Servallo:
La
furiosa guerra
degli Dei
Act.1 – La casta divina
Io sono l'archivista, l'unico che ha le capacità di narrare tutta la storia nei suoi più segreti dettagli. Quando il Padre mi creò, lo fece con la chiara intenzione di rendermi un curioso che passa la sua esistenza ad accumulare informazioni sulla realtà. Un dio capace di osservare paziente lo scorrere degli eventi.
Evidentemente fallì: io amavo muovermi, sognavo di vivere le avventure che sentivo ed ero troppo curioso per passare la mia vita dietro una scrivania. È per questo che mi ritrovo ora a scrivere una storia ormai conclusa, in netto ritardo rispetto al momento in cui è successa.
Io sono l'archivista, io ho il diritto e il dovere di fare ciò
Capitolo
1
– Dopo tanto tempo.
Sono nato con un compito e devo
decidermi a rispettarlo. Non posso decidere così liberamente
come la gente crede.
Essere una divinità è forse più
complicato che vivere una vita di stenti.
Era tanto che non
uscivo dalle immense sale del Palazzo.
Mi trovavo in uno spazio
grande e pieno d'aria solo da pochi minuti e già mi sentivo
catapultato in un'altra realtà che non vedevo da tempo.
Onestamente non sapevo neppure il nome di quel santuario. Non mi ero
informato. Per me era solo importante essere lì.
Non
riuscivo davvero a ricordare quanto tempo fosse passato dall'ultima
volta che avevo affrontato uno scontro. Mio padre mi aveva sempre
detto che ero stato creato per tenere in ordine le carte, giocare con
i documenti e badare alle parole stampate. Io mi occupavo
dell'archivi: dagli eventi del passato remoto alle ultime vicende;
ogni notizia passava attraverso me e io dovevo osservarla.
Nient'altro.
Eppure non volevo che gli uomini mi ricordassero
così. Già vedevo le loro facce mentre con
ilarità
pronunciavano in mio nome, facendomi sfottere persino dai loro
piccoli figli tenuti in braccio dalle madri. No, non volevo, ma
così
era. Se la fortuna fosse girata dalla mia parte, non si sarebbero
ricordati affatto di me, tanto meglio.
Ora però ero lì.
Nelle rovine di un santuario da poco eretto. Intorno a me l'aria
nebbiosa della montagna. Con le sue rocce spoglie, ripide e
scivolose. Con la neve e il freddo.
Avevo pregato Revery di
trovarmi un compito emozionante. Lei e il suo sottoposto non erano
sembrati contrari fin dall'inizio, però dovevano pensarci.
Non
si trattava di uno strappo alla regola, dissi per convincerli, dovevo
solo sgranchirmi un po' prima che il mio corpo diventasse gobbo per
il lavoro.
“Senti, c'è una cosa piuttosto
semplice”.
Revery mi disse di Lorissy e di ciò che aveva trovato.
Il
suo sottoposto era un marcantonio dai contorni spigolosi e dai rasati
capelli rossicci. Il rossiccio era un colore che non mi era mai
piaciuto, ero contento che se li fosse tagliati. Si vedevano appena,
timidi e in gruppo, che crescevano di nuovo sulla testa di quel
ragazzo incredibilmente alto e robusto. Non era un dio, poteva
vantare solo dei compiti importanti, delle conoscenze tra le caste
divine e dei poteri donatili dalla stessa Revery per premiarlo della
sua fedeltà. Si diceva che, quando era tutto umano, quel
Lorissy fosse un valoroso ma giusto combattente. Aveva messo al
servizio degli dei i suoi poteri e combatteva i demoni e le creature
maligne, benché le sue forze umane fossero appena necessarie
per farlo sopravvivere, porgeva, inoltre, sempre i propri onori agli
dei, soprattutto a quella Dea che ora lo aveva al suo capezzale.
Sentita la storia reputai
pazzi
entrambi: lui perché aveva affrontato senza timore cose che
non riusciva a comprendere e lei perché lo aveva ritenuto
degno di poteri divini. Ora capivo un po' meglio.
Brava la mia
divinità, affiancarsi a un bel figliolo del genere, davvero
brava. Avere desideri così maliziosi nei confronti di un
guerriero umano, però, infangavano la divina essenza di cui
era fatta. Ma chi sono io per additarla?
Tornando all'affare,
Lorissy, il suo affabile sottoposto, aveva trovato un piccolo demone
ed entrambi erano convinti che io potessi svolgere quella piccola
missione al posto loro.
“Ti servirà a sgranchirti”
disse Revery ridacchiando.
