Anime & Manga > Fate Series > Fate/Zero
Ricorda la storia  |      
Autore: Shichan    18/01/2018    2 recensioni
Enkidu sa poco delle usanze degli uomini.
[Gilkidu ; partecipante al Cow-t (week 1, mission 1) con il prompt "cerimonia"]
Genere: Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Archer/Gilgamesh
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Enkidu sa poco delle usanze degli uomini. Ha appreso il loro modo di pensare, sì, e li ha osservati più a lungo di quanto sia poi così interessante fare; si discosta dai loro pensieri per scelta, troppo affine - nel profondo - al modo di esistere delle creature legate alla Terra. Si guarda bene dal dire a voce alta come poco lo tocchino le loro vicende o quanto sia difficile, per lui, mantenere lo sguardo e l’attenzione su di loro per lungo tempo. Per quanto molti gli si siano rivolti da quando ha calpestato per la prima volta le strade di Uruk e da quando sta al fianco del loro re, Enkidu a volte sente senza difficoltà sussurri mai abbastanza bassi e che disturbano la quiete: “colui che è al fianco di Gilgamesh, figlio di Ninsun” e colui che, quando non lo chiamano per nome proprio, è ai loro occhi né più né meno di un non-umano.
A Enkidu va bene. Preferisce di gran lunga la compagnia delle creature selvatiche, e rimpiange le confidenze mormorate dalle fronde della foresta, la morbida carezza del terreno delle pianure che ha percorso e sulle quali è cresciuto. Sa bene di seguire Gilgamesh ovunque lui si sposti, anche quando si limita a farlo solo con la coda dell’occhio o con le orecchie o con l’olfatto; quando coglie un guizzo di oro puro muoversi alla propria sinistra, quando il rumore dei suoi passi si distingue tra altri mille nella piazza in cui hanno combattuto; oppure, nel farsi suggerire dall’odore di oli e vino e Sole il suo imminente arrivo; o ancora, se il sangue gli ribolle in corpo e il vento tra gli alberi gli suggerisce, quasi come in un gioco infantile, dove Gilgamesh muova i suoi passi.
Quella è la realtà che Enkidu conosce, così diversa dal mondo che gli uomini vedono, così intangibile e inspiegabile che non basterebbe sprecare il fiato di cento vite perché loro lo possano comprendere. Eppure, in una misura quasi irrisoria, ha lasciato a Gilgamesh il diletto di parlargli dei rituali e delle divinità come lui - a sua volta dio per due terzi - le percepisce e onora. Curioso di ciò che lo circonda, ha lasciato che la voce dell’amico gli descrivesse un mondo intero; ora, mentre osserva la porta massiccia di fronte alla quale si trovano, c’è un guizzo di quella stessa spontanea curiosità nei suoi occhi. Al suo fianco Gilgamesh ha le labbra incurvate in un ghigno soddisfatto e arrogante, le braccia che si aprono come ad accogliere l’intero universo, mentre le porte si spalancano davanti a loro, aperte da servitori silenziosi che quasi non si notano nel loro inchino rispettoso verso il loro sovrano.
Nella stanza in cui Gilgamesh lo guida, così ampia che uno sguardo non è sufficiente per abbracciarne ogni dettaglio - dalle maestose colonne alla grande vasca che ne occupa il centro, alle statue in oro fino al soffitto che potrebbe sostituire il cielo stesso quanto a vastità -, il silenzio regna sovrano al punto da poter quasi intimorire, come le notti più buie dove l’assenza di suoni ha troppi significati. Essa si affaccia su una piccola porzione del giardino, rendendo i confini delle mura tutt’intorno meno soffocanti; se il palazzo di Uruk è l’angolo più intimo del regno di Gilgamesh, Enkidu considera lo spazio verde che ne è parte il proprio, conosciuto in ogni pianta e ogni masso. La luce del sole che ha appena iniziato a scendere verso l’orizzonte rende tutta la sala come se fosse fatta di oro fuso: le dimensioni e i confini delle pareti paiono scomparire, rese effimere da quella stessa luce, mentre l’acqua che riempie l’immensa vasca al centro - unica protagonista dell’intera sala - brilla come le vesti di una dea, più di qualsiasi gioiello.
