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Autore: misstaken    27/01/2018    3 recensioni
ATTENZIONE: AGGIUNTO PROLOGO, NOTE, MODIFICATO PRIMO CAPITOLO
Attraversando le barriere spazio temporali che delimitano la nostra realtà, si giunge in un altro universo, parallelo e contrario al nostro: l’uno si fonda sulla vita e sull’ordine, l’altro sull’anti-vita e sul caos. Le due dimensioni non dovrebbero mai entrare in contatto, e per questo esistono dei guardiani, gli Inbetweeners, che stanno a metà tra i due mondi, preservandone l'equilibrio.
Alice è una solare aspirante ballerina, mentre Max è schiva, taciturna, ma soprattutto dotata di poteri paranormali. Le due sono una il contrario dell’altra, e allo stesso tempo sono complementari. Quando a Newberry cominceranno a verificarsi strani eventi, si renderanno presto conto che l’unione delle loro forze è l’unica speranza di salvezza per il loro mondo. Tra creature malvagie assetate di sangue, portali che si affacciano su altre dimensioni, eroi e traditori, Max ed Alice si renderanno conto che bene e male, luce e buio, ordine e caos non sono poi così distinti.
Questa è la prima storia che rendo pubblica. Mi farebbe piacere avere qualche feedback, anche suggerimenti e critiche, siccome sto scrivendo tutto molto di getto! Grazie a chi spenderà qualche minuto per leggermi!
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Prologo

Camminava sul freddo pavimento di pietra, scavalcando i cadaveri e facendo attenzione a non calpestare le pozze di sangue. Raggiunse il fondo della stanza, dove una grossa finestra proiettava uno spettrale raggio di luce all’interno. Lasciò che la luna accarezzasse il suo volto, i boccoli ramati, il graffio insanguinato che le scalfiva la guancia. Trasse un profondo respiro, cercando di fermare il tremito alle mani.
“Sarà meglio muoversi, prima che arrivino le Sentinelle”. La voce di Byron risuonò alle sue spalle, producendo un leggero eco nella stanza vuota. Lei la ignorò, restando rivolta verso la finestra, gli occhi serrati.
“Non farne un affare di stato, come al solito: erano Ribelli, era necessario che morissero”.
A quel punto, spalancò i freddi occhi verdi, fissando Byron dritto in volto. “Allora, forse, faremo meglio ad andare”, disse semplicemente, calma, mascherando le emozioni che le si ribellavano nel petto.
Attraversarono una porta, sul lato della sala, entrando in un lungo corridoio. Camminarono in silenzio, finché Byron non parlò di nuovo. “Dai troppa importanza a questo genere di cose”, brontolò.
“Alla vita? Vuoi dire che do troppa importanza alla vita?”, rispose lei, a denti stretti, le mani che iniziarono nuovamente a tremare, mentre si apprestavano ad attraversare il passaggio. Byron non lo notò, nel buio. “Alla loro vita, sì”, rispose, indifferente. “Alcuni esseri nascono per essere sacrificati, altri sono semplicemente inutili, altri ancora meritano la morte…”. “Era mio amico”. Si voltò, premendo il pulsante che chiudeva il muro di sicurezza, che scese velocemente dall’alto, schiantandosi su Byron ed immobilizzandolo a terra. “ERA MIO AMICO!”.
Byron emise un gemito strozzato, senza fiato, metà del corpo incastrato oltre al muro di contenimento. “CHE DIAMINE FAI?” ansimò, dolorante. Lei trasse un respiro profondo, chiudendo gli occhi, e, finalmente, riuscì a calmarsi. Quando riaprì le palpebre, la sua espressione era pacata, calma, ma un fuoco sembrava animare le sue pupille. “Che diavolo stai facendo?”, Byron tossì. “Apri questa roba, prima che arrivino…”. 
“Perché dovrei aprire?”, chiese lei, candidamente. “Tu sei pazza”, ansimò lui. “Non dovrebbe esserti concesso di prendere parte a questo genere di missioni. Sei completamente pazza. Apri questa porta! Mi uccideranno, per Dio!”. “Ti uccideranno?” il volto della ragazza si illuminò di un sorriso, un sorriso freddo, che non raggiunse gli occhi. “E dov’è il problema? Non stai dando troppa importanza alla tua vita, Byron?”. “Non è la stessa cosa…!” disse lui. “Non lo è? Perché la tua vita è degna di essere salvata, e quella altrui no? Chi lo decide, Byron, il criterio? Tu?”. Si accovacciò di fianco all'uomo, che si contorceva come un verme, tentando inutilmente di liberarsi.
“Senti, mi spiace, okay? Mi spiace. Ma è così che funziona. Noi li uccidiamo perché siamo dalla parte del giusto, e loro tentano di contrastarci. Ora, per favore, tirami fuori, prima che arrivino quei mostri”. La voce di Byron si spezzò sull’’ultima frase, tradendo la paura. “Chi uccide non è mai dalla parte del giusto, Byron”. Fece per voltarsi ed andarsene, quando lui la trattenne, afferrandola per una caviglia. “ASPETTA! DOVE STAI ANDANDO? NON PUOI LASCIARMI QUA!”. “Posso, a dire il vero. Lo sto facendo”. “E CHE COSA DIRAI AL QUARTIER GENERALE? COME GIUSTIFICHERAI IL FATTO CHE SONO... CHE SONO MORTO?!?”. Ora la voce di Byron tremava incontrollabilmente. “Dirò loro che le Sentinelle ci hanno sorpreso durante l’attacco. Stavano per sfondare il muro, e tu sei rimasto indietro per combatterle. Ti farò sembrare molto più eroico di quanto tu non sia: dovresti ringraziarmi, ti ricorderanno tutti con orgoglio”. Lo guardò dall’alto al basso, con disprezzo. Poi calciò via la sua mano, e si allontanò. “ASPETTA! TI PREGO! TI PREGO, NON LASCIARMI QUI!”. In lontananza, si udirono ruggiti e versi bestiali. “STANNO ARRIVANDO! TI PREGO, MAX, MI UCCIDERANNO! NON VOGLIO MORIRE! TIRAMI FUORI DI QUI!”.
Max lo guardò ancora una volta, compassionevole. “Ma guarda: il prode Byron che implora per aver salva la sua stessa vita. Che spettacolo imbarazzante”. “MAX, MAX TI PREGO…”. “Hai ragione: alcuni esseri sono nati per essere sacrificati, altri sono inutili, altri ancora meritano la morte…”. Si udirono centinaia di zampe battere sul pavimento di pietra del corridoio. Un attimo dopo, Byron iniziò ad urlare, mentre veniva strattonato all’indietro. Iniziò a vomitare sangue, emettendo gorgoglii soffocati. “Addio, James”. Max si voltò, mentre, con un ultimo strattone, Byron veniva trascinato oltre il muro, che si richiuse alle sue spalle.

