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Autore: piccolo_uragano_    28/01/2018    0 recensioni
Stavo pensando a quella notte, la notte in cui ti ho conosciuta. Mi dicesti di esserti persa, però mi sembravi tutt'altro che persa, in quel momento. Anzi, a dirti la verità, con il senno di poi posso affermare con certezza che non ti fossi affatto persa: tu quella sera hai trovato me, perchè questo era il nostro destino.
Possiamo tornare indietro? Possiamo tornare al punto in cui io rovino tutto e tu te ne vai con le lacrime agli occhi?
Vorrei almeno che un legame come il nostro possa avere un addio, un finale degno di ciò che siamo stati, se proprio dobbiamo finire.
Io ti aspetto qui, domani sera. Stesso posto, stessa ora.
Ti amo. Non sono riuscito a dirtelo, ma ti amo.
A.
Consegno il messaggio alla sua amica spagnola mentre la ringrazio e penso: fa che non stia mentendo, fa che lei sia viva.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo quarto.

Aaron non sa.
è tutto quello a cui penso da due ore seduta a gambe incrociate sul dondolo che sta sul tetto di casa sua. Gli auricolari collegati all’iPod che si sta scaricando, ma scendere per caricarlo non è tra le opzioni. Due ore di musica. Due ore  di pensieri.
Sono due ore che evito il suo sguardo. Due ore che sto seduta qui a guardare il cielo farsi sempre più nuvoloso.
Tra poco pioverà. Bene, mi dico, almeno il mio cervello ed il cielo avranno qualcosa in comune. La tempesta.
Aaron non sa.
E come diamine mi è venuto in mente di piangere davanti a lui?
Io ero quella forte. Quella che anche il giorno del funerale non ha versato una lacrima. Quella con l’espressione dura e la risposta pronta. Non avevo mai pianto davanti a qualcuno. Credo che l’ultima volta in cui piansi davanti a qualcuno fu quando mi sbucciai il ginocchio cadendo dall’altalena, in terza elementare. Fu colpa di Michele, però: stava spingendo troppo forte. Dare la colpa a Michele era il mio hobby preferito al tempo. Era sempre colpa di Michele, per conto mio, ma in realtà non lo era mai. Michele era colpevole solo delle piccole cose, io ero quella tremenda, quella che non stava mai ferma e mai zitta, quella che si sporcava con il cibo e bagnava il letto. Michele aveva la colpa di essere ‘quello bravo’.
Aaron non sa.
Non sa chi ero. Non sa come ho mandato la mia famiglia allo sfacelo. Non sa quanto mi costi leggere il nome di mio fratello Michele sul display ogni volta che cerca di chiamarmi. Perché lui è ancora ‘quello bravo’. Io no. Non sa quanto male facessero le voci e le dita puntata al college. Non sa quanto faccia male guardarsi nello specchio e vedere un mostro.
Accendo una sigaretta mentre le nuvole corrono sopra la mia testa e il dondolo non ha più bisogno della mia spinta per cullarmi. Alzo il volume di Holding Out For A Hero e muovo la testa a ritmo. Potrei chiudere gli occhi e addormentarmi qui. Potrei chiudere gli occhi e sparire, ma per la prima volta dopo mesi sento che a qualcuno nel mondo importerebbe.
Ad Aaron probabilmente importa.
Chissà  perché, poi.

