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Autore: potterhead_slytherin    22/01/2018    0 recensioni
Secondo una leggenda molto antica, una strega, curiosa di scoprire i segreti della natura di questo mondo, si era imbattuta in tre esseri viventi: lupi, pesci e aquile. La donna rimase affascinata dalle loro doti, perciò convinse gli animali a lavorare per lei, permettendogli di esaudire il loro più grande desiderio. Alla fine chiesero tutti la stessa cosa: volevano un corpo umano. Il lupo divenne licantropo ma con dei denti aguzzi e affilati. L'Aquila divenne fata, mantenendo le sue possenti ali. Anche il pesce assunse sembianze umane pur avendo delle branchie sul collo. I servi della strega cercarono di adattarsi al mondo degli umani, ma questi non li accettarono. Il licantropo per vendicarsi delle ingiustizie dell'uomo iniziò uccidere chiunque avesse intralciato il suo cammino. La fata, al contrario, si impegnò per proteggerli. Il pesce rimase indifferente. La strega decise quindi di creare una nuova creatura, per riportare l'ordine: i cacciatori. Sono trascorsi diversi secoli dalla Rinascita, ma qualcosa è cambiato. Cosa succederebbe se un cacciatore decidesse di cancellare tutto ciò che gli era stato insegnato pur di stare con la donna che gli ha fatto riscoprire cosa significa amare e apprezzare ogni istante come se fosse l'ultimo?
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Capitolo 5
 

Mi svegliai di soprassalto. Il cuore mi martellava nel petto come un picchio mentre cerca di costruirsi una casa dentro ad un albero. Il mio corpo era scosso da brividi di paura ed avevo la sensazione che il sangue mi si stesse gelando nelle vene. Sentivo le goccioline di sudore scivolarmi sul viso e lungo la schiena, inumidendo la logora maglietta grigia che utilizzavo come pigiama.

All'improvviso due braccia mi avvolsero ed io mi abbandonai a quel contatto così caldo e rassicurante. Il profumo di bucato mi penetrò le narici.

«Mamma?» domandai in un sussurro.

«Si Amy, sono qui. È tutto finito adesso, respira. Stai bene?» mi chiese misurandomi la fronte «Stavo guardando la televisione quando ti sei messa ad urlare. Oh tesoro, era solo un incubo, stai tranquilla. Non è vero niente, niente hai capito?» mormorò con dolcezza, cercando di consolarmi.

«Sembrava così...così vero ammisi.» Lacrime salate e fastidiose mi rigavano il volto stanco.

«Lo so tesoro, lo so. Ora è tutto finito. Avanti, cerca di dormire. Pensi di riuscirci?» disse accarezzandomi i capelli teneramente. «Se ti serve qualcosa chiamami, okay? Io sarò al piano di sotto ancora per un po'» Mi limitai ad annuire, poco convinta. Mia madre uscì dalla stanza, lasciando che la porta rimanesse leggermente socchiusa alle sue spalle

Okay, respira Amelia. Inspira. Espira. Era solo un incubo. Un incubo orribile che sembrava incredibilmente vero. Mi infilai sotto le coperte e chiusi gli occhi, imponendomi di riacquistare la calma e dormire.

Ero appena riuscita a tranquillizzarmi quando sentii un improvviso rumore metallico ed un fruscio, molto simile al suono sommesso prodotto dai vestiti o dalle foglie mosse dal vento.

Cos'è stato? Domandai a me stessa spalancando le palpebre. Prima che potessi fare un pensiero razionale, mi fiondai giù dal letto. Guardai sotto la scrivania. Niente. Nell'armadio. Vuoto. Anche il letto era deserto, a parte per un paio di calzini abbandonati in quel posto da chissà quanto tempo. Tuttavia, non feci in tempo a tirare un sospiro di sollievo che intravidi un'ombra vicino alla finestra, grazie al riflesso dello specchio accanto alla scrivania. Per lo spavento inciampai nella cartella che avevo lanciato in mezzo alla stanza e che lì era rimasta.

Mi imposi di alzarmi dal pavimento. Con cautela, muovendomi il meno possibile, afferrai la chitarra. L'avrei usata come arma. In un'altra situazione non mi sarei permessa di usare uno strumento musicale come se fosse una mazza da baseball, ma ero troppo spaventata è l'istinto di sopravvivenza sembrava avere la meglio e superare ogni cosa.

Iniziai a camminare nella minuscola cameretta che mi ritrovavo, tentando di combattere il freddo che mi faceva venire la pelle d'oca sulle braccia e accapponare la pelle. In tre passi ero arrivata all'altro capo della stanza, e mentre iniziavo a pensare che mi stavo comportando proprio da stupida e che avrei fatto meglio a mettermi a dormire, udii di nuovo quel suono metallico ed il simbiotico fruscio.

Impietrita, cercai di respirare.

La ragione mi diceva che quella cosa, "quella" qualunque cosa fosse, non poteva farmi del male. A spaventarmi, in quel momento, era più che altro l'idea di sentirmi in trappola nella mia stessa stanza. La consapevolezza di non avere vie di scampo, proprio come nell'incubo dal quale mi ero appena svegliata, mi faceva sentire come un uccellino in gabbia che prova a sbattere freneticamente le ali contro le pareti della sua prigione, accecato dall'illusoria ostinazione di poter trovare un'uscita.