CAPITOLO I

Risveglio

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Diciannove. All’appello mancava una bambina, una dei piccoli. I tre capi scout si scambiarono occhiate preoccupate: non potevano certo lasciare il resto del gruppo per andare a cercarla, e dividersi sembrava un’idea altrettanto poco praticabile. Alla fine, si accordarono: due di loro sarebbero rimasti al fiume con gli altri ragazzi, e uno sarebbe andato a recuperare la bambina. Si offrì volontaria la ragazza più giovane.
La bambina scomparsa si chiamava Britney. La ragazza iniziò ad urlare il suo nome, addentrandosi nel bosco. Era impossibile che si fosse allontanata troppo, quindi decise di fare un giro in rotondo attorno al luogo dove si erano accampati.
Dannati bambini: quante volte avevano ripetuto loro di non allontanarsi senza la supervisione di un adulto? Non osava neanche immaginare a che cosa potesse succedere se non l’avessero ritrovata subito. Come diavolo ci si può presentare davanti ad un genitore e dirgli qualcosa del tipo, “Hey, sai, mentre eravamo nel bosco tuo figlio è scomparso, e non siamo più riusciti a ritrovarlo”.
“BRITNEY! BRIT!”. La ragazza urlava a pieni polmoni, ma invano: dalla foresta non giungeva alcuna risposta, se non qualche fruscio, o il rumore di un animale che calpestava le foglie secche. A un certo punto, inciampò su qualcosa; cadde a terra con un tonfo. Si tirò su, ed esaminò l’oggetto che l’aveva intralciata: era lo zaino della bambina, ed era macchiato di rosso. Pregò ogni dio esistente che non si trattasse di sangue, ma notò che le macchie erano presenti anche sul terreno: le seguì, e la quantità di liquido divenne via via più copiosa. All’improvviso, scese la nebbia, la luce parve affievolirsi, come se nuvole nere avessero oscurato il sole, e l’aria divenne gelida. Tremando e strofinandosi le braccia, la ragazza fece ancora qualche passo, prima di vederlo: ai piedi di un grosso pino, qualcosa di scuro si muoveva, emettendo suoni umidicci e schiocchi. “Britney?” la ragazza esitò. Poi, l’essere si mosse, e lei si rese conto che stava divorando qualcosa, o meglio, qualcuno: qualcuno che indossava una divisa da scout. Arretrò frettolosamente, incespicando e cadendo, e l’essere si voltò, ruggendo: non aveva né occhi né naso, solo un’enorme bocca, che si apriva come uno squarcio lungo tutta la parte inferiore della testa. La ragazza urlò, terrorizzata, iniziando a correre, con l’essere alle calcagna: riuscì a raggiungere il resto del gruppo, prima che l’atterrasse. Da ogni dove, sbucarono altre creature, aggredendo i superstiti. Il bosco riecheggiò per poco delle loro grida, prima che anche l’ultimo essere umano rimasto in vita fosse ridotto al silenzio.

