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Autore: Servallo Curioso    27/06/2009    3 recensioni
Ham è un dio che vive in un pantheon fatto di ruoli assurdi. Lui, comunque, si sente costretto a quel ruolo fatto di studio e ricerca; privo di azione, fama ed esperienza. Non è capace di accettare la sua natura così impulsiva e sognante, all'opposto del suo ruolo: l'archivista che passa l'eternità nelle sue stanze. Conosce gli dei, conosce la storia, conosce qualsiasi cosa scritta fino a quel momento: ma non conosce il brivido di provare quelle avventure tanto sognate sulla propria pelle. Quando l'occasione finalmente si presenta, Ham, capisce di non essere adatto a quel genere di storie: quelle con l'azione, la paura della morte e il fragore delle armi di sfondo. Questa volta, però, non potrà decidere di ritirarsi: è scoppiata la guerra.
Genere: Drammatico, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Servallo:
La furiosa guerra degli Dei


Act.1 – La casta divina


Al principio, quando il mondo degli uomini si reggeva su un equilibrio precario, l'entità chiamata Padre plasmò delle creature capaci di mantenere l'ordine. Queste presero il nome di Dei. Ognuna delle identità, create per fini differenti, si sarebbe occupata di governare il continente preservandolo dalla distruzione. Ma, siccome sto qui a scrivere la loro fine, non furono in grado di portare a termine quel compito.
Io sono l'archivista, l'unico che ha le capacità di narrare tutta la storia nei suoi più segreti dettagli. Quando il Padre mi creò, lo fece con la chiara intenzione di rendermi un curioso che passa la sua esistenza ad accumulare informazioni sulla realtà. Un dio capace di osservare paziente lo scorrere degli eventi.
Evidentemente fallì: io amavo muovermi, sognavo di vivere le avventure che sentivo ed ero troppo curioso per passare la mia vita dietro una scrivania. È per questo che mi ritrovo ora a scrivere una storia ormai conclusa, in netto ritardo rispetto al momento in cui è successa.
Io sono l'archivista, io ho il diritto e il dovere di fare ciò

Capitolo 1 – Dopo tanto tempo.

Sono nato con un compito e devo decidermi a rispettarlo. Non posso decidere così liberamente come la gente crede.
Essere una divinità è forse più complicato che vivere una vita di stenti.

Era tanto che non uscivo dalle immense sale del Palazzo.
Mi trovavo in uno spazio grande e pieno d'aria solo da pochi minuti e già mi sentivo catapultato in un'altra realtà che non vedevo da tempo. Onestamente non sapevo neppure il nome di quel santuario. Non mi ero informato. Per me era solo importante essere lì.
Non riuscivo davvero a ricordare quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che avevo affrontato uno scontro. Mio padre mi aveva sempre detto che ero stato creato per tenere in ordine le carte, giocare con i documenti e badare alle parole stampate. Io mi occupavo dell'archivi: dagli eventi del passato remoto alle ultime vicende; ogni notizia passava attraverso me e io dovevo osservarla. Nient'altro.
Eppure non volevo che gli uomini mi ricordassero così. Già vedevo le loro facce mentre con ilarità pronunciavano in mio nome, facendomi sfottere persino dai loro piccoli figli tenuti in braccio dalle madri. No, non volevo, ma così era. Se la fortuna fosse girata dalla mia parte, non si sarebbero ricordati affatto di me, tanto meglio.
Ora però ero lì. Nelle rovine di un santuario da poco eretto. Intorno a me l'aria nebbiosa della montagna. Con le sue rocce spoglie, ripide e scivolose. Con la neve e il freddo.

Avevo pregato Revery di trovarmi un compito emozionante. Lei e il suo sottoposto non erano sembrati contrari fin dall'inizio, però dovevano pensarci. Non si trattava di uno strappo alla regola, dissi per convincerli, dovevo solo sgranchirmi un po' prima che il mio corpo diventasse gobbo per il lavoro.
“Senti, c'è una cosa piuttosto semplice”. Revery mi disse di Lorissy e di ciò che aveva trovato.
Il suo sottoposto era un marcantonio dai contorni spigolosi e dai rasati capelli rossicci. Il rossiccio era un colore che non mi era mai piaciuto, ero contento che se li fosse tagliati. Si vedevano appena, timidi e in gruppo, che crescevano di nuovo sulla testa di quel ragazzo incredibilmente alto e robusto. Non era un dio, poteva vantare solo dei compiti importanti, delle conoscenze tra le caste divine e dei poteri donatili dalla stessa Revery per premiarlo della sua fedeltà. Si diceva che, quando era tutto umano, quel Lorissy fosse un valoroso ma giusto combattente. Aveva messo al servizio degli dei i suoi poteri e combatteva i demoni e le creature maligne, benché le sue forze umane fossero appena necessarie per farlo sopravvivere, porgeva, inoltre, sempre i propri onori agli dei, soprattutto a quella Dea che ora lo aveva al suo capezzale.

