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Autore: cecchino_2028    18/01/2018    0 recensioni
Joyce rimane bloccato nel suo paese natale a causa di una bufera di neve, sarà costretto a fare i conti con alcuni sentimenti sopiti da anni.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Bufera di neve

 

La voce si espanse nella sala d'aspetto annunciando che i treni per Denver erano stati cancellati a causa della neve. Joyce si prese la testa tra le mani, imprecando tra i denti, aveva una consegna l'indomani e quella bufera lo stava bloccando a Wolfland, la ridente cittadina di settecento anime in cui era cresciuto. Fissò il display che segnalava gli orari dei treni in partenza, e li guardò scomparire uno dopo l'altro. La rabbia gli montò prepotente, aveva voglia di gettare all'aria le sedie di quella sala d'attesa deserta, ma si limitò ad afferrare la sua valigia e tornarsene suoi suoi passi, nel bel mezzo della bufera di neve, verso casa di sua nonna. Sarebbe dovuto tornare a New York, alla sua vita di sempre, aveva preso solo un paio di giorni di ferie, così da arrivare a Wolfland, aiutare sua nonna a sbrigare le mille scartoffie per l'eredità di suo nonno John, morto l'aprile precedente, e tornarsene nel suo appartamento di Brooklyn, dove avrebbe completato l'articolo sulla nuova mostra fotografica di Gas Halle, un giovane fotografo di paesaggi in piena ascesa. Invece si trovava lì, in quel piccolo paesino sperduto tra le montagne, che non compariva neanche nelle cartine geografiche, con il freddo che gli penetrava sotto il giubbotto, fin sotto il maglione, arrivando dritto nelle ossa. Non riusciva a vedere ad un palmo dal naso tanto la neve cadeva fitta e si sentì un idiota a starsene lì, nel bel mezzo di una tormenta, ma doveva raggiungere casa di sua nonna. Sentì la fatica arrampicarsi fino al cervello, un'imprecazione stretta tra i denti, e si fece forza per continuare a camminare, trascinandosi dietro quella maledetta valigia. Non si rese neanche conto di ciò che accadde, si limitò ad arrendersi alla stanchezza e cadde sulla neve fresca, pregando che qualcuno arrivasse in suo aiuto.