 

Max

 

Max spinse la porta del bagno con una spallata, reggendosi la mano sinistra, avvolta in un asciugamano. Aprì il rubinetto dell’acqua, e la infilò sotto al getto. Il lavandino si tinse di rosso. Con una smorfia di dolore, chiuse l’acqua ed esaminò il taglio più da vicino. Il dorso della mano era lacerato in obliquo, in modo irregolare, ma la ferita, pur continuando a sanguinare, non sembrava profonda. Max si raddrizzò, aprì l’anta del mobiletto appeso sopra al lavabo e recuperò del cotone, del disinfettante e delle bende elastiche. Si avvolse con cura la mano, assicurando poi la garza con una graffetta. Uscita dal bagno, raggiunse la scatola ai piedi del letto, e, con molta attenzione, spostò gli ultimi oggetti rimasti sul fondo, rinvenendo finalmente quello incriminato: una vecchia cornice, il cui vetro si era frantumato. Uno dei pezzi era macchiato di sangue, il suo. Max rimosse i vetri dalla foto, cercando di non graffiarla: un’operazione particolarmente difficile, perché il vetro pareva essersi appiccicato. Con molta delicatezza, ci riuscì. Dopodiché, prese scopa e paletta, raccolse i vetri sparsi sul pavimento, e si gettò sul letto, fissando la fotografia.
Era una vecchia foto di lei e sua madre. Si stavano abbracciando, un’altalena e un grosso albero sullo sfondo. La cornice doveva essersi rotta quando Max l’aveva scaraventata, insieme agli altri ricordi di sua madre, in una scatola che aveva rinchiuso in un angolo buio dell’armadio, dopo la sua morte.
Max fissò la foto finché gli occhi non le si riempirono di lacrime: a quel punto, si alzò, e la mise con cura in mezzo ad una copia del Giovane Holden; doveva ricordarsi di comprare un’altra cornice.
In realtà, era piuttosto orgogliosa di essere riuscita a rimettere in vista gli oggetti appartenenti a sua madre. Un vecchio orologio da muro, qualche libro, album fotografici, vestiti. Guardando la stanza, ora, vedeva in ogni angolo pezzetti di lei. Un tempo, il dolore e la rabbia le rendevano impossibile anche solo pensare a quelle cose. Se il tempo non guarisce, per lo meno rende più forti, pensò.
Aveva compiuto diciotto anni lo scorso agosto. Ne erano passati nove dalla morte di sua madre, e, crescendo, Max era diventata la sua fotocopia. Era piuttosto alta, con un fisico asciutto ma robusto, e lunghi capelli castano-ramati che si ribellavano in larghi boccoli, ricadendole sulla schiena. I suoi occhi erano di un verde scuro con pagliuzze nocciola e dorate, quasi grigi nei giorni di pioggia. Si divertiva a pensare che fossero del colore del bosco. Sul naso dritto portava, di tanto in tanto, occhiali larghi quadrati, quando non indossava le lenti a contatto. Le sue labbra erano morbide e rosse, il viso ovale, l’espressione perennemente seria.
Tendeva a non indossare vestiti particolarmente femminili, preferendo felpe e camicie larghe, magliette e jeans, per cui spesso, quando indossava il cappuccio, riusciva a passare per un ragazzo. Era un lupo solitario, Max, ma questo non le dispiaceva, anzi: tendeva ad essere indifferente alle persone, una tendenza che non era cambiata con l’inizio del college.
Raccolse da terra la borsa ricolma di libri, per avviarsi a lezione. Uscendo, chiuse a chiave la porta, scendendo poi al piano di sotto per controllare che la zia stesse bene. Sullo zerbino, quasi non inciampò su un contenitore di plastica posto sul pavimento. Incespicando per non pestarlo, imprecò sottovoce, e lo raccolse. Sul coperchio era appiccicato un post-it: “Maxime, sono andata a ritirare la giacca in lavanderia. Ti ho lasciato il pranzo, ti voglio bene. Zia Chelsea”. Scuotendo la testa, Max infilò il contenitore nella borsa. Suo malgrado, un angolo della bocca le si curvò in un sorriso: non sapeva resistere ai gesti carini, per quanto volesse.
Insomma, Max Caulfield era un’adolescente normale, che conduceva una vita abbastanza normale, frequentava una scuola normale piena di gente normale, aveva interessi normali e hobby normali. E da brava adolescente normale, aveva dimenticato le chiavi della macchina. Sbuffando, corse indietro, salì in due balzi le quattro rampe di scale, aprì la porta, e le chiavi volarono dal comodino, a fianco al letto, fino al palmo teso della sua mano sana. Un’adolescente normale, Max, che, come tutti gli adolescenti normali, forse tanto normale non era.


