui gradini del tempio, del sangue che colava come liquore sciropposo sopra il vassoio, ed impregnava la mollica della torta le provocò un conato: «Possiamo andare, adesso?» domandò al marito, asciugandosi i palmi sudati sulla veste di broccato.
«Vediamo» rispose lui, e per un attimo, uno soltanto, fugace, quasi impossibile da notare, le parve vulnerabile come la stupida piccola Sansa aveva deciso che si sarebbe mostrato solo a lei, lo sposo dei suoi sogni. Avevano fatto per andarsene davvero, ma: «Zio? Dove vai? Sei il mio coppiere» li aveva fermati Joffrey.
Sansa aveva sentito solo il rumore del sangue che le rombava nelle orecchie, mentre Tyrion tornava indietro, arrancando sulle sue gambe corte, col vino che gli gocciolava dagli abiti, per versarne altro a suo nipote.
Quello che era successo dopo, quello che era successo, Sansa non riusciva a spiegarselo.

 

(Maestà? Joffrey! Amor mio! Joffrey ommioddio fate qualcosa sta soffocando Joffrey! Joffrey! Aiutatelo qualcuno lo aiuti per i Sette qualcuno lo aiuti no no no Joffrey piccolo mio no — quello che era successo era che gli Dei avevano risposto.)

 

 

 

L’Inverno sta arrivando, s’era detta fissando il punto dove era scomparso Dontos Hollard riverso sulla bagnarola con cui l’aveva aiutata a fuggire dal banchetto. E io sto tornando a casa.
L’inverno sta arrivando e io sarò lì ad accoglierlo.

 

Petyr Baelish l’aveva portata con sé, l’aveva guardata con affetto, le aveva parlato di un’infanzia dorata fra i ruscelli di Delta delle Acque. E Sansa aveva chiuso gli occhi: nel tempo ad Approdo del Re, Sansa aveva imparato ad ascoltare. I nomi, i soprannomi, le leggende – non c’era nulla di vero nelle favole, né nelle ballate, neppure nelle più perfide: se un uomo aveva un soprannome era perché non era stato in grado di scrollarselo di dosso, non perché se lo meritava. Non perché ne era fiero. Perché era debole.
Se un uomo comune sfidava a duello un cavaliere era per un motivo ed uno soltanto.
«Tua madre mi era cara in un modo che non puoi neanche immaginare, mia signora.»
Ma in realtà Sansa se lo immaginava benissimo.

 

Petyr la baciò che erano ormai al Nido dell’Aquila. La baciò con fervore, con passione, stringendole le dita fra le mani. Il giardino interno era fiorito di neve, mentre diceva «Tua madre era così bella. Tu lo sei ancora di più.»
(Vi amo, le avrebbe detto. Allora sposatemi, gli avrebbe risposto.)
Lo so, non gli aveva risposto, è per via della mia pelle, che prima era porcella e che adesso è acciaio: ingoiò ogni parola e gli regalò un sorriso.

 

Lady Sansa vergine-sposa, Lasciata vedova senza sciuparne la rosa: ecco dov’era stato l’inganno di Tyrion. O forse, forse, non era stato che un’altra vittima del gioco del trono. Non che importasse. Sarebbe morto. Ucciso. Un’altra testa in fila alla finestra. Ma lei non avrebbe guardato, non questa volta: di Lord Petyr poteva fidarsi, sì, lord Petyr era un uomo cresciuto ai confini del Nord – sua madre era cresciuta con lui e sua madre era stata così fortunata, con Ned, a Grand’Inverno, con un solo bastardo di cui vergognarsi e null’altro: una casa splendida, fra i ghiacci, ed un uomo onorevole, al suo fianco, e dei figli da stringere a sé durante le bufere. Non era sopravvissuta al declino dell’Estate, è vero, ma lei non aveva sangue di lupo.

 

«È un brav’uomo» le assicurò Ditorcorto. «Un uomo fidato» e un brivido gelido le si arrampicò su per la spina dorsale. 
(Ti sposerà, mio figlio, perché è un brav’uomo. Chiedigli una grazia, ti ama: ti ascolterà.)
La Sansa che era partita da Grand’Inverno avrebbe storto il naso: Un bastardo. Riconosciuto dal padre, certo, ma pur sempre un bastardo.
La Sansa che stava tornando aveva serrato le labbra: Un brav’uomo. 