Con un gesto della mano, troppo sottile
per i miei gusti, mi indicò il luogo. L'immagine del tempio
apparve in una pozza vicino a lei. Anche se semplicemente riflessa in
uno specchio d'acqua alle porte del regno divino, quell'immagine, mi
donò abbastanza informazioni per andare con sicurezza senza
perdermi in inutili spiegazioni. Grazie ai miei occhi, anche una
piccola increspatura nell'acqua era sufficiente a fornirmi precise
indicazioni.
Lei ancheggiò voltandosi e dandomi le spalle.
Mi mostrò un'ultima volta la sua figura fisicamente gracile
e
piccola, troppo per sembrare la dea predisposta a proteggere
l'ingresso al mondo divino, ma era solo un'illusione. Lei era forte,
lo sapevo bene.
Stavo tentando di evitare i colpi più
potenti. Tenendomi così a distanza non potevo sperare di
ucciderlo con facilità ma almeno avevo salvo il mio corpo.
Quel 'piccolo' demone trovato da Lorissy, era cresciuto molto
velocemente e ora aveva preso le sembianze di un'enorme scimmia a tre
teste. Tre odiose teste di scimmia, che urlano, sputano lingue a
forma di serpente e urlano, più forte.
Lo svantaggio di
essere una divinità da ufficio e archivio è
quello di
non avere una di quelle armi magiche che fanno sempre impallidire i
nemici, o sospirare le fedeli. Potevo combattere solo con la mia
magia divina, che era abbastanza per tenerlo a bada ma non possedeva
capacità sceniche, fantastiche e segrete. Per questo dovevo
combattere usando dei vecchi fogli di carta, riempiti di scritte
ormai inutili. Erano, comunque, fogli speciali, intrisi del mio
potere. Avevano assunto una strana forma, simile a quella di un
uccello e volavano furiosi attorno al bersaglio.
Avevano assunto
quella forma ed erano vivi e dai bordi affilati come spade. Volavano
attorno al corpo della scimmia-cerbero senza però
allontanarsi
troppo da me. Era la mia magia, dopotutto, a tenerli in vita.
Facevano giri veloci e turbinavano sul corpo del mostro tagliando,
ferendolo e lacerandolo. Ma erano attacchi troppo leggeri per
ucciderlo o metterlo in seria difficoltà.
Se solo avessi
avuto una di quelle armi speciali.
Il mostro sbraitava e cercava
di prendermi ma io mi dileguavo velocemente dopo ogni individuazione.
Almeno i riflessi e l'agilità li avevo sviluppati.
Ormai però mi
stavo stancando:
tutta questa attività fisica non la potevo reggere, non ci
ero
abituato. Il grande Padre aveva detto che i poteri divini derivano
dall'essenza stessa di una divinità. Al momento della
nascita,
il seme divino conferisce dei doni ed essi non posso cambiare in
nessun modo durante il tempo. Mi aveva spiegato, anche, che alcuni
dei vengono a conoscenza dei loro poteri un po' alla volta
perché
posseggono abilità assopite. Inizialmente ci avevo creduto
molto in questa storia. Quando lavoravo negli archivi del grande
Palazzo speravo sempre di scoprire, un giorno, di avere un potere che
faceva impallidire le bolle di Chube o l'anello di Revery, invece
adesso mi rendo conto che io sono proprio inferiore agli
altri.
Mentre i miei uccelli lavoravano duramente decisi di
mettere in pratica un altro dei trucchi che avevo imparato tra le
carte dell'archivio. Richiamai a me decine di altri inutili documenti
ed essi si unirono tra loro, compattando i pallidi o ingialliti
fogli, fino a formare un lungo giavellotto solido fermo e sospeso
davanti a me.
Lo afferrai sicuro e feci qualche passo in avanti,
dandomi la spinta necessaria a lanciarlo. No, non ero portato per la
lotta ma ero pur sempre un dio, questi giochetti umani per me erano
uno scherzo.
Non fu la precisione a stupirmi ma la forza con la
quale si conficcò nella spalla sinistra del robusto
mostro.
Uno non era bastato, forse avevo bisogno di altri
giavellotti.
Evitai le sue tre lingue serpentine pronte a
vendicare l'offesa con uno scatto laterale e dopo essermi fermato ne
creai altri tre. Di carta ne avevo pressoché infinita e
potevo
sprecarmi al tiro al bersaglio.
Ne scagliai uno e dopo pensai che
mancava di forza, dopo il secondo pensai che era meglio lasciare
perdere quella bestia e al terzo ritrovai la speranza di
vincere.
Quattro lance conficcate nel corpo non erano bastate a
ucciderlo, data anche la scarsa profondità delle ferite, ma
avevo un piano di riserva. Anzi, era il piano principale fin
dall'inizio.
