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Autore: Shikayuki    27/01/2018    0 recensioni
Era l’estate prima dei suoi dodici anni quando Keith lo vide per la prima volta e non potè fare a meno di rimanere ad osservarlo. Takashi Shirogane era il figlio dei vicini, aveva diciannove anni ed era appena tornato dal suo primo anno di Accademia Aerospaziale. Era alto, con le spalle larghe, i capelli neri e vividi occhi grigi. Aveva sorriso a Keith e gli si era presentato porgendogli la mano, proprio come avrebbe fatto con un adulto.
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Di come Keith ha conosciuto Shiro.
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Takashi Shirogane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: purtroppo i personaggi e le ambientazioni non mi appartengono!

 

• Iniziativa: Questa storia partecipa al "COWT" di Lande di fandom

• Settimana: Seconda

• Missione: M3

• Prompt: Shine delle Tolmachevy Sisters

• Numero Parole: 4.402

 

N.B.: mi dispiace, ma non è betata! Sorry not sorry, ma sotto cowt vale il "quantity over quality", verrà fixata prima o poi!


 

Shine into my darkness

 

Keith era abituato a viaggiare, lo faceva spesso, o meglio ne era spesso costretto. Ogni volta che una nuova famiglia adottiva si stufava di lui, doveva raccogliere le sue cose, preparare la sua valigia ed aspettare che Jade, l’assistente sociale che si occupava di lui, andasse a recuperarlo con il suo solito sguardo di pietà stampato sul volto.

«Keith…»

«No.»

Keith si sedeva nella macchina, appoggiava la fronte al finestrino ed osservava le strade alle quali si era appena abituato per un’ultima volta scorrere via, in silenzio. Lo definivano un bambino difficile, ombroso, non in grado di relazionarsi, ma lui tutte queste cose non le capiva. Aveva dodici anni e ogni volta che cambiava una famiglia ci impiegava tempo per aprirsi, era così, era nel suo carattere, ma quel tempo non glielo concedevano mai. Nell’ultima famiglia dove era stato era quasi arrivato sul punto di aprirsi, i genitori adottivi erano molto gentili, lo trattavano bene, gli stavano dando il suo tempo, ma poi lei era rimasta incinta e quindi gli avevano revocato la custodia. Il tempo di prova dell’affidamento non era ancora finito, l’adozione non era quindi ancora stata ufficializzata, pertanto non avevano potuto fare nulla, per quanto ci avessero provato. Furono gli unici genitori adottivi che piansero quando lo videro andare via e gli chiesero di tenersi in contatto, per lo meno quando avrebbe avuto l’età legale per farlo. Nenache il suo vero padre aveva pianto quando lo aveva abbandonato in orfanotrofio, tantomeno gli aveva chiesto di tenersi in contatto.

Keith non disse nulla, non era arrabbiato con loro. Strinse la sua madre temporanea in un abbraccio e le sussurrò che non era arrabbiato che lei fosse incinta, anzi ne era felice, facendola piangere ancora di più.

Che poi quella famiglia gli aveva dato molto più di quello che pensavano, visto che Keith si sarebbe portato per sempre un qualcosa di loro dietro: la passione per le stelle e l’universo.

Era sempre stato un bambino curioso Keith, anche se il suo carattere chiuso non lo faceva mai trasparire, ed in particolare era sempre stato affascinato dallo spazio. John, il suo ormai ex padre adottivo, era un professore di astrofisica e il suo studio era tappezzato di carte stellari, foto di nebulose e galassie, inoltre avevano un telescopio sul tetto e qualche sera gli aveva permesso di osservare le stelle. Gli aveva insegnato il nome di alcune e spiegato i loro moti e posizioni nei diversi periodi dell’anno, raccontandogli anche di buchi neri, galassie lontane e satelliti esplorativi. Keith aveva ascoltato tutto quanto con gli occhi sgranati, assorbendone ogni più piccola sfumatura e decidendo che anche lui un giorno sarebbe diventato un astrofisico o qualcosa di simile.

Strinse tra le mani il libro che John gli aveva regalato prima di salutarlo per un’ultima volta e una lacrima gli scese silenziosa lungo il viso. Era la prima volta che piangeva per una delle sue tante famiglie adottive e sarebbe stata anche l’ultima.

