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Autore: EternallyMissed92_    29/01/2018    10 recensioni
[Storia vincitrice del "I CONTEST FANFICTION OBSESSION GALLAVICH: WILL YOU MARRY ME?"].
A due anni e mezzo dalla morte della madre, Ian Gallagher è andato avanti con la propria vita. Abita ancora insieme ai suoi amati fratelli, lavora come paramedico e la sua malattia è sotto controllo. Ma un mattino di giugno, il ritorno di una persona a cui era particolarmente legato, cambierà i suoi piani e stravolgerà per sempre il corso della sua stessa vita.
Gallavich. Post 7x11. Angst a palate.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fiona Gallagher, Ian Gallagher, Mandy Milkovich, Mickey Milkovich, Svetlana
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Disclaimers: niente mi appartiene. Shameless US è di proprietà di John Wells e della Showtime.
Questa storia ha partecipato al “I CONTEST FANFICTION OBSESSION GALLAVICH: WILL YOU MARRY ME?” classificandosi al primo posto. Il banner vinto come premio è stato creato direttamente dalle admin della pagina Obsession Gallavich.
Titolo della storia: I Take My Leave Of You
Note dell’autore: questa one-shot, la primissima che scrivo in questo fandom (aiuto lol), è nata grazie all’iniziativa del gruppo facebook “Obsession Gallavich” che ha indetto un contest il cui tema principale è la proposta di matrimonio. Io, pur non credendo nel matrimonio, in quanto due persone possono amarsi a prescindere da esso – e convinta che Mickey ed Ian siano perfetti anche ‘solo’ come compagni –, ho voluto partecipare e provare con un tema che, da come avrete capito, mi è del tutto nuovo. Ammetto che non è stato molto facile scrivere su Ian e Mickey – soprattutto su quest’ultimo – in quanto sono personaggi molto complessi e dalle mille sfaccettature, e ho seriamente paura di essere caduta nell’OOC *sigh*. Anyway… la mia shot (vi avviso già da ora che è parecchio lunga lol) è ambientata a due anni e mezzo dalla 7x11, pertanto non tiene conto degli avvenimenti accaduti a partire dall’ottava stagione. Nonostante il tema sia romantico e fluffoso, dato che si parla di matrimonio, io ho deciso di scrivere con il mio genere preferito in assoluto: l’angst. Quindi già da ora mi preparo ad eventuali insulti alla mia persona e variopinte minacce di morte xD Vi auguro comunque buona lettura (i commenti e le critiche, se costruttive, sono sempre bene accetti) e, in caso la mia storia dovesse farvi veramente cagare, vi consiglio di stamparla: magari vi ricorderete di me quando vi ho tenuto compagnia al bagno! -Martina-.



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I TAKE MY LEAVE OF YOU

 

