Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Diana LaFenice    19/01/2018    1 recensioni
Pisa, 2200. Il progresso tecnologico ha subito uan battuta d'arresto.
Qualcuno ha ancora voglia di sognare. Tre giovani studenti universitari appassionati di letteratura si ritrovano ogni mercoledì in un circolo letterario a discutere di arte e a scrivere poesie. Una sera un editore decide di sfidarli: dovranno scrivere un romanzo che ha come tema il mitor della Fenice, il migliore riceverà in premio la pubblicazione dell'opera.
***
Sentivo di conoscerla dall'inizio del mondo ma anche che mi era totalmente estranea. Lei si protese verso di me, costringendomi ad abbassare gli occhi e cantò il ritornello della canzone che mi aveva perseguitato fino a pochi mesi prima. Mentre cantava, il giallo-bianco di cui ardeva regredì su se stesso per risplendere e permeare nuovamente il suo essere in un'esplosione di luminose, accecanti tonalità. Sul suo corpo comparvero delle fiamme che disegnarono i contorni di una gigantesca aquila dal collo di cigno. Avevo trovato la Fenice ed era come ammirare una stella in tutto il suo splendore.
Genere: Mistero, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Mille riflessioni, nessuna certezza


Era raro che ricordassi le melodie che a volte mi visitavano nei sogni. Sentivo ancora quella musica grandiosa che nel sogno mi aveva elevato e trascinato verso l’alto, su, su e ancora più su fino a scomparire nella volta celeste. Poi sentii il mio corpo depositarsi su qualcosa di solido che non era il letto e non era neanche il pavimento. Sembrava quasi acqua. Aprii gli occhi e scoprii lo spazio sotto di me. Sussultai e mi sedetti. Poi sentii delle voci tutte attorno a me e scoprii di essere circondato da tante altre persone che, come me, stavano svegliandosi e alzandosi. Sapere di non essere solo mi tranquillizzò. Abbandonando la paura per la curiosità, bussai il cielo con le nocche e provocai delle increspature ma senza affondare nel vuoto.
Ci studiammo a vicenda mentre altri, svegli da più tempo, facevano la mia medesima scoperta e lo comunicavano a tutti. Sembravamo androgine lampade di vetro soffiato risplendenti di una fioca luce interiore. Eppure non eravamo fatti di vetro, eravamo qualcosa di più leggero della materia. Poi sentimmo la musica e, incuriositi, prendemmo ad esplorare lo spazio con gli occhi, per trovarla. E mentre la musica ci toccava, la nostra luce interiore crebbe fino a risplendere di fiamme indolori, prodotto delle nostre emozioni. La musica aumentò al punto che sembrò che tutto attorno a noi emanasse quella musica che in quel momento seppi riconoscere. E ci alzammo tutti in volo come uno stormo di colombe stellari, trasportati da misteriose ali che non sapevamo d’avere. Lucenti nel nostro peregrinare attraverso lo spazio, le mète che ci attendevano. Polvere di stelle vacante senza meta che si inoltrava in spazi talmente profondi da offuscare e quasi cancellare la nostra lucentezza e cominciammo ad avere paura. Ma ero talmente affascinato da non farci quasi caso. Poi qualcuno mi prese per mano. Mi volsi e vidi una giovane sorridermi. Sapevo di conoscerla, di amarla, solo che non mi ricordavo chi fosse, e non riuscissi a vederla bene in viso, sebbene avessi il suo nome proprio sulla punta della lingua. Poi lei si portò in prima fila e cominciò a risplendere in modo diverso e cominciò a cantare e capii che la musica emanava da lei.
E mentre volteggiava le sue fiamme la mutarono nella splendida Fenice che ricordavo.
La seguii e come me fecero molti, moltissimi altri finché non venne coinvolto tutto il gruppo. Improvvisamente nessuno di noi ebbe più paura con lei che volava lesta di fronte a noi, illuminandoci la strada come un faro nella notte. Facendoci da vessillo con la sua splendida e lunga coda fiammeggiante e le sue ali brillanti. Eravamo talmente ammaliati che soltanto quando sentimmo il crepitio fiammeggiante sulle nostre braccia, ci accorgemmo di essere fatti di fuoco, e di essere diventati delle Fenici anche noi. O forse lo eravamo sempre stati, solo che lo avevamo dimenticato. E mentre volavamo tutti insieme, mi sentii libero, potente e felice, così felice che unii la mia voce al melodioso e armonioso canto senza parole di tutte le altre Fenici che volavano assieme a me. E anche se lo sognai una volta sola, quella mattina appena sveglio, acchiappai un foglio e lo trascrissi velocemente per non scordarlo. Inoltre sarebbe potuto essere una probabile fonte d’ispirazione per l’agone. Però persi il foglio e non ci pensai più. Credevo che il tempo l’avesse cancellato per sempre, perciò scusatemi se per caso troverete delle macchie sul foglio. Sappiate che quelle sono le mie lacrime.
Quel giorno stavo pensando a questo per distrarmi dalla coda dell’una e mezza alla mensa. Mi sfregai i capelli ancora bagnati dalle gocce di pioggia. Quella mattina non avevo tenuto conto della tempesta che sarebbe scoppiata e avevo dimenticato l’ombrello. Perciò mi ero dovuto riparare con la borsa dei libri ma non era bastato: odiavo da morire i temporali di settembre; ma ancora di più odiavo le code della mensa. Questa in particolare procedeva talmente veloce che carezzai l’idea di convertirmi al cannibalismo. Avevo già la tessera e il vassoio in mano quando prese a squillarmi il cellulare. Me lo sistemai all’orecchio come un auricolare e pigiai il tasto di risposta: “Pronto?”
“Ciao, Innocenzo.” Mi rispose mio cugino.
“Ciao, Giancarlo”.
“A che punto sei col tuo libro?” Mi chiese.
“Al momento?” Risposi un po’ titubante. Non volevo dirgli che ero bloccato da degli strani sogni. Era uno psicologo, si sarebbe messo subito a psicoanalizzarmi anche se da una parte credevo che mi avrebbe fatto bene. Ma non volevo che pensasse che mi fossi ammattito, così risposi: “Sono a un punto morto”.
“Bene, perché volevo chiederti se ti sarebbe piaciuto assistere ad una seduta d’ipnosi regressiva”.
Aggrottai le sopracciglia: “Che sarebbe?”
“Il metodo per portare alla luce ricordi dimenticati del passato”.
Risposi senza pensarci due volte: “Sì. A che ora?”
“Alle tre in punto al mio studio”.
“Ci sarò”.
“Allora a dopo. Ciao”.
“A dopo, ciao.” Risposi, e attaccai.

Dopo un paio di pizzette e un caffè veloce al Totò, mi recai, benedicendo il tempo per aver smesso di piovere, allo studio di Giancarlo. Suonai il campanello e Giancarlo mi rispose al citofono: “Sì?”
“Sono io, Innocenzo”.
“Sali.” E mi aprì la porta.
Volai su per le scale ed entrai nello studio che mi aveva lasciato aperto. Aveva predisposto un angolino vuoto per me con una sedia. Mi tolsi la giacca e la misi sullo schienale della sedia, poi gli chiesi, mentre estraevo le mie cose, ancora un po’ umide dalla borsa: “Sono in ritardo?”
“No, sei in largo anticipo”. Non avevo neanche mangiato, ma tanto avevo perso l’appetito. “Bene.” Dissi.
Aspettammo un’ora prima che arrivasse il paziente, o meglio, la paziente. Giancarlo era andato a riceverla e io non capii perché finché non fece capolino una pancia ampia come una vela al vento di una donna. E mi trovai di fronte una ragazza incinta di sette mesi, dagli occhi duri e neri come il carbone e i capelli con un’evidente ricrescita più scura del biondo budino che ostentava. Non doveva avere più di ventisette anni. Giancarlo fece le presentazioni: si chiamava Giuliana e veniva da Verona. Ci disse di essere la tastierista di un complesso metal, nonostante ciò i suoi modi erano gentili.