 

Keith passò altri lunghi mesi in orfanotrofio, ogni tanto qualche famiglia andava a conoscerlo, ma più nessuno aveva voluto iniziare l’affidamento e sinceramente a lui non dispiaceva più di tanto, in fondo in orfanotrofio poteva tranquillamente starsene in disparte senza che gli altri andassero a disturbarlo, a divorare ancora e ancora quel libro sulle stelle, che ormai iniziava ad usurarsi per tutte le volte che era stato sfogliato, segnato e vi ci erano stati aggiunti dei post it. Quel libro ed il pugnale che gli avevano detto fosse appartenuto a sua madre erano i suoi unici tesori, il pugnale però gli era stato giustamente requisito, ma a lui andava bene: gli bastava sapere che c’era e vederlo di quando in quando.

Jade aveva notato il suo interesse es aveva preso l’abitudine di prendergli dei libri sull’argomento dalla biblioteca comunale, giusto per alleviargli le lunghe giornate solitarie in orfanotrofio. Keith era molto intelligente e a lei dispiaceva che non riuscisse a trovare un po’ di tranquillità, ma tutti i genitori erano spaventati dal suo carattere chiuso e la sua scarsa attitudine alla parola, propria dei ragazzi di quell’età. Però sapeva che un giorno sarebbe arrivato qualcuno in grado di capirlo e non dovettero aspettare poi molto.

 

Il giorno del suo ennesimo affidamento Keith preparò di nuovo tutta la sua roba da solo e senza aiuti, come sempre. Mancava una settimana al suo undicesimo compleanno, ma a lui non importava poi molto. Il viaggio non fu molto lungo, giusto un paio d’ore in macchina, e la casa davanti la quale si fermarono era abbastanza anonima, uguale a tutte quelle della via e del quartiere. Era una classica casa bianca, due piani, tetto nero, un piccolo porticato con dondolo sul davanti, garage su un lato e un grazioso giardino curato recintato da un elegante steccato bianco. I suoi nuovi genitori si chiamavano Noah e Amanda, erano sui quarant’anni entrambi, sposati da quindici e non erano mai riusciti ad avere figli loro a causa di un incidente che aveva coinvolto Amanda. A Keith non dispiacevano, sembravano persone a posto e soprattutto non si erano lamentati della sua scarsa proprietà di parola.

«Benvenuto nella tua nuova casa, Keith.»

Amanda lo accolse con un sorriso, senza provare però ad abbracciarlo, capendo che lui non amava particolarmente il contatto fisico.

«Sappiamo che il tuo compleanno è la prossima settimana, ma abbiamo voluto farti un regalo di benvenuto, sperando tu possa ambientarti presto qui.»

Noah gli mostrò un’enorme scatola incartata ed infiocchettata e gli fece cenno di aprirla. Keith esitò un attimo, ma poi si fece coraggio e strappò la carta, rimanendo senza fiato: gli avevano regalato un telescopio. Per una volta in vita sua fu felice e corse ad abbracciare i suoi nuovi genitori, sentendo che per una volta forse aveva trovato il suo posto.

Quel giorno Keith iniziò una nuova vita, ma non sapeva che il destino aveva ancora molto da dargli in risarcimento per tutti quegli anni che aveva passato tra un orfanotrofio ed un altro.

 

Era l’estate prima dei suoi dodici anni quando Keith lo vide per la prima volta e non potè fare a meno di rimanere ad osservarlo. Takashi Shirogane era il figlio dei vicini, aveva diciannove anni ed era appena tornato dal suo primo anno di Accademia Aerospaziale. Era alto, con le spalle larghe, i capelli neri e vividi occhi grigi. Aveva sorriso a Keith e gli si era presentato porgendogli la mano, proprio come avrebbe fatto con un adulto.

«Ciao Keith, io sono Takashi Shirogane, ma tutti mi chiamano Shiro, quindi puoi farlo anche tu.»

Keith gli aveva stretto la mano arrossendo, abbassando lo sguardo e borbottando il suo nome con poca convinzione.

«Ti è piaciuto il telescopio? Noah mi ha chiesto consiglio prima di comprarlo e spero di aver fatto centro!»

«È assolutamente perfetto, riesco a vedere Marte perfettamente, lo adoro!»

Shiro sorrise all’entusiasmo del ragazzino.

«Ti piacciono così tanto le stelle?»

«Sì, e spero davvero di riuscire a fare l’astrofisico da grande!»

«Non ti piacerebbe però diventare un pilota?»

«Un pilota?»

