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Autore: Fiore di Giada    26/01/2018    1 recensioni
[Partecipante al contest "Non plus... Ultra" indetto da Akimi sul forum di EFP]
Vulcano Rosso, seduto in uno degli ultimi posti, fissava con apparente interesse il bigliettaio, impegnato nel suo giro di controllo, e i passeggeri, che dormivano, leggevano, studiavano, chiacchieravano, ora tra di loro, ora tramite gli smartphone.
Un mezzo sorriso sfiorò le sue labbra. Da quanto tempo era lontano dalla sua terra?
Tanto, troppo tempo.
Gli sembravano trascorsi dei secoli da quando aveva abbandonato la sua città natia, prima per ottemperare agli scopi dell’organizzazione, poi per inseguire, attraverso il mondo, l’assassino della sua fidanzata.
Eppure, nulla o quasi sembrava cambiato in quella terra tanto bella quanto sofferente, a causa di errori politici e culturali antichi e moderni.
– L’hai conosciuta solo da morta, Flora … – soffiò e un moto d’ira fece irrigidire il suo corpo. Quei bastardi, che in un tempo lontano, aveva servito, avevano colpito lei per distruggere lui!
Ma lei, così bella e lontana da quel mondo, non aveva nessuna colpa!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Nickname: Evil Lady Nanto (sul forum)/Intissar (sul sito)


Titolo fanfic: Tristezza d'addio

Genere: Malinconico/Introspettivo/Romantico


Fandom+Pairing: Street Fighter/ Vulcano Rosso x OC (in realtà, non si tratta di un personaggio originale, poiché, nella biografia del lottatore, si fa riferimento alla sua fidanzata, ma non sappiamo praticamente nulla di lei. O almeno io non ho trovato alcuna informazione)

Note: Ho deciso di incentrare il contest su questo personaggio della serie Ex Plus, spin off di Street Fighter, su cui non ho mai scritto (anzi, si può dire che non si trovano storie su di lui). Avendo scoperto che è pugliese, come me, ho deciso di portarlo in un luogo scoperto di recente, il Cimitero Monumentale di Bari, che è un piccolo scrigno di capolavori d'arte.



Sotto un cielo cupo, oppresso da grigie nuvole, tra le quali, di tanto in tanto, fiammeggiava un lampo minaccioso, il lungo treno rosso, giallo e nero percorreva la strada che separava l’aereoporto di Bari – Palese dalla fermata Francesco Crispi.

Vulcano Rosso, seduto in uno degli ultimi posti, fissava con apparente interesse il bigliettaio, impegnato nel suo giro di controllo, e i passeggeri, che dormivano, leggevano, studiavano, chiacchieravano, ora tra di loro, ora tramite gli smartphone.

Un mezzo sorriso sfiorò le sue labbra. Da quanto tempo era lontano dalla sua terra?

Tanto, troppo tempo.

Gli sembravano trascorsi dei secoli da quando aveva abbandonato la sua città natia, prima per ottemperare agli scopi dell’organizzazione, poi per inseguire, attraverso il mondo, l’assassino della sua fidanzata.

Eppure, nulla o quasi sembrava cambiato in quella terra tanto bella quanto sofferente, a causa di errori politici e culturali antichi e moderni.

L’hai conosciuta solo da morta, Flora … – soffiò e un moto d’ira fece irrigidire il suo corpo. Quei bastardi, che in un tempo lontano, aveva servito, avevano colpito lei per distruggere lui!

Ma lei, così bella e lontana da quel mondo, non aveva nessuna colpa!

Anzi, lei odiava il suo mestiere e cercava di convincerlo ad allontanarsi dall’organizzazione, per potere avere una vita tranquilla.

Gli diceva sempre che la sua cultura enciclopedica e la sua conoscenza dell’informatica gli avrebbero concesso di lavorare in qualsiasi campo, senza alcun rischio esagerato.

Ma lui non le aveva dato retta e aveva sopravvalutato la sua forza e la sua capacità di previsione.

E lei, che aveva l’intera esistenza davanti a sé, giaceva sotto una lapide del cimitero di Bari.


Attendeva.

Da quanto tempo Flora, la sua meravigliosa dea, era in quella sala operatoria?