Aprì gli occhi, cosciente di essere vivo e raggomitolato tra le coperte calde di un letto che, ad una seconda occhiata, riconobbe come estraneo. Non era riuscito a raggiungere la casa di sua nonna, ma almeno era vivo. Mugolò infastidito quando la luce della stanza si accese, colpendo i suoi occhi verdi ancora colmi di sonno. "Oh sei sveglio" esclamò una voce che Joyce riconobbe immediatamente. La voglia di infilare la testa sotto le coperte fu molta, nascondersi dagli occhi dell'uomo che lo fissava dalla porta, e che lo stava studiando in un modo che lo fece rabbrividire. "Ho già avvertito tua nonna, così non si preoccuperà, ora le linee telefoniche sono interrotte, ma non appena sarà finita la tormenta ti porterò da lei" spiegò l'uomo, avvicinandosi al letto "ora dammi il braccio così ti misuro la pressione" concluse, sedendosi sul bordo del letto con uno sfigmomanometro in mano.
"Cosa ci faccio qui?" si azzardò a chiedere Joyce, mentre porgeva il braccio all'altro, stando ben attento a non incontrare i suoi occhi azzurri.
"Ti ho trovato mezzo morto su un cumulo di neve a Thompson Street" ammise l'altro, infilando il bracciale e chiudendolo stretto sul suo braccio. "Ora taci" ordinò, pompando per far gonfiare il bracciale mentre cercava di auscultare il battito. Joyce fece come gli era stato detto e studiò la camera in cui si trovava. Era una grande stanza con il letto a farla da padrone, una finestra serrata proprio al di sopra della testa, due comodini di legno pitturato di azzurro, come la moquette, ed un grande armadio lucido, che cozzava con l'arredamento classico della camera. Quando, finalmente, Greyson gli liberò il braccio, Joyce azzardò uno sguardo nella sua direzione ed incontrò quei suoi magnifici occhi azzurri, che una vita prima erano stati tutto il suo mondo. Greyson era sempre stato attraente, fin da ragazzo, ed era anche il più ambito a scuola, nel classico cliché dello sportivo bello ed impossibile. Capitano della squadra di hockey, sciatore eccellente, ma anche ottima mente matematica e passione smisurata per i grandi classici della letteratura. Apparentemente Greyson non aveva un difetto e Joyce era onorato di essere il suo migliore amico. Almeno finché non si era innamorato di lui, e si era allontanato inevitabilmente, come poteva il figlio del sindaco di Wolfland volere uno come lui? Orfano di entrambi i genitori, morti in un incidente in montagna quando aveva solo quattro anni, cresciuto dai nonni, John e Rose, e soprattutto negato in ogni tipo di disciplina sportiva, nella matematica e che ai grandi classici aveva sempre preferito la fantascienza? E poi Greyson era un rubacuori, aveva fatto cadere ai suoi piedi tutte le ragazze della scuola, rimanendo fedele ad una sola, la dolce Jocelyn, che, purtroppo o per fortuna, oltre che essere grande amica di Joyce era anche sua cugina. Come poteva Joyce anche solo pensare di poter avere una qualche speranza? Eppure la notte prima della sua partenza per New York, avevano fatto l'amore, guardandosi negli occhi, amandosi con i gesti, con le parole, con i corpi, all'alba Joyce era scappato e Greyson non si era più fatto vivo. Ogni volta che Joyce tornava in città, per lo più per le feste comandate, evitava Greyson come la morte, neanche quando Jocelyn se ne era andata in Florida, per sposare il ragazzo conosciuto al college, Joyce aveva sentito di poter avere una possibilità, così avevano finito per passare anni senza che si incontrassero, ed ora essere lì in quel letto, con gli occhi di Greyson a fissarlo, lo facevano sentire uno stupido. Il silenzio si era fatto pesante, e fu Greyson ad interromperlo, alzandosi dal letto e mormorando "hai bisogno di qualcosa di caldo, ho preparato del tè, se scendi è sul tavolo della cucina, io devo fare un nuovo giro di ricognizione, sia mai che qualche altro impavido abbia sfidato la buona sorte e si sia gettato nella tormenta, come hai fatto tu". A Joyce non sfuggì la nota di rimprovero nella sua voce, abbassò lo sguardo sulle sue dita che stavano torturando la pesante coperta ed attese che Greyson uscisse dalla camera per alzarsi. Lo aveva spogliato dei gelidi vestiti e gli aveva infilato un vecchio sottuta grigio ed una felpa blu priva del cappuccio. Non era roba sua, non aveva mai avuto quel tipo di vestiti nel suo armadio, e dalla lunghezza delle maniche indovinò che il padrone fosse proprio Greyson. Ne ebbe la conferma quando lesse 'Wolfland High School' ricamata all'altezza del cuore, con sotto stampato 'GT14', ovvero 'Greyson Thompson 14', il suo numero di maglia. Si era sempre chiesto cosa lo avesse spinto a scegliere il 14, ma gli era sempre mancato il coraggio. Uscì sul corridoio e passando davanti allo specchio si sistemò i capelli color miele, sconvolti dalla permanenza nel letto di Greyson. Avvertì il pavimento caldo sotto i piedi ed immaginò che Greyson avesse installato un impianto di riscaldamento sotto il parquet. Raggiunse il grande salone e sorrise riconoscendo la foto sopra il camino, in cui scoppietava il fuoco, aveva scattato proprio lui quella foto, una vita prima, quando era ancora alle prime armi, e ritraeva Greyson e la sua famiglia nel giardino della grande villa. Greyson era ritratto in piedi alle spalle di suo padre, gli occhi azzurri illuminati dal sorriso fatto di denti bianchi, ed i capelli scuri perfettamente pettinati. Clark, suo padre, seduto su una poltrona da giardino con il solito sigaro in mano, i capelli rossi quasi del tutto scomparsi dalla testa. Al suo fianco sua moglie Barbra, la testa mora perfettamente pettinata, un collier di perle scintillante al collo. Seduta sul prato di fronte a lei, la piccola di casa, Vivian, che all'epoca della foto aveva solo undici anni ed era stata infilata in un vestito a fiori che, Joyce lo ricordava perfettamente, aveva odiato dal primo all'ultimo minuto. Al fianco della piccola di casa Thompson, un husky grigio sdraiato, con il muso poggiato sulle zampe, Titan, morto qualche mese dopo quella foto. L'ultimo su cui Joyce posò gli occhi fu il maggiore dei fratelli Thompson, Philip, con i capelli rossi perfettamente pettinati all'indietro, erede in tutto e per tutto del ruolo di suo padre come sindaco, che era sfuggito a quella gabbia dorata il giorno del suo ventunesimo compleanno, arruolandosi nell'esercito. La grande foto era perfettamente infilata in un quadro con degli intagli, pitturato di bianco, che riprendeva il colore dei ripiani della cucina poco lontana. Sulla mensola del camino una serie di libri perfettamente ordinati, che fecero sorridere Joyce, i grandi classici tanto amati dal padrone di casa. Spostò lo sguardo sulla finestra a bovindo e notò che fuori la neve stava ancora cadendo copiosamente. Raggiunse il ripiano in marmo della cucina, dove era posato un bollitore ed una tazza con su scritto 'Winter is coming'. Joyce fu felice di scoprire che anche Greyson amava Game of Thrones. Si versò l'acqua nella tazza e scelse il tè dalla grande scatola di legno aperta lì accanto. Fu stupito di vederla lì, Greyson era più un tipo da caffè nero, ma erano passati talmente tanti anni dall'ultima volta che avevano condiviso una pausa, che probabilmente i suoi gusti erano cambiati. Scelse un classico Earl Grey ed infilò la bustina nella tazza, raggiungendo il grande divano di pelle nero, su cui si gettò, afferrando una coperta a quadri per raggomitolarsi. La grande televisione di fronte a lui prese vita non appena toccò il tasto del telecomando, cercò qualcosa di interessante ma trovò solo canali locali che riportavano la notizia della tormenta. Trovòun canale che trasmetteva vecchie puntate 'Grey's Anatomy', lo guardò disinteressato, mentre sorseggiava il suo tè. Forse fu la noia o la stanchezza che gli montò di nuovo prepotente, ma finì per addormentarsi.