«Un pilota di navicelle spaziali, io sto studiando per diventarne uno nell’Accademia Aerospaziale della Garrison.»

Gli occhi di Keith si sgranarono nell’apprendere di quella possibilità che non aveva mai sentito prima. Diventando pilota avrebbe potuto vedere tutto direttamente con i suoi occhi, viaggiando nello spazio. Shiro non lo sapeva, ma quel giorno aveva completamente cambiato una vita.

Keith studiava tutti i giorni, tutto il giorno. A scuola era il migliore e questo non gli guadagnò troppi amici, ma a lui andava bene così, gli bastava la compagnia di Shiro quando era a casa per le vacanze e non gli interessava poi molto dei suoi coetanei. Iniziò le superiori con una borsa di studio in scienze e matematica, continuando a studiare, con l’obiettivo fisso di entrare a sua volta alla Garrison, proprio come Shiro.

Di giorno studiava e di notte osservava le stelle con il suo ormai vecchio e malconcio telescopio. Shiro gli aveva insegnato tantissimo e ormai sapeva anche tracciarsi da solo le mappe stellari. Quando era a casa dall’Accademia, Shiro passava volentieri le notti sul tetto insieme a lui, parlandogli di nuovi pianeti o stelle scoperte o di galassie lontane fotografate per la prima volta. Keith lo guardava sempre più con gli occhi sognanti e ricordava esattamente quella notte dell’estate dei suoi sedici anni, in cui Shiro gli aveva dato una carezza sulla testa e lui aveva sentito per la prima volta il cuore accelerargli nel petto.

Non si era mai preoccupato dell’amore, Keith. Aveva ricevuto qualche confessione e una ragazza lo aveva anche baciato, ma semplicemente a lui non era mai importato, troppo concentrato sui suoi obiettivi futuri. Eppure adesso il suo cuore aveva preso a fare i capricci ogni volta che stava con Shiro e la cosa lo stava destabilizzando. Quando non c’era se ne stava sul tetto di casa, sotto il suo piccolo angolo di cielo, a chiedersi dove fosse, cosa stesse facendo, se magari stesse guardando anche lui la stessa stella che brillava pigra nell’obiettivo del suo vecchio compagno di osservazioni.

 

Arrivò il suo ultimo anno di superiori e come previsto Keith si rivelò essere il migliore del corso, diplomandosi con il più alto dei voti, anche se in pochi applaudirono al suo successo. A lui però non importava più di tanto, c’era Shiro tra quelli che lo stavano festeggiando e tanto gli bastava per essere felice.

Come previsto, passò anche il test per la Garrison, arrivando primo e guadagnandosi anche una delle cinque borse di studio disponibili. La sera che seppe i risultati, glieli portò Shiro personalmente, che ormai faceva parte dell’organico della Garrison. Era il miglior pilota che l’Accademia avesse mai avuto, ci credeva che non lo avrebbero lasciato mai andare facilmente.

Shiro gli consegnò la lettera con i risultati mentre erano sul tetto ad osservare Kerberos, che con il nuovo telescopio che gli avevano regalato i suoi genitori era appena visibile, anche se in modo molto disturbato dalle perturbazioni. Keith l’aprì e subito ululò di gioia, saltando addosso a Shiro felice. Shiro lo strinse forte tra le braccia muscolose e così, dal nulla lo baciò.

Keith si sentì morire e risorgere allo stesso tempo, non sapendo neanche come reagire a tutto ciò. Shiro interruppe il bacio e lo guardò, gli occhi felici, ma il sorriso mesto.

«Scusa Keith, non volevo, mi dispiace.»

Keith lo baciò di nuovo però e quasi voleva piangere, era tutto troppo perfetto per essere vero, era tutto troppo perfetto dopo la sua orribile infanzia, quasi non voleva crederci.

Shiro quell’estate la ebbe tutta libera, per la prima volta dopo anni in cui doveva impazzire per avere più di quattro giorni liberi affilati, e fu decisamente l’estate più bella della vita di Keith. La passarono insieme, a fare escursioni, campeggi, osservazioni notturne da luoghi in montagna e la passarono anche come una coppia. Si tenevano per mano quando nessuno li vedeva, si baciavano dietro i cespugli mentre camminavano nei boschi o tra uno schizzo e l’altro mentre facevano il bagno nel lago. Shiro gli aveva detto che quella sarebbe stata l’ultima estate libera che Keith avrebbe mai avuto in vita sua e voleva fargliela godere al meglio, e ce la fece eccome. Una notte si addormentarono abbracciati sotto le stelle, scaldandosi ognuno con il calore dell’altro, per poi svegliarsi alle prime luci dell’alba e scoppiare a ridere come due scemi appena si accorsero che persino il fuoco si era spento accanto a loro. Fu un’estate felice, ma come tutte le cose felici, arrivò ad una fine fin troppo presto.