Ed è esattamente Aaron, con un maglione grigio come la felpa che gli ho rubato e dei capelli ancora umidi dalla doccia, che appare sul tetto della sua stessa casa dopo qualche secondo. Non dice niente. Non sorride. Non tradisce emozioni. Mi guarda, mi osserva, con quei suoi occhi meravigliosi e si siede accanto a me.
“A te importa, di me.” Dico, dopo qualche tiro, togliendomi una cuffietta per porgergliela.
“Pare sia così.”
“E perché ti importa di me?”
“Non lo so. A te importa di me?”
“Si.” Rispondo, sicura.
“Ecco. E sapresti trovarmi un perché?”
Ci penso qualche secondo. Perché non ha mai chiesto nulla, nulla del mostro che sono o di quale sia la mia storia. Perché ha gli occhi di chi è stato appena ferito ma il sorriso luminoso di chi si merita un nuovo inizio. Perché mi ha chiesto di restare accanto a lui quando gli ho rimboccato le coperte. Perché ha una tazza per ogni giorno della settimana, nella credenza, e i miei cereali preferiti.
“Per le piccole cose.” Concludo, alzando le spalle.
“Per le piccole cose.” Ripete lui. “Però, se ci pensi, non sappiamo nulla l’uno dell’altra.”
“No, hai ragione.” Ammetto. “Quale è il tuo colore preferito?”
“Il giallo.  Il tuo?”
“Il rosso. Però amo anche il grigio.”
“E quale è il tuo nome di battesimo?”
Io sorriso. “Oh, vola basso, Occhi Blu, non lo sa nessuno. Davvero. E poi, ‘Lola’ va più che bene.”
“’Lola’ è anche solo lontanamente simile al tuo nome vero?”
“Può essere. Era il nome della mia bambola preferita, per quello lo adoro.”
“Quanti anni hai?”
Io guardo la data sul telefono. “Oggi diciotto. Domani diciannove.”
“Scherzi? Domani è il tuo compleanno?”
Io annuisco. “Si, ma non ti preoccupare, non è niente di importante.”
“Eccome se lo è!” si alza in piedi e si porta le mani nei folto capelli ricci. “Hai amici qui?” scuoto la testa. “E a casa tua?” Scuoto di nuovo la  testa, mio malgrado. “Ehi, aspetta, dove è casa tua, esattamente?”
“Non ne ho una.”
“E la casa dove sei cresciuta, dove è?”
“In Italia.” Rispondo, sicura. “Sud Italia. Una casa grande con le finestra piccole e le porte tutte bianche.”
“ Vuoi tornare a casa, per il tuo compleanno?”
“Aaron?”
“Sì.”
“Non voglio tornarci mai più, in quel posto.”
Lui si fa serio. “Okay. Ti va di dirmi perché?”
“Non ne ho motivo.”
“Come no?”
“No.”
“E quel Michele che continua a chiamarti?”
Sorrido per come pronuncia il nome con la cadenza inglese. “Non è lui a chiamarmi, ma il suo senso del dovere. Lui è ‘quello bravo’, lo è sempre stato. Troppo senso del dovere.”
“Senso del dovere?”
Io annuisco.  “Michele è mio fratello.” Ammetto poi. “Era il mio responsabile e tutore legale, fino a un anno fa.”
“E ora?”
“Ora sono io responsabile e tutore legale di me stessa.”
Aaron annuisce. “Ovvio. Okay,ora concentrati. Cosa vorresti fare per il tuo compleanno?”
“Niente. Puoi dimenticare che te lo abbia detto?”
“Assolutamente no. Adoro i compleanni.”
Io gli sorrido. “Non farai a tempo a riprenderti da ieri sera.”
“A proposito, cosa stavamo festeggiando ieri sera?”
“Il divorzio.” Rispondo, spegnendo la cicca.
“E si festeggia bevendo?”
Io alzo le spalle. “Non lo so, non ho mai divorziato.”
Lui si sforza di sorridere. “Nemmeno io. E mi sono ripreso!”
“Davvero?” domando, ridendo.
“Davvero!”
Scuoto la testa, aspetto qualche secondo e poi mi avvicino lentamente al suo orecchio, urlando a squarciagola. Il modo in cui si butta giù dal dondolo e si copre l’orecchio mi fa scoppiare a ridere.
“Non ridere! Non fa ridere! Lola, dannata ragazza, sono sordo!”