La porta si spalancò ed il freddo entrò in casa, insieme a Greyson coperto di neve. Joyce alzò appena lo sguardo verso di lui mentre copriva con un coperchio l'acqua per la pasta. Sua nonna Rose era di origini italiane e gli aveva trasmesso tutto il suo sapere culinario durante la crescita, insegnandogli gran parte delle ricette della sua terra natia, che avevano trasformato Joyce in un abile chef. "Stavo preparando la cena" annunciò Joyce. Il padrone alzò un sopracciglio e commentò con un sarcastico "lo vedo" mentre si liberava del giubbotto per appenderlo accanto alla porta d'ingresso, lasciandolo lì a sgocciolare. Joyce si ritrovò, suo malgrado, ad apprezzare il pesante maglione che gli fasciava le braccia muscolose ed i pantaloni pesanti, bagnati fino al ginocchio. "Vado a cambiarmi" annunciò Greyson, avviandosi verso la camera e scomparendo dalla vista dell'altro. Joyce si trovò costretto a stringere il bordo della cucina e tirare un sospiro, possibile che dopo tutto quel tempo Greyson gli facesse ancora quell'effetto? L'acqua che bolliva lo distolse dai suoi pensieri e si affrettò a gettare dentro gli spaghetti, mentre Ed Sheeran cantava una canzone mielosa dalla TV. Greyson tornò poco dopo infilato in un morbido sottotuta blu ed in una t-shirt a maniche corte, superò Joyce ignorandolo e puntò dritto al frigorifero dal quale prese una birra.
"Domani devo tornare a New York" annunciò Joyce rompendo il silenzio. Non si azzardò neanche ad alzare lo sguardo verso quello che un tempo era stato il suo migliore amico.
"Non credo proprio" replicò Greyson, andando a sedersi sulla parte sgombra della penisola di marmo della cucina. "La tormenta andrà avanti per almeno altri tre giorni, è tutto bloccato, treni, aerei, pullman" spiegò il padrone di casa per poi sorseggiare la sua birra fredda.
"Allora voglio tornare da mia nonna" ribatté Joyce, fissando la pentola con la pasta come se fosse la cosa più interessante del mondo.
"Tua nonna abita fuori dal quadrante di mia competenza ed io non sfiderò la mia buona stella per seguire il tuo capriccio" rimbeccò Greyson "non sono stupido, io" concluse, e Joyce finse di non notare il tono di rimprovero nella sua voce e l'allusione poco velata alla sua avventura nel bel mezzo della tormenta, da cui l'aveva salvato. Il padrone di casa saltò giù dalla penisola ed iniziò ad apparecchiare la tavola, considerando la discussione finita.