I minuti si dilatavano in ore cariche d’angoscia, che si rovesciavano come macigni sul suo cuore sofferente.

Come ho potuto essere stupido? Perché non sono riuscito a proteggerla? – si chiedeva ossessivamente, lo sguardo fisso davanti a sé. Quella a Mykonos doveva essere una vacanza, per lui e per la sua meravigliosa Flora.

Volevano festeggiare il successo da lei ottenuto in una mostra e lui le aveva proposto un anno intorno al mondo.

Lei non gli aveva mai chiesto niente, orgogliosa della sua indipendenza economica, ma lui sapeva quanto lei ci tenesse a visitare luoghi carichi di storia e, quasi in sordina, le aveva preparato una simile sorpresa.

E lei, anche se non avrebbe mai ammesso, era contenta di un simile regalo.

Eppure, il sogno di quel viaggio si era bagnato del sangue di lei.

E, se lei fosse morta, la colpa sarebbe stata sua.

Avrebbe dovuto accorgersi della presenza, all’interno dell’organizzazione, di un traditore.

E invece non si era accorto di nulla.

Tale sua dimenticanza aveva consetito a quell’individuo di seguire le loro mosse e di colpire al momento opportuno.

Quel bastardo aveva approfittato di un suo momento di assenza e, con una freddezza disumana, aveva colpito Flora.

Si era stretto la testa tra le mani, frenando a stento un urlo di rabbiosa impotenza. Le aveva chiesto di restare in albergo perché voleva farle un regalo, ma, quando era tornato nella loro suite, una visione spietata, crudele, agghiacciante si era palesata davanti ai suoi occhi.

Flora giaceva scomposta sul pavimento, come una bambola rotta, il petto perforato da un unico, crudele colpo di pistola.

Il sangue si allargava in un’ampia macchia rossa che sembrava volesse fagocitare il pavimento e, a poca distanza dalla sua mano destra, c’era un biglietto bianco, rosso per metà di sangue.

Flora! – aveva gridato e, per alcuni istanti, era rimasto immobile, pietrificato. In quel momento, gli sembrava di essere in un incubo.

Ma era la più dura e crudele delle realtà.

Flora giaceva agonizzante sul pavimento di un albergo di Mykonos.

Si era scosso dal suo stato d’apatia e, strappatosi un pezzo di stoffa della maglietta, aveva tamponato la ferita di lei. No, non poteva lasciare che lei morisse senza fare nulla!

Poi aveva preso il biglietto, l’aveva sollevata tra le braccia ed era corso verso l’ospedale.


Aveva preso il biglietto e lo aveva letto.

Ogni cosa giunge a tempo debito, era scritto su quella carta per metà imbevuta del sangue della sua amata.

Tu … – aveva balbettato, tenendo tra le mani tremanti il biglietto. Riconosceva quella scrittura così spezzata e irregolare!

Il traditore era Demetrios Georgatos, uno dei membri più rispettati dell’organizzazione.

Un tremito rabbioso aveva scosso il suo corpo. Da tanto tempo, sospettava di lui e aveva raccolto delle prove del suo doppiogioco, che aveva presentato ai suoi capi.

Ma nessuno gli aveva prestato attenzione.

O forse non avevano voluto dare ascolto ai suoi moniti?

Ma, in fondo, cosa importava?

E quel bastardo, per annientare lui, aveva colpito lei.


La porta della camera operatoria si era aperta e il chirurgo era uscito.

Teodoro Leone? – lo aveva chiamato.

Lui, sentendo la voce del chirurgo, aveva sussultato e, d’istinto, aveva nascosto nella tasca il biglietto.

Sì… Sono io… – aveva soffiato, stringendo le mani. Quel tono non gli diceva nulla di buono.

Tuttavia, non voleva accettare che il destino di Flora fosse segnato.

No, lei non se lo meritava.

Flora non aveva alcuna colpa.

Mi dispiace … Non siamo riusciti a salvarla. – gli aveva confessato, dispiaciuto.

Quelle parole, pur dette con sincero dispiacere, avevano annientato la sua anima.

In quel momento, qualsiasi sentimento puro era stato distrutto, devastato, disintegrato.