Erano i primi di settembre quando un giorno Shiro gli chiese di andare a fare una passeggiata e quando Keith lo raggiunse e lo guardò in faccia, seppe subito che c’era qualcosa che non andava all’orizzonte. Gli occhi grigi di Shiro erano tempestosi, le spalle tese, la mascella serrata. Keith provò ad accarezzarlo, ma quello si ritrasse.

«Keith, dobbiamo parlare, ma mi devi promettere che non darai di matto.»

Keith lo guardò interrogativo, annuendo, senza però promettere nulla.

«Keith… mi hanno preso per la Missione Kerberos. Partirò ad aprile del prossimo anno, quindi potremmo ancora vederci alla Garrison, ma sarò impegnato con gli allenamenti ed i test prima della partenza. Inoltre la missione durerà almeno sei mesi… se tutto dovesse andare bene.»

Keith non pianse, non diede di matto, semplicemente si alzò e se ne tornò a casa. Passò la notte sul tetto, osservando il cielo, il telescopio abbandonato di fianco a lui e delle carte astronomiche stracciate alla rinfusa. Sapeva che quello era il sogno di Shiro e sapeva anche che da qualche parte dentro a lui era felice che il suo ragazzo raggiungesse uno dei suoi sogni, ma la sua parte logica sapeva anche la pericolosità di quella missione, nonostante tutti gli studi dietro e non ce la faceva. Pianse Keith, cercando di trattenere i singhiozzi come meglio poteva per non farsi sentire. Avevano ancora qualche mese per stare insieme e sicuramente non avrebbe sprecato neanche ogni singolo istante, continuando nel frattempo ad essere il migliore del suo corso e diventare presto come Shiro.

L’indomani mattina Shiro partì presto e Keith era ad aspettarlo, alle prime luci dell’alba, la pungente brezza settembrina della notte che lasciava il passo ai primi timidi e tiepidi raggi solari. Keith non disse nulla, lo abbracciò solamente, baciandolo.

«È un tuo sogno, realizzalo.»

Shiro gli sorrise dolcemente e lo strinse forte, baciandolo di nuovo e cercando di trasmettergli tutto il suo amore.

«Ci vediamo tra una settimana, ti aspetto.»

 

Keith iniziò il suo percorso alla Garrison con tutti gli occhi puntati addosso, molti dei quali erano solo colmi d’invidia, in fondo non era da tutti poter camminare e scherzare con il famosissimo numero uno dell’Accademia. Come ci sarebbe aspettato, non aveva fatto amicizia con nessuno e questa era una cosa che Shiro continuava a rinfacciargli la cosa con disappunto.

«Non posso farci nulla se provano ad essermi amici solo per arrivare a te, non voglio persone che mi odiano intorno.»

«Ma su questo siamo d’accordo, però ad esempio c’è quel ragazzo dall’aria ispanica… Lance mi sembra, lui sembra piuttosto interessato a te.»

«Lance?»

«Keith, è nel tuo corso, siete anche seduti vicini nelle lezioni di Iverson.»

«No, non ce l’ho presente.»

«Keith, ma come si fa con te?»

«Shiro, non preoccuparti, non è che io voglio particolarmente fare amicizia, soprattutto non con persone che puntano a te. Sei già impegnato, ricordi?»

Shiro sorrise e lo abbracciò, baciandolo velocemente. Erano nascosti in un rientranza delle rimesse delle navicelle da esercitazione, ma comunque chiunque avrebbe potuto vederli e volevano tenere la relazione nascosta, per evitare voci di favoritismi.

«Keith...»

«Dai Shiro, mostrami di nuovo la vostra nave!»

Keith lo prese per mano e lo trascinò fuori dal loro nascondiglio, mettendo fine alla discussione e rimarcando che a lui non interessava quello che Shiro avesse da dire riguardo alla sua asocialità.