Battendo tra loro i palmi delle mani lasciai che le
mie armi perdessero consistenza, tornando semplici documenti sparsi,
fogli dalle antiche scritte, che si andarono ad appoggiare sulla
pelle della scimmia.
Il demone non capiva più cosa stava
accadendo e io ero soddisfatto di ciò. Finalmente, pensai,
non
dovrò più evitare i suoi attacchi.
Attesi che gran
parte della carta fosse aderita al corpo demoniaco e battei una
seconda volta le mani tra loro, con maggiore forza, gridando un poco.
Volevo dare enfasi al momento.
Questa volta i fogli, uno dopo
l'altro, esplosero rilasciando la mia energia. Tutte le parti del
corpo della scimmia dalle molte teste furono coinvolte nelle varie
esplosioni.
Piegai appena le ginocchia, lasciandole imprecare
verso la mia figura divina per lo sforzo mentre il mostro cadeva a
terra rilasciando la sua energia purpurea come una nuvola di gas. Il
suo corpo si sciolse, rivelando il seme originale dal quale era nato.
Ogni volta guardavo questi semi
affascinato. Sembravano piccole pietre ovali, né dure
né
morbide: erano malleabili e dal color rosso o viola. L'ultima volta
che ne avevo presa in mano una era successo molto tempo addietro,
durante un mio viaggio quando ero appena nato, e come quella volta la
distrussi.
Potevo finalmente posare il mio sedere su qualcosa
di solito, che lo reggesse o sperare di stendermi per alleviare le
pene. Avevo usato troppa energia, ero stanco e fuori dalla forma
tipica nella quale ci si aspetta di vedere un dio. Il mio ruolo non
era quello, lo sapevo benissimo, ma era veramente umiliante.
Ero
debole e questo mi faceva sentire ancora più debole. Sempre
di
più, in un circolo di pensieri dove non si tocca mai il
fondo.
Non durò per sempre.
Dal nulla, letteralmente, comparve la
sagoma della cuoca. Mi si avvicinò rassicurandomi.
“Sei
stato molto bravo, tutto il tempo passato tra i libri ti ha insegnato
qualcosa” disse.
Io annuii con il capo rialzandomi dal masso. Mi
porse una sacca di seta che conteneva chissà quale pietanza.
“Un tempo neppure potevi ambire a fare spettacoli del
genere”.
Era
troppo gentile e lo comprendevo molto bene. Ma lei credeva nelle sue
parole così come credeva nella grazia divina. In qualsiasi
momento mi dava conforto.
I miei capelli color corvo erano sempre
ordine ma il mio sguardo smeraldino inizialmente vivo era ora stanco,
sfinito. Lei invece, che si occupava del cibo per gli dei, aveva una
lunga chioma mossa e cremisi che avvolgeva il corpo esile e dalla
quale sbucavano due occhi azzurri e grandi.
“Sei venuta a vedere
se ci riuscivo?”
Lei mi guardò piegando leggermente la
testa di lato e rispose in maniera sarcastica. La sua slanciata
sagoma si mosse un po' per guardarsi intorno.“Ovvio! Revery
mi ha
detto che eri andato da un demone. Ho pensato che il tuo nome e il
termine 'Demone' nella stessa frase non fossero di buon
auspicio”.
“Grazie, molto gentile” risposi. Non ero proprio
in vena di battute. Già muovere la bocca per articolare
poche
parole mi sembrava uno sforzo enorme, figuriamoci se dovevo compiere
espressioni complesse.
Lei però si offese del mio scarso
senso dell'umorismo.
“Insomma. Sei nato così, per un
ruolo, e non puoi pretendere di essere bravo in altri”.
Giusto, che
potevo pretendere?
Ciò che mi faceva più arrabbiare,
con rispetto per il Grande Padre, era proprio il mio essere.
Perché
far nascere lei, Katyana dea dei dolci, così amante della
cucina e Revery, dea della vigilanza, così vigile e attenta,
mentre io, dio segretario, dovevo possedere un'indole così
avventurosa che si trovava all'opposto del mio ruolo. Se il Grande
Padre ci aveva creato così un motivo doveva pur esserci,
eppure mi sfuggiva quale.
Voleva forse tormentarmi per
l'eternità?
Dopo aver mangiato quella focaccia così
buona e portatrice di tranquillità e energia, tornai al
Palazzo.
Camminavo tra i corridoio sapendo di dovermi rinchiudere
di nuovo dentro le mie stanze per tornare a essere una semplice
segretaria.