Il dolore si era nutrito della sua anima, tramutandosi in una indomabile brama di vendetta.


Stazione di Francesco Crispi! Francesco Crispi’s station! –

La voce registrata risuonò nel vagone e risvegliò il giovane dai suoi ricordi.

Sono arrivato. – mormorò e, preso il mazzo di rose rosse, che aveva appoggiato sull’altro sedile, scese dal treno.

Con passo rapido, oltrepassò l’entrata neoclassica del cimitero, percorse l'ampio viale alberato, e raggiunse l'entrata dell'Area Monumentale.

Si fermò e, per alcuni istanti, rimase immobile, gli occhi lucidi di lacrime. Pochi metri lo separavano da Flora...

Per alcune ore, avrebbe potuto stare con lei, immerso nella pace di quel luogo colmo di capolavori silenziosi e dimenticati.

Alle ceneri dei trapassati e alle lacrime dei superstiti... – lesse con amarezza, lo sguardo fisso sull'epigrafe. Lo storico Giulio Petroni, con poche, pregnanti parole aveva ben fissato la realtà di quel luogo, che avrebbe voluto tanto visitare con lei.

Era un piccolo scrigno di tesori, la cui bellezza, seppur per poco, dava requie al dolore sempre vivo di una perdita.

Flora, innamorata dell'arte, sarebbe stata entusiasta di quei capolavori poco conosciuti e poco apprezzati.

E invece riposava lei in quella splendida, seppur triste, città dei morti.

Amore mio... – mormorò ed entrò.


Per alcuni istanti, lasciò scorrere lo sguardo ora sulle tombe dalle forme più diverse, in alcuni casi sormontate da statue antropomorfe, ora sulle eleganti cappelle liberty, riccamente ornate, ora sulle raffinate chiesette neoclassiche, ora sui sobri memoriali, ornati da ritratti di defunti.

Tra alcune tombe verdeggiavano dei rampicanti, simili a lunghe e folte capigliature, e le chiome diritte dei cipressi, rassomiglianti a imponenti soldati arborei.

Tra le sepolture si aggiravano dei gatti, che, di tanto in tanto, si fermavano e scrutavano i visitatori con i loro occhi d’oro e smeraldo, quasi volessero comprendere le loro intenzioni.

Vulcano Rosso, con passo lento, percorse pochi metri e raggiunse una cappella a pianta vagamante rettangolare, ricca di decorazioni di forme diverse.

L’entrata della cappella era occupata da una colonna a forma di tronco di piramide, verdeggiante di rampicanti, nella quale erano incastonati due medaglioni bronzei, ritraenti il poeta Vito Nicola di Nicolo, e, a poca distanza da questa, era stata collocata una lapide di marmo bianco, appoggiata su un basamento del medesimo materiale, a forma di parallelepipedo.

Sopra questa era incollata la foto di una giovane donna, i lunghi capelli neri raccolti in una coda.

Gli occhi di lei, anche essi neri, simili a carbonchi, ombreggiati da lunghe ciglia nere, splendevano su un viso dai lineamenti delicati e fissavano decisi l’obiettivo.

A pochi centimetri di distanza dalla foto era collocato un vaso circolare di maiolica, su cui risplendevano di colori policromi motivi floreali e simbolici.

Due gatti neri e tre arancioni circondavano la sepoltura, guardinghi, quasi fossero degli idoli totemici.

Un mezzo sorriso distese le labbra del giovane lottatore italiano. Non sapeva perché, ma la presenza di quei gatti riscaldava un poco il suo cuore, ormai gelido.

In quel luogo di morte, quei felini privi di padrone avevano trovato un rifugio e una protezione.

Voleva credere che la loro discreta presenza lenisse la solitudine di Flora.

Amici gatti, potete lasciarmi solo con lei per un po’? E’ la mia fidanzata e vorrei stare un po’ con lei. – mormorò e, chinatosi, cominciò ad accarezzare gli animali sulla testa e sulla schiena.

Dopo qualche istante, i felini iniziarono a strusciarsi sulle mani e attorno alle gambe del giovane, bramosi di coccole.

Poi, discreti, si allontanarono verso altre tombe.


