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Autore: Ely_Pommy    27/01/2018    3 recensioni
Un piccolo racconto sulla Shoah, per non dimenticare
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Olocausto
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Vivevo una vita normale.
Abitavo in una casetta qualunque con la mia famiglia. Mio padre: un uomo sulla cinquantina nero di capelli, in contrasto con la sua pelle rosea; i suoi occhi erano verdi, brillanti e penetranti; la sua corporatura non era né magra né robusta, l’unico modo che posso usare per descriverla è: forte.
Mia madre: una donna abbastanza alta, di pochi anni più giovane di mio padre; lunghi capelli color nocciola erano raccolti in una treccia portata sulla spalla destra; caldi occhi marroni sbucavano dalle folte ciglia e brillavano alla luce del mattino.
Il mio fratellino, poco più piccolo di me: ha gli occhi di mia madre, i capelli di mio padre, uno sguardo sognante sempre rivolto al cielo e un orsacchiotto sempre vicino. Nonostante stia crescendo a vista d’occhio, non vuole separarsi dal suo peloso amico d’infanzia, quasi non voglia abbandonare la fanciullezza.
Infine, ci sono io: una ragazzina che nulla ha di speciale rispetto a tante altre ragazzine come me. Molti dicono che assomigli molto a mio padre: condivido con lui i suoi occhi color menta e la forma del viso, ma i miei capelli sono quelli di mia madre.
Sono felice di essere un collage di queste parti dei miei genitori, ma non sapevo ancora quanto questo mi sarà vitale.
Vado a scuola con i miei amici Sarah e Julius. Siamo amici fin dall’infanzia e abitiamo la stessa via. Abbiamo la testa invasa di progetti per il futuro e crediamo che nulla potrà separarci.
È divertente ed eccitante scambiarci sguardi fugaci e messaggi senza voce di nascosto durante le lezioni, per poi passare interi pomeriggi a rincorrerci.
Sembra tutto così bello, così normale e così scontato. Le giornate passano e il tempo fugge: l’istante non lo percepiamo nemmeno, eppure presto diventerà la mia unica unità di misura.
Questo era il mio presente
Ora ricordo a malapena come tutto sia cominciato, come poco a poco, il terreno delle mie certezze abbia iniziato a sgretolarsi lentamente sotto i miei piedi, gettandomi in un baratro buio senza fine.
Forse con quella stella, sì, quella stella che mamma cucì sulla mia giacca e quella di mio fratello. Quella stessa stella che vidi sul cappotto di Julius. Quella stessa stella che notai su persone che a poco a poco sparirono, come se non fossero mai esistite.
Una stella: una figura così pura in poesia, era ora utilizzata per renderci feccia impura agli occhi altrui.
Solo in quel momento ho capito che c’era qualcosa in me che non mi permetteva di essere uguale e normale: ero ebrea ed ero macchiata di una sola gravissima colpa: quella di esistere.
Ora non vedevo più visi amici, ma ricevevo insulti. Non sentivo saluti, ma la saliva degli sputi sul mio volto.
Da lì in poi, la nostra vita peggiorò: esclusi dalla vita pubblica, costretti a vivere nel silenzio, nella prudenza, nella paura di ogni rumore, nel terrore di esser trovati e portati via verso qualcosa di ignoto, ma sicuramente terribile.
La via dove, fino a poco prima, giocavo, pullulava di soldati ed io assistevo inerme dall’unica piccola e socchiusa finestra del magazzino interrato degli zii di Sarah, a sequestri violenti di uomini, donne, famiglie e anziani. Una volta capitò persino, che qualcuno tentasse di scappare: venne freddato.
Arrivò poi quel giorno, quel maledetto giorno. Un soldato, trovò il nostro nascondiglio, che presto si riempì di uomini armati accompagnati da un cane ringhiante. Ci puntarono le armi e ci ordinarono di uscire con le mani in alto. Mio fratello voleva piangere, ma mio padre lo dissuase; cominciammo a camminare e il suo amato peluche, gli scivolò via dalla tasca della giacca: non poteva fermarsi, trattenne le lacrime e i singhiozzi ed io vidi la sua spensieratezza cadere e restare lì ad osservarci mentre venivamo caricati su un furgoncino e portati via.