Lola ha trovato nella sua valigia un completo sportivo azzurro come i suoi capelli. Si è gasata da morire e se lo è provato, per poi decidere che saremmo andati a correre, totalmente incurante del maltempo.
Io l’ho guardata e ho riso, mettendomi una mano nei capelli. “Ho possibilità di scelta?” le ho chiesto.
Lei ha scosso la testa e ha riso, e io giuro che non so cosa sia questa cosa che ho nello stomaco ogni volta che lei ride. So solo che è dannatamente automatico sorriderle in risposta.
“Aaron!” strilla, fermandosi. “Aaron, siamo a Camden Town!”
Io mi guardo attorno e vedo la fermata della metro che lei sta indicando, mentre corre sul posto.
“Si.” Le dico, concedendomi di fermarmi a prendere fiato. “Abbiamo corso … tantissimo!”
Lei controlla il telefono. “Qui dice poco più di venti chilometri.” Dice, alzando le spalle.
Io strabuzzo gli occhi. “Ah, si, giusto, roba da niente.”
“Ho fatto di meglio.  Hai fame? Prendiamo una frittella?”
“Dopo aver corso venti chilometri una frittella?” chiedo, appoggiandomi con la schiena al muro. “Tu sei fuori di testa!”
Lola annuisce e sorride. “Si, non sei il primo e non sarai l’ultimo a dirlo.”
La guardo e la vedo: diciotto anni dipinti su un viso che ne dimostra molti di più, due occhi che sembrano aver visto il mondo, il corpo fragile e troppo magro di chi ha appena corso troppo con il sorriso di un bambino a cui è stato regalato lo zucchero filato.
Lola.
 Tutto e niente.
“Sai, la cugina  di Wylda è andata a Disneyworld per il suo compleanno.”
Lola annuisce. “Bella idea. Porta anche Wylda, però aspetta che sia abbastanza grande per ricordarselo.”
“Ma se ha già cinque anni!” mi lamento, mentre lei ricomincia a correre e io la seguo.
“Ah si? Elencami cinque nitidi ricordi di quando avevi cinque anni!” urla, prendendo una via che non conosce.
Io ci penso una attimo, rallentando involontariamente. Cinque anni.
Avevo un amico che si chiamava Jack. Ora lavora nella City, e credo si sia sposato.
“Il mio amico del cuore si chiamava Jack.” Dico, fissando la sua coda di cavallo.
Lei alza una mano e mostra quattro dita.
Jack mi regalava le figurine di quel cartone che guardavamo sempre. Come si chiamava?
“Non ricordo … come si chiamava il cartone che guardavamo sempre?”
Lei si gira e mi sorride. “Aaron, quando avevi sei anni io non ero nata, perché lo chiedi a me?”
Sbatto le palpebre. Non ci avevo pensato.
Gemma. Gemma è più grande di me, aveva dieci anni. Che faceva Gemma a dieci anni?
Aveva una bambola che preferiva rispetto alle altre, l’aveva ricevuta a Natale.
Io cosa avevo ricevuto quel Natale? Il robot? No, ero già più grande.
“Vedi?” mi dice Lola, girandosi. “A cinque anni dai importanza a talmente tante cose che più passa il tempo, più te ne dimentichi.”
Io mi fermo.
Wylda ha cinque anni.
Divorzio. Famiglia. Niente.

Wylda non si ricorderà di quanto io e Sam ci siamo amati. Non si ricorderà del bacio a fior di labbra quando tornavo a casa. Non si ricorderà del maglione uguale che avevamo a Natale, non ricorderà gli sguardi complici o i film del sabato sera sul divano. Non si ricorderà di quelle mattine in cui faceva a gara con Nelson per stare nel lettone.
Niente.
Non se lo ricorderà.
Arriverà all’età di Lola e non si ricorderà di tutto questo.
Mi fermo.
Wylda non se lo ricorderà.
Sento un enorme groppo in gola.
“Aaron?”
La voce di Lola è lontana.
Posso fare a pugni con il mal di stomaco che mi hanno dato le parole di Sam. Posso combattere con la sua assenza. Posso ignorare i ricordi di noi, di lei che gira per la casa. Posso spostare tutte le fotografie. Posso fingere che non mi importi.
Ma non posso permettere che Wylda dimentichi.
“Aaron, guardami.”
Alzo gli occhi e trovo Lola preoccupata.
“Aaron, cosa è successo?”
“Wylda non se lo ricorderà.”
“Che cosa?”
“Di quanto io e Sam ci siamo amati.”
Lola rimane ferma qualche secondo. “L’hai amata davvero, Sam?”
Sam. Sam – la prima donna che abbia guardato con la consapevolezza di volerla accanto fino a quando mi fossi dimenticato anche il mio nome.
“In qualche modo non ho mai smesso.”
“Allora Wylda se lo ricorderà.”
“Come lo sai?”
Lola sorride. “Le cose belle te le porti dentro. Per sempre.” posa una mano sulla mia guancia e inclina la testa. “Promettimi che non lascerai mai che si dimentichi che la adori. Anche quando sbaglierà, quando ti deluderà, quando porterà a casa un ragazzo che non ti piace, quando tornerà tardi la sera e magari sarà pure un po’ ubriaca, o quando prenderà un brutto voto o si metterà a piangere e non vorrà dirti perché. Promettimi che non lascerai che si dimentichi del bene che le vuoi, promettimi che non smetterai mai di ricordarglielo, perché è terribile.”
“Dimenticarsene?”
“Dimenticarsene e non avere più la possibilità di chiederglielo.”