Sentita la storia reputai pazzi entrambi: lui perché aveva affrontato senza timore cose che non riusciva a comprendere e lei perché lo aveva ritenuto degno di poteri divini. Ora capivo un po' meglio.
Brava la mia divinità, affiancarsi a un bel figliolo del genere, davvero brava. Avere desideri così maliziosi nei confronti di un guerriero umano, però, infangavano la divina essenza di cui era fatta. Ma chi sono io per additarla?
Tornando all'affare, Lorissy, il suo affabile sottoposto, aveva trovato un piccolo demone ed entrambi erano convinti che io potessi svolgere quella piccola missione al posto loro.
“Ti servirà a sgranchirti” disse Revery ridacchiando.
Con un gesto della mano, troppo sottile per i miei gusti, mi indicò il luogo. L'immagine del tempio apparve in una pozza vicino a lei. Anche se semplicemente riflessa in uno specchio d'acqua alle porte del regno divino, quell'immagine, mi donò abbastanza informazioni per andare con sicurezza senza perdermi in inutili spiegazioni. Grazie ai miei occhi, anche una piccola increspatura nell'acqua era sufficiente a fornirmi precise indicazioni.
Lei ancheggiò voltandosi e dandomi le spalle. Mi mostrò un'ultima volta la sua figura fisicamente gracile e piccola, troppo per sembrare la dea predisposta a proteggere l'ingresso al mondo divino, ma era solo un'illusione. Lei era forte, lo sapevo bene.

Stavo tentando di evitare i colpi più potenti. Tenendomi così a distanza non potevo sperare di ucciderlo con facilità ma almeno avevo salvo il mio corpo. Quel 'piccolo' demone trovato da Lorissy, era cresciuto molto velocemente e ora aveva preso le sembianze di un'enorme scimmia a tre teste. Tre odiose teste di scimmia, che urlano, sputano lingue a forma di serpente e urlano, più forte.
Lo svantaggio di essere una divinità da ufficio e archivio è quello di non avere una di quelle armi magiche che fanno sempre impallidire i nemici, o sospirare le fedeli. Potevo combattere solo con la mia magia divina, che era abbastanza per tenerlo a bada ma non possedeva capacità sceniche, fantastiche e segrete. Per questo dovevo combattere usando dei vecchi fogli di carta, riempiti di scritte ormai inutili. Erano, comunque, fogli speciali, intrisi del mio potere. Avevano assunto una strana forma, simile a quella di un uccello e volavano furiosi attorno al bersaglio.
Avevano assunto quella forma ed erano vivi e dai bordi affilati come spade. Volavano attorno al corpo della scimmia-cerbero senza però allontanarsi troppo da me. Era la mia magia, dopotutto, a tenerli in vita. Facevano giri veloci e turbinavano sul corpo del mostro tagliando, ferendolo e lacerandolo. Ma erano attacchi troppo leggeri per ucciderlo o metterlo in seria difficoltà.
Se solo avessi avuto una di quelle armi speciali.
Il mostro sbraitava e cercava di prendermi ma io mi dileguavo velocemente dopo ogni individuazione. Almeno i riflessi e l'agilità li avevo sviluppati.