Giancarlo l’aiutò a sdraiarsi sul lettino e si accomodò sulla poltrona vicina e la pregò di parlarci del suo caso. Lei ci raccontò che gli aveva scritto per informarlo di uno strano avvenimento che le succedeva da quando era bambina. Una donna anziana dal sorriso materno, vestita di un abito giallo di foggia orientale, la veniva a trovare tutte le notti. Le diceva sempre poche parole però tra queste ricordava che c’era sempre una serie precisa. “Palazzo”, “Rossane”. Poi spariva.
“Come sa ho fatto come mi ha chiesto e la donna mi è riapparsa in sogno e mi ha mostrato un palazzo. Era bello, antico. Ma l’interno è scuro. I pavimenti, ogni cosa è fatta di marmo opaco, dal verde al granito nero. Tutte le persone all’interno indossavano abiti semplici. Le donne erano velate. Non saprei dire dove mi trovassi. Credevo a Gerusalemme. Poi ha indicato una porta e, dopo essersi indicata il petto ha detto qualcosa in una lingua sconosciuta. Credo abbia detto Rossane.” Mi accigliai mentre lei volgeva la testa verso Giancarlo che prendeva nota. Le gambe accavallate. “Secondo lei che può essere?” Domandò Giancarlo guardandola.
“Credo che sia il nome della bambina che porto in grembo, forse mi ha avvicinato come in quel romanzo che lessi.” Rispose.
“Adesso si vedrà.” Ribatté Giancarlo. Districò le gambe e la ipnotizzò fino a farla tornare indietro, indietro, indietro, fino a che lei non fu più se stessa.
“Mi sente?” Domandò. Lei rispose dopo qualche secondo: “Sì”.
“Dove si trova?”
“In un palazzo. È grande qui. È luminoso, i pavimenti sono splendidi, talmente puliti che potrei riflettermici. I panneggi e le tende sono scuri, vanno dal blu più intenso al verde foresta, come quelle dei tramonti nella mia terra natia”.
“Da dove viene?”
“Epiro”.
“Cosa ci fa in quel palazzo?”
“Sono la nutrice della principessa della dinastia del Sole”.
“Qual è il suo nome?”
“E’ un nome che non si può pronunciare in questa lingua”.
“E il suo?”
“Neanche il mio riuscireste a pronunciare”.
Mio cugino domandò: “Perché sta cercando di avvicinare Giuliana?”
“Lei e io siamo la stessa persona. I miei ricordi sono i suoi”.
“Vuole dire che lei non è lo spirito del bambino che porta in grembo in questo momento?”
“No”.
“Chi è la principessa Rossane?”
“La figlia del Re. Non posso dire di più: è tabù parlare della leggendaria famiglia reale. La principessa a breve si sveglierà e io devo andare ad assisterla se no mi faranno frustare. C’è già gran fermento”.
“Perché?”
“E’ tabù”.
“La prego”.
“Posso fidarmi?”
“Sì”.
“Secondo la leggenda discendono dalle stelle e sono dotati d’enormi poteri magici. Pare che il loro emblema sia una Fenice. E a volte quando si guardano emanano un’energia irresistibile. E allora è difficile mettere in dubbio la nobiltà del loro sangue e la divinità delle loro origini. Oh, tra poco si sveglierà”.
“Chi sono i membri della famiglia?”
“Il re malato e la sua unica figlia. Ha cercato di avere altri eredi ma lui e le sue mogli non sono mai stati benedetti dalla nascita di un figlio, nemmeno una femminuccia. E col tempo s’è ammalato. Presto la morte verrà a trovarlo”.
“Mi parli di Rossane. Com’è?”
“Non posso”.
“La prego”.
“No o mi faranno frustare!”
“Non le accadrà niente di male. Qui nessuno la può più toccare. Si fidi di me”.
Lei tacque per un po’, poi si decise a parlare. Se l’avessi detto io, probabilmente non l’avrebbe mai fatto.
“E’ alta, è bella. Ha i capelli rossi scuri lunghi che le scendono ondulati sulle spalle e le cingono le scapole in morbide punte arrotondate. Ha il viso un po’ lungo ma i tratti non sono cavallini. Gli occhi sono grandi, quasi enormi, e sono luminosi e di un colore carico tra il verde e l’azzurro. Solitamente indossa abiti gialli, e sembra fatta di luce”.
“E di carattere?”
“Sa essere buona e gentile, ma sa anche farsi rispettare. E’ un po’ brusca a volte. A volte penso starebbe meglio se non fosse una principessa”.
“Quanti anni ha in questo momento?”
“Diciassette. Mi spiace, ma ho già detto troppo”.
“Capisco. Vada pure, e grazie per la cortesia che mi ha fatto”.
“P-prego, signore.” Rispose interdetta poi l’ipnosi si sciolse. Giancarlo aiutò Giuliana a rimettersi seduta e le narrò di quello che aveva detto omettendo alcuni particolari. Giuliana non sapeva quasi niente di una principessa Rossane, ma non credeva più che fosse la bambina che portava in grembo. Infine la accompagnò fino in strada. Quando tornò ero ancora sotto shock. “Com’è stato?” Mi domandò porgendomi un bicchiere d’acqua che aveva preso dalla macchinetta nella sala d’attesa. Lo presi. “Non credevo che fosse così…Cioè…” “Intenso?” Suggerì. “Sì.” Anche. Poi bevvi un sorso.
“Anche per me è stato un po’ strano.” Poi aggiunse, strofinandosi i palmi sui pantaloni: “Mi sorprende che abbia citato la leggenda di Rossane.” Lo guardai sorpreso e lui mi spiegò che era una leggenda che si trova all’interno del Trattato sulle Anime del professor Kaine. Kaine, ancora lui. Pensai; e lui, che conosceva il linguaggio del corpo, disse: “Dalla faccia deduco che lo conosci”.
“Mi sono imbattuto nella sua biografia l’altro ieri”, risposi prima di bere di nuovo, “ma non ho mai letto i suoi trattati”.
Mancanza alla quale rimediai la notte stessa, quando li cercai su Internet. Il Trattato dell’Immortalità non mi attirò, invece quello sulle anime catturò subito la mia attenzione perché parlava della sua teoria secondo la quale le anime altro non sono che energia senziente in continua crescita e movimento che transitavano da un corpo all’altro per imparare, migliorarsi e perfezionarsi finché non sarebbero diventate talmente perfette da non tornare mai più. In altre parole eravamo nati per imparare. E che per lui non v’era alcuna differenza tra il ricordo, il sogno e la vita. Mi sembrò un’assurdità bella e buona. Mai quanto la sua teoria sulla Fenice. Mi sorpresi molto nel ritrovarla anche lì. Secondo lui la Fenice esisteva davvero, ma, come avevo sospettato anch’io, non era un uccello infuocato che rinasceva ogni cinquecento anni la cui venuta era annunciata da uno stormo di tortore e colombe - bensì un’anima nata tra gli uomini per guidarli verso il progresso e il futuro. Il professore aveva condotto delle ricerche sul campo e aveva scoperto che ai suoi tempi era esistita davvero una dinastia del Sole il cui emblema era una Fenice, oltre che una stele sulla quale erano incisi i nomi della famiglia reale. L’ultimo dei quali era proprio Rossane. Attualmente la stele era esposta al Boston Museum. Inoltre, sempre stando al suo trattato, la principessa reale apparteneva ad un culto basato sulla reincarnazione. Un’altra cosa che mi colpì fu un’altra teoria che voleva che chiunque, nel suo piccolo, potesse essere una Fenice, anche se la Fenice vera e propria, la sovrana cui le anime rispondevano, era in mezzo a noi. Magari c’era pure passata accanto senza che ce n’accorgessimo. Stando ai suoi scritti era pure possibile che il suo spirito si fosse reincarnato altrove. Magari in un altro tempo. Dopo quest’ultima riga chiusi la schermata schioccando la lingua contro il palato, con la vaga idea di leggere gli scritti di un pazzo.