La cena passò tranquillamente, con Greyson che si sprecò in complimenti nei confronti delle doti culinarie di Joyce, apprezzò talmente tanto il piatto preparato dall'altro che ne prese una seconda porzione, facendo sorridere l'ospite, che in un attimo si rese conto che il suo vecchio migliore amico non era cambiato con il passare degli anni, era ancora perennemente affamato come quando avevano sedici anni. Il dramma, però, si consumò di lì a poco, quando seduti sul divano a seguire, svogliatamente, un film che, almeno secondo la guida tv, doveva essere comico. Joyce se ne stava con gli occhi fissi sullo schermo, incapace di voltarsi ed incontrare lo sguardo del padrone di casa che stava fissando il suo profilo con una certa insistenza. Joyce, forse per la penombra della stanza, trovò il coraggio di voltarsi verso Greyson, che gli sorrise dolcemente, e in quello slancio di coraggio, o di stupidità, chiese "perché non mi hai mai richiamato?". Il padrone di casa cancellò immediatamente il sorriso dal suo volto e sgranò gli occhi.
"Ricordo male o sei stato tu ad andartene in tutta fretta la mattina dopo?" domandò, cogliendo al volo il senso della domanda che gli era stata posta dall'altro.
"Eri da sempre innamorato di Jocelyn, che non solo era la mia più grande amica, ma anche mia cugina, come avrei potuto sopportare di vederti tornare da lei?" replicò Joyce, dimenticando la sua proverbiale vergogna, per sfoggiare un suo lato sfacciato che stupì il padrone di casa.
"Credevo che quella notte fossi stato chiaro sulla mia preferenza" rispose Greyson. A Joyce sfuggì una risata nervosa e si alzò di scatto dal divano, portandosi le mani tra i capelli.
"Come potevo pensare una cosa simile? Sono stato innamorato di te per anni, ma tu mi vedevi solo come il tuo migliore amico, ho sopportato per mesi sentirti parlare di quanto fosse bello il culo di Kathleen, o di quanto fosse diventata carina Rebecca, e poi tutte quelle sere in cui ti ho sentito vantarti delle tue prestazioni a letto con Jocelyn, ho pensato di essere solo un'altra tacca sulla tua cintura, l'unico uomo, certo, ma comunque un'altra delle tue tante conquiste" si ritrovò ad urlare, frustato, arrabbiato, confuso.
"Un'altra tacca? Ma per chi mi hai preso? Dannazione, Joyce, sembra che in tutti quegli anni tu abbia conosciuto qualcun altro, non me, quante volte ho rifiutato quelle ragazze che si gettavano su di me? Eppure te l'ho ripetuto fino allo sfinimento che avrei fatto l'amore solo con qualcuno di veramente importante, Jocelyn era importante, tu lo eri" ribatté Greyson, alzandosi anche lui dal divano, affrontando l'altro, sicuro di sé.
"Ero ..." tentò Joyce, faticando a trovare la voce "ero importante?" riuscì finalmente a chiedergli.
"Lo sei sempre stato, e se solo quella dannata mattina non fossi scappato a gambe levate mentre dormivo, te lo avrei detto chiaramente, tra me e Jocelyn era finita da un po' perché non riuscivo a smettere di pensare a te!" gli buttò in faccia.
"Perché non me lo hai mai detto?" chiese, confuso, Joyce incassando le spalle, ed il colpo, tornando a sedersi sul divano.
"E cosa avrei dovuto dirti? Ehi Joyce lo sai che vorrei tanto sbatterti contro il primo muro e baciarti? Almeno mi avresti riso in faccia e mandato a fanculo" replicò Greyson iniziando a passeggiare avanti ed indietro di fronte al divano.
"Non ti avrei riso in faccia" mormorò abbassando la testa, Joyce "avrei tanto voluto che tu lo dicessi" concluse, con un sospiro. Greyson fece un passo avanti e cadde in ginocchio di fronte al divano, obbligò Joyce a guardarlo negli occhi e raccolse tutto il suo proverbiale coraggio, per poi sussurrargli "voglio sbatterti contro il muro e baciarti". Joyce ingoiò a vuoto e non gli venne in mente nulla di intelligente da dire, e fece la cosa più stupida, o forse più furba, del mondo, azzerò la distanza tra loro due e posò le labbra sulle sue. Ed entrambi si persero in quel bacio che aspettavano da anni.