 

«Ne siete sicuro, lord Bealish?»
«Non ti fidi, mia signora?»
Come potrei? Siete ancora vivo. Siete stato ad Approdo del Re e ne siete uscito vivo, e sulle vostre gambe. Non aveva detto neanche questo.

 

 

 

Rivedere Grand’Inverno fu come riprendere a respirare.

 

 

 

Il suo abito era di pelliccia, candido come la neve che scendeva quieta, più caldo di come l’aveva immaginato, più adatto al clima del Nord. I suoi capelli erano stati raccolti sulla testa, ombre color del fuoco sul viso, alla moda dei principi delle principesse nati ad un passo dalla Barriera. Ad accompagnarla non ci sarebbe stato suo padre – l’ultimo sorriso di suo padre era nero di mosche e la tormentava di notte – ma Theon. Theon Greyjoy, che aveva imparato a camminare con Jon, che aveva imparato a cavalcare con Robb, che aveva insegnato ad arrampicarsi a Bran: Theon Greyjoy che li aveva traditi, tutti, tutti quanti, ed era stato punito – ma non era ancora abbastanza. Non lo sarebbe mai stato.
«Ti scorto nel parco degli Dei, mia signora» aveva detto tremante, senza guardarla negli occhi.
(Sansa aveva riconosciuto nelle sue spalle tese la vergogna che le aveva insegnato Approdo del Re e non era riuscita a mantenersi poi tanto ferma nel suo rancore.)
Non sarebbe stato suo padre a portarcela, né sua madre l’avrebbe aspettata lì – e non ci sarebbero stati Arya e Robb e Bran e Rickon. Non ci sarebbe stato neppure Jon. Ci sarebbe stata solo lei. Lei e uno sposo crudele, un altro, e nessuna Maergery Tyrell, bella come un fiore già sbocciato, a prendere il suo posto.
Eppure. L’inverno, s’era detta, ed era quasi riuscita a sorridere: la neve rendeva bella ogni cosa, persino le rovine bruciate di casa sua, ed il Parco degli Dei conservava una bellezza struggente, malinconica, pur sotto una coltre di bianco.
(Chi viene nel parco dei dei?, avrebbe chiesto il Gran Maestro.
Sansa, di casa Stark, avrebbe risposto suo padre. Una ragazza matura, di sangue nobile. Viene qui per avere la benedizione degli dei. Chi la chiede in sposa?
E il suo amato avrebbe sorriso, avrebbe fatto un passo avanti e l’avrebbe fissata e i cuori di entrambi sarebbero scoppiati di gioia.)
«Ramsey di Casa Bolton. Erede di Forte Terrore e di Grand’Inverno» l’aspettava sotto l’Albero-Diga designato per la cerimonia.
E nulla era come se lo era immaginato – nulla. Però era finalmente tornata a casa.
«Prendo quest’uomo.»

 

Lady Sansa, di Grand’Inverno, aveva l’impressione che avrebbe cantato questa volta il giullare, Dimmi: ti piace l’Averno?

 

 

 

«Reek. Tu rimani.»

Sansa aveva a mala pena sentito l’umiliazione bruciarle la pelle, prima che arrivasse il dolore.

 

 

(Ramsey era d’una crudeltà esemplare, gelida, precisissima. Individuava con la certezza d’un cacciatore che incocchi una freccia il punto dove faceva più male ci si accaniva, ci si aggrappava, strappava con le unghie e coi denti – e coi coltelli, sussurravano le cicatrici traslucide sulla pelle sottile di Theon, con i coltelli.
Joffrey, in confronto, era solo un bambino.

Ma: L’inverno arriverà. Ogni istante che passava, ogni momento d’angoscia e dolore, sarebbe stato ricompensato dal suo arrivo: l’inverno sarebbe arrivato e gli sarebbero sopravvissuti solo i lupi.)

  
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