Il padre esorcista tolse le mani dal capo della giovane posseduta, ormai ricondotta alla luce e disse, con un sorriso felice e stremato: “Sei salva, figliola mia”.
La giovane sorrise contenta mentre una goccia di sudore le rigava la guancia come una lacrima. Solo dopo si accorse della ferita che gli aveva inferto il prete con la lama di un coltello e disse, sgomenta e dolorante, cadendo il ginocchio: “Padre…”
“Sono qui.” Fece l’uomo sorreggendola durante i suoi ultimi spasmi di vita.
“Aveva detto che ero salva.” Disse a fatica.
“Zitta, zitta. Non parlare, bambina mia.” Le disse cullandola mentre le dava l’estrema unzione. La ragazzina sempre più spaventata si appigliò alla veste di prete tutta sudata e sporca di sangue. “Padre, ho paura, che cosa…?”
“La tua anima sta per essere ricondotta a Dio, adesso sei al sicuro, piccina.” E mentre la bambina moriva mi tornarono in mente a tal punto le parole del simpatico predicatore che decisi di spegnere la TV. Mi ero appena stiracchiato sul divano quando mi aveva chiamato mio cugino. Aveva trovato un’altra persona che sapeva di Rossane. Così tre giorni dopo andai da lui.
Il caso cui assistetti stavolta era di una cinquantaquattrenne di Parma, una certa Rosetta Ciotta. La donna non aveva nozioni di storia orientale. Qualche mese fa, aveva chiamato mio cugino e lui, dopo una breve telefonata, l’aveva invitata nel suo studio per sottoporla ad una seduta d’ipnosi regressiva e la signora aveva rifiutato dicendo che suo marito non voleva. Ma poi cambiò idea e adesso stavano arrivando. Erano sposati da quasi quarant’anni. Mi stupii perché nessuno si sposava più. Rosetta era di costituzione cinquecentesca, con certi occhi grigi, luminosi come specchi, e i capelli ordinati raccolti in uno chignon. Il viso recava le ultime tracce di un’antica bellezza. Germano invece sembrava un camionista imbolsito. E se lei era elegante nel suo vestito nero a pois bianchi della domenica, lui sembrava una specie di barbone.
Non c’era mai stato niente a turbare il loro rapporto, nessun problema economico, morale, nessun tradimento. Avevano tre figli quasi adulti. Eppure recentemente erano sopraggiunti questi sogni in cui Rosetta, nascosta dietro un tendaggio, fissava una donna la cui descrizione corrispondeva a quella di Rossane. Dapprincipio aveva parlato con il marito, ma questi pensava che non volesse dire niente e non le credette. Tuttavia, quando i sogni si erano fatti più dettagliati e lei aveva cominciato ad innamorarsi della principessa, il signor Ciotta si era sentito minacciato. Nei mesi precedenti al nostro incontro si era messo a spiarla, credendo che si fosse scoperta lesbica. Cosa possibile visto che tutti nasciamo senza preferenze e talune rimangono latenti. Ma quando appurò che non esisteva nessun’amante, si convinse a portarla da mio cugino. Giancarlo ipnotizzò Rosetta.
“Qual è il suo nome?”
“Mi chiamo Dago.” Immaginatevi le nostre facce quando udimmo queste parole. Il signor Ciotta sbiancò direttamente. Io strabuzzai gli occhi, ma non dissi niente. Giancarlo rimase impassibile e continuò in tono professionale: “Che mestiere fa?”
“Una volta ero uno dei tanti servitori della Regina Rossane”.
“Regina…Che cosa è accaduto al vecchio re?”
“E’ morto dopo una lunga agonia”.
“Quanti anni sono passati da allora?”
“Sei”.
“Quanti anni ha?"
“Ventitré, come la Regina.” Come me, pensai.
“Com’è salita al trono?”
“Il padre l’ha nominata reggente e poi ha preso il suo posto. La Principessa ha pianto molto per lui, quando è morto”.
“E lei?”
“Anche noi, certo. Era un sovrano molto severo ma non era la Principessa Rossane. Il vecchio Re, suo padre, governava col pugno di ferro e alzava le tasse quasi costantemente, ma la Principessa, cioè, la Regina, è diversa; lei vuole veramente il nostro benessere”.
“Mi dica, com’è?”
“E’ bellissima, davvero; una luce nelle tenebre.” Sospirò con rammarico. Poi soggiunse, intristito, “E’tanto generosa con tutti, ha sempre un sorriso per tutti, tranne che per me. Lei non sa nemmeno che esisto.” Sembrò essersi reso conto del tono che aveva usato perché i discorsi si fecero più freddi e distaccati. A tratti era come se non volesse proprio parlarne: “Il vecchio Re teneva tanto all’etichetta; invece lei è più spigliata nonostante che sia un po’ più teatrale. Qualche tempo fa, prima del Solstizio d’estate, stava girando per le campagne accompagnata dal suo corteo, e c’eravamo fermati per far riposare i cavalli quando un contadino scese dalle colline boscose per chiedere aiuto alla nostra sovrana”.
“Mi narri, che successe?”
“L’uomo si prostrò ai suoi piedi e le raccontò la sua situazione. Noi tentammo di scacciarlo e di dissuaderla dalla possibilità di aiutarlo, ma lei non ci ascoltò. Si tolse il bracciale di corniole cesellato d’oro e glielo diede dicendo: Mi dispiace di non avere niente di meglio da darti, però tieni. Và e vendilo, e con i soldi ripaga tutti i tuoi debiti”.
Il poveraccio non la finiva più di ringraziarla, poi risalì per la collina e scomparve tra gli alberi dalle fronde smosse dal vento”.
“Era un delinquente?”
“Forse; o forse era così disperato d’assaltare il corteggio reale, ma Sua Maestà era fatta così. Forse col tempo considerò anche lei quest’ipotesi, ma aveva così tanti gioielli che non penso le importasse davvero”.
“Aveva carisma?”
“Sì, sapeva incantare le folle con la sua luce. Sapeva darci speranza, era facile amarla. A volte penso che non ne fosse nemmeno consapevole. E penso anche che non fosse naturale”.
“Bè, lei era una discendente del dio del Sole.” Buttò lì nel tentativo di incoraggiarlo a dire di più. E questo abboccò: “Sì, ma è anche più di questo. A volte sembrava fatta di fuoco”.
Inarcai le sopracciglia.
“Ha dei nemici?”
“Sì”.
“Chi?”
“Ne ha molti, sia a corte che non. Molti hanno ordito complotti alle sue spalle. Una volta hanno pure pensato di avvelenarle il cibo, ma non l’hanno mai fatto. Le basta un solo sguardo affinché cambino idea; ma i più temibili sono i Diadochi”.
“I Macedoni? Gli ex compagni d’arme d’Alessandro Magno?”
“Esattamente”.
E ci venne in mente il resto della storia dell’imperatore Macedone. Forse avevamo trovato una specie di “testimone oculare” che avrebbe potuto far luce sugli avvenimenti di quel periodo inerenti alla Grande Regina. Si emozionò molto quando formulò la domanda seguente: “Vuol dire che lei era Rossane, la moglie d’Alessandro il Grande?” Dago/Rosetta contrasse il viso in una smorfia offesa: “No, era un’omonima. Però a differenza della Grande Regina non voleva sposarsi. Temeva che l’avessero uccisa quasi sicuramente nel letto di nozze per impossessarsi del regno, quindi si rifiutò di stringere ogni tipo d’alleanza politico-matrimoniale. Ciò non vuol dire che non ebbe molti amanti”.
“Ebbe anche un figlio?”
“Credo che abortì. Ad ogni modo sapeva anche che ci avrebbero ridotto in schiavitù e non voleva questo per il suo popolo. Avrebbero dovuto passare sul suo cadavere per impossessarsi delle sue terre”.
“E lo fecero?”