“Lola?”
“Un attimo, Occhi Blu, non ho ancora messo piede in casa!” mi lamento.
Ore fa è corso via da Camden Town per andare da Wylda. E ha fatto bene. Avrà corso tantissimo (e non lo ammetterà mai, ma so che un pezzo lo ha fatto in metro) ma vederlo correre via ricaricato dall’amore per la figlia è stato bellissimo.
Mi chiedo se mio padre lo avrebbe mai fatto per me.
Mi chiedo come sarebbe mio padre, ora.
Scaccio il pensiero quando Nelson mi corre incontro. “Ciao, stupido cane!” esclamo.
“Lola!” vengo richiamata.
“Che vuoi farci, è stupido!” mi giustifico. Tolgo le scarpe e le vedo. Accanto alle scarpe da corsa di Aaron, ci sono due paia di scarpe da bambina.
Poso una mano sul muro, nel momento in cui Aaron raggiunge l’ingresso. “Ci sono qui Wylda e Mary, la sua amichetta del cuore.” Sussurra, mentre noto che si è fatto una doccia e ha addosso un grembiule da cucina macchiato di farina.
“E non hai pensato di dirmelo?” rispondo, shockata. “E perché ti sei messo a cucinare?!” domando.
“Perché stiamo facendo i biscotti.”
“Ma è ora di cena!”
“Per te, forse. Per due bambine di cinque anni è quasi ora di andare a dormire.”
Mi tolgo gli auricolari e lo guardo storta. “Non posso conoscere tua figlia, Aaron.”
“Perché no?”
“Perché la prima cosa che farà sarà andare a dire a sua madre che una ragazza con i capelli blu vive con te. Perché non ci arrivi?”
Lui si gratta la nuca. “Non ci avevo pensato. Perché non ci avevo pensato? Di solito sei tu quella che agisce senza pensare.”
“Non ci hai pensato perché sei stupido come il tuo cane, e non è il momento di dirmi una cosa del genere!” Dico, mentre Nelson gioca con le tue scarpe.
“Però non m’importa di ciò che pensa Sam, insomma, mi ha lasciato, e …”
“Non t’importa di ciò che pensa Sam ma hai il dovere di preoccuparti di ciò che pensa la bambina!” esclamo. “Come fai a non arrivarci?”
“Come fai a conoscer così bene i bambini?”
“Avevo una sorellina.” Rispondo, d’istinto.
Perché non pensa alla bambina? Perché non la tutela? Perché lui, che è l’uomo che pensa troppo, non pensa a cose importanti come questa?
Avevi?” risponde lui, basito.
Io trattengo il respiro.
Sono un mostro, Aaron. Avevo una sorellina, un padre, e una madre. Ora ho tre tombe a cui mio fratello porta i fiori. Ora ho un fratello che mi chiama ogni giorno ma io non ho il coraggio di rispondere. Avevo una famiglia, degli amici, un ragazzo. Avevo tante cose. Ora ho tanti ricordi. Alcuni belli, altri un po’ meno. Ma tutti bruciano.
Avevo, si.” Ripeto. “Dio, Aaron, il mondo di tua figlia è appeso a un filo, i suoi si sono appena lasciati e lei ha traslocato, se mi vedesse entrare in casa tua il suo mondo crollerebbe.”
“Cosa vuol dire che avevi una sorellina?”
“Non lo so, quanti significati ci leggi?” rispondo, alzando la voce ma stando comunque attenta a non farmi sentire dalle bambine in cucina. “Rimane a dormire?”
“Sì, poi le porto a scuola io domani mattina.” Replica. “Hai intenzione di darmi delle spiegazioni oppure no?”
“No!” gli dico, raggiungendo un tono di voce più o meno normale. “Nelson, lascia andare la mia scarpa. Nelson!” recupero la scarpa dalla bocca del cane e me la infilo alla velocità della luce.
Aaron mi afferra un braccio. “Tu non vai da nessuna parte, Lola, ti pare di poter sviare un argomento del genere?”
Lo guardo e vedo la preoccupazione nei suoi occhi.
E faccio una cosa che non avrei mai pensato di fare.
Seguo l’istinto più naturale del mondo.
Gli poso una mano sul viso e gli bacio le labbra.
“Torna a fare i biscotti, Aaron, sei un brav’uomo.”
Mi libero velocemente della sua presa ed esco.
 

 
   
 
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