Ormai però mi stavo stancando: tutta questa attività fisica non la potevo reggere, non ci ero abituato. Il grande Padre aveva detto che i poteri divini derivano dall'essenza stessa di una divinità. Al momento della nascita, il seme divino conferisce dei doni ed essi non posso cambiare in nessun modo durante il tempo. Mi aveva spiegato, anche, che alcuni dei vengono a conoscenza dei loro poteri un po' alla volta perché posseggono abilità assopite. Inizialmente ci avevo creduto molto in questa storia. Quando lavoravo negli archivi del grande Palazzo speravo sempre di scoprire, un giorno, di avere un potere che faceva impallidire le bolle di Chube o l'anello di Revery, invece adesso mi rendo conto che io sono proprio inferiore agli altri.
Mentre i miei uccelli lavoravano duramente decisi di mettere in pratica un altro dei trucchi che avevo imparato tra le carte dell'archivio. Richiamai a me decine di altri inutili documenti ed essi si unirono tra loro, compattando i pallidi o ingialliti fogli, fino a formare un lungo giavellotto solido fermo e sospeso davanti a me.
Lo afferrai sicuro e feci qualche passo in avanti, dandomi la spinta necessaria a lanciarlo. No, non ero portato per la lotta ma ero pur sempre un dio, questi giochetti umani per me erano uno scherzo.
Non fu la precisione a stupirmi ma la forza con la quale si conficcò nella spalla sinistra del robusto mostro.
Uno non era bastato, forse avevo bisogno di altri giavellotti.
Evitai le sue tre lingue serpentine pronte a vendicare l'offesa con uno scatto laterale e dopo essermi fermato ne creai altri tre. Di carta ne avevo pressoché infinita e potevo sprecarmi al tiro al bersaglio.
Ne scagliai uno e dopo pensai che mancava di forza, dopo il secondo pensai che era meglio lasciare perdere quella bestia e al terzo ritrovai la speranza di vincere.
Quattro lance conficcate nel corpo non erano bastate a ucciderlo, data anche la scarsa profondità delle ferite, ma avevo un piano di riserva. Anzi, era il piano principale fin dall'inizio.
Battendo tra loro i palmi delle mani lasciai che le mie armi perdessero consistenza, tornando semplici documenti sparsi, fogli dalle antiche scritte, che si andarono ad appoggiare sulla pelle della scimmia.
Il demone non capiva più cosa stava accadendo e io ero soddisfatto di ciò. Finalmente, pensai, non dovrò più evitare i suoi attacchi.
Attesi che gran parte della carta fosse aderita al corpo demoniaco e battei una seconda volta le mani tra loro, con maggiore forza, gridando un poco. Volevo dare enfasi al momento.
Questa volta i fogli, uno dopo l'altro, esplosero rilasciando la mia energia. Tutte le parti del corpo della scimmia dalle molte teste furono coinvolte nelle varie esplosioni.
Piegai appena le ginocchia, lasciandole imprecare verso la mia figura divina per lo sforzo mentre il mostro cadeva a terra rilasciando la sua energia purpurea come una nuvola di gas. Il suo corpo si sciolse, rivelando il seme originale dal quale era nato.


Ogni volta guardavo questi semi affascinato. Sembravano piccole pietre ovali, né dure né morbide: erano malleabili e dal color rosso o viola. L'ultima volta che ne avevo presa in mano una era successo molto tempo addietro, durante un mio viaggio quando ero appena nato, e come quella volta la distrussi.

Potevo finalmente posare il mio sedere su qualcosa di solito, che lo reggesse o sperare di stendermi per alleviare le pene. Avevo usato troppa energia, ero stanco e fuori dalla forma tipica nella quale ci si aspetta di vedere un dio. Il mio ruolo non era quello, lo sapevo benissimo, ma era veramente umiliante.
Ero debole e questo mi faceva sentire ancora più debole. Sempre di più, in un circolo di pensieri dove non si tocca mai il fondo. Non durò per sempre.
Dal nulla, letteralmente, comparve la sagoma della cuoca. Mi si avvicinò rassicurandomi.
“Sei stato molto bravo, tutto il tempo passato tra i libri ti ha insegnato qualcosa” disse.
Io annuii con il capo rialzandomi dal masso. Mi porse una sacca di seta che conteneva chissà quale pietanza. “Un tempo neppure potevi ambire a fare spettacoli del genere”.
Era troppo gentile e lo comprendevo molto bene. Ma lei credeva nelle sue parole così come credeva nella grazia divina. In qualsiasi momento mi dava conforto.
I miei capelli color corvo erano sempre ordine ma il mio sguardo smeraldino inizialmente vivo era ora stanco, sfinito. Lei invece, che si occupava del cibo per gli dei, aveva una lunga chioma mossa e cremisi che avvolgeva il corpo esile e dalla quale sbucavano due occhi azzurri e grandi.
“Sei venuta a vedere se ci riuscivo?”
Lei mi guardò piegando leggermente la testa di lato e rispose in maniera sarcastica. La sua slanciata sagoma si mosse un po' per guardarsi intorno.“Ovvio! Revery mi ha detto che eri andato da un demone. Ho pensato che il tuo nome e il termine 'Demone' nella stessa frase non fossero di buon auspicio”.
“Grazie, molto gentile” risposi. Non ero proprio in vena di battute. Già muovere la bocca per articolare poche parole mi sembrava uno sforzo enorme, figuriamoci se dovevo compiere espressioni complesse.
Lei però si offese del mio scarso senso dell'umorismo.
“Insomma. Sei nato così, per un ruolo, e non puoi pretendere di essere bravo in altri”. Giusto, che potevo pretendere?
Ciò che mi faceva più arrabbiare, con rispetto per il Grande Padre, era proprio il mio essere. Perché far nascere lei, Katyana dea dei dolci, così amante della cucina e Revery, dea della vigilanza, così vigile e attenta, mentre io, dio segretario, dovevo possedere un'indole così avventurosa che si trovava all'opposto del mio ruolo. Se il Grande Padre ci aveva creato così un motivo doveva pur esserci, eppure mi sfuggiva quale.
Voleva forse tormentarmi per l'eternità?