“Sì. C’invasero e fecero irruzione nel palazzo, trucidando chiunque si parasse sul loro cammino; che fossero guardie, schiavi, bambini, anziani, persino gli anziani del consiglio. Noi di corvè tentammo di metterla in salvo facendola passare per il dedalo di passaggi segreti che usavamo per spostarci più facilmente. Credevamo che i soldati non ci avrebbero mai scovato ma ci sbagliammo. Non so cosa ci tradì, ma trovarono i cunicoli e…” S’interruppe brevemente, come se le parole gli fossero venute meno, per poi proseguire. Ma le parole le uscirono con un certo sforzo, come se stesse cercando di mantenere la voce salda. “Due uomini si pararono davanti a lei ma i soldati li uccisero. La Regina era pietrificata dal terrore. E poi elevarono le loro spade e, in mezzo alle grida d’orrore e i tentativi di sottrarla alle loro lame…Sono morto per proteggerla.” Quindi non poteva sapere che cosa le fosse accaduto. Dopo un po’ mio cugino, detergendosi le lacrime dagli occhi, riflesse di quelle che Dago aveva versato tutto il tempo, domandò solo un’ultima cosa, con quanta delicatezza possibile, prima di sciogliere l’ipnosi: “L’amava?”
“Sì.” Rispose l’interlocutore con voce affranta. Poi lasciò che la signora riprendesse possesso del suo corpo e mio cugino si soffiò il naso con un fazzoletto. Rosetta scoprì di aver pianto e di avere il viso impiastricciato a causa del trucco che era colato via. “Cosa mi è successo?” Chiese sperando che qualcuno le rispondesse. Ma nessuno lo fece, nemmeno suo marito, che aveva assistito e la guardava stupito. La bocca aperta.
“Niente di che, solo, dei brutti sogni.” Rispose Giancarlo. La signora arrossì e domandò due minuti per incipriarsi il naso. Mio cugino le indicò la porta del bagno dove lei si rifugiò quasi istantaneamente. Solo quando ne riemerse Germano parve riscuotersi e, dopo che si fu riaccomodata, Giancarlo le domandò qualcosa di sé. Aveva smesso di studiare a sedici anni per lavorare e, nello stesso anno, aveva conosciuto il marito. Erano stati fidanzati nove anni prima di compiere il grande passo. L’istruzione dei due non era molto approfondita, arrivavano fino a dove avevano appreso a scuola.
“Aveva mai visto prima un film su Alessandro Magno?”
“No, mai. Mi ricordavo di aver visto un remake de Gli uccelli di Hitchcock”.
A quella risposta abbassai lo sguardo e alzai le sopracciglia. Poi tornai ad osservarli. Mio cugino era ancora impassibile. “Che cosa sa della Macedonia?”
“Che è fatta con la frutta.” Rispose lei sperando di non aver sparato una castroneria. Cercò aiuto nel marito ma lui le restituì un’occhiata ancora scioccata. Io invece la guardai dissimulando indifferenza. Giancarlo ignorò la stronzata e domandò, in tono professionale: “Alla nascita, presentava una qualche cicatrice, voglia, su una qualche parte del corpo?” Lei ci pensò su e infine disse: “No. Mai avuto niente di simile”.
“Ne è certa?”
“Non ho dubbi”.
Li ringraziò per essere venuti e, qualche mese dopo, Giancarlo ricevette una lettera della signora Ciotta: i sogni erano scomparsi e la sua vita era tornata alla normalità.
C’era voluto un po’ prima che il signor Ciotta smettesse di pensare a quella seduta che l’aveva tanto turbato. Però alla fine ce la fece. E per il resto dei loro giorni rammentarono l’episodio come un aneddoto stravagante da raccontare agli amici. Mentre per me fu una cosa stranamente diversa. Era come se fossi stato colto da un’illuminazione. Il modo in cui Rosetta s’era commossa quando aveva parlato di Rossane, e il modo in cui s’era risvegliata domandando stupita: “Ho pianto? Perché ho pianto?” mi ricordavano tantissimo quello che era accaduto a me. Fino a quel momento avevo sempre pensato che fossero sogni provocati dalle medicine contro l’emicrania, ma adesso, stentavo pure io a crederlo, cominciavo a pensare che fossero qualcosa di diverso. Di molto diverso.

Non avevo più rivisto Erys dopo quella volta che la scacciai. Da una parte mi dispiacque molto. Non mi era piaciuto vederla piangere. Presi il telefono e pensai di chiamarla. Avevo appena digitato il numero quando cambiai idea e misi tutto giù. Poi presi l’accappatoio dall’armadio e andai a farmi una doccia.

La terza e ultima seduta cui assistemmo sulla principessa Rossane, fu quella di un uomo. Era un trentacinquenne come tanti che però, dopo aver visto un film del secolo scorso su Spartaco, cominciò a fare strani sogni. Sognava di essere in mezzo a un campo di battaglia e osservare un palazzo che si stagliava contro l’orizzonte e, tutt’attorno a lui, c’erano i resti di una battaglia e le sue truppe che si ritiravano. Però non era Spartaco. Le armature e i blasoni dei nemici erano Macedoni. E lui era vestito con l’emblema della Principessa: la Fenice d’oro in campo fiammeggiante. Giancarlo lo avvisò che a volte il cervello riceveva degli stimoli i cui effetti arrivavano a scoppio ritardato, quindi poteva solo essere un caso. Per un attimo ripensai alle mie visioni e pensai che potesse essere il mio caso. Ma poi accantonai l’ipotesi. Qualcosa mi diceva che non era così. Se non fosse stato che in seguito il signor Giacomo Lametta ricordò che questi ricordi risalivano ai nove anni d’età e che pensava sempre, intanto che guardava il castello: “Un giorno, lo giuro, riusciremo a liberarci degli invasori. Lo giuro sulla mia testa, Principessa Rossane”. E poi, l’urlo di una donna che non aveva mai sentito. Anche lui si recò da mio cugino. Il signor Lametta teneva davvero fede al suo nome: in passato aveva avuto problemi seri con l’autolesionismo e si tagliava frequentemente, così, dopo vari analisti, sedute terapeutiche e pillole, avevano smesso. Era un tipo alto e allampanato con i capelli e gli occhi neri dalle palpebre talmente scure che gli conferivano un aspetto tra il perennemente assonnato e il perennemente pestato a sangue. Dava proprio l’impressione di non avere tutte le rotelle al posto giusto. Giancarlo lo invitò a stendersi sul lettino e poi lo ipnotizzò.
“Lei chi è?”.
“Io sono Rossano, il capo dei ribelli del regno dei Parti.” Persino il tono di voce era cambiato. Era più deciso, più autoritario. Non era più l’affilatoio umano che avevamo sotto gli occhi. Era la voce che immaginavo avesse potuto avere Ercole.
“Agivate contro la Regina o in suo nome?”
“In suo nome contro i tiranni Macedoni”.
“Che cosa è accaduto alla Regina?” Lui deglutì prima di cominciare a raccontare: “Tenterò di rammentare anche se non è facile; se ci penso mi sembra tutto così confuso… Era riuscita a scappare dai sotterranei dove l’avevano nascosta. Stava piangendo di terrore e i suoi abiti erano schizzati di sangue. Aveva una ferita aperta al braccio sinistro. Si era ritrovata nella sala del trono ma era inciampata in un tappeto e, quando cercò di rialzarsi, due comandanti Macedoni la videro, sguainarono le spade, la raggiunsero ridendo e canzonandola. Lei cercò di arretrare ma le sbarrarono la strada. Tentò di respingerli per fuggire ma la trafissero al costato dicendo qualcosa del tipo: “La prossima volta impari a sottometterti”. E poi le ritrassero. Vidi il suo cadavere cadere pesantemente al suolo con un tonfo”.
“Lei come lo sa?”
“Io ero lì quando successe. Avevo sedici anni”.
“Perché non ha fatto niente?”
“Perché avevo paura. E perché penso che, se avesse saputo che ero lì, avrebbe fatto di tutto per proteggermi. Lei era altruista”.
“Sa cosa successe dopo?”