Il forte russare di Frank Gallagher – malamente sdraiato a pancia sotto sul divano del salotto e con un braccio penzoloni – era l’unico rumore che, quel tardo mattino d’inizio giugno, riempiva il silenzio della casa al 2119 di North Wallace. Ian soppresse uno sbadiglio mentre, abbottonandosi la divisa blu da paramedico, scendeva veloce le scale. Raggiunse il soggiorno e scosse la testa alla vista di suo padre – o presunto tale – che proprio non voleva saperne di svegliarsi, alzare il culo e fare qualcosa della sua miserabile vita.
«Cristo santo, Frank!», esclamò, chinandosi a raccogliere una fra le tante bottiglie di birra che, riversa a terra, era andata a bagnare il tappeto come una piccola pozzanghera. «Perché non vai ad ubriacarti da un’altra parte?»
Domanda retorica. Frank mugugnò qualcosa di indecifrabile nel sonno e girò la testa dall’altra parte, seppellendola fra due cuscini. Se c’era qualcuno che in quegli ultimi anni non era affatto cambiato, quello era sicuramente Frank Gallagher. Ian alzò gli occhi al soffitto e, sbuffando, si diresse in cucina. Buttò la bottiglia nella spazzatura, si sciacquò le mani e prese qualche cucchiaiata di cereali che Lip e Carl avevano avanzato nelle rispettive scodelle. Sbuffò di nuovo, e questa volta lo fece per il caldo infernale che, subdolo, aleggiava nell’aria. L’aeratore da finestra era rotto, così come il ventilatore sopra la lavatrice, e l’umidità rendeva l’ambiente quasi irrespirabile. Ian si asciugò la fronte leggermente sudata col dorso della mano e diede una rapida occhiata all’orologio che portava al polso. Il suo turno sarebbe cominciato fra meno di un quarto d’ora. Infilò l’uniforme nei pantaloni, bevve un sorso di succo d’arancia dal bicchiere di Fiona per rinfrescarsi la gola e fu pronto ad andare. Attraversò il salotto – senza risparmiare un bel dito medio indirizzato ad un Frank che ancora dormiva beatamente – ed uscì di casa.
La Jeep grigio metallizzata parcheggiata davanti al loro cancelletto aperto attirò subito la sua attenzione. Si fermò sull’ultimo gradino in legno, osservandola con occhio clinico; quell’auto di grossa cilindrata gli sembrò familiare. Quando si aprì la portiera, ogni suo dubbio venne dissipato. Improvvisamente, Ian Gallagher si rese conto che quello che sembrava essere un mattino come tutti gli altri non lo era affatto. Mandy Milkovich, in tutta la sua straordinaria bellezza, scese dalla Jeep e sorrise al suo migliore amico.
«Ciao, Ian.»
Il rosso non riusciva a credere ai propri occhi. Rimase un attimo a guardarla, sorpreso, poi sorrise anche lui e le corse letteralmente in contro. La abbracciò forte, così forte che quasi temette di spezzarle le ossa. Erano passati più di quattro anni dall’ultima volta che l’aveva vista, nonostante si sentissero per telefono circa ogni mese, ma non bastava. Non bastava mai. Lei, la sua migliore amica di sempre – l’unica che avesse mai avuto –, gli mancava come l’aria. Ian sciolse l’abbraccio e le accarezzò una guancia, spostandole la lunga frangia dietro l’orecchio. I suoi capelli, ora, erano scuri come la notte, e lui si ritrovò a pensare che il nero fosse il colore dei Milkovich per antonomasia.
«Cosa ci fai nel profondo South Side di Chicago?», le chiese infine, curioso.
Il sorriso di Mandy si spense subito e il suo volto si rabbuiò.
«Devi venire con me, Ian», gli disse, mordendosi nervosamente l’interno della guancia. «A Los Angeles.»
Ian aggrottò la fronte, fissandola come se fosse impazzita tutt’ad un tratto.
«A Los Angeles?», ripeté, ridacchiando. «Mandy, ma cosa…?»
«Non c’è tempo da perdere», lo interruppe lei, afferrandogli un braccio. «Mickey sta male.»
Il rosso si pietrificò sentendo quel nome – il nome del ragazzo che mai aveva smesso di amare – e il cuore, lo sentì, perse qualche battito.
«Cosa significa che sta male?», le domandò, e un brivido gelato gli corse lungo la schiena. «È uno scherzo?»
Fu un attimo. Mandy si aggrappò con i pugni al tessuto della sua divisa e, appoggiando la fronte contro la sua spalla, cominciò a piangere. Pianse come fosse stata una bambina, e la vide accartocciarsi su sé stessa e rompersi come una foglia ormai troppo secca. Capì che, purtroppo, non si trattava affatto di uno scherzo.
«Mickey sta morendo», singhiozzò, tirando su col naso, e qualcosa dentro di Ian si spezzò per sempre. «Io… io so che lo ami ancora, quindi… ti prego, vieni con me.»
Il rosso le rialzò dolcemente il viso e, con i pollici, asciugò quelle lacrime che – ne era certo – lei aveva pianto anche per lui. La guardò in quegli occhi pieni di dolore e tanto gli bastò per mandare a fanculo la ragione, la parte razionale e logica di sé: il suo dannato cuore aveva già deciso e lui non fu capace di ribellarsi ad esso. Semplicemente, lo ascoltò.
«Aspettami qui», le disse, dandole un bacio sulla fronte. «Torno subito.»
Rientrò in casa, fece i gradini a due a due e si precipitò nella camera che divideva con i suoi fratelli. Afferrò un borsone da sotto il letto, lo aprì e, alla rinfusa, vi gettò dentro alcuni vestiti, un po’ di soldi e le sue medicine. Quando lo chiuse, il suo cuore sembrò rimbombargli nel petto e nelle tempie. Con uno sforzo sovrumano si impedì di piangere. Non poteva farlo, non in quel momento. Ritornò di sotto e, sfilando il cellulare dalla tasca dei pantaloni, lo appoggiò sul tavolino del salotto. Decise di non lasciare alcun biglietto ai suoi fratelli per avvertirli; probabilmente non avrebbero capito la sua scelta. Così, con un sospiro, si mise il borsone in spalla e uscì nuovamente di casa. Frank non si accorse di nulla.