Dopo aver mangiato quella focaccia così buona e portatrice di tranquillità e energia, tornai al Palazzo.
Camminavo tra i corridoio sapendo di dovermi rinchiudere di nuovo dentro le mie stanze per tornare a essere una semplice segretaria.
Ma mentre percorrevo il più lungo corridoio dell'ala est feci un incontro inaspettato, o quasi. Appoggiata con i gomiti sul davanzale di una delle finestre c'era Chube. Guardava fuori, al di là dei vetri lucidi e puliti. Dalla serie di vetrate si poteva osservare la base del Palazzo, i suoi dintorni e i giardini, ma uno sguardo divino poteva arrivare più in là, fino al mondo umano.
Lei stava sicuramente osservando quel mondo: ne rimaneva sempre affascinata. Stranamente affascinata dagli uomini.
Il suo compito era quello di tenere il Palazzo in ordine. Un po' come una domestica divina, ma di sicuro non era considerabile tale. Tra tutti era forse la preferita degli umani, sia perché rappresentava anche l'innocenza e la forza d'animo, sia perché poteva mantenere calme le acque durante un viaggio in nave.
La tenevamo tutti in gran considerazione ed era una delle presenze più importanti.
I suoi lunghi capelli neri erano mossi solo sulle punte, a metà schiena, e in quel momento li aveva spostati dietro le orecchie affinché non la infastidissero mentre scrutava. Il sottile corpo era appena curvo per la posizione ed era coperto da un vestito intero, fatto di fiori e colori caldi, che terminava con una gonna spiegazzata fino alle ginocchia.
Si voltò verso di me poco prima che la raggiungessi, senza neppure il tempo di chiamarla. Sorrise e mi venne incontro, con il suo passo leggero.
“Ham! Sei tornato finalmente!” disse. Era felice, sorrideva, ma rimaneva sempre molto composta; quasi per la classe che aveva innata.
Io mi ero appena ripreso, le energie dovevano ancora ristabilirsi completamente, ma apparivo un po' meno sconvolto rispetto agli attimi successivi alla battaglia.
“Salve. Mi stavi aspettando?” chiesi.
Lei scosse la testa lasciando che i capelli le dondolassero appena. “No, però eravamo impazienti di vederti tornare. Revery mi ha detto che eri andato a caccia di un demone”.
“Revery parla sempre troppo” la interruppi mostrando un finto broncio che non resse a lungo.
Lei rise un poco, portandosi una mano davanti alla bocca per educazione. “Lei era un po' dubbiosa sulla tua riuscita, ma io lo sapevo fin dall'inizio che avresti vinto”. Le informazioni circolavano velocemente.
“Revery come fa a sapere che ho vinto?” chiesi. Se glielo aveva detto qualcuno era stata sempre la guardiana.
Lei scosse di nuovo il capo, mentre la sua pelle pallida risaltava in contrasto con la luce che entrava dai vetri. “Non me lo ha detto lei. Questo l'ho pensato io. Se sei tornato vuol dire che hai finito” rispose e rendendo il suo tono un po' più grave, imitando il mio timbro, aggiunse “Si finisce sempre un lavoro, dopo averlo iniziato”.
Era vero. Quella era una delle frasi che dicevo più spesso e anche stavolta si era rivelata vera. Al di là della scarsa considerazione che avevo di me e sulle improbabili possibilità di vittoria: io non me ne sarei andato senza aver finito il mio compito anche a costo di rimanerci secco. Lei mi conosceva abbastanza bene per dirlo.
“Hai ragione, ma non è stata una vittoria così entusiasmante. Io non sono portato per certe cose”.
“Ehi, un dio non deve sminuire la sua grandezza. Le tue abilità sono al pari degli altri. Non devi pensare però di poterle usare come loro, tu devi svilupparle in maniera personale, pensarle dimenticando come lo facciamo noi” si fermò per prendere respiro abbassando il capo, quando lo rialzò mi fissò dritto negli occhi. “Ora vai, il Grande Padre potrebbe punirti se non torni a lavoro”.
Disse con un tono tranquillo, gioioso. Non sembrava volermi mettere fretta.
“Si è arrabbiato per questo?” domandai leggermente preoccupato. Che lo sapesse, lo avevo dato per certo fin dal momento in cui ero uscito dal Palazzo; lui sa sempre tutto. Mi stupì, però, l'espressione con cui lei mi aveva avvertito.
“No. Ha ben altro a cui pensare. Nulla di grave, penso, ma è pur sempre altro”.
Annuii e la salutai in maniera affettuosa, poi, senza alcuna fretta, mi diressi verso le stanze a me predisposte.
C'era una nuova notizia che andava archiviata: Ham aveva sconfitto un demone scimmia.


   
 
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