Il giovane trasse dalla tasca dell’abito un fazzoletto e ripulì il tumulo dalla polvere.

Prese il vaso e, recatosi ad una fontana, lo ripulì e lo riempì d’acqua.

Poi, ritornato presso la tomba, sistemò i fiori e rimise il recipiente nella medesima posizione.

Ogni promessa è debito, amore mio… Sono tornato con una bella notizia. La vendetta è compiuta. Finalmente, puoi riposare in pace... – sussurrò e, con un gesto lento, greve di solennità, sollevò il braccio e sfiorò la scritta sottostante la foto e l’epitaffio.



Flora Gentile

27 dicembre 1980 – 24 ottobre 2011


Giovinezza, bellezza e intelligenza

rilucevano ne le tue belle iridi

Una primavera per te fiorita di speranze e sogni

il fato crudele tramutava in un gelido inverno

Su questo triste sacello, spandendo lacrime

il fidanzato, straziato dal dolore, a imperituro ricordo,

tristi corone di fiori depose.




Sì.… Ho ucciso il bastardo che ti ha strappato a questa vita, amore mio… Ha pagato per il male che ti ha fatto… Finalmente, ho conquistato la serenità... – proseguì e, con sforzo, sollevò le labbra in un debole sorriso.

Qualche istante dopo, il suo volto si distorse in una maschera di dolore e le lacrime fluirono sulle sue guance.

Chi voglio prendere in giro… Anche se sono riuscito a raggiungere il mio scopo, il vuoto non cambia e il dolore resta… Mi manchi tu, mia bellissima dea... – confessò. Lei riusciva a vedere oltre il suo aspetto chiassoso e sorridente e, anche dinanzi alla sua fredda tomba, si sentiva nudo e indifeso.

Aveva cercato di convincersi di essere felice, ma lo sguardo di Flora, impresso sulla pellicola fotografica, aveva annientato quell’illusione fallace.

La vendetta, per quanto cercata, voluta, bramata, si era rivelata un dolce veleno.

La morte di quel bastardo aveva lenito, come un balsamo, le ferite della sua rabbia, ma non aveva placato lo strazio dell’assenza.

Il suo decesso non avrebbe ridato al corpo gelido e immobile di Flora il dolce e caldo soffio della vita.

Flora… Spero che tu abbia potuto conoscere i tuoi genitori, che sono morti troppo presto … Potranno essere fieri di te... – balbettò, lo sguardo, velato di lacrime, fisso sulla foto. Voleva credere che lei, in quel momento, fosse in un paradiso libero da dolore e disperazione.

Era sicuro che sua madre e suo padre sarebbero stati fieri di lei e della sua vivace intelligenza, che, poco tempo prima, aveva ammaliato anche lui.

Flora era orfana, ma la sua tenacia le aveva consentito di raggiungere degli alti traguardi nel suo campo lavorativo.

Eppure, la sua forte volontà non aveva allontanato quell’ombra di tristezza dai suoi meravigliosi occhi neri.

Ma poteva biasimarla?

Lui aveva ricevuto l’amore dei suoi genitori, mentre lei, con dolore, anche se non lo avrebbe mai ammesso, aveva sempre avvertito una tale, struggente mancanza.

Il giovane sollevò un poco la testa e lasciò che le lacrime si perdessero sulle labbra. Lui avrebbe voluto darle tutto, pur di renderla felice, ma lei non aveva mai rinunciato alla sua dignità per compiacerlo.

Certo, lui era molto ricco, ma lei non aveva mai preteso nulla da lui.

E, nei limiti delle sue possibilità, lo aveva ricoperto di doni e premure.

Ho tutti i tuoi regali con me, sai Flora? Non ne ho perso neanche uno… – soffiò. Ad ogni suo compleanno e ad ogni loro anniversario lei non aveva mancato di fargli degli splendidi presenti.

O, almeno a lui, parevano delle rarità meravigliose.

In alcune occasioni, aveva rinunciato a qualcosa di gradito per lei, pur di onorare le date importanti del loro rapporto.

All’inizio, questo l’aveva sorpreso, non poteva negarlo, poi era rimasto commosso da tale sollecitudine.

Flora era una ragazza indipendente e orgogliosa, ma anche dolce e gentile.