“Non so cosa fecero del suo corpo, però ricordo che ci ridussero in schiavitù. Avevamo perso una sovrana e la nostra libertà. Eravamo sommersi dalle tasse e la povertà, le ingiustizie e le malattie regnavano sovrane, come fedeli compagne dei nostri nuovi padroni. Era esattamente ciò che Rossane aveva tentato di evitare. Calpestarono la sua immagine, i ricordi, l’idea che avevamo di lei”.
Mi sostenni il mento con la mano, interessato.
Poi Giancarlo domandò: “E lei e il resto del popolo?”
“Eravamo sconvolti oltre che a lutto e sconfitti. Ci mettemmo molto tempo, prima di ribellarci”.
Adesso la sfumatura di vergogna che permeava la sua voce si era fatta estremamente palese.
“Perché?”
“Non so. Paura, immagino”.
“Mi dica di Rossane. Cosa ricorda di lei?”
“Lei aveva il dono della parola. Le sue parole erano magiche: era talmente carismatica che i suoi discorsi sopravvivono a lei”.
“Può fare un esempio?”
“Un giorno si presentò di fronte a noi tutti e parlò. Disse: Voi non siete oggetti. Non siete schiavi, siete esseri umani. Ho visto la miseria in cui vivete e vi prometto che farò di tutto per migliorare la situazione. Lo fece davvero. Oppure anche: Oggi sono venuti da me i dignitari Macedoni per ripetermi la solita proposta di matrimonio e io ho rifiutato. Non ho bisogno di un re straniero per governare, e voi non avete bisogno di un tiranno. Aprite gli occhi! So che molti di voi sono rimasti abbagliati dalle loro armature luccicanti e dalla ricchezza che un’alleanza comporterebbe. In realtà, se ci legassimo a loro, cosa diventeremo? Una provincia e nulla più. Io vi ho aiutato! Io ho abbassato le tasse e vi ho concesso tutti i privilegi che mio padre non vi dava. Volete davvero perdere la libertà? Lo volete davvero? Potrei ascoltare i miei consiglieri e sposarmi, ma se lo facessi non potrei più proteggervi! Perché questo è uno dei compiti di un sovrano: proteggere i propri sudditi. E come posso farlo se io stessa rinuncio alla mia libertà?
Giancarlo si rianimò e commentò: “Era davvero carismatica”.
“Con il tempo, le sue parole cominciarono a rinascere nelle nostre menti e, un giorno, si ricominciò a parlare di lei e, finalmente comprendemmo ciò che aveva sempre cercato di dirci. Così ci ribellammo. Alla fine riconquistammo il regno, però non riuscimmo a tenercelo che si frantumò e del nostro popolo non rimase quasi più niente”.
“Pensa che Rossane sapesse ciò che vi sarebbe successo?”
“Penso di sì. Non è una cosa così inusuale, i nostri sovrani erano tutti insigniti di poteri magici”.
Tutti e due battemmo le palpebre per lo stupore. Ma solo Giancarlo parlò: “Questo non lo sapevo. E…Durante la battaglia per la riconquista del palazzo?”
“Il suo spirito vegliò su di noi. Non se n’era mai andata veramente”.
“Se poteste rivederla, cosa le direbbe?”
“Niente. Non ho bisogno di dirle nulla”.
Credo che mio cugino pensasse che, se Rossane avesse potuto nascere in un’altra epoca, sarebbe stata un’ottima regina. Purtroppo era nata donna. Era soprattutto per questo che non le fu mai dato troppo credito. E mi sentii veramente dispiaciuto per l’infelice sorte di quella regina dimenticata.

Il sogno di stanotte riprendeva un gioco che facevo con i miei amici d’infanzia, le porte girevoli. Ma, solo quando rividi la chioma bionda di Dom, capii che quel sogno non era recente come credevo. Quando le nostre mamme ci portavano con sé per lo shopping del weekend, io e Dom c’infilavamo nelle porte girevoli, premevamo le mani sul vetro e spingevamo, spingevamo e spingevamo finché non acquistavamo velocità e si faceva finta di essere in una turbina. Ebbene si, la ragione dell’improvvisa assunzione dei portieri in certi negozi eravamo noi. In questo sogno eravamo io e Dom le porte girevoli.
C’erano dei ragazzi che si fiondavano contro di noi, per prenderci le mani, girare con noi per un attimo ed essere lanciati via, oltre le nostre schiene. Dom stava per far girare una ragazza, ma al momento di lasciarla andare, serrò la presa sui suoi polsi e le fece girare con così tanto impeto che la ributtò al punto di partenza, perse l’equilibrio e rotolò nella polvere. Il suo urlo di dolore si confuse con l’orribile risata di Dom, il quale, trionfante, si volse verso di me. E io feci un passo indietro per la paura. Il suo ghigno malefico svelò un’impressionante, lucente, chiostra di zanne di vetro verde bottiglia. Poi sollevò le mani sicché potessi ammirare il suo trofeo: le aveva strappato le mani all’altezza dei polsi!
Poi gettò la testa indietro e rise, intanto che la ragazza a terra gemeva e piagnucolava nella polvere. Mi destai di soprassalto e andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua di rubinetto anche se una parte di me sentì l’impulso di uscire a fumarsi una cicca. Lasciai stare. Pensai di ascoltare un po’ di musica finché non mi fosse passata la paura, e così feci. Inserii una canzone a ripetizione nel mio lettore portatile, chiusi la porta e lasciai che partisse Ordinary day di Dolores O’Riordan. Mi stesi sul letto lasciando che la musica mi attraversasse da parte a parte. Da quand’era che stavo cominciando a fare tutti questi incubi? Forse era colpa dello stress o di quello che mangiavo. Ma non pensai che fosse colpa del cibo. Non era la prima volta che mi capitava di fare sogni angoscianti. Ci fu un periodo in seconda liceo ma quelli erano dovuti all’ansia per le interrogazioni e le verifiche - non me la cavavo benissimo - non a…Boh? Credevo d’averla superata da un bel pezzo questa “fobia”.
Stranamente la mia mente corse di nuovo a Erys. Sbuffai seccato. Perché dovevo pensare a lei? Accavallai le gambe, intrecciai le mani dietro la testa e considerai con amarezza che da una parte non me ne fregava un cazzo, e che dall’altra mi sentivo un verme per averla trattata così.

Mercoledì stava per arrivare e io non avevo avuto più visioni. Comunque quella sera c’era l’appuntamento settimanale con Massimo, Luca, e Alberto. Ero proprio curioso di vedere che cosa sarebbe successo. Chissà se quei due idioti stavano andando avanti?
In quel periodo la Chiesa era scossa da scandali interni sempre più tremendi. E i predicatori, i gesuiti di nuova generazione, infestavano le strade spacciandosi per tanti novelli San Francesco. Non avevo niente in contrario, se questo era ciò che volevano fare, che lo facessero. La cosa che mi dava fastidio era che cercassero di salvare persone tramite un sacro verbo che difficilmente avrebbe potuto aiutarli. E che il predicatore di Piazza Dante si fosse accollato a me. La società occidentale dell’Era della Comunicazione non aveva tempo per pensare alla religione, ancora meno a Parole cui pochissimi avevano davvero prestato ascolto. Quante volte ci eravamo stretti la mano in Chiesa e nascosto il coltello nell’altra? Quanti soldi andavano davvero ai poveri? Quanti scandali erano stati coperti dalla Chiesa? E quanti delitti erano stati sottaciuti dalla medesima? Non fraintendete, non ce l’ho in special modo con la religione cristiana, ce l’ho con tutte le grandi religioni. Lo dice il nome stesso: religione vuol dire religo, legare. E a me non piaceva l’idea di essere legato a qualunque cosa, specialmente a istituzioni millenarie piene di falle e oscurità. Lo penso ancora, anche se a Magada e ai miei nipoti piacerebbe molto che mi ricredessi. La salvezza che serviva a quelle persone non era di tipo spirituale, ma di tipo fisico, immediato. Parlando di immediatezza indovinate un po’ chi mi importunò? No, non Erys, il simpatico gesuita. “Ossignore, cosa ho fatto di male?” Dissi sarcastico levando le braccia al cielo.