 

Mandy stringeva talmente forte il volante che le nocche le erano diventate bianche. I finestrini erano abbassati e l’aria calda che entrava nell’abitacolo della Jeep le scompigliava i capelli corvini. Ian prese il pacchetto di sigarette che aveva nella tasca dei pantaloni e lo allungò verso Mandy per offrirgliene una. Lei distolse un attimo lo sguardo dalla strada che si snodava davanti a loro e scosse la testa.
«Ho smesso», gli fece sapere. «E dovresti smettere anche tu.»
Il rosso alzò le sopracciglia, sorpreso, e ne prese una per sé. Erano in viaggio da circa mezz’ora e Mandy non aveva ancora proferito parola. La osservò con la coda dell’occhio, tirando dalla sigaretta, e attese. Non voleva farle alcuna pressione, non in una situazione che, da come aveva capito, era molto delicata.
«Mickey ha il cancro ai polmoni», disse infine lei, dopo qualche altro minuto di silenzio, ed Ian preferì che non avesse mai parlato. «È terminale», si passò il dorso della mano sugli occhi, cacciando indietro le lacrime.
Ian fece una fatica immane a deglutire l’enorme groppo che era andato a formarsi nella sua gola, levandogli il respiro.
«Quanto… quanto gli resta?»
Mandy si strinse nelle spalle.
«Un mese, forse anche meno», gli rispose, voltandosi per guardarlo dritto negli occhi. «Ti sto portando da lui perché prima di andarsene vorrebbe rivederti.»
Le iridi verdi di Ian si inumidirono. Dovette scostare lo sguardo e puntarlo fuori dal finestrino, incapace di sostenere oltre l’espressione di Mandy. Tirò forte dalla sigaretta e quasi pregò che il fumo bruciasse quei suoi dannati polmoni sani.
«Qualche settimana fa, un mio cliente abituale mi ha portato in Messico per una vacanza», cominciò a raccontare la ragazza, schiarendosi la voce. «Una sera siamo andati ad una festa sulla spiaggia e lì il destino ha voluto che rincontrassi mio fratello. Non potevo crederci, c’eravamo ritrovati», un sorriso fra il nostalgico e il malinconico le piegò le labbra. «Passammo insieme delle bellissime giornate, nonostante notai che non avesse affatto una bella cera, ma non ci feci troppo caso. Un mattino lo trovai svenuto nella sua stanza, con la bocca piena di sangue, e chiamai subito un’ambulanza. In ospedale gli fecero un sacco di esami e il giorno dopo scoprimmo tutto. Il mondo ci crollò addosso», si spostò velocemente una ciocca di capelli dal viso con le dita e si asciugò una lacrima. «Mickey rifiutò le cure ed io capii che non potevo lasciarlo da solo in Messico, non in quelle condizioni. Fu così che lo costrinsi ad abbandonare tutto e venire a vivere con me a Los Angeles.»
Ian rimase in silenzio tutto il tempo, assimilando ogni parola. Diede un ultimo tiro alla sigaretta, poi la gettò fuori dal finestrino.
«Perché non me ne hai parlato prima?», le domandò, sbuffando fuori il fumo dal naso. «Una settimana fa mi hai chiamato e non hai detto una sola parola a riguardo.»
«Mickey non ha voluto. Ha preferito che te ne parlassi di persona, una volta arrivata a Chicago», si giustificò, lanciandogli un’occhiata. «Per favore, Ian, non essere arrabbiato con lui. L’unica cosa che chiede è quella di poter passare il tempo che gli resta con te.»
Ian la fissò, appoggiando poi la testa contro il sedile e, straziato, chiuse gli occhi.