Ma mentre percorrevo il più lungo corridoio
dell'ala est feci un incontro inaspettato, o quasi. Appoggiata con i
gomiti sul davanzale di una delle finestre c'era Chube. Guardava
fuori, al di là dei vetri lucidi e puliti. Dalla serie di
vetrate si poteva osservare la base del Palazzo, i suoi dintorni e i
giardini, ma uno sguardo divino poteva arrivare più in
là,
fino al mondo umano.
Lei stava sicuramente osservando quel mondo:
ne rimaneva sempre affascinata. Stranamente affascinata dagli
uomini.
Il suo compito era quello di tenere il Palazzo in ordine.
Un po' come una domestica divina, ma di sicuro non era considerabile
tale. Tra tutti era forse la preferita degli umani, sia
perché
rappresentava anche l'innocenza e la forza d'animo, sia
perché
poteva mantenere calme le acque durante un viaggio in nave.
La
tenevamo tutti in gran considerazione ed era una delle presenze
più
importanti.
I suoi lunghi capelli neri erano mossi solo sulle
punte, a metà schiena, e in quel momento li aveva spostati
dietro le orecchie affinché non la infastidissero mentre
scrutava. Il sottile corpo era appena curvo per la posizione ed era
coperto da un vestito intero, fatto di fiori e colori caldi, che
terminava con una gonna spiegazzata fino alle ginocchia.
Si voltò
verso di me poco prima che la raggiungessi, senza neppure il tempo di
chiamarla. Sorrise e mi venne incontro, con il suo passo
leggero.
“Ham! Sei tornato finalmente!” disse. Era felice,
sorrideva, ma rimaneva sempre molto composta; quasi per la classe che
aveva innata.
Io mi ero appena ripreso, le energie dovevano ancora
ristabilirsi completamente, ma apparivo un po' meno sconvolto
rispetto agli attimi successivi alla battaglia.
“Salve. Mi stavi
aspettando?” chiesi.
Lei scosse la testa lasciando che i capelli
le dondolassero appena. “No, però eravamo
impazienti di
vederti tornare. Revery mi ha detto che eri andato a caccia di un
demone”.
“Revery parla sempre troppo” la interruppi
mostrando un finto broncio che non resse a lungo.
Lei rise un
poco, portandosi una mano davanti alla bocca per educazione.
“Lei
era un po' dubbiosa sulla tua riuscita, ma io lo sapevo fin
dall'inizio che avresti vinto”. Le informazioni circolavano
velocemente.
“Revery come fa a sapere che ho vinto?” chiesi.
Se glielo aveva detto qualcuno era stata sempre la guardiana.
Lei
scosse di nuovo il capo, mentre la sua pelle pallida risaltava in
contrasto con la luce che entrava dai vetri. “Non me lo ha
detto
lei. Questo l'ho pensato io. Se sei tornato vuol dire che hai
finito”
rispose e rendendo il suo tono un po' più grave, imitando il
mio timbro, aggiunse “Si finisce sempre un lavoro, dopo
averlo
iniziato”.
Era vero. Quella era una delle frasi che dicevo più
spesso e anche stavolta si era rivelata vera. Al di là della
scarsa considerazione che avevo di me e sulle improbabili
possibilità
di vittoria: io non me ne sarei andato senza aver finito il mio
compito anche a costo di rimanerci secco. Lei mi conosceva abbastanza
bene per dirlo.
“Hai ragione, ma non è stata una vittoria
così entusiasmante. Io non sono portato per certe
cose”.
“Ehi,
un dio non deve sminuire la sua grandezza. Le tue abilità
sono
al pari degli altri. Non devi pensare però di poterle usare
come loro, tu devi svilupparle in maniera personale, pensarle
dimenticando come lo facciamo noi” si fermò per
prendere
respiro abbassando il capo, quando lo rialzò mi
fissò
dritto negli occhi. “Ora vai, il Grande Padre potrebbe
punirti se
non torni a lavoro”.
Disse con un tono tranquillo, gioioso. Non
sembrava volermi mettere fretta.
“Si è arrabbiato per
questo?” domandai leggermente preoccupato. Che lo sapesse, lo
avevo
dato per certo fin dal momento in cui ero uscito dal Palazzo; lui sa
sempre tutto. Mi stupì, però, l'espressione con
cui lei
mi aveva avvertito.
“No. Ha ben altro a cui pensare. Nulla di
grave, penso, ma è pur sempre altro”.
Annuii e la salutai
in maniera affettuosa, poi, senza alcuna fretta, mi diressi verso le
stanze a me predisposte.
C'era una nuova notizia che andava
archiviata: Ham aveva sconfitto un demone scimmia.