“Niente figliolo, ma qualunque peccato tu abbia commesso sarà perdonato”.
“Ancora?” Sbuffai ma quello non demorse. Gli anni passati a predicare dovevano avergli conferito la pazienza di un santo: “Perché? Tu non vuoi essere perdonato?”
“Non m’interessa”.
“Ma come, figliolo, non vuoi essere salvato?”
“Ti ho già detto di no.” Dissi con voce lamentosa.
Forse avrei dovuto inventarmi qualcosa di meglio per scacciarlo, ma ogni mia tattica falliva. Le avevo provate tutte, compreso un fantomatico corso di demonologia. Ma questo in particolare, lo aveva convinto che fossi una delle tante pecorelle smarrite da ricondurre all’ovile. Altra figura retorica che mi ha sempre mandato in bestia. Molte volte mi ero chiesto da dove mi venisse tutta quella acidità che mi sforzavo di reprimere. Forse da quel gene Y che avevo ereditato dal mio ignoto padre. Col tempo riflettei sulle mie certezze, e per come ero, più di altri, costretto a rivederle e a rimetterle in discussione. Ad essere franchi, non ne avevo molte. Inoltre, non conoscendo il mio vero padre partivo svantaggiato. La mia vera unica certezza, non l’ho maturata io. Me l’ha data la pubblicità di un’automobile che diceva che niente era più certo del cambiamento. Io concordai e aggiunsi le parole “e la morte”. Non mi ero perso a fantasticare sulle varie teorie sulla vita dell’Aldilà, l’eterno ritorno e bla bla bla bla bla. Per me erano solo una perdita di tempo. Non pensavo neanche che avessimo davvero un’anima. Ma anche se non sapevo cosa avevo preso da chi, e cosa avessi, sapevo che la mia passione per lo studio era mia.
Per il momento stavo passando le mie ore in biblioteca a studiare. Stavo prendendo appunti su Catullo quando sentii la voce di Erys nella mia testa: “Con il nostro pensiero creiamo giorno per giorno il mondo che ci circonda.” Disse e subito gli occhi cominciarono a farmi male. Misi giù la penna e il quaderno con i miei scritti scomparve sostituito dal tavolo di un bar. Le mie orecchie erano invase dalla musica che ascoltando quando la vidi arrivare. Aveva smesso di zoppicare e sembrava già stare meglio. Portava uno zaino sulle spalle ed era vestita di verde. Anche se legati avrei riconosciuto quella massa di capelli folti ovunque: era lei. Pensavo si fosse uccisa. Finii di mangiare, pagai, raccolsi le mie cose e la raggiunsi. Si era seduta su una panchina vicina e stava leggendo un libro, la testa china, ma anche così riuscii a vedere la sua espressione concentrata. Anche se non alzò il capo, mi lesse un passo del tomo che stava leggendo: La frase di Erys!
Dopodiché elevò il viso verso di me e si tolse delle cuffiette bianche che non avevo notato. “Presumo sia il tuo modo di mandarmi un accidente.” Azzardai buttandola sul ridere.
“Presumo sia il mio modo di dire “non vedo l’ora che tu evapori”.” Rispose scontrosa.
Alla faccia del buongiorno.
“Che ti fa credere che voglia fermarmi a parlare con te? Potrei parlare con chiunque, qui”. Rilevai con la stessa ruvidezza alla quale lei non fece caso. Si guardò attorno e poi mi fece, beffarda: “E con chi? Con la strada deserta, per esempio?” Però si scostò lo stesso per farmi posto sulla panchina mal ridotta da anni e anni d’incuria e vandali e mi sedetti accanto a lei.
“Ce l’hai ancora con me per quelle battute?” Le domandai addolcendo il mio tono di voce.
“Ah, erano battute?” Ribatté aspra tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé.
Mi agitai un po’ sulla panchina: “Bè ok, no, però mi dispiace d’averti offesa”.
Ma lei scosse il capo: “Penso che tu abbia solo avuto il coraggio di dire ciò che molta gente deve aver pensato”.
E io mi sorpresi a pensare che al posto suo un’altra ragazza m’avrebbe ucciso.
Tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne prese una e l’accese: “Spero non ti dia fastidio”.
“Tranquilla, fumo anch’io.” Replicai. Poi: “Perché?”
Mi guardò con aria interrogativa e un sopracciglio inarcato: “Perché, cosa?”
“Perché stai cercando di toglierti la vita?” Specificai. Lei espirò una boccata di fumo e mi scrutò a lungo. A tal punto che la sigaretta si consumò da sola. Assottigliò gli occhi: “Non mi va di parlarne”.
E, non so che diavolo mi prese, però mi dispiacque quello spreco di vita. Si rificcò la cicca in bocca e riprese a fumare. “Comunque piacere, io mi chiamo Heath.” Mi presentai. Ci stringemmo la mano. “Maya. Di cognome?”
“Kaine, tu?”
“Ternant”.
Riemersi dalla visione con occhi sgranati e misi a fuoco i miei appunti di Storia Antica. Fissai lo scaffale della biblioteca d’Anglistica senza vederlo veramente.
Kaine. In quelle visioni avevo detto di chiamarmi Kaine! Non ci credevo, cioè, avevo dei ricordi del professor Kaine nella mia testa! Quella fu la prima volta che ebbi il coraggio di ammettere a me stesso quello che avevo già capito da tempo. E ne fui terrorizzato. Com’era possibile? Era un effetto collaterale delle pasticche? Stavo scoprendo di soffrire di gravi turbe psichiche? Oppure stavo cominciando a perdere il controllo della mia fantasia, ripescando dettagli dai vari film sull’argomento della reincarnazione? Sapevo già da tempo che quello dell’umanista era il regno delle incertezze e dell’intuito, ma non immaginavo che sarei arrivato fino a questi punti. Mi alzai e andai in giardino, dove cercai di rilassarmi. Ma ero talmente spaventato e stupito che mi ritrovai a passeggiare soprappensiero avanti e indietro e a continuare a lambiccarmi il cervello di domande. Com’era possibile che conoscessi questi dettagli della sua vita? Io non c’ero all’epoca! Non esistevo ancora. Era il 2015, cazzo. “Me li sto inventando forse? No, no, è impossibile. La mia mente sta dando di matto? Che cosa mi succede?” Stavo ancora scervellandomi quando sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Sobbalzai, mi volsi di scatto e incontrai gli occhi spalancati d’Erys, che arretrò di un passo.
“Erys?” Domandai sorpreso. Che ci faceva qui? Mi guardava preoccupata intanto che si riprendeva dallo spavento involontario che le avevo causato. Notai che teneva le dita della sinistra infilate tra le prime pagine di un libro dalla copertina rigida color grigio nebbia. Le lettere gialle limone spiccavano come oro su quello sfondo spento. “Innocenzo. Mi hai spaventato.” Esclamò con un sospiro.
“Scusa. Non volevo, è che…E’ che è un periodaccio”.
“Non ti ho ancora chiesto niente.” Mi fece notare, un po’ confusa da queste rivelazioni. Non mi ero mai abbassato a dirle che cosa mi succedeva davvero, di solito inventavo qualche balla.
“Non ne ho avuto bisogno, stavi per chiedermelo lo stesso. Scusami lo stesso”.
Poi le chiesi che ci facesse qui e lei disse che le piaceva molto questo giardinetto e che, spesso e volentieri, ci studiava. “Eppure quello non mi sembra un libro dell’università.” Le dissi, accennando col mento alla copertina del suo libro. A quelle parole arrossì come se le avessi detto un’oscenità: “In effetti no, stavo facendo una pausa.” Ammise imbarazzata. Poi, per liberarsi dalla situazione di stallo in cui era precipitata, m’invitò a sedermi con lei sulla panchina dove aveva abbandonato il suo zaino e i suoi libri e io non rifiutai; dopotutto anche lei sarebbe andata bene per distrarsi. Mi passò una bottiglietta d’acqua e un kinder paradiso che mangiai quasi avidamente mentre lei metteva da parte il libro e tirò fuori della borsa un’altra merendina che si mangiò con molta più calma del sottoscritto. Le passai la bottiglietta con l’acqua rimanente e lei bevve a sua volta. “Grazie.” Dissi un po’ più calmo. Lei curvò le labbra in un dolce sorriso: “Figurati”.