 

Dopo un giorno e mezzo di viaggio, in un pomeriggio particolarmente caldo, Mandy ed Ian raggiunsero Los Angeles. Parcheggiarono davanti all’abitazione della ragazza – un’elegante casa bianca di due piani – e scesero dalla Jeep. Ian si mise il proprio borsone sulla spalla e cercò di calmarsi. Si chiese in quali condizioni avrebbe trovato Mickey, se sarebbe riuscito a non piangere davanti a lui, poi Mandy interruppe il filo dei suoi pensieri prendendogli la mano ed intrecciando le dita con le sue.
«Andiamo?», chiese, in un sussurro, e lui annuì.
Si incamminarono verso la casa e, una volta entrati, Ian si bloccò sulla soglia del salotto, il cuore martellante nel petto. Mickey era seduto su una poltrona, con una sigaretta che bruciava in bilico tra le sue labbra. Era pallido, smagrito, a tratti sembrava persino invecchiato, ma il rosso lo trovò comunque bellissimo. Mandy lasciò andare la mano di Ian e si diresse spedita verso il fratello, strappandogli di bocca la sigaretta.
«Devi smetterla di fumare, maledetta testa di cazzo!», lo rimbrottò, spegnendola nel posacenere. «Ti fa male!»
«Più male della merda che ho già nei polmoni?», ribatté prontamente lui, sfidandola con lo sguardo.
Mandy sospirò e strinse i pugni.
«Vaffanculo», sibilò, dandogli le spalle e voltandosi infine verso l’amico. «Vi lascio soli», esclamò, salendo veloce le scale che portavano al piano di sopra.
Mickey la osservò lungo tutta la rampa e, una volta sparita dal proprio campo visivo, si sporse in avanti per afferrare il pacchetto di Marlboro. Si ficcò in bocca una sigaretta e la accese. Infine sollevò lo sguardo su Ian, scrutandolo a fondo con i suoi occhi di ghiaccio.
«Ti trovo bene, Gallagher», sorrise, sbuffando fuori una nuvola di fumo. «Non puoi certo dire lo stesso di me.»
«Mandy ha ragione», esordì Ian, mollando il proprio borsone sul pavimento ed accomodandosi sul divano. «Dovresti darci un taglio con il fumo.»
Mickey ridacchiò, scuotendo la testa.
«Sono già con un piede nella fossa», proruppe, allargando le braccia. «Che cazzo possono farmi delle stupide sigarette?»
«È forse un gioco per te, Mickey?», sbottò il rosso, innervosito.
«No», Mickey picchiettò la sigaretta per far scendere la cenere. «Esattamente come non è un gioco chiederti di sposarmi.»
Ian aggrottò la fronte davanti a quella richiesta del tutto inaspettata.
«Sei serio?»
«Mai stato così serio in vita mia», gli rispose l’altro.
«Mickey, ma tu stai…», la sua voce si incrinò e fu costretto a serrare gli occhi per reprimere le lacrime. «Tu stai morendo», mormorò infine, riaprendo le palpebre e guardando un punto indistinto del pavimento per non incrociare lo sguardo del moro. «Come puoi chiedermi di sposarti?»