Arrivammo in una casa, una del ghetto dove venimmo reclusi insieme ad altri: troppi per ogni stanza.
Durò qualche giorno: poi fuori di nuovo.
Ci destinarono ad un treno merci. Stipati come bestie da macello in un vagone con pochi fili di paglia, un secchio per gli escrementi e delle feritoie da cui passava solo qualche spiffero per respirare. Cominciò il nostro viaggio.
Fu il preludio di un incubo.
Vidi bambini neonati strillare, implorando il latte che non sarebbe arrivato; famiglie stringersi in quello che, probabilmente, sarebbe stato l’ultimo abbraccio; occhi pieni di speranza, spegnersi e diventare vuoti; anziani che si accasciavano per riposare, ma che non si sarebbero più svegliati.
Il nostro arrivo fu terribile. Separarono me e mia madre da mio padre e da mio fratello. Ancora adesso, rimbombano nelle mie orecchie, le urla di mia madre che pregavano papà di non lasciare mio fratello. Ricordo gli occhi di mio padre specchiarsi nei miei, così uguali ai suoi in uno sguardo che fu la mia eredità.
La folla ci sommerse.
Con violenza inaudita, ci trascinarono verso atti concepiti per toglierci man mano la nostra umanità.
Ci rasarono, spogliarono, esaminarono come pezzi di carne. Ci rivestirono di vesti cenciose e ci tatuarono quel numero che sarebbe rimasto indelebile nella pelle e nella mente.
Arrivammo alla nostra baracca. Lì vi erano già altri, ridotti nel nostro stesso modo. Bastava guardare i loro occhi per dedurre la quantità di tempo che avevano passato lì: il loro sguardo era sempre più vuoto, apatico e selvaggio; contenuto in corpi sempre più inesistenti.
Ci stavano trasformando in morti che camminavano, no, in pezzi.
Venivamo utilizzati come forza lavoro per logorarci nel fisico.
All’appello, la nostra sola identità era il nostro numero. Era necessario scattare per non subire conseguenze atroci.
Subiamo selezioni continue che ci tolgono dignità, pudore e umanità, ma non solo. Qualcosa fuori posto e possono toglierti la vita.
L’esiguità del cibo ci costringe giornalmente a lottare per la sopravvivenza come cani randagi.
Nelle baracche, si passa da una nenia di lamenti, dolore e morte all’ancor più terribile silenzio.
I soldati ci guardano, ci percuotono, ci usano a loro piacimento e senza pietà. Davanti a loro non vedono più donne, uomini, bambini o vecchi, ma stucke, pezzi, giocattoli.
Non capisco come si possa essere così crudeli: nemmeno gli animali lo sono con i loro simili. Questi soldati devono essere ancora più vuoti di noi.
Ho perso il conto del tempo che ho passato qui.
Devo guardare all’istante e impiegare ogni mia energia in esso, se voglio andare avanti.
Penso sia primavera e ricordo lo sbocciare dei fiori, ma non ricordo il loro profumo. Ora, solo la puzza di morte mi è famigliare, un lezzo che impregna il mio corpo e la mia mente.
Spesso guardo il cancello che oltrepassai per entrare in questo terribile limbo e mi sembra solo un’altra beffa crudele “Arbeit macht frei”: il lavoro rende liberi. Non so più nemmeno cosa voglia dire quella parola.
Questo campo, però non mi ha tolto solo questo. Mia madre è stata trasferita e non so nemmeno se il resto della mia famiglia sia viva.
Non riesco quasi più a ricordare i nostri nomi o se ne avevamo uno prima di arrivare qui.
Mi specchio in una pozzanghera e vedo gli occhi di mio padre che mi osservano; uno dei miei pochi e corti capelli cade sulla mia mano sento mia madre; scruto il cielo e vedo mio fratello.
Sento qualcosa scendere dal cielo, ma non è né pioggia, né neve: viene dal crematorio: altri pezzi diventati inutilizzabili.
La pesantezza del lavoro non mi provoca più dolore, ora lo uso per alienarmi, per non pensare al domani: qui non c’è domani, c’è solo adesso.
Corpi cadono attorno a me. Finché non li vedrò negli occhi, saprò di essere viva.
In me è rimasto un solo desiderio che mi tiene viva e che mi dà speranza di rivedere la mia famiglia: voglio solo vivere!
   
 
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