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Autore: Makil_    28/01/2018    6 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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+ Dopo un'attesa durata un tempo incalcolabile, a distanza di un anno esatto dalla pubblicazione del primo capitolo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", lettori vecchi e nuovi, Makil_ vi dà un caloroso bentornati a Pantagos. +
 

Prima di lasciarvi alla lettura del primo capitolo, un paio di annotazioni che vi torneranno più o meno utili da qui in poi:
1. Si consiglia caldamente la lettura de "Il cavaliere e la fanciulla bionda" a tutti coloro che non hanno mai letto di ser Bartimore di Fondocupo, in quanto la seguente storia si sviluppa come seguito di quella. 
2. Ai fini di una comprensione più estesa degli eventi narrati, si consiglia la lettura del breve spin-off "Spada rossa, cuore bianco", che trovate nella mia bacheca. 
3. A partire dal prossimo capitolo, sarà affisso il solito glossario della terminologia nuova e vecchia di Pantagos: al momento, per chi non ha - come me - una memoria ferrea, mi permetto di consigliare un rilettura del vecchio. 


Per il momento credo di aver detto tutto: non mi resta che ringraziare calorosamente ognuno di voi per la vostra speciale pazienza e augurarvi una buona lettura e permanenza!
 


La spada e le due fiamme
Una storia di Pantagos



Sistemarono i pezzi di legno a guisa di lettiga con l’intento di rendere più comodo l’ultimo sonno di ser Konrad. La vita aveva deciso di abbandonarlo al suo pessimismo senza neppure badare più alla cura dell’aspetto fisico del vecchio cavaliere. Ser Konrad si era ingobbito davvero tanto nell’ultima settimana di viaggio, il suo corpo aveva iniziato ad incartapecorirsi e, cosa più dannosa di tutte, si era macchiato inesorabilmente di quel rosso che era sinonimo di morte. Il suo volto bianco era adesso ricoperto di bubboni e macchie color sangue, chiazze dalla forma di una stella a cinque punte, non più buio come la notte, ma latteo e pallido come le nuvole del giorno.
Non appena ser Mark ebbe sistemato gli ultimi tralci sulla piccola catasta di legno, ser Dayn e Bartimore trainarono il carretto su cui giaceva ser Konrad fino alla postazione sotto all’ulivo. Da lì si poteva scorgere l’immensa estensione dei prati secchi appena accarezzati dalla brezza, che si diradavano per miglia e miglia all’orizzonte, bruciati dal sole, cotti dall’arsura e devastati penosamente dalla guerra.
«Mettetelo giù» ordinò ser Mark. Il cavaliere aveva perso la sua vitalità nel viaggio. Ser Mark era un uomo dalle spalle larghe, il petto largo e il collo taurino. Il suo volto, un tempo largo e cosparso di pieghe come una maschera levigata nel legno, era ora scarno, asciutto e deperito. Sulla corazza che stringeva il suo sottocollo vi erano tre piccoli teschi ingialliti, trafitti al centro da una asticella: un ricordo della sua non proprio nobile donna. «Sì, qui, proprio così.»
Bartimore e ser Dayn afferrarono per la schiena il corpo moribondo di ser Konrad, assicurandosi di non toccare la sua pelle, e lo posarono supino sul rogo. Patres Steffon aveva avvolto il malato con cura all’interno del suo mantello grigio, bagnato fradicio d’acqua fluviale, in modo da attenuare i bruciori causati dal Fiore Rosso, ma invano. Bart, che più di ogni altro conosceva quali fossero gli effetti disastrosi di quel morbo, sapeva per certo che il solo modo per attenuare i dolori della malattia fosse la morte.  
E, forse, egli non era l’unico a saperlo. Lo stesso ser Konrad, dopotutto, aveva chiesto che lo uccidessero, e che seguissero, nel farlo, quello che era sempre stato di tradizione nella sua famiglia di uomini d’arme. Gli aveva raccontato che tutti i suoi avi, a partire dal padre del nonno fino al proprio, avevano ricevuto una sepoltura preceduta da un rogo. Per questo, ser Konrad aveva chiesto che a lui fosse riservata la stessa fine: non voleva essere inumato come una bestia.