Mi misi a fissare il ghiaino della stradicciola tra le aiuole. Poi sentii le sue dita girarmi dolcemente la testa e sollevarmela delicatamente con i polpastrelli, finché i nostri occhi non si incontrarono. “Che cosa c’è che ti preoccupa così tanto? Non ti ho mai visto così sconvolto come ora.” Mi chiese con un tono talmente dolce e preoccupato che mi venne voglia di rivelarle tutto, ma mi trattenni: “E’…Un periodo strano”.
“Raccontami.” Mi esortò gentilmente, battendo una volta le palpebre.
“Non credo che sia il caso”.
“Andiamo dai.” Miagolò. Mi scostai un po’, mezzo divertito e mezzo infastidito; ma alla fine, di fronte a quello sguardo implorante, capitolai. Sperando che non mi desse del matto. Solo dopo mi ricordai con chi stavo parlando: “D’accordo. Ti ho sentito leggere una frase.” Gliela replicai. Non mi sembrò molto sorpresa. E quando parlò capii perché: “Anche a me capitava di sentire le voci, ogni tanto.” Rivelò. La guardai orripilato, che fosse matta da legare oltre che strana? Ma lei si affrettò ad aggiungere: “Non preoccuparti, a volte mi sembra che i miei mi chiamino, tutto qua. Sarà successo anche a te qualche volta, no?”.
Mi sentii più sollevato e annuii poi lei continuò: “E’ una frase molto famosa. Guarda.” E mi mostrò il libro che stava leggendo. La frase era la stessa. La guardai ad occhi sgranati. “Che significa?” Le domandai spiazzato.
“Nel libro era il segreto per modificare la realtà circostante. Forse per te vuol dire qualcosa di più”.
Ragionammo così per un po’, e poi mi accorsi che il sole era calato e che avevano acceso le luci. Ci alzammo e ce n’andammo. Recuperai le mie cose e mi accorsi, mentre chiudevo la borsa, di non provare più alcun tipo d’inquietudine e che Erys era riuscita a farmi dimenticare lo spavento e tutte quelle assurdità che infestavano la mia testa. E quando ci salutammo mi sfuggì un: “Grazie per essermi stata accanto, sei davvero un’amica”.
Lei si illuminò tutta e si aprì nel sorriso più bello che avessi mai visto in tutta la mia vita. Si scostò una ciocca dietro l’orecchio e disse, gioiosa: “Lo pensi davvero?”
“Sì, certo.” Perché in quel momento era vero.

Quello stesso venerdì feci colazione con Erys. A dir la verità non fu una cosa programmata: entrai in un bar e la trovai lì, come se mi stesse aspettando. Stava mangiando una meringa e aveva una tazza di cappuccino fumante davanti. Stavolta non mi fece nessun cenno, memore dell’altra volta. Ma si limitò a seguirmi con lo sguardo mentre ordinavo un caffè e una pasta. Cercai con gli occhi un tavolo libero ma erano tutti occupati, a parte il suo. Sentivo i suoi occhi violetti trapanarmi la schiena. Il rossore mi salì alle guance mentre pregavo che distogliesse lo sguardo. Alla fine mi arresi e andai da lei: “E’ libero?”
Quel giorno aveva legato i capelli in una coda alta e smesso gli orecchini: “Oh, credevo non me lo chiedessi più.” Ribatté alzando un momento le sopracciglia. Mi accomodai di fronte a lei ignorando l’ironia.
“Sì scusami, è solo che…”
“Che non ti piace avere a che fare con le stramboidi come me.” Completò delusa. Ops, se n’era accorta. Tentai di rimediare: “No, è che…”
“Oh, avanti. Non cercare scuse con me. Sarò anche strana ma non sono scema”.
Allora abbassai gli occhi e lo ammisi. Quello che disse dopo mi arrivò come uno schiaffo: “Lo sospettavo.” Poi bevve il suo cappuccino, ignorando i sensi di colpa che era riuscita a scatenarmi. Tentai di rimediare: “Senti, mi dispiace, ok? È solo che sono ancora immaturo”. Si pulì la bocca con la salvietta e mi trafisse con un lampo degli occhi violacei: “Io avrei usato un altro aggettivo”.
Decisi di dargliela vinta: “Sì, d’accordo, hai ragione e mi dispiace. Non dovrei vergognarmi della nostra amicizia”.
“Grazie, eh?” Ribatté sarcastica.
“Scusami.” Non mi piaceva sentirmi così. Lei mi guardò in cagnesco per un po’, poi addolcì il viso, si sporse verso di me e mi diede un bacio sulla fronte. E capii che mi aveva perdonato. Da quel giorno cercai di comportarmi in modo diverso. All’inizio mi sentii un po’ a disagio ma col tempo la sensazione scomparve.

Anche se il mio rapporto con Erys era migliorato, continuavo ad avere delle visioni su Maya e Kaine. Proprio non ci riuscivo a chiamarlo per nome. Cercai delle sue foto su Internet e ne trovai una bella sfilza. Ce n’erano molte della sua “vecchiaia”, e della sua giovinezza. Da ragazzo aveva avuto i capelli biondi rossicci e gli occhi marroni che, raramente, vidi accompagnarsi a dei capelli come i suoi. Ovviamente con la solita sigaretta in mano. Tanto fumava mi sembrava sposato alla sigaretta. E, guardandolo meglio, sembrava un nuovo Freud. Accantonai l’idea d’essere la sua reincarnazione, non mi piaceva pensare a me stesso come la reincarnazione di un fumatore incallito e depresso come quello. Probabilmente le visioni erano frutto dello stress, oppure, e mi sorpresi io stesso nel prendere quest’ipotesi in considerazione, l’avevo conosciuto davvero.
Una volta mi assalì un violento dejà vu durante il mercoledì della settimana successiva mentre Alberto leggeva un passo del suo manoscritto. Mi portai una mano sulle palpebre e vidi. Mi trovavo in una mensa con un vassoio di pasta, insalata, acqua e spezzatino tra le mani. Lo stanzone non era ancora gremito. C’erano diversi tavoli liberi e, a uno di questi, individuai Maya che mangiava. Mi avvicinai: “Ciao, posso?”
“Accomodati.” E mi sedetti di fronte a lei, felice di togliermi lo zaino. Mi misi a mangiare e a fissarla: “Come va?” Le domandai a bocca piena. E lei rispose allo stesso modo: “Sempre uguale”.
Poi inghiottì.
“Stamattina non hai cercato di ucciderti, vero?” Le chiesi, ansioso della risposta.
“Stamani ho pensato di dare un po’ di tregua al mio corpo.” Meglio così. Però percepì l’intensità del mio sguardo, elevò il viso e alzò un sopracciglio scarlatto: “Perché mi fissi?”
“Niente, pensavo”.
“A che?”
“Semplicemente non m’aspettavo di trovarti qui”.
“Perché? Guarda che sono un essere umano anch’io, e come tale qualche volta ho bisogno di mangiare.” Scherzò e sorrisi.
Poi bevvi: “Non sapevo frequentassi il college”.
“E invece sì. Sorpresa!” Esclamò facendo una faccia scema “Frequento archeologia”. Soggiunse.
“Io sto facendo specialistica d’antichistica, voglio diventare un simbolista. Perché archeologia?”
“Perché per capire il mondo e prevedere il suo futuro, bisogna conoscerne il passato.” Sospirò come se parlasse ad un imbecille, mise giù la forchetta e spiegò: “Il tempo è ciclico; è una ruota che gira, non è lineare e unico come ti hanno insegnato a credere. È molto più complesso di quanto pensi”.