 

Alice

 

Uno, due, tre, quattro. Al centro della stanza, Alice effettuava una piroetta dopo l’altra. Trentasei, era quello il suo record. Era quello il limite da battere. Venti, ventuno. I muscoli delle gambe iniziavano a bruciare. Trentadue, trentatré, trentaquattro. Cadde, sbattendo violentemente contro il pavimento. Frustrata, slacciò gli scarpini, scaraventandoli lontano. Sbuffò, e si abbracciò le ginocchia, appoggiando il viso sulle gambe. L’indomani, i lividi avrebbero fatto male. Ma per ora, tutto ciò che le faceva male era il fallimento. Desolata, si alzò, uscì dalla palestra, salì le scale e raggiunse la sua stanza, dirigendosi verso il bagno. Si sfilò la maglietta, i leggings, la biancheria, e si lasciò sciogliere sotto il getto caldo della doccia.
Uscendo, si avvolse i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle in un asciugamano, e si rivestì. Indossò una camicetta azzurra e un paio di pantaloni bianchi. Ebbe cura di darsi giusto un filo di trucco, prima di asciugarsi i capelli e piastrarseli. Raccolse lo zaino e il borsone con la divisa da cheerleader prima di uscire, scendendo le scale a saltelli. In fondo alla rampa, suo fratello Ben tese una manona per darle uno schiaffo sulla nuca, che lei prontamente evitò, chinandosi in uno scatto felino. Lui la afferrò per un braccio, costringendola a fermarsi e a voltarsi. “Hey, nana. Dov’è che corri?” la apostrofò con un ghigno. “A scuola. Lasciami andare.” Alice evitò il suo sguardo per tutto il tempo, cercando di divincolarsi dalla sua presa. Odiava essere chiamata nana, seppure sapesse di essere bassina. “Tutta questa fatica per inculcarti dei buoni principi, e tu dov’è che corri? A scuola” Ben sottolineò l’ultima parola, con tono di scherno. “E dire che pensavamo ce l’avessi fatta, a diventare una fallita, quando sei diventata capitano della squadra delle cheerleader!”. Il braccio libero di Alice si mosse prima che lei stessa potesse pensare a quello che stava facendo. Ma suo fratello le bloccò la mano a pochi centimetri dalla sua faccia. Ridendo sguaiatamente, Ben la bloccò contro il muro. “Ma che fai nana? Vuoi fare a botte con il fratellone?”. “Lasciami” sibilò nuovamente Alice, questa volta fissandolo dritto negli occhi. Il ghigno scomparve dalla faccia di Ben, che schiuse le labbra per minacciare qualcosa. Ma fu interrotto. “Lasciala andare. Dobbiamo andare a scuola.” Alex si avvicinò. Era più basso di Ben di almeno tutta la testa, ma sembrava fermo e risoluto. “Ah! Due nani contro di me!” rise. Alex sollevò il cellulare. “Non credo che a mamma andrebbe di vedere quello che stai facendo”, disse. A quel punto, Ben mollò la presa su Alice, avvicinandosi ad Alex, un passo alla volta. “Che cosa c’è, frocetto” sibilò “vuoi metterti contro di me?”. Calmissimo, Alex sostenne il suo sguardo, mentre Ben avvicinava la faccia alla sua, fino a lasciare solo pochi millimetri tra le punte dei loro nasi. “Vuoi forse farmi paura?”. “Alice è la mia gemella”, spiegò, semplicemente. “Tutto quello che fai a lei, lo subisco anche io. E oggi non ho proprio voglia di sentire male”.  Ben rise sguaiatamente. “Che stronzata”. “Non dovresti essere a scuola anche tu, comunque?” Alice fece un passo in avanti, corrucciata, i penetranti occhi blu scuro fissi sul fratello. “O vuoi vivere a casa per sempre, per rompere le palle a me?”. Ben stava per ribattere, quando lei lo interruppe. “Oh sì, facciamo a botte. Due contro uno, Ben, ti va? E quando ci porteranno tutti e tre all’ospedale, potrai spiegare a nostra madre che cosa è successo. E come mai non eri a scuola, cosa fai quando sei fuori, e tutto il resto”. Ben perse a questo punto ogni voglia di ridere. “Ascoltatemi bene, voi due” ringhiò “sarà meglio che iniziate a portare rispetto per i più grandi, perché se pensate che io possa aver paura di voi…  di un vostro ricatto, vi sbagliate. Siete fortunati che oggi non ho voglia di litigare con femminucce e frocetti, se no a quest-“. “Andiamo, Alex”. Tirando il fratello per un braccio, Alice uscì in fretta e furia dalla porta, inseguita dagli urli di Ben. “ALICE JEN DAWSON, STO FOTTUTAMENTE-“. Le grida si attutirono quando Alice sbatté la porta della Mercedes. Alex si allacciò la cintura, sul sedile del passeggero, guardandola. “Stai bene?” domandò, incerto. “Non so perché Ben sia così. Insomma, è quasi come se fosse colpa tua che-“. “Sto benissimo” Tagliò corto lei. “Allora, la metti la musica o no? Ma niente roba da froci, per favore” Aggiunse, lanciandogli uno sguardo divertito. “Roba da froci? Agli ordini!” Esclamò Alex. I due risero, mentre Alice metteva in moto, e ingranava la retromarcia, facendo scricchiolare il cemento del vialetto.