I giorni passarono con la bufera di neve a fare da sfondo, Greyson faticava a lasciare Joyce tutto nudo nel letto per uscire nel freddo a controllare la situazione, ma quando tornava a casa e lo trovava pronto per lui, per scaldarlo, per amarlo, si convinceva che forse non era poi così male uscire nella tormenta.

Una lama di luce ferì i suoi occhi socchiusi e lo costrinse ad aprirli, dalla finestra filtrava un sottile spiraglio di sole, segno che fuori la neve aveva smesso di cadere. Joyce quasi cadde dal letto a quella consapevolezza, scosse Greyson per una spalla, ma ebbe in risposta solo un mugolio infastidito. "Oh stupido animale" lo insultò rifilandogli un calcio sugli stinchi "è uscito il sole" lo informò. Il padrone di casa spalancò gli occhi, ma invece di alzarsi come Joyce si sarebbe aspettato, lo spinse contro il materasso, bloccandogli i polsi sopra la testa.
"Cosa hai detto?" domandò, alzando un sopracciglio, improvvisamente sveglio.
"Che è uscito il sole" ripetè Joyce guardandolo dritto negli occhi.
"Prima" mormorò adagiandosi sul suo corpo nudo.
"Stupido animale?" chiese, in difficoltà, l'altro.
"Esatto" rispose Greyson, accarezzandogli le labbra con le sue "sai cosa vuol dire questo?". Joyce scosse la testa ed il sorriso che comparve sul volto del padrone di casa gli fece capire che non c'era nulla di buono in vista. Greyson gli fece allargare le cosce con un ginocchio e non si preoccupò neanche di prepararlo alla sua intrusione, si fece spazio in lui con un affondo secco che tolse il respiro a Joyce. "Ecco a te l'animale" ringhiò sulle sue labbra, senza dargli il tempo di ritrovare l'aria, si spinse di nuovo in lui, con aggressività, tenendogli ancora i polsi bloccati. Joyce non ebbe neanche la forza di ribattere, quelle spinte forti lo avevano mandato su di giri, ed il pensiero di essere posseduto in quel modo gli fece schizzare il sangue via dal cervello, dritto ai genitali. Greyson continuò a ringhiare e spingere, incapace di controllarsi, mentre i gemiti ed i sospiri di Joyce contribuivano alla sua eccitazione. Non durò molto, avvertì l'orgasmo scuoterlo dalla base della nuca, giù per tutta la schiena, ed esplose di piacere con un ringhio più animalesco degli altri, a cui Joyce rispose gridando il suo nome mentre veniva sui loro ventri. Si sdraiò su di lui, stanco, e poggiò la fronte sudata contro il petto del compagno, lasciandogli liberi i polsi doloranti. Joyce era ancora confuso dall'orgasmo e si limitò ad accarezzargli le spalle in punta di dita, assaporando l'odore del sesso che impregnava la stanza.
"Scusa" mormorò Greyson baciandolo dolcemente sul petto.
"Per cosa?" chiese, perplesso, Joyce.
"Sono stato aggressivo" si scusò il padrone di casa "e non abbiamo usato il preservativo".
"Ora sono tuo, totalmente" si lasciò sfuggire il compagno, chiudendo gli occhi, vittima di tutte quelle emozioni. In un momento tornò a dormire, senza neanche rendersene conto.