«Qualcuno un giorno mi disse che per lui il matrimonio non era solo un fottuto pezzo di carta», Mickey fece un ultimo tiro, schiacciando poi il filtro nel posacenere. «Ed ora è lo stesso anche per me.»
Il rosso non riuscì a credere alle proprie orecchie. Si passò una mano fra i capelli, nervoso, e scosse la testa.
«Perché vuoi che ci sposiamo?», domandò, confuso.
«Devo proprio dirlo? Non è forse ovvio?», Mickey sorrise, poi si torturò il labbro inferiore con i denti e, alzandosi infine dalla poltrona, si accovacciò davanti ad Ian. «Sei parte di me», incatenò gli occhi a quelli del rosso e allungò una mano per poter passare le dita sul colletto della sua divisa e stringerla. «Sei sotto la mia pelle, che cazzo posso farci?»
Ian deglutì a vuoto. Il respiro gli si mozzò nel risentire le stesse identiche parole che il moro, esattamente due anni e mezzo prima, gli disse dopo avergli proposto di scappare in Messico insieme a lui. Aprì la bocca, ma Mickey fu più veloce e gli impedì di dire qualsiasi cosa.
«Ian Gallagher, vuoi sposarmi?», gli chiese, sollevando le sopracciglia. «Tanto rimarresti vedovo nel giro di poco tempo», aggiunse, ironico, cercando di allentare la tensione che aleggiava intorno a loro.
Ian volle soltanto baciarlo. E lo fece. Si protese con la schiena e, prendendogli il mento tra due dita, appoggiò le labbra sulle sue con foga. Mickey si sbilanciò e quasi cadde all’indietro, ma l’altro lo afferrò subito per le braccia. Risero nel bacio e Mickey si aggrappò saldamente alle cosce di Ian per reggersi. Quando si separarono i loro respiri erano corti ed affannati, le bocche gonfie e umide di saliva.
«Era forse un sì, Gallagher?», esclamò Mickey, ridacchiando.
«Sì», disse solamente l’altro, allargando il sorriso.
Il moro sorrise di rimando e, rialzandosi da terra, gli scompigliò i capelli. Sparì per qualche secondo in cucina e tornò indietro con due birre già stappate.
«In Messico mi sono arricchito parecchio», iniziò, mentre passava la bottiglia in mano ad Ian e si sedeva di fronte a lui sul tavolino sgombro. «Sono riuscito a farmi un nome, a trovare la mia strada.»
«Davvero?», esclamò stupito il rosso.
Mickey prese un sorso di birra, poi annuì.
«Mi sono fatto un buon giro vendendo illegalmente droghe ed armi», gli fece sapere, alzando beffardo un angolo della bocca, ed Ian lo fissò subito in tralice, esasperato. «Non guardarmi così, Gallagher. Non ho né arte né parte, che cazzo avrei potuto fare?»
«Non lo so, provare a sistemare una volta per tutte la tua vita ed evitare i casini, per esempio?», lo apostrofò il rosso. «Hai rischiato grosso. La polizia ti sta alle calcagna.»
«No, la polizia ha smesso di cercarmi dopo un anno e mezzo dalla mia evasione*», precisò, appoggiando la bottiglia di fianco a sé. «E la mia vita è sempre stata un casino.»
«Anche la mia vita lo era, ma poi ho messo la testa a posto», controbatté Ian, lanciandogli un’occhiata eloquente. «Sono una persona nuova.»
«Già. Però ora sei qui con me», lo stuzzicò Mickey, facendogli l’occhiolino.
Ian sospirò, scuotendo la testa.
«Non sei per niente cambiato.»
«Dovresti esserne contento, Gallagher», ridacchiò, mettendosi in piedi. «Con il matrimonio saremo legalmente sposati. Una volta che sarò morto, tu erediterai tutti i miei soldi e potrai aiutare la tua famiglia.»
Il rosso sbatté le palpebre, la bottiglia a mezz’aria. Mickey non gli diede nemmeno il tempo di proferire parola. Salì subito le scale ed Ian, fissandogli neanche troppo velatamente il culo, non seppe più cosa diavolo avrebbe voluto dire.

 

Quella sera stessa, Ian disfò velocemente il borsone. Prese una maglietta ed un paio di pantaloncini con cui avrebbe dormito quella notte e riempì l’armadio della camera di Mickey con i restanti vestiti. Appoggiò le proprie medicine sul comodino vicino al letto e sospirò. Mickey entrò nella stanza mentre si stava sfilando l’uniforme da paramedico. Gli sorrise e, quasi senza neanche rendersene conto, si ritrovò con la schiena premuta contro il materasso, il moro che lo sovrastava, seduto a cavalcioni sopra di lui. Ian ridacchiò alla sua audacia e, con un colpo di reni, ribaltò le posizioni. Fissò il compagno negli occhi, poi lo baciò dolcemente. Mickey rispose con ardore a quel bacio e, facendo scorrere una mano tra di loro, la mise in mezzo alle gambe del rosso, accarezzandolo. Ian si scostò di scatto, bloccandogli subito il polso, improvvisamente inquieto.
«Mickey, forse non dovremmo…»
«Stai zitto e scopami, Gallagher», lo ammonì subito Mickey. «Potrebbe essere l’ultima volta che ho la forza necessaria per farlo. Non sprechiamola.»
Ian lo guardò, in silenzio. Poi annuì piano alla richiesta dal compagno. Finì di svestirsi, gettando pantaloni e boxer a terra, e quando Mickey, dopo essersi spogliato anche lui, fece per girarsi a pancia sotto, con delicatezza lo prese per una spalla, fermandolo.
«No», mormorò, e il moro cercò subito di ribattere, ma lui gli impedì di dire qualsiasi cosa. «Voglio guardarti.»
Mickey non poté fare a meno di sciogliersi in un sorriso. Ian intrecciò le dita con quelle del compagno, si fece spazio fra le sue gambe e, lentamente, si spinse dentro di lui. Lo baciò sul collo, muovendosi piano, e Mickey, stringendo le palpebre, a poco a poco si abituò a quella deliziosa intrusione. Si aggrappò alle spalle larghe del rosso, gli strinse i fianchi con le cosce e, mordendosi il labbro, respirò forte dal naso. Ian gemette e, appoggiando la fronte sudata contro quella del compagno, aumentò la velocità e l’intensità delle proprie spinte. Mickey, ora con la bocca spalancata, dovette reclinare la testa all’indietro, stordito dal piacere. L’orgasmo arrivò in fretta, in tutta la sua primordiale potenza, lasciandoli senza fiato. Ian crollò sul petto del compagno, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo accaldato. Mickey lo tenne stretto a sé e, ad occhi socchiusi, sorrise beato.
«Quanto mi sei mancato, cazzo», mormorò, passando le dita fra i suoi capelli.
Ian sorrise anche lui e, quando il suo respiro tornò regolare, sollevò lo sguardo per poterlo guardare. Uno strato sottile di sudore rendeva lucida la pelle del suo viso, gli occhi azzurri brillavano e le guance erano leggermente arrossate. Era uno spettacolo celestiale, quasi divino. Gli accarezzò la fronte, in estasi completa. In quell’istante, Ian pensò che Mickey non era mai stato così bello.