 

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Dentro al guscio, fremeva, si agitava, ribolliva. L’inquietudine lo divorava dall’interno. L’impossibilità di muoversi lo distruggeva. “Ancora qualche ssssecondo, padrrrrrone”. Miagolò qualcuno. “Ne uscirà rigenerato, è una garanzia!”. Sbuffò. “Ormai sono diversi minuti che manca solo qualche secondo”, sibilò. “Gli altri sono tornati?”. “SSSì, ssssignorrre…”. “Le hanno trovate?”. “…No, sssignorrre…”. “Mandria di incompetenti” sbottò. “Devono trovarle. Dobbiamo trovarle. Prima del risveglio”. Sbatté un pugno contro il guscio, frantumandolo. Si alzò; una figura imponente, magra, dinoccolata, lievemente deforme. “Aprite il portale” ordinò.

Intanto, migliaia di chilometri sotto la crosta terrestre, qualcosa ribolliva, si agitava, fremeva. Milioni di uova si agitavano nella lava rovente, nutrendosi del calore del magma, assorbendo la linfa vitale della Terra. Erano stati deposti lì quasi due decenni prima, e ora il tempo della schiusa era finalmente vicino. Larve, esseri immondi, informi, destinati a succhiare la vita dei pianeti su cui nascevano, lasciando dentro di sé solo una massa di sterili rocce. Mostri, ecco cosa sarebbero diventati: di fattezze e forme differenti, ma dotati di una forza inaudita, e di uno spiccato gusto per la violenza. Erano macchine da guerra che sarebbero nate e cresciute per distruggere. Era da quando avevano scoperto l’altra dimensione che aspettavano questo momento. Il loro popolo sarebbe finalmente risorto, conquistando nuove terre, e diventando il primo conquistatore dell’altro mondo. Così, con la schiusa, iniziava la guerra delle dimensioni.
Nel cuore della Terra, a migliaia di chilometri da Max, Alice, Zia Chelsea, Alex, e qualunque altro terrestre, il guscio del primo uovo si incrinò.

 

   
 
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