Il modo in cui Gilgamesh si muove in quel luogo è lo stesso di sempre, di chi crede tutto gli appartenga. Nel suo caso, è davvero così.
«Vieni, Enkidu» lo invita, senza voltarsi in sua direzione, sicuro a priori di essere seguito «e liberati degli abiti.» aggiunge, rivolgendogli lo sguardo solo ora, lo stesso ghigno di arrogante sicurezza sul viso, un braccio abbandonato lungo il fianco e l’altro a mostrargli la grande vasca piena come si mostra con orgoglio un premio guadagnato con la più coraggiosa delle imprese. Nella sua voce c’è un ordine, per quanto non perentorio; Enkidu glielo perdona, capace di riconoscere un ordine dato senza l’intenzione di vincolare la sua libertà ma per pura abitudine, per diritto di nascita. Lui non è abbastanza accondiscendente, indomabile per natura, e Gilgamesh lo sa bene quanto Enkidu sa notare quella piccola nota nella voce altrui - di poco più bassa, più calda - che rende semplice discernere le intenzioni dell’uomo che ha di fronte.
Aspetta, però. Non gli nega nulla per crudeltà, ma perché lascia gli occhi liberi di vagare e osservare ancora i particolari di quella stanza: lo zampillare dell’acqua direttamente dalle bocche immobili di leoni dorati, cibi lasciati insieme ai calici vuoti e al vino accanto a uno dei bordi della vasca. Annusa l’aria, incapace di guardare senza percepire, e coglie il profumo di oli che ritrova con lo sguardo di lì a poco. Sulla pelle, il vapore dell’acqua calda si adagia come una patina invisibile; ed è in quel momento che si libera della sua veste, le porte massicce ormai già richiuse alle sue spalle. Lascia che il lino bianco scivoli lungo il suo corpo con naturalezza, accarezzandogli le braccia prima e i fianchi poi, fino a scendere sfiorando le gambe. Alza un piede, poi l’altro, così che la veste rimanga abbandonata lì e avanza; Gilgamesh non distoglie gli occhi da lui nemmeno per un attimo, seguendolo finché Enkidu non gli sta di fronte.
«Devo entrare da solo, mio Re?» c’è una presa in giro sottile, il tono di voce che non si alza né si abbassa in un sussurro che potrebbe far somigliare quella frase a un invito studiato; c’è un’inconsapevolezza di fondo nella domanda, eppure anche la piena coscienza di come stuzzicare l’umore del sovrano di Uruk nel modo giusto, cosa che solo un amico di vecchia data è in grado di fare.
«Oseresti?» lo apostrofa Gilgamesh, le parole cariche di una sfida ovvia che non viene mascherata in alcun modo - perché dovrebbe? Per sua indole, Gilgamesh non crede nella propria sconfitta, mai. Ed Enkidu, per tutta risposta, muove un altro passo e un altro ancora, superandolo e portandosi vicino alla vasca. Sente lo sguardo dell’uomo su di sé, eppure non si sente fermare, tanto da riuscire a infilare prima un piede e poi l’altro nell’acqua calda senza che nemmeno una mano lo sfiori. Può immaginare con una facilità incredibile come Gilgamesh abbia atteso fino alla fine, per vedere quanto avrebbe osato e fin dove si sarebbe spinto, divertito al pensiero stesso di qualcuno che si opponga anche a un ordine semplice che vero ordine non è mai stato.
Enkidu si volta, sentendo i capelli sfiorargli la schiena nuda nell’assecondare il movimento della testa, guardando Gilgamesh da sopra la propria spalla; è un invito muto il suo, stavolta. Nessuna mano protesa in avanti. Il re di Uruk si libera delle sue vesti con facilità e immerge le gambe a propria volta, avanzando nell’acqua fino al bordo dove sono stati posizionati cibo e bevande. In silenzio, Enkidu lo segue.