E questo aveva rafforzato i suoi sentimenti d’amore verso di lei e il suo proposito di donarle tutto se stesso.

Credevo di non avere più lacrime e invece… Piango ancora, davanti alla tua tomba. Le mie ferite riprendono a sanguinare, quando sono qui… – confessò, amaro, lo sguardo fisso sulla lapide. Cosa restava dei loro progetti?

Voleva fare di lei la sua compagna, per sempre, e trattarla come una regina.

Perché lei, tanto bella quanto generosa,

Ma quel desiderio sarebbe rimasto un sogno impossibile...

Con un gesto energico, Vulcano Rosso scosse la testa e fece ondeggiare la lunga cresta nera.

Flora, l’organizzazione è stata distrutta… I traditori giacciono morti e, con orgoglio, posso dire di avere dato un contributo importante. Te lo dovevo, amore mio… Ho sbagliato a non darti retta, ma spero di essermi in parte riscattato. Nessuno soffrirà più a causa loro. – proseguì.

Accostò le dita alle labbra, poi le posò sulla foto, in un tenue bacio. Tre lunghi anni erano trascorsi dalla morte di Flora, eppure non era riuscito a riprendersi totalmente.

Anzi, forse non si era affatto ripreso.

Certo, la sua esistenza continuava, ma il suo animo, un tempo traboccante di energia e calore, si era inaridito.

Della sua vecchia indole, restavano solo i suoi abiti sgargianti e la sua cresta, ma gli sembravano residui di un funebre sudario.

Quella maschera occultava un cuore incapace di amare ancora.

Sono uno stupido. – si disse, un sorriso sarcastico sulle labbra. Perché si trascinava un’esistenza tanto grama e crudele?

Cosa voleva dimostrare?

Con la morte di Flora, aveva perduto qualsiasi interesse.

Il mondo, senza, di lei, gli sembrava un interminabile film muto, privo di colori.

Quei giorni senza di lei si erano distesi lenti e monotoni.

Il tempo gli appariva un accumulo insensato di minuti, ore, giorni,mesi e anni.

L’amore per lei, malgrado il tempo trascorso, non si era convertito in un dolce e malinconico ricordo.

Anzi, continuava a esacerbare le ferite della sua anima.

E, ne era sicuro,tale pena non sarebbe mai svanita.


Il vento si sollevò e si insinuò tra le foglie sottili dei cipressi, che echeggiarono di fruscii lievi e malinconici.

Non ha più senso che io viva. – mormorò il giovane e rimase immobile, lo sguardo fisso, quasi sorpreso per la perentorietà della sua affermazione. Aveva compreso, in un lampo, una realtà che, per tanto tempo, si era rifiutato con ostinazione di accettare.

Voleva morire.

Desiderava la fine di quello strazio.

Eppure, non aveva il coraggio di porre un termine a quella tortura.

Malgrado la sua forza di combattente, era un codardo.

Da tanto tempo, lei lo aspettava e lui non riusciva a fare quanto fosse giusto.

Doveva andare da lei e restarle sempre accanto.

Cosa gli restava in quell’esistenza priva di scopo?

Con un gesto gentile, accarezzò la foto di lei. Il desiderio di vendetta aveva annientato qualsiasi sua capacità di raziocinio ed empatia ed era sicuro che aveva portato dolore e pena a persone estranee alla sua tragedia.

La rabbia e il dolore avevano trascinato il suo cuore in un abisso di oscurità, che non gli consentiva di guardare oltre la sua pena, che gli appariva la più grande tragedia del mondo.

Solo in quel momento, a vendetta compiuta, si rendeva conto dei suoi errori e avvertiva per essi un acuto dispiacere.

Tuttavia, non era una giustificazione alle sue azioni discutibili.

Certo, l’assassino di Flora non meritava alcuna compassione, ma non poteva negare di avere sbagliato e ai suoi errori non c’era più rimedio.

Anche se si fosse presentato pentito a quelle persone innocenti, esse non lo avrebbero accettato.

Come lui non era riuscito a vedere oltre il suo dolore, così loro non avrebbero visto oltre la propria disperazione.