Aprì gli occhi e chiamò Greyson, ma non ottenne  risposta, segno che l'altro era uscito, probabilmente per fare il punto della situazione con gli altri, ora che la bufera era passata avrebbero dovuto fare la conta dei danni. Si lasciò coccolare dall'acqua calda della doccia e si prese del tempo per rilassare le spalle, canticchiando un motivetto allegro, avvertì indistintamente il rumore della porta blindata che si chiudeva, ma non se ne curò, Greyson doveva essere tornato. Uscì dalla doccia e si avvolse in un morbido accappatoio bianco, avviandosi verso la cucina, dove sapeva di trovare il padrone di casa. Ma quel che si trovò di fronte lo costrinse a bloccarsi. Una donna dai lunghi boccoli dorati se ne stava di fronte al caminetto accesso con in braccio un bambino che non aveva più di due anni. "Mi scusi, lei è?" domandò, perplesso, Joyce. La donna si voltò verso di lui ed aggrottò la fronte.
"Potrei farle la stessa domanda, visto che è in casa mia" ribatté la donna.
"In casa sua?" chiese l'altro, sempre più confuso.
"Sì, sono Harriet, la moglie del padrone di casa" si presentò, avvicinandosi a lui "e lui è Tyler, nostro figlio". Joyce avvertì il momento in cui il mondo gli cadde addosso, chiuse gli occhi per frenare le lacrime, scosse la testa e corse in camera a vestirsi, raccogliendo le sue cose ed insultandosi. Gettò un ultimo sguardo al letto che aveva condiviso con Greyson in quei giorni e le lacrime iniziarono a lasciare i suoi occhi, si sentì in dovere di correre via, senza dire una parola, neanche alla donna che lo stava fissando perplesso. Puntò dritto alla stazione, senza neanche guardarsi intorno, doveva tornare da dove era venuto, rientrare a New York e continuare la sua vita lì, come se nulla fosse accaduto, era stato un bel sogno, aveva assaporato la dolcezza di condividere la vita con Greyson, ma era solo un'illusione e quella consapevolezza lo fece piangere. La cosa giusta da fare sarebbe stato rimanere ed attendere Greyson chiedendogli spiegazioni, ma era sempre stato un codardo ed era scappato via, per paura delle risposte che l'uomo gli avrebbe dato. Si concesse di staccare il cervello solo quando fu sul treno che lo avrebbe riportato dritto all'aeroporto e da lì al suo piccolo appartamento di Brooklyn dove avrebbe ripreso la sua vita esattamente dal punto in cui l'aveva lasciata.

Greyson aprì la porta, assaporando già l'idea di condividere la doccia con Joyce, ma fu costretto a bloccarsi quando riconobbe il bambino che gli stava correndo incontro. Lo acciuffò al volo, chiudendo la porta con un calcio e lo strinse a sé, riempiendolo di baci. "Zioo" urlò il bambino, accettando quella dimostrazione di affetto. Harriet sorrise avvicinandosi per riprendere il figlio, un grembiule da cucina ben allacciato dietro la schiena ed un mestolo in mano.
"Ciao Grey" lo salutò, posandogli un bacio sulla guancia. Allungò le mani per prendere Tyler, ma il bambino si strinse al collo dello zio, scuotendo il capo, voleva rimanere tra le braccia del suo zio preferito. "C'era un ragazzo quando sono arrivata, ma è letteralmente scappato quando mi sono presentata" disse Harriet, tornando in cucina, seguita da Greyson.
"E' scappato?" domandò, confuso, l'uomo.
"Sì, gli ho chiesto chi fosse, visto che se ne stava tutto solo in casa mia in accappatoio, non si è neanche presentato" spiegò la cognata.
"Cosa gli hai detto esattamente, Har?" la incalzò Greyson.
"Lui mi ha chiesto chi fossi, gli ho detto che avrei potuto fargli la stessa domanda visto che ero la moglie del padrone di casa" riportò la donna.
"Merda!" esclamò l'altro, posando Tyler a terra e frugando nelle tasche della giacca alla ricerca del telefono.
"Chi era?" chiese, confusa, la cognata.
"Joyce" rispose, lapidario, Greyson. Nonostate la risposta poco chiara, Harriet capì chi fosse Joyce, il cognato ne aveva parlato e riparlato, lamentandosi di come non sapesse più che fine avesse fatto, che sua nonna non voleva dirgli nulla, e soprattutto che era il grande treno perso della sua giovinezza, quello che avrebbe potuto essere il suo "e vissero per sempre felici e contenti". Greyson si allontanò senza staccarsi un attimo dal cellulare, imprecò un paio di volte, poi uscì di casa sbattendo la porta. Sperò di arrivare in tempo, ma quando raggiunse la stazione la trovò deserta e fece la cosa più stupida che gli venne in mente, prese un treno diretto all'aeroporto, sperando di trovarlo lì.