Allargai gli occhi: “Wow. E io che pensavo volessi scoprire Atlantide”.
Un angolo della sua bocca si tese in un sorriso: “Temo che sarà un po’ difficile; ma qualcosa d’analogo mi piacerebbe”.
Ci concentrammo sul pranzo per un po’. Ma alla fine ruppi il silenzio: “E così secondo te il tempo è ciclico eh?”
“Non secondo me. Secondo gli antichi, secondo tutti. Mai sentito la frase gli imperi sorgono e cadono?”
Non vidi il nesso: “Sì, e allora?”
Inghiottì e attaccò a spiegare: “Ti faccio un esempio. Un anno lo puoi raffigurare tranquillamente in un orologio. Gennaio è l’una, febbraio son le due e così via. In un orologio puoi ficcarci persino la durata in secoli di un impero, nascita, morte e rinascita”.
“Hai scordato la crescita, la vecchiaia e la decadenza.” Le feci notare. Alzò una spalla: “Sono già incorporate nella vita, altrimenti non la chiamerei così”.
“Ma se si sbagliassero?” Ipotizzai. E mi guardò come se l’avessi insultata: “Gli antichi sapevano molte più cose di noi.” Ribatté con un tono da discorso chiuso. Non mi arrischiai più a contraddirla. Non mi aspettavo che fosse così profonda. Per la prima volta mi accorsi che nei suoi occhi c’era una traccia di verde che aveva preso il sopravvento per tutta la durata della spiegazione. Però c’era qualcosa di terrificante in quel colore e anche nella sua voce quando disse: “Sta attento, qualcuno tra breve morirà”.
“Cosa?”
I suoi occhi tornarono nocciola all’improvviso. Niente più screziature: “Ti ho detto di…Lascia perdere. Non so cosa mi sia preso”.
La guardai un po’ incerto; “Sicura che non ti abbiano drogato la colazione?” Lei guardò il cibo nel suo piatto con aria sospettosa e sorrise. Un sorriso vero, non come quello d’Abigail, bellissimo, ma finto: “Effettivamente no.” E scoppiò a ridere.
“Innocenzo?” Mi chiamò la voce di Alberto. Dal suo tono irritato dedussi che doveva essere la quinta volta che mi chiamava. Finalmente rimisi a fuoco la scena e vidi che gli occhi di tutti erano puntati su di me. “Innocenzo, stai bene?” Mi domandò e io misi su un sorriso che doveva essere rassicurante e dissi, battendo un po’ le palpebre per rimettere tutto a fuoco: “Scusami, mi ero incantato. Che cosa c’è?”
“Ti avevo chiesto un parere”.
E io mi scusai dicendo se poteva ripetere il tutto, perché non l’avevo ascoltato. Mi guardò male e sbuffò: “Ma ti credi così superiore a noi da non ascoltarci neanche?” Disse e vidi Luca fare la spola con lo sguardo da me a lui, pronto a scattare in caso la situazione fosse precipitata. “No, certo che no.” Ribattei senza capire il perché di quello scatto. Ok che ero il migliore ma, nonostante ciò, avevo mantenuto la mia umiltà. “Allora ascolta, una buona volta!” Replicò prima di rileggermi il passaggio, o meglio, il capitolo. E Luca si rilassò visibilmente. A fine lettura mi guardò, attendendo una risposta. Gli dissi che era buono. In realtà mi faceva schifo.

Stavo passando sul Lung’Arno, diretto in corso Italia. Mi si erano rotte le scarpe proprio sotto la suola e necessitavo di un paio nuovo. Ad un tratto il mio sguardo fu catturato da un’ombra nera sull’altra sponda, che ondeggiava a tempo con la canzone che stavo ascoltando in quel momento. Poi scomparve. Battei le palpebre confuso, poi ripresi a camminare, dicendomi che era stato uno scherzo della luce. Infine raggiunsi Corso Italia e passai accanto all’antico Padiglione dove il mercatino fuori delle mura di Piazza dei Miracoli si spostava ogni anno verso Natale. Appena passai di lì mi sembrò di sentire il profumo di un incenso aromatico: benzoino, credo. E, quasi come fosse un imput, gli occhi cominciarono a farmi male. “Oh, no, non ora, non ora, non ora…” Supplicai, ma non il flashback mi assalì lo stesso. Mi trovavo in un negozio esoterico permeato da uno strano odore di benzoino. C’erano modellini di scheletri di serpente sul soffitto e un lampadario ottocentesco pendeva giù da una catena cui era avvolta una statua di ferro battuto, fin troppo realistica, di una serpe dalla lingua guizzante. Ai lati della stanza c’erano delle credenze; una di coltelli di vario tipo che mandavano sinistri bagliori, una di gioielli che avevano tutta l’aria d’essere veri. Su un ripiano c’erano dei cestini di cristalli e un cartellino col loro nome. Lessi cose tipo: lepidolite, calcite, fluorite ma anche rubini, o lava. Un’altra era dedicata agli incensi. Un’altra ancora a mazzi di carte da tarocchi di vario tipo e oggetti divinatori. E l’ultima ai libri di magia e stregoneria. Ma dove diavolo sono capitato? Pensai un tantino a disagio e il pensiero corse istintivamente a Maya che usciva dallo stesso negozio. Mi girai verso il disordinato bancone ingombro e trasalii: una signora sulla quarantina rotondetta, dai capelli castani con le prime frezze argentee e le palpebre azzurre mi salutò gentilmente e mi domandò se avessi bisogno di qualcosa. Mi sforzai di ignorare i simboli esoterici, le varie stranezze esposte e risposi: “Sì, vorrei sapere che cosa ha comprato la ragazza che è uscita adesso”.
Lei mi guardò con aria sospettosa e allora spiegai: “Sono un suo caro amico e sono preoccupato per lei”.
Ci pensò un po’ su prima di rispondermi: “D’accordo. Ha preso una confezione d’incensi di belladonna, melissa e arancia moscata”.
Tutto qui? Meno male. Sospirai di sollievo; e io che temevo che avesse preso del veleno. “Grazie, signora, arrivederci”.
Lei disse: “Non avrà mica pensato che lei volesse avvelenarla spero. A noi non interessa fare del male alla gente”.
Noi?
Mi fermai a metà tra l’uscio e la porta. C’era una strana energia in quel negozietto che non aveva niente a che vedere con la commessa che mi guardava divertita. Era qualcosa che mi faceva rizzare i peli sulla nuca. “No, no, non pensavo questo”.
“Meglio così.” Rispose sollevata a sua volta: “Buona serata”.
“Altrettanto”.
E mi affrettai ad allungare le distanze il più velocemente possibile tra quel negozio a me. Ma a cosa le serviva l’incenso? Mi ripromisi di chiederglielo. Quando la visione scomparve mi scoprii all’interno del Padiglione davanti al negozio di scarpe, di fronte a un fumigante bastoncino di incenso in un barattolo di pesche in conserva riempito con della sabbia. Scossi il capo: ossignore, per quanto tempo ancora dovrò sopportare queste visioni? Poi andai a comprarmi quelle dannatissime scarpe.

***Nota dell'autrice***
Purtroppo, come da regolamento, non posso pubblicare più di così perché la storia è già un romanzo edito in carta stampata con la Giovane Holden Edizioni di Viareggio, nonostante che quello sia il mio romanzo d'esordio. (Non sapete quanto mi dispiaccia non poter pubblicare su efp, wattpad eccetera eccetera più di così). S'intitola "Il cammino della Fenice" ed è già in commercio dal 2016 e forse qualcuno di voi l'ha già letto o avvistato su amazon o kindle o nelle librerie da qualche parte. In caso è possibile ordinarlo e avere la versione ebook.  
Spero comunque che con questi tre capitoli io vi abbia incuriositi abbastanza affinché vogliate terminare la lettura. O vi abbia lasciato un'emozione o qualcosa su cui riflettere.

Alla prossima
Kingwithoutacrown
D.M.
Susanna
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Diana LaFenice