Nel tempo hanno condiviso il letto, le avventure, la reciproca forza ma un bagno mai prima d’ora, mai con così tanti oggetti di decoro che per Enkidu sono estranei al semplice concetto di lavare il proprio corpo. Gilgamesh allunga una mano verso il cibo, soffermandosi sulla frutta e prendendo un melograno aperto a metà: le dita ne tirano via una parte di polpa, un boccone che si potrebbe considerare un assaggio e niente di più. Non senza una certa sorpresa, Enkidu vede quella stessa mano avvicinarsi al suo viso e gli occhi cercano d’istinto quelli di Gilgamesh, mentre un sorriso enigmatico gli incurva le labbra.
«E’ una strana cerimonia, la vostra. I re imboccano gli altri, non il contrario?» pronuncia, una punta di curiosità che dallo sguardo si estende alla voce, ma anche lo stesso divertimento sottile di poco prima; Gilgamesh, nonostante la provocatorietà della cosa, non pare infastidito come di fronte a un’offesa.
«Esistono altri re?» rimbecca, suscitando in Enkidu l’istinto di socchiudere gli occhi e scuotere la testa, quasi avesse di fronte un bambino che si fa grande di cose che non esistono, pur sapendo come quella convinzione sulla propria unicità sia in Gilgamesh radicata al pari dell’indole di ogni essere umano. Il re di Uruk però non si sofferma su quel dettaglio né si aspetta una risposta - ne ha già una e nessuna vale quanto la sua. Continua, invece, ad avvicinare la mano al viso di Enkidu, soffermandosi a così poca distanza da poterne quasi sfiorare le labbra: «I compagni, nei riti cerimoniali di Uruk, si nutrono l’un l’altro e si lavano insieme, perché così nascono e così si prendono cura dell’altro. Che il re voglia condividere questo rituale, è una cosa per cui molti pregherebbero giorno e notte per mille notti almeno.»
«Mi viene fatto questo onore grande per cui molti uomini e donne farebbero forse l’indicibile? Per quale motivo un uomo sente di doverne imboccare un altro, di condividere le acque con lui? E tu, Gil, non pensi che chi ti nutre con la propria mano potrebbe avere intenzioni affatto degne di te?»
«Ah!» è il verso intriso di scherno dell’altro, quasi quanto pronunciato da Enkidu fosse il delirio di un folle o il capriccio di un bambino a cui non prestare la minima attenzione. Enkidu capisce, senza bisogno di sentire la sua risposta, i motivi per cui l’uomo di fronte a lui non si ponga nessuno di quei problemi; così fa un mezzo passo in avanti, si protrae verso la mano che tiene ancora la polpa del melograno e se ne nutre, direttamente da lì. Non sa nulla di quella cerimonia a cui l’altro sembra così attento e, in fondo, non ha bisogno di conoscerla: può affidarsi a quell’uomo e mangiare dalle sue mani, lasciarsi lavare per ogni centimetro di pelle con l’assoluta certezza - e la più totale fiducia - di non avere nulla da temere. Le labbra sfiorano quindi le dita dell’altro, si chiudono sul cibo proteso e la lingua avvolge l’assaggio del frutto, così da gustarlo poi nella propria bocca. Gilgamesh lo guarda con una soddisfazione impossibile da non cogliere, offrendogli con l’altra mano la metà del frutto da cui ha preso lui stesso la polpa. Enkidu lo osserva, senza bisogno di chiedere; ne prende un po’, copiando quanto fatto dal compagno, e allunga la mano verso il volto di Gilgamesh perché anche lui possa mangiare.
La bocca dell’altro accoglie le sue dita, oltre al frutto, più di quanto ce ne sarebbe bisogno. Enkidu sente la lingua dell’altro toccargli le dita con prepotenza, quasi ignorando la polpa del melograno e dedicandosi solo a quelle, inumidendo e lasciando carezze il cui intento è piuttosto chiaro - lo sarebbe per la malizia degli uomini, ma lo sarebbe ancora di più per gli istinti di un animale. Enkidu lo osserva per tutto il tempo, fin quando la bocca di Gilgamesh non abbandona la sua mano e lui lo guarda con sfida.