Il giorno della partenza di Shiro avvenne fin troppo presto, ma Keith si era imposto di non piangere. Aveva salutato Matthew e suo padre, futuri compagni di avventura di Shiro e poi si era appartato insieme a lui. Shiro lo aveva baciato a lungo, trattenendo le lacrime e Keith invece aveva pianto, anche se cercava di nasconderlo. La notte precedente l’avevano passata insieme ed era stato bellissimo, si erano addormentati osservando le stelle fuori dalla finestra della camera di Shiro, proprio come quando erano ancora a casa, nella loro città. Non ci furono grandi parole tra di loro, ma solo silenzio e calore corporeo.

«Torna da me, okay? Non importa come, basta che torni.»

Shiro lo aveva stretto un’ultima volta a sè, non potendo promettergli nulla e poi si era arreso alla sua partenza. Keith però lo aveva inseguito e si erano baciati per un’ultima volta tramite l’oblò della porta dello shuffle, davanti a tutti, non curanti. Shiro gli aveva mimato un “tornerò” con le labbra, ma poi il lancio venne chiamato e dovettero proprio separarsi.

Keith osservò la navicella partire e trattenne di nuovo le lacrime, prima di andare a rinchiudersi nella palestra dell’Accademia a sfogare la frustrazione che sentiva dentro.

 

Per Keith furono mesi terribili, bui, vuoti. Continuava ad essere il migliore del suo anno, ma ora che Shiro non c’era più, sembrava anche che il sole fosse sparito dalle sue giornate. Nessuno cercava più di avvicinarlo adesso che era solo, l’unico rimasto era appunto quel Lance di cui gli aveva parlato Shiro, ma a malapena gli dava retta o gli rispondeva, facendolo desistere spesso e volentieri dal continuare la conversazione con lui.

Quando dopo tre mesi apprese la notizia della sparizione di Shiro, il mondo gli crollò definitivamente addosso. Era nella sua stanza quando Iverson era andato a bussargli, dicendogli che la navicella di Shiro e gli Holt era sparita nel nulla senza lasciare tracce. Keith si era sentito sprofondare, prima di essere assalito dalla rabbia. Afferrò Iverson per il colletto e gli intimò di non prenderlo in giro, ma quello ovviamente si limitò a portarlo nella stanza di comando e fargli vedere i dati con i suoi occhi. Keith urlò, distrusse un computer e poi venne sedato, passando poi una settimana chiuso in infermeria. Sentiva gli infermieri parlare di stato di shock, ma a lui non importava, l’unica cosa che riusciva a pensare era che Shiro non era più al suo fianco e non ci sarebbe mai più stato. Però dentro di lui era convinto che fosse ancora vivo, da qualche parte nell’universo. La settima notte che era in infermeria, scappò. Si tolse la flebo dal braccio, fece una corda di lenzuola proprio come nei film e si calò dalla finestra, intrufolandosi poi nell’enorme stanza di comando. C’era solo una persona a controllare tutti i monitor collegati con i vari satelliti spaziali, così non si accorse di Keith che trafficava con uno dei computer, cercando di fare meno rumore possibile. Lesse più documenti possibili sulla Missione Kerberos, ma venne beccato quasi subito. Iverson gli urlò contro, lo minacciò d’espulsione nel caso lo avesse di nuovo trovato a rovistare tra documenti privati, ma poi lo abbracciò e gli consigliò di non sprecare il suo talento.

Keith ovviamente non ascoltò mezza parola di quello che gli disse. La settimana seguente s’intrufolò di nuovo nel centro di controllo e riuscì a rubare tutti i file riguardanti i lavori della Garrison. Iverson quella volta non potè fargli nulla e lo espulse. I suoi genitori andarono a riprenderlo dopo la chiamata del direttore, ma Keith era sparito.

Nessuno sapeva dove fosse finito e a lui faceva comodo così. Lui e Shiro avevano trovato una capanna abbandonata nelle loro lunghe passeggiate nel deserto circostante la Garrison e mano a mano l’avevano sistemata, rendendola un loro rifugio. Keith si stabilì lì, continuando ad intrufolarsi nella Garrison di quando in quando per rubare cibo e attrezzature o componenti che gli sarebbero stati utili per costruire la sua piccola stazione segreta di osservazione. Purtroppo le sue capacità tecnologiche non erano molto sviluppate e più di tanto non riuscì a fare. Continuava ad osservare i file che aveva trafugato, cercando indizi, cercando un segnale d’aiuta proveniente da qualche parte nello spazio, ma l’unica cosa che riuscì a captare erano delle onde radio particolari, provenienti da non molto lontano.