«Stessa morte, stesso luogo negli inferi» aveva detto. «Lasciate che io bruci… non mi interessa nient’altro. Voglio rivedere il mio vecchio». Nonostante fossero stati tutti un po’ titubanti, alla fine avevano ceduto alle sue suppliche e avevano deciso di rispettare le volontà dell’ultimo cavaliere di una scorta proveniente dal lontano regno di Ardua Scogliera.
«Se è così che vuole morire» aveva risposto patres Steffon senza neppure un velo di compassione nelle labbra. «Così morirà». D’altronde, ser Konrad si era ridotto a quello stato proprio per non aver ascoltato il consiglio dell’esperto. Era accaduto nel passaggio attraverso le fattorie a nord di Verdepiano, quando i cinque fuggitivi avevano scorto una piccola casupola abbandonata sulla sinistra della stradina. Ser Mark aveva sperato di trovarvi un contadino armato di buon cuore, dal quale avrebbero potuto ricevere alloggio e, perché no, qualcosa da mettere sotto ai denti.
Steffon però non aveva accettato l’idea di mostrarsi a qualcuno, neppure al più buono degli uomini; lui stesso aveva deciso, infatti, di percorrere strade che non fossero quelle maestre, proprio per non incappare in ribelli assetati di sangue, ora che la Guerra Grigia aveva iniziato a gravare nuovamente su di loro. Malgrado ciò, comunque, quel casolare risultò davvero essere abbandonato dai vivi, per quanto invece fosse ancora dimora dei morti. Infatti, poco lontano dalla base di un tozzo mulino adiacente alla fattoria, giacevano i cadaveri di due omaccioni robusti e rubicondi, ancora segnati da ciò che li aveva uccisi: il Fiore Rosso. I due erano armati fino ai denti e, cosa più importante, stringevano tre ceste piene di pane nelle mani. Tutto quello, purtroppo, aveva richiamato l’attenzione di ser Konrad che, venendo meno al rimprovero di patres Steffon e ai richiami dei suoi compagni di sventura, aveva deciso di provvedere da solo a sé stesso, correndo via dal carretto che li trasportava e affrettandosi a rubare ogni cosa a quei due cadaveri. E così, le Grazie lo avevano punito, cedendo a lui quel che aveva ucciso quei due uomini. «Equità» l’aveva definita ser Mark vedendolo. «Mi pare che le Grazie siano state piuttosto discrete». Ma a risuonare più forti nelle orecchie di Bartimore erano state altre parole, quel maledetto giorno: «Getta un cane in un combattimento e quel cane diverrà un leone». Lo diceva spesso Dalton Kordrum, l’altero signore di Sette Scuri. «Getta un devoto in una guerra e quello diverrà il peggiore degli uomini.»
Già dopo due giorni dall’accaduto, ser Konrad aveva iniziato a perdere il colorito sano della sua pelle, si era esibito in lunghi e rauchi colpi di tosse secca e aveva avuto numerosi problemi nel prendere sonno la notte. La situazione era rimasta stabile per un po’, e il cavaliere non aveva dovuto sopportare nulla di più grave di un paio di starnuti e di alcune scatarrate. Per la prova inconfutabile del contagio, però, era stato costretto ad attendere il quarto giorno dal furto dei beni dei contadini, quando la prima macchia color vino era apparsa sul suo collo come una florida rosa rossa assetata della sua essenza vitale e pronta ad abbeverarsi immantinente del suo sangue.
Patres Steffon si avvicinò a loro con le braccia conserte. Il patres appariva molto più vecchio di com’era solitamente: una folta barba gli era cresciuta sul mento e sulle guance, i capelli si erano sporcati di fango e acqua e il suo volto si erano fatto asciutto e rugoso. Il lungo ed estenuante viaggio aveva ridotto ognuno di loro allo stremo, mettendoli a confronto con la sete, la fame e la morte. Lo stesso Bartimore si era fatto molto più magro dalla repentina e fortunata partenza da Roshby, anch’egli non poco invecchiato dalla cattiveria della sorte che gli era toccata. Erano fuggiti sullo stesso carretto che avrebbe dovuto custodire le armi da utilizzare contro i ribelli nel torneo di Roshby, trainato da Lenticchia, il poco fiero destriero di Bart, e Nuvola, il cavallo di ser Dayn, uno stallone tutt’altro che nerboruto.