Si cibano ancora, l’uno dalle mani dell’altro; Enkidu ricerca sul viso dell’altro le mute istruzioni necessarie, mosso solo dalla poca conoscenza dei rituali degli uomini. Così quando Gilgamesh, dopo un ennesimo boccone si scosta dandogli le spalle, Enkidu capisce senza  bisogno di chiedere che il cibo non deve più essere parte del loro scambio. Così, al tempo stesso, la curiosità su cosa possa venire dopo lo stuzzica - il re di Uruk abbandona ciò che è rimasto del melograno sul bordo e si sposta, muovendosi con l’acqua che lo tocca fino alla vita, lasciando il torace asciutto. Raggiunge il lato della vasca, non troppo distante da dove si trova ancora Enkidu, sul cui bordo è posizionato un contenitore in oro puro: al suo interno e dalla sua posizione Enkidu riesce a vedere un liquido trasparente che potrebbe scambiare per acqua in tutto e per tutto, se non fosse che quando Gilgamesh vi infila un dito è chiaro che la densità sia del tutto diversa. Nonostante non ne abbia mai fatto uso in passato, sa che si tratta di oli che gli uomini utilizzano su di sé; si ritrova a inclinare il capo leggermente verso sinistra, gli occhi a seguire ogni movimento di Gilgamesh, dal modo in cui porta indice e pollice a saggiare insieme il liquido al suo tendere il braccio verso di lui, invitandolo ad avvicinarsi e a studiare quella sostanza come più lo aggrada.
Enkidu si muove a propria volta, e quando è abbastanza vicino si allunga verso quelle dita, per annusare, fidandosi del fiuto più di quanto si fidi di ciò che vede. L’olio emana un odore gradevole, non troppo forte né troppo dolciastro. Come per il frutto, è Gilgamesh a mostrargli cosa fare, pronunciando un: «Voltati.»
Enkidu per un momento esita, chiedendosi quale espressione si potrebbe formare sul volto del compagno se si rifiutasse, se esitasse; forse Gilgamesh la prenderebbe come una sfida ma non come un’onta e ne riderebbe, divertito da qualcosa che rimane nel suo controllo pur senza andare necessariamente come previsto. Decide però di assecondare ancora, tanto la propria curiosità quanto il desiderio dell’uomo che ora ha di fronte, di nuovo poca distanza tra loro. Una mano di Gilgamesh, quella pulita, gli afferra senza movimenti bruschi il braccio, spingendolo a voltarsi; lui lo fa, dandogli le spalle con la naturalezza di chi non teme nulla. La presa su di lui si fa più lenta, ma le dita non interrompono il contatto con la sua pelle: risalgono, sfiorandolo appena solo per dar conto del tragitto che stanno percorrendo, finché Enkidu non si sente scostare i lunghi capelli di lato, fino a vederli poggiarsi con morbidezza sulla sua spalla, lasciando libera la schiena. Ci sono pochi istanti di immobilità, prima che la mano di Gilgamesh tocchi di nuovo la sua schiena, proprio nel mezzo: palmo aperto e completamente contro la sua pelle, Enkidu ne percepisce il calore così come il brivido che corre lungo la colonna vertebrale, dalla nuca fino ai reni. La mano si muove lentamente, di lato, per far spazio a quella che si aggiunge poco dopo; insieme, entrambe massaggiano la schiena: dapprima verso l’alto, facendo una pressione lieve contro le scapole, e scendendo poi fino alla zona lombare. Enkidu immagina che sfiorino l’acqua, perché quando l’altro le muove di nuovo sulla sue spalle le sente leggermente bagnate in alcuni punti. Rilassa la schiena, abbandonandosi senza remore al suo tocco e segue - non con gli occhi, né con altri sensi se non il tatto - come le dita facciano una lieve pressione in corrispondenza di alcuni punti, sciogliendo muscoli di norma tesi e provocandogli una sensazione più che piacevole, soprattutto quando entrambe le mani si stringono vicino alla base del collo. Laddove l’istinto griderebbe a chiunque di schermirsi di fronte a un contatto simile in un punto fragile come quello, Enkidu lo lascia fare, lascia che l’altro possa studiare ogni centimetro di lui, senza bisogno di nascondergli nulla. Non è un fanatico di quelle essenze che gli uomini utilizzano, abituato alla semplicità dell’acqua delle fonti, tuttavia non si tira indietro quando uno di quegli oli viene spalmato lentamente per buona parte del suo corpo o quando le mani di Gilgamesh, ricoperte dello stesso, sembrano volersi assicurare che nemmeno un solo centimetro di pelle chiara ne venga risparmiata.