Passò un anno in solitaria nel deserto, fingendosi sparito nel nulla, perché così gli faceva comodo. L’unica cosa che continuava a mandarlo avanti in tutto quel buio e quella disperazione era la speranza di ricongiungersi con Shiro prima o poi, perché lui sapeva che sarebbe accaduto. Passava le sue lunghe notti solitarie ad osservare le stelle e sperare. Non riuscì mai a vedere una stella cadente però.

 

La sera che finalmente qualcosa cambiò, Keith era allungato sul divano sgangherato che usava anche come letto e la ricevente che teneva sempre accesa all’improvviso emise un rumore statico fortissimo. Subito saltò in piedi, iniziando a muovere le manopole, fino a trovare la frequenza giusta. Quello che stava captando era un segnale d’aiuto e sicuramente non proveniva da nessuna delle navicelle delle Garrison o altre navicelle terrestri, era una frequenza troppo strana. Non ci mise molto ad individuare l’oggetto e non fece in tempo a prepararsi per andare nel luogo di atterraggio che aveva previsto, che quello sfrecciò nel cielo, atterrando nel bel mezzo del deserto.

I soldati della Garrison erano già sul posto e lui non potè far altro che osservarli da dietro delle rocce, cercando di non farsi notare. Sentì distintamente il cuore perdere un colpo ed il fiato abbandonargli i polmoni quando vide cosa, o meglio chi stavano tirando fuori dalla navicella aliena schiantatasi.

Era passato un anno, un braccio era meccanico ed il ciuffo che tanto adorava rigirarsi tra le dita era passato da nero a bianco, ma quello davanti a lui era Shiro, il suo Shiro. Resistette all’istinto di lanciarsi fuori dal suo nascondiglio per saltargli addosso, la situazione andava studiata, soprattutto perché la Garrison lo stava trattando come un appestato o un intruso, quindi qualcosa non andava di sicuro.

Keith li seguì da lontano, continuando a non farsi vedere e non ci mise molto a studiare un diversivo per tirare fuori Shiro dalla struttura nella quale lo avevano rinchiuso. Corse di nuovo nella sua capanna e da sotto un’asse del pavimento sconnesso tirò fuori le mine da campionamento che aveva sottratto nei mesi alla Garrison, sapendo già dove posizionarle. Recuperò anche il vecchio pugnale di sua madre, che teneva nascosto insieme all’esplosivo, sicuro che gli sarebbe servito in quella follia.

Ovviamente il diversivo fu un successo e riuscì ad introdursi nella struttura provvisoria dove avevano rinchiuso Shiro, trovandolo legato ad un tavolino da osservazione, mezzo sedato e circondato da tre medici, inguainati in tute anti contagio. Keith non ci mise molto a metterli fuori gioco: i suoi allenamenti nella lotta corpo a corpo con Shiro non erano stati vani in fondo.

Finalmente gli prese il volto tra le  mani e quasi gli venne da piangere: Shiro era davvero di nuovo lì con lui. I suoi vestiti erano stracciati ed il suo braccio era davvero stato sostituito da una protesi meccanica, inoltre era molto più muscoloso di come lo ricordava, ma non gli importava, quello era il suo Shiro.

«Shiro?»

Keith sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma non c’era tempo. Estrasse il suo pugnale e tagliò le cinghie che lo tenevano legato, aiutandolo poi a sollevarsi. Era pesante, molto più pesante di quanto ricordasse, e stava per sfuggirgli, quando qualcuno fu al suo fianco a supportarlo.

«No, nonono. Non ti permetterò di salvarlo, sarò io a salvarlo.»

«E tu chi saresti?»

Keith era pronto ad estrarre il pugnale ed usarlo, ma quel ragazzo sembrava essergli utile in quel momento.

«Chi sono io? Sono Lance.»

Keith lo guardò sospettoso, con uno sguardo interrogativo che presumibilmente parlava per lui.

«Eravamo nello stesso corso alla Garrison.»

«Davvero? Sei un ingegnere?»

«No, sono un pilota. Eravamo rivali, Keith e Lance, Lance e Keith, testa a testa...»

«Ah, ora ricordo, trasportavi merci.»

«No, non più, ora sono un pilota grazie a te che sei stato espulso.»

«Beh, allora congratulazioni. Ma adesso aiutami.»