Un bussare insistente alla porta gli fece aggrottare la fronte, se ne stava seduto sul divano, con una tazza di té caldo in mano a contemplare la sua stupidità, e per un attimo gli passò per la mente di negarsi. Il pensiero, però, corse a Kylie, la sua vicina, che conviveva con la nonna anziana e malata, e si sentì in colpa, poteva essere la ragazza che cercava aiuto. Posò la tazza sul basso tavolo di fronte al divano ed andò ad aprire la porta, aspettandosi di trovare di fronte a sé Kylie, ma fu costretto a sgranare gli occhi quando riconobbe Greyson sul suo pianerottolo. "Vattene" disse, semplicemente, per poi sbattergli la porta in faccia. Greyson iniziò a tempestare di pugni la porta, gridando "fammi entrare". Joyce alzò gli occhi al cielo ed aprì di nuovo la porta, prima che qualcuno nel palazzo chiamasse la polizia. Il figlio del sindaco di Wolfland entrò nel piccolo appartamente di Joyce, ma non si mise a studiarlo, l'unica cosa che gli interessava era il padrone di casa, tanto che lo prese per le spalle e lo gettò sul divano. "Ora tu mi ascolti senza fiatare, dopo potrai dire tutto quello che vorrai, ma ora parlo io!" ordinò, quasi strappandosi la giacca di dosso. "Harriet ti ha detto di essere la moglie del padrone di casa, giusto?" chiese, retorico, Greyson "ed è la verità, perché quella è casa di mio fratello, ed Harriet è sua moglie, così come Tyler è suo figlio, quella che tu hai scambiato per mia moglie è mia cognata, ma tu sei così idiota che non potevi chiedere spiegazioni, aspettare che io tornassi, affrontarmi, no, te ne sei tornato in questo cazzo di buco come il codardo che sei!" lo insultò. Joyce vide rosso e si alzò di scatto, stanco di ascoltare quella che sembrava semplicemente una sequela di insulti nei suoi confronti.
"Cosa dovevo pensare?" urlò il padrone di casa "in questi giorni non mi hai raccontato nulla sulla tua vita, ti sei limitato a scoparmi su qualsiasi superficie ti fosse congeniale!".
"Non ti ho sentito mai una volta lamentarti, però" ribatté Greyson.
"Sei venuto fin qui solo per questo?" chiese Joyce.
"No, sono venuto fin qui per dirti che sei un idiota, che vorrei ucciderti perché te ne sei andato senza farmi spiegare, ma che ti amo, dannazione" ammise l'altro. Il padrone di casa sgranò gli occhi, scavalcò il basso tavolo su cui aveva abbandonato la tazza e si gettò tra le sue braccia, baciandolo dritto sulle labbra. Si allontanò quel tanto che bastava per prendere fiato e pigolò un "ti amo" che fece sorridere Greyson. Era forse giunto il loro "e vissero per sempre felici e contenti"? Greyson non seppe darsi una risposta, ma tornò a baciarlo, se non era quello il loro finale da fiaba, era almeno un buon inizio.


Era da un po' che non pubblicavo da queste parti, ma questa storia è nata in un modo talmente fulminante che non sono riuscita a resistere.
Spero vi sia piaciuta.
F.

   
 
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