Forse fu proprio per questo motivo che nella mia mente si creò un'immagine che tutt'ora fatico a dimenticare, talmente sembrava reale. Ero quasi tentata di convincermene, poichè un'agghiacciante consapevolezza mi avvolse in una nube umida e fredda. La mia mente ci impiegò un po' per dare un senso a quello che vedeva. Strane forme sul pavimento. Lunghe aste pallide. Una sfera avente una superficie bombata, seguita da due cavità equidistanti. Al centro, leggermente più in basso, un terzo buco incredibilmente simile al residuo di un naso. Gli arti erano piegati all'altezza delle articolazioni e posti in una posizione innaturale. Pelle coriacea e i residui del tessuto connettivo tenevano insieme il corpo, ormai in decomposizione. Quest'ultimo rappresentava tutto ciò che rimaneva di una vita. La mia vita. Era come se mi si fosse aperta una finestrella nel cervello e io ci stessi guardando attraverso. Stavo guardando il mio destino. Il mio futuro.

Imprigionai un grido in gola e chiusi gli occhi, strizzando forte le palpebre. Quando li riaprii l'allucinazione scomparve. «Chi và là?» dissi ugualmente, cercando di mantenere ferma la voce. Nessuna risposta. Forse, anzi sicuramente, era stato solo il frutto della mia immaginazione. Seppellii nel più profondo recesso del mio inconscio l'immagine del corpo senza vita e mi morsi il labbro per impedirgli di tremare. Poi cercai di non pensare più alla morte.

Non c'era nessuno, grazie a Dio. Nessun sereal killer, ombra o ladro era affacciato fuori dalla finestra della mia camera, pronto ad uccidermi.

Calmati Amelia, sei solo stanca. Torna a dormire prima di impazzire sul serio.

Stavo per chiudere la finestra, decisamente più tranquilla, ma mi soffermai a guardare la luna. Era piena, brillava di luce propria, quasi volesse augurarmi la buona notte.

Sorrisi, il mondo là fuori era addormentato, cullato dal verso dei gufi e delle cicale.

L'unico segno di vita erano le ali nere di un uccello che si vibrava nel cielo, allontanandosi nell'oscurità della notte.

**

Mi alzai per andare a scuola con due occhiaie impossibili da nascondere persino con del trucco pesante, perciò evitai di peggiorare la situazione "effetto panda" infilando i miei occhiali quadrati neri al posto delle solite lenti. Kimberly, la mia migliore amica, diceva che con quei cosi addosso avevo l'aria di una nerd, cosa che in un certo senso ero, ma che se ci abbinavo una gonna e il paio di scarpe giuste potevo passare benissimo per una "professoressa sexy".

Dopo aver stabilito che quel giorno non ero per niente in vena di attirare l'attenzione su di me, indossai una camicia verde militare a quadri, jeans neri, anfibi.

 

Al diavolo Miss Insegnate Sexy annunciai rivolta allo specchio della mia camera oggi mi sento di più una brutta imitazione delle barbone della metropolitana. Vada per la nerd assonnata.

Lanciai un'ultima occhiataccia assassina al mio riflesso dall'aria sgualcita e andai in cucina. Quindi, dopo aver finito di fare colazione ed essermi preparata, uscii di casa. Era una tipica giornata londinese. Il vento mi scompigliava i capelli. Mi strinsi nel cappotto per ripararmi dal freddo e scesi i gradini di legno della piccola veranda. Jake era già lì ad aspettarmi, con un berretto da baseball avente la visiera rivolta al contrario, il classico sorriso strafottente stampato in faccia.

«Hei gnoma!» mi salutò «Pronta per un'altra noiosissima giornata tra i banchi di scuola?»

Per la prima volta, quella mattina, gli angoli della mia bocca si sollevarono. Era incredibile come trovassi confortante e consolatoria la sua presenza. «Uhm...non vedo l'ora» replicai con finto entusiasmo. Salii in macchina, sprofondai sul sedile di pelle, e mi concessi un sonorissimo sbadiglio.

«Wow! Qualcuno ha fatto le ore piccole esta noche» consatò, inserendo un bruttissimo accento spagnolo nelle ultime parole «che hai combinato, gnoma?» Il suo tono si fece lievemente malizioso. Sollevò il sopracciglio. Scoppiai a ridere e sbadigliai un'altra volta.

«Ti piacerebbe!» esclamai. Accesi la radio e la sintonizzai su alcuni vecchi successi di musica rock.

Jake inserì la retromarcia e, per avere piena visuale sulla strada, appoggiò il braccio sul sedile del passeggero, voltandosi per assicurarsi che non passassero altre macchine «Mai negato il contrario.»

Risi di nuovo, questa volta amaramente «Mi dispiace deluderti, ma non è stato niente di quello che pensi tu. Anzi, se proprio vuoi saperlo, per un attimo ho pensato che ci fosse qualcuno fuori dalla mia finestra questa notte...ma alla fine era solo uno stupido uccello.»

«Ne sei sicura? Perchè ti giuro Amy che se scopro che c'è un fottuto maniaco a spiarti, io lo uccido.»

«Ne sono sicura» affermai con convinzione «ora zitto, perchè amo questa canzone!» ed iniziai ad ondeggiare la testa a ritmo di musica.

«Che Dio mi aiuti!» imprecò quando mi misi a cantare a squarciagola, tenendo la mano a pugno come se fosse un microfono.

«Hey mama, look at me. I'm on my way to the promised land, whoo! I'm on the highway to hell! » intonai, coinvolgendo anche il mio migliore amico.

La musica era altissima e rimbombava all'esterno della macchina. Per quanto mi importava, potevano benissimo denunciarci per disturbo della quiete pubblica. Ero nella mia bolla felice insieme a Jake e non pensavo a niente se non alla voce di Brian Johnson e al mitico assolo di chitarra. Niente più incubi, niente porte e ombre inquietanti, nessun oscuro spettatore ad attendermi fuori dalla finestra.

«I'm on the highway to hell!»

   
 
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