E poi era sicuro che avrebbero considerato la sua contrizione una manifestazione sproporzionata di egocentrismo.

E non poteva dare loro torto.

No, non avrebbe disturbato nessuno con parole cariche di un pentimento tardivo.

Il dolore necessitava di silenzio e quiete e lui non poteva entrare nelle loro vite.

Nemmeno la morte mi darà la speranza di reincontrarti, mia dea… – mormorò con tono amaro. Come aveva potuto sperare di poterla rivedere?

Lei, di sicuro, gioiva della visione della bellezza incorruttibile, mentre a lui sarebbe toccato un inferno di eterna solitudine.


La morte non li avrebbe riuniti, come lui, egoisticamente, aveva sperato.

Ed era giusto così.

Certo, in parte si era riscattato dalle sue colpe, ma questo non era bastevole a purificare il suo animo, contaminato dall’odio e dal dolore.

E un’intera esistenza non sarebbe bastata a fare ammenda dei suoi delitti.

Si sentiva prigioniero di un'esistenza priva di scopo.


Flora... Vedi come mi sono ridotto? E posso incolpare solo me stesso... – mormorò, un amaro sorriso sulle labbra e gli occhi di nuovo lucidi di lacrime. Quell'apatia gli stava corrodendo l'anima, come una goccia sulla dura pietra.

Non riusciva a fare niente e tutto, ai suoi occhi pareva, scorretto, ingiusto, crudele.

Qualsiasi decisione avesse preso, sarebbe stata sbagliata.

Rifletté. Doveva trovare un senso a quell'esistenza, ne era assolutamente certo.

Ma quale poteva essere la sua strada?

Ormai, non sapeva più quale fosse.


Il rimbombo cupo del tuono risuonò nel cimitero e il bagliore metallico del lampo, per un breve, eterno istante, divise il cielo, come una lunga e sottile lama di spada.

Qualche istante dopo, la pioggia riempì l’aria d’un freddo e monotono scroscio.

Vulcano Rosso, sentendo il gelo dell’acqua trapassargli il corpo, si scosse e alzò lo sguardo verso il cielo.

Che sia un segnale? – si domandò, quasi sorpreso. In quel momento, non sapeva perché, gli sembrava di essere emerso da un sogno lungo e confuso.

Quanto tempo aveva trascorso in quello stato di sofferente stordimento?

Sorrise, amareggiato. Certo, il dolore non si era dissolto, anzi, ne era sicuro, non sarebbe mai scomparso.

Tuttavia, in quel momento, si sentiva sereno, libero da un opprimente peso che per tanto, troppo tempo, lo aveva accompagnato in quei tre lunghi e dolorosi anni.

Aveva perso tanto tempo, cercando una verità che, pure, si stagliava, brutale, davanti ai suoi occhi.



Con un gesto nervoso della mano, il giovane lottatore respinse le lacrime, che minacciavano di inondargli le guance.


Grazie Flora… Ora so che cosa devo fare… – mormorò. Ne era certo, la sua amata gli aveva inviato un segnale preciso, chiaro, netto.

Lei non voleva che lui si trascinasse in una esistenza grigia e priva di scopo.

E lui l’aveva ben compreso.

Non era più il tempo dell'attesa senza scopo, ma dell'azione.

E lei sarebbe stata fiera di lui.


Con uno scatto, si rimise in piedi e, per alcuni istanti, contemplò la foto.

Ciao Flora... Che il tuo riposo sia sempre rallegrato da questi gatti meravigliosi... – mormorò e sollevò la mano destra in un atto di saluto. La sua amata, oltre all'arte, amava i gatti e, se fosse stata ancora viva, si sarebbe presa cura di loro.

Invece, in quel cimitero, i gatti si prendevano cura di lei e alleviavano la sua solitudine.

Due gatti neri, circospetti, cominciarono ad aggirarsi attorno alla tomba di lei e, di tanto in tanto, fissavano il giovane con i loro occhi verdi, simili a frammenti di vetro.

Ho capito... Statele vicini. Io ora devo andare. – mormorò e, con dolcezza, li sfiorò sulle teste e sulle schiene.

Poi, a passo lento, girò le spalle si diresse verso l'uscita del cimitero.













































   
 
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