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Autore: abatacept    19/01/2018    1 recensioni
La fic è ambientata durante la puntata 3x17 di GA, subito dopo l'annegamento di Meredith e il salvataggio in extremis di Derek. Il corpo quasi del tutto esanime di Meredith è stato già portato in ospedale dove è stata tentata la prima rianimazione. Ho osservato gli istanti di panico successivi a questo istante dal punto di vista di Cristina modificando appena i dettagli dell'avvenimento.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cristina Yang, Meredith Grey, Miranda Bailey, Preston Burke, Richard Webber
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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Il bip del monitor diventa un fischio continuo, segnala spietato l’ecg piatto sullo schermo accanto al letto. Non c’è battito, non c’è impulso, né elettricità che dal torace attraversi gli elettrodi e i cavi fino al display. Per secondi interi Meredith non c’è più. E’ solo un corpo gelido disteso sulle lenzuola bianche della branda d’ospedale. Ed è pallida, ha i capelli bagnati intrecciati sul cuscino. Immobile. I secondi passano, eppure sembrano sospesi, strappati alla realtà e congelati in un infinito trascorrere, come il suono continuo di quel maledetto monitor. Lì, in quella anonima saletta d’ospedale, i rintocchi del tempo si fermano così come quel bip. Il mondo è lontano, chiuso fuori la porta. Un mondo in cui Meredith è morta. Ed è in quel momento che Cristina comprende che non c’è nulla di più spaventoso di un momento di lucidità. Oltre le crepe di uno specchio che va in pezzi, oltre il riflesso di decine di schegge, frammenti di lei, intravede i dettagli di una consapevolezza tanto profonda da fare male. Così profonda da spingerla a voler fuggire via. Via da quel dolore, via da quella saletta, via da quella consapevolezza. Ma aprire quella porta significa anche accettare quel mondo nuovo che l’aspetta oltre la soglia, un mondo in cui è un po’ più sola e un po’ meno se stessa. Un po’ più l’automa che George non voleva creare e che lei sperava così disperatamente di diventare. Un relitto in mezzo al mare. Sola. Persa. Niente più musica ad alto volume. Niente più balli in mezzo al salone. Niente. Cristina si aggrappa a lei come a volerla trascinare in salvo. No. Non di nuovo. Non rimarrà inerme. Non sarà impotente. Non lascerà che un’altra persona che ama scivoli via dalle sue dita, questa volta stringerà la presa e tirerà con tutte le sue forze. È una scommessa con se stessa, è un atto di ribellione da quella vita di cui sente non essere più padrona, ma che in quel momento rivuole con tutta se stessa. «Provate ancora». È giusto un sussurro. Ci sono tre medici in quella saletta, tutti si voltano a guardarla. Weber ha gli occhi velati da una patina lucida, che protegge il suo sguardo e il suo cuore dal corpo esanime davanti ai suoi occhi. La Bailey invece è scettica, ma è la prima che comprende la sua richiesta, quando la ripete con rabbia violenta e umida. Burke si volta per non guardare l’amore della sua vita crollare, imprigionato in quella tremante rassegnazione che tutto è finito, persino la sua mano, persino la sua carriera, persino Meredith. Poi, la Bailey annuisce, è sempre stata la più forte. «D’accordo. Somministriamo un altro ciclo completo». Weber scuote la testa, ha paura di crederci, ha paura che dopo faccia ancora più male, ma poi accetta, lo deve ad Ellis, lo deve a sua figlia. «Va bene, ma è l’ultimo». Cristina inspira profondamente, il tempo è finalmente tornato a scorrere. Non rimane con le mani in mano. La prima rianimazione non ha funzionato, ma non per questo non può funzionare ancora, basta cambiare approccio. Afferra ciò che le serve dal carrello degli strumenti e si apre un passaggio per la succlavia, subito sotto la clavicola destra alla base del collo. È pericoloso, ma persino in quelle circostanze lei ha la mano ferma. Burke le lancia un’occhiata malinconica. Ci vogliono pochi secondi e un bolo di solfato di atropina, un potente parasimpaticolitico, diffonde nel suo sangue. Tra le labbra la specializzanda stringe una nenia silenziosa «Su, forza, Meredith, non mi lasciare, ce la puoi fare, forza Meredith». Nessuna risposta. «Serve un pacing transcutaneo» sancisce Cristina con una voce monocorde e dura, che non ammette repliche. «E’ passato troppo tempo dall’arresto, io non..» «Lo farò io». Cristina guarda Burke negli occhi, ha le sopracciglia corrugate in un’espressione di supplica. I loro occhi si scambiano un segreto che pesa come una spada di Damocle sulla nuca di Meredith. «Va bene» è la risposta esitante e secca di Burke che afferra dal carrello gli elettrocateteri endocardiaci e li passa a Cristina. La specializzanda posiziona con precisione l’introduttore nella succlavia, per poi incanulare il catetere. Sotto il controllo radioscopico fa scorrere il tubicino nel vaso sanguigno sino a raggiungere l’apice del ventricolo destro. Burke intanto collega il catetere allo stimolatore e procede con la stimolazione elettrica partendo da una soglia bassa e aumentando poco per volta. Sotto gli occhi sorpresi di Weber e Bailey, i due chirurghi sembrano un team affiatato e inarrestabile. Continuano a stimolare il cuore di Meredith fino a quando compare il primo spike sul monitor. Quel bip solitario sembra il grido di vittoria di istanti di panico. È seguito da tanti altri come lui. Cristina è immobile, incapace di muovere un altro muscolo, ancora incredula di fronte il suo piccolo miracolo. Burke fissa il catetere e applica una medicazione sterile, mentre la Bailey lentamente rimuove il tubo tracheale. Meredith sembra riuscire a respirare da sola. Uno dopo l’altro i medici scompaiono oltre la porta, concedendo a Cristina un attimo da sola prima di trasportare la paziente fuori dal reparto di rianimazione, finalmente in salvo. Gli occhi a mandorla della specializzanda non riescono ad allontanarsi dal viso pallido di Meredith, si rassicurano del muoversi lento del suo torace e del bip soffuso delle macchine a cui è collegata. È fuori pericolo e tra poco riaprirà gli occhi. Ha rischiato di perderla, ma forse per il momento è davvero fuori pericolo. 
   
 
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