Il processo sembra lungo, il tempo dilatato; non c’è alcuna traccia di fretta nei movimenti del re ed Enkidu non lo incalza in tal senso, gli occhi socchiusi in modo da amplificare gli altri sensi. Così percepisce con chiarezza il cambiamento nella pressione delle dita sulle sue spalle, e si volta così da stare faccia a faccia con il compagno. La luce del giorno, impegnata ormai in un tramonto caldo non più al suo principio, riverbera per tutta la stanza: dalle pareti al pavimento agli oggetti sistemati in vari punti del bordo di quella vasca enorme, il metallo si tinge dello stesso rosso del sole che - in lontananza - si fa inghiottire dall’orizzonte, mentre l’oscurità sembra iniziare a seguirlo senza mai riuscire a raggiungerlo davvero. Gilgamesh lo guarda, le labbra incurvate in un sorriso che Enkidu riconosce bene - è la prima espressione che ha visto davvero sul volto dell’altro, nella piazza in cui si sono scontrati per la prima volta. Con una mano gli sta offrendo il contenitore in metallo contenente l’olio profumato; Enkidu deduce così di dover fare - come parte di quel rito cerimoniale - la stessa cosa che è appena stata fatta a lui. Per questo immerge nel liquido prima parte di una mano e poi dell’altra, tuttavia non si sposta per arrivare alle spalle altrui. Rimane lì, di fronte, studiando il corpo di Gilgamesh come se da quell’attenta analisi dovesse scegliere da quale punto cominciare; un dito sfiora il petto del re, scivolando appena poco più in basso ma interrompendo il suo tragitto quasi subito. In un movimento istintivo che ricorda quasi quello di un bambino, entrambe le braccia si insinuano sotto quelle di Gilgamesh, così da avere pieno accesso alla sua schiena pur rimanendogli di fronte: dapprima le mani si fermano sulla parte bassa della schiena, tastando il terreno di un corpo visto mille volte eppure capace di sembrargli sempre inesplorato come la prima.    
Poi, in un secondo momento quelle stesse mani si muovono e segnano un tragitto immaginario: salgono seguendo la spina dorsale, disegnano la forma delle scapole, la linea del collo e scivolano poi su parte delle spalle, fermandosi lì per un momento. Gilgamesh lo guarda, il capo leggermente inclinato in avanti e un sorriso soddisfatto sulle labbra; a sorpresa si muove il poco che basta a imporsi sul corpo di Enkidu, a far aderire il petto nudo contro il suo. Enkidu non ha bisogno di chiedere o di conoscere il rito cerimoniale di quel popolo a cui si mescola ma del quale non è parte, per sapere che quel contatto tra loro non è obbligato ma desiderato.
Non si sottrae: le mani tracciano a ritroso lo stesso percorso, scivolando sulla pelle e rallentando volutamente quelle che ormai sono, a conti fatti, carezze vere e proprie. Raggiunta di nuovo la parte bassa della schiena, tuttavia, osa oltre: le dita affusolate scendono ancora di più fino a sfiorare l'inizio delle natiche. E' in quel momento che Gilgamesh lo stringe a sé, con forza e quasi a voler ripristinare con un solo gesto le loro posizioni e a marcare dei limiti, a suggerire che quella mano e quelle dita non devono spingersi più in là di così. Enkidu ne sorride, soddisfatto di una provocazione voluta e andata a buon fine, sentendo i loro corpi in un contatto ancora più totale, più intimo. Sente il proprio sesso carezzare quello del compagno, mentre fa passare di nuovo le braccia sotto quelle di Gilgamesh per liberarle e alzarle, fino a cingere il collo dell'altro; lo fa in un gesto morbido che sa di abitudine, più che di bisogno, un modo quasi canzonatorio se accostato a come i lineamenti si rilassano in un'espressione divertita, le labbra piegate in una curva difficile da descrivere del tutto. Eppure Enkidu è sicuro che Gilgamesh riconosca ogni sfumatura della propria espressione, così come lui fa con l'altro. Non è difficile ritrovare negli occhi del re di Uruk il desiderio, lo stesso che deve esserci anche nel suo - Enkidu lo sa e non ha bisogno di negarlo, non ne percepisce alcuna necessità perché in lui è del tutto assente il concetto di pudore e di vergogna.