«Sei ancora sicuro di quello che stai per fare?» chiese patres Steffon con l’intenzione, seppur velata, di far cambiare idea a ser Konrad.
«Mai stato tanto sicuro, patres.» rispose il cavaliere, la fronte aggrottata e le mani già chiuse sul petto.
A quel punto, allora, patres Steffon si girò verso ser Mark e fece cenno con la testa. Il vecchio cavaliere smagrito e stempiato si chinò per terra sulle ginocchia e afferrò due ceppi dal rogo per iniziare a sfregarli l’uno sull’altro.
Il sole era alto nel cielo di quella torbida mattinata e la sponda settentrionale del Ravinh, il fiume che percorreva tutta la zona centrale di Pantagos, era irradiata dalla sua luce. A nord, si potevano già scorgere gli enormi torrioni di granito di Brektyde, la cittadina più florida di tutte le Terre Brulle, un luogo che non avrebbero mai raggiunto. Non potevano rischiare di saltare allo scoperto, non prima che la situazione si fosse ristabilita. Potevano essere additati come razziatori, impostori, trasgressori delle leggi, mentre i veri nemici si dibattevano ancora a Roshby, i cadaveri dei loro amici nelle mani sporche dei traditori.
Patres Steffon si avvicinò al carretto, oltrepassò i due cavalli che tiravano le sue corde, e afferrò la lunga alabarda di ser Konrad. Quindi si avvicinò alla catasta di legni e fece per posare l’arma al fianco del suo possessore.
«No» mormorò lentamente ser Konrad, gli occhi già chiusi e in attesa della morte. «Tenetevela.»
«È usanza che tu muoia tra le fiamme, dici» iniziò l’esperto. «E, allo stesso modo, è usanza che ogni cavaliere porti con sé la propria arma nella tomba quando sta per lasciare il mondo dei vivi.»
«E per farmene cosa, patres?» domandò ser Konrad con disprezzo. «Posso forse portarla con me e scagliarla sul cranio di chi ha fatto tutto questo? Posso forse utilizzarla per staccarmi di dosso queste macchie? Posso forse utilizzarla per arrivare più velocemente negli inferi?»
Patres Steffon sospirò. «Tu hai fatto tutto questo, Konrad: vedi di non farcelo pesare. Ti avevo detto di stare lontano da quei corpi, sciocco. Ecco la tua punizione, allora… e fa’ che ti piaccia, in un modo o nell’altro». L’esperto mandò l’alabarda a rotolare nel prato.
«Gettatela pure nel fiume e datela ai pesci» comandò ser Konrad. «Non voglio più avere a che fare con questo mondo. Fondetela se vi compiace, ma non lasciatela a me… o vi perseguiterò finché non avrò avuto la vostra testa. E allora sì che saprò cosa farmene di quella stramaledettissima arma.»
“Non parlerebbe così se davvero fosse in sé.” pensò con rammarico Bartimore. “Lui non avrebbe mai parlato così. Il dolore lo sta uccidendo prima del fuoco.”
Ser Mark riuscì a sprigionare una scintilla di fuoco con i pezzi di legno che cingeva tra le mani. Scagliò l’arbusto spento ai piedi del carretto e si avvicinò alla catasta di legno con quello acceso nella mano.
«Ser Konrad» mormorò patres Steffon. «Per tutti gli dei che ci circondano, per tutti quelli che ci circonderanno, noi pregheremo affinché tu possa avere vita dopo la morte. Non una condanna, non una pena, non una sanzione: che i cieli lo accolgano con amore e con dolcezza. Per la paura che…»
«Falla breve, patres, non posso più resistere.» lo fermò ser Konrad. «Accendi questo rogo e facciamola finita. Paura… paura… non ho mai avuto paura del fuoco né della morte. Ma la vita, signori, quella mi ha sempre terrorizzato. Bruciatemi, ho detto. Bruciatemi!»
«Prego, ser Mark». Quelle ultime parole di Steffon risuonarono delicate nella piana, quasi come se non si riferissero all’uccisione di un uomo. Ser Mark si avvicinò di pochi passi al rogo, poi gettò il tizzone ardente in un piccolo spazio tra i legni. Il cumulo di arboscelli prese istantaneamente a fumare e, con una vivacità via via sempre maggiore, ad ardere.