Portarono fuori Shiro e ad attenderli c’erano anche un piccoletto con gli occhiali ed un ragazzo grosso e dalla faccia ansiosa, che più tardi avrebbe appreso chiamarsi rispettivamente Pidge ed Hunk. Keith non seppe mai come, ma si ritrovò tutti quei soggetti sulle spalle, nella fuga dagli scagnozzi della Garrison.

Fu un inseguimento rocambolesco, ma le sue capacità come pilota salvarono la pelle di tutti, soprattutto quella di Shiro, che nel mentre era mezzo svenuto a causa del sedativo. Quando finalmente raggiunsero la baracca, riuscì ad avere il suo momento da solo, mentre spogliava Shiro di quei panni rovinati e controllava che fosse tutto a posto, protesi meccanica a parte.

Aveva chiuso gli altri fuori dalla capanna, facendoli dormire nella piccola rimessa che c’era di fianco, così non si vergognò di piangere finalmente, mentre poteva sentire quella pelle calda sotto le dita e quel respiro tra i suoi capelli.

Non aveva visto stelle cadenti in quei mesi, ma qualche divinità doveva aver sentito le sue preghiere e aveva deciso di realizzarle.

Shiro si svegliò un paio d’ore più tardi, aprendo gli occhi lentamente.

«Shiro?»

«K-Keith?»

«Shiro, sei tornato da me, hai mantenuto la promessa.»

Keith scoppiò a singhiozzare senza ritegno, e Shiro alzò una mano tremante, prendendo ad accarezzargli i capelli e lasciandosi sfuggire delle lacrime a sua volta.

«Sono tornato, ho mantenuto la promessa.»

«Tu non sai quante notti ho pregato, ho sperato, ho aspettato… pensavo fossi morto, ma dentro di me lo sentivo che non poteva essere così.»

«Keith, il tuo pensiero è l’unica cosa che mi ha tenuto in vita nello spazio, sono tornato solo per te, per rivederti almeno ancora una volta.»

«Non lasciarmi mai più.»

«Non ti lascerò mai più, è una promessa.»

Shiro gli prese il volto e lo baciò dolcemente, assaporando finalmente di nuovo quel sapore e quel calore che tanto aveva sognato mentre era solo e disperso su delle navi aliene. I Galra stavano per arrivare a distruggere la Terra, ma a lui al momento non importava più, era di nuovo insieme a Keith e tanto bastava, che sparisse tutto il resto.

Restarono abbracciati fino all’alba, familiarizzando di nuovo con i calori reciproci, ancora increduli di essere ancora di nuovo insieme. Keith gli chiese del braccio e Shiro gli raccontò tutto, Keith pianse e Shiro gli asciugò le lacrime con dolcezza, ben sapendo quanto l’altro odiasse piangere, soprattutto davanti a lui. Quella notte osservarono le stelle, proprio come un tempo, e videro una stella cadente cadere. Espressero un desiderio in silenzio, ognuno il proprio, non sapendo però di aver espresso lo stesso: non separarsi mai più l’uno dall’altro.

Keith si sentiva bene tra le braccia di Shiro, finalmente riusciva di nuovo a respirare, a vedere un futuro per sè. Le prime luci dell’alba li colpirono ed osservando i raggi solari fare capolino nella capanna, e per la prima volta da mesi li trovò meravigliosi e caldi, pieni della vita alla quale aveva pian piano rinunciato. Forse però non erano i raggi ad essere così, forse in realtà era Shiro che con la sua sola presenza lo scaldava e gli dava la voglia di andare avanti.

Keith era sempre stato nel buio, finché non aveva trovato Shiro, che era diventato l’unico sole del suo sistema freddo e sballato, e adesso non poteva farne più a meno e con tutto se stesso non lo avrebbe mai più lasciato sparire, a costo della sua stessa vita.

 

Shikayuki's corner: Bon, questa storia è nata letteralmente in due fucking ore, quindi è un totale disastro, ma ehi, è il COWT. Finalmente sono riuscita a scrivere sulla Sheith, che è la mia otp, ed ho sempre difficoltà a scriverci su, ma vabbè, in guerra si fa di tutto XD Ho fatto un po’ un excursus della vita di Keith secondo la mia marea di headcanon e spero non vi sia dispiaciuta troppo! Come detto all’inizio, non è betata, quindi scusatemi di nuovo per il disastro che avete letto ^^’’ (siete liberissimi di lanciarmi pomodori, anzi, se volete ve li fornisco io, so di meritarmeli T^T)

 
  
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