«E ora?» lo incalza in un mormorio «C'è altro che questa tua strana cerimonia richiede?»
Gilgamesh non replica subito, lo sguardo che per un attimo si perde oltre Enkidu; lui non ha bisogno di fare lo stesso per sapere che la luce del tramonto sta gradualmente cedendo sempre più il passo alla notte e che presto ci sarà solo la luna, lì alta nel cielo. Forse se si affacciasse potrebbe già vederla salire nella volta con la titubanza di chi si nasconde dall'astro più luminoso e ne è, al tempo stesso, la compagna per eccellenza.
Enkidu muove le dita, insinuandole in parte sotto i capelli biondi e stringendone appena qualche ciocca, tirandola piano per attirare l'attenzione del compagno su di sé; la sfumatura di un capriccio gli si dipinge sul volto, non attenuandosi nemmeno quando Gilgamesh posa di nuovo gli occhi su di lui.
«Ti mancano le mie attenzioni?» lo punzecchia verbalmente il re di Uruk, con strafottenza «Non credevo fossero così importanti per te.»
«Tu non credi a molte cose, Gil. Quasi tutte quelle che non sai giudicare e, per quanto ne so, le uniche su cui sai sbilanciarti davvero sono le donne e il buon vino. Non sono stupito, quindi.» replica Enkidu, vedendo sul volto altrui il segno di chi ha colto dell'irriverenza e sta per rispondere di conseguenza. Tuttavia è Enkidu a non dargliene la possibilità, posando le labbra sulle sue in un bacio leggero che rimane tale troppo poco per sembrare davvero lo sfiorarsi di due persone per la prima volta. Morde il labbro inferiore di Gilgamesh con fare giocoso, sentendo le sue mani muoversi dai suoi fianchi alla sua schiena - Enkidu morde più forte, sentendo un verso gutturale risuonare nella gola dell'altro, tra il fastidio di chi è abituato ad avere il comando, a fare le proprie regole. Enkidu sorride sulle sue labbra, sfiorando quello inferiore - offeso dal morso - con la lingua. Quella di Gilgamesh lo incontra quasi subito, la bocca che lambisce la sua quasi con ferocia e le mani sulla schiena a spingerlo ancora di più contro il proprio corpo, come se fosse possibile instaurare un contatto ancora maggiore.
A Enkidu non dispiace sentire nel modo in cui l'altro lo stringe la possessività e il desiderio, perché di riflesso è ciò che gli rivolge a propria volta; le mani di Gilgamesh scendono a stringergli i glutei e Enkidu gli concede la soddisfazione di sentire un proprio gemito riversarsi nella sua bocca. Gilgamesh di scosta da lui con fare quasi brusco, affondando il viso nel suo collo e mordendo, con forza e senza preavviso, come a marchiarlo. Enkidu non sa se sia l'intento di quel rito a cui si è sottoposto senza fare domande di alcun tipo, ma di certo la cerimonia che stanno consumando somiglia fin troppo al modo in cui alcune creature con cui ha condiviso parte della propria esistenza dimostrano di appartenersi l'una all'altra: con ferocia, desiderio, ma anche mossi da un istinto primordiale di aversi per sé, di non permettere a nessuno di essere parte di qualcosa fatta solo per due. Quando Gilgamesh lecca la ferita lasciata dal morso, a Enkidu scorre un brivido lungo la schiena; si alza sulla punta dei piedi e ricambia quel gesto - morde forte, più forte che può, come se dovesse marchiarlo in modo permanente.
Deridono insieme chi cerca di incatenarli, eppure cercano di possedersi - continuamente, senza vergogna alcuna, come a dichiararsi di non poter essere di nessun altro se non loro stessi.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Fate Series > Fate/Zero / Vai alla pagina dell'autore: Shichan