Ser Konrad chiuse i pugni in una morsa strettissima, serrò i denti sulle labbra e chiuse con forza gli occhi, in attesa che le fiamme avessero la meglio sul suo ormai esile corpo.
Patres Steffon si lasciò cadere di peso sulle ginocchia, seguito dal resto dei suoi compagni. Ognuno di loro prese a mormorare la propria preghiera. Bart si sentì un essere vuoto quando capì di non riuscire a provare neppure un minimo di compassione per la morte di quell’uomo. Un tempo, nel vedere qualcuno morire, ser Bart si sarebbe dispiaciuto per lui, pur davanti ad uno sconosciuto. Ma ora notava che ci fosse come un qualcosa di fin troppo sbagliato in tutto ciò che gli stava accadendo. Un uomo non poteva chiedere di essere ucciso durante quegli anni, perché farlo voleva dire non provare pietà per tutti coloro che morivano ogni giorno e che, attaccati com’erano alla vita, lottavano fino all’ultimo respiro pur di restare con la propria moglie, con i propri figli, con i propri cari. Ser Bart non poté che pensare a Dalton Kordrum, il suo signore, l’uomo più onorevole che egli avesse mai conosciuto. Avevo visto il suo signore decomporsi allo stesso modo di ser Konrad, eppure non ricordava di averlo mai sentito supplicare la morte. Egli aveva lottato in vita, e aveva continuato a farlo da moribondo; invano, certo, ma con determinazione e amore per la propria famiglia.
Ser Bartimore, ser Dayn e ser Mark ripeterono all’unisono le strofe di una preghiera rivolta alle Cinque Grazie.
«Dolci signore dei cieli, cinque benedizioni e cinque favori a quest’uomo che, peccando, ha meritato la vostra grazia. Dolci signore dei cieli, lasciate che Konrad abbia giorni migliori, che sappia fermare il fuoco della notte, le frecce dell’oscurità, le spade delle tenebre, il pugnale delle ombre. Dolci signore, insegnate lui una via più delicata e mostrate la luce alla luce.»
Le urla strazianti di ser Konrad invasero la piana fino al punto da scacciare via tutti gli uccelli annidati sui rami dell’ulivo. Fu quello l’ultimo messaggio del cavaliere che aveva servito il possente Ortys Wysler: il vocio stemperato della morte.
Le fiamme vorticavano con voracità attorno al corpo di Konrad, le cui labbra erano ormai totalmente grondanti di sangue. L’uomo iniziò scalciare con violenza, batté più volte i pugni sulla catasta, finché i vortici rossi e gialli non lo assalirono fino a tramutare ogni suo urlo in fuoco. Come delle calde coperte di seta, le fiamme coprirono il corpo distrutto del cavaliere, e vi ballarono sopra a lungo al pari di danzatrici circensi vestiti di delicate stoffe gialle e rosse.
Infine, solo dopo che le uniche voci nell’aria rimaste furono quelle delle fiamme, il sangue, le chiazze e tutto il resto del corpo di ser Konrad si mischiarono indissolubilmente in un’unica gradazione di colore: il rosso. 


♣ Angolo d'autore ♣
Bentornati, dunque, anche nei nostri siparietti "privati". 
Spero che abbiate gradito questo primo capitolo, che si apre - ahimè - come una metafora più o meno consueta quando si parla di guerra: la morte per la malattia. 
I più attenti, avranno certamente notato il parallelismo con il primo capitolo del Cavaliere, che ha come incipit la morte dela giumenta di ser Bartimore: qui, però, c'è di più. Bartimore riconoscere i sintomi di un morbo che ha portato via anche il suo signore padre, Dalton Kordrum, e noi ne conosciamo per la prima volta gli effetti. Che ve ne pare?
Ecco dunque il gruppo di fuggitivi di cui abbiamo discusso parecchio tempo fa: ser Dayn, ser Mark, ser Bart e patres Steffon: cosa mi dite di loro? Vi interessa sapere qualcosa in più su tutte queste già note personalità?
E, per concludere, cosa vi aspettate da questo secondo libro? Perché mai proprio "La spada e le due fiamme"?
Così concludo, carissimi lettori e recensori: grazie per essere ancora qui e grazie in anticipo per i vostri commenti. Al prossimo aggiornamento [lunedì 5 Febbraio]. 
Makil_
   
 
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