 

****

 

Le pale silenziose del ventilatore appeso al soffitto giravano lente, rilasciando un flebile refolo d’aria fresca nella camera da letto. Ian aprì pigramente le palpebre, un ciuffo scompigliato di capelli rossi gli solleticava la fronte. Il respiro greve di Mickey, addossato con la schiena al suo petto nudo, era l’unico rumore che rompeva la quiete della stanza. Il rosso avvicinò il viso alla nuca del compagno e vi lasciò un bacio leggero, prima di infilare il naso nell’incavo del suo collo ed annusarne l’odore. Amava farlo. Amava perdersi nel profumo naturale della sua pelle. Da una settimana a quella parte, il suo risveglio era la cosa più bella del mondo. Le dita delle loro mani erano intrecciate ed Ian sorrise, strusciando poi una tempia contro la guancia dell’altro come fosse un gatto in cerca di coccole. Mickey si mosse e, lentamente, si svegliò.
«Buongiorno», gli sussurrò all’orecchio.
Il moro bofonchiò qualcosa in risposta e con la mano libera si stropicciò gli occhi, girandosi infine verso il compagno. Ian allungò immediatamente un braccio per potergli accarezzare il volto ancora tiepido di sonno con i polpastrelli.
«Stavo pensando ad una cosa», gli disse, a voce bassa.
«Non è mai un buon segno quando pensi», lo prese in giro Mickey, un sorriso canzonatorio stampato sulle labbra piene.
Ian fece finta di non sentire quel commento a dir poco ironico.
«Pensavo che potremmo sposarci in un campo da baseball», propose, puntellando il gomito sul materasso ed appoggiando così la testa sul palmo aperto della mano. «Tu sei già divorziato, quindi il matrimonio in chiesa è da escludere. Il campo da baseball sarebbe l’ideale. È il nostro posto, dopotutto. Basterebbe avere il permesso dal comune, un’amica qualsiasi di Mandy che mi faccia da testimone e il gioco è fatto.»
Mickey ascoltò tutto quel fiume in piena di parole, poi lo guardò con un sopracciglio inarcato.
«Fottiti, Gallagher!», ridacchiò, dandogli una pacca scherzosa sul torace.
«Sei veramente uno stronzo», esclamò il rosso, mettendo su un broncio talmente assurdo che l’altro non poté fare a meno di ridere di nuovo. «Io parlavo sul serio.»
«Oh, questo non lo metto in dubbio, ragazzaccio**.»
Ian sbuffò esasperato e si sistemò dritto sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca. Quello fu un invito troppo succulento per Mickey, il quale gli si mise sopra a cavalcioni e cominciò a solleticargli i fianchi. Il rosso si contorse come se fosse stato toccato da un tizzone ardente. Gonfiò le guance e cercò di resistere, ma quando il compagno lo stuzzicò sotto al tatuaggio raffigurante un’aquila sul fucile, decise di passare al contrattacco. La camera si riempì di risate e gridolini soffocati per svariati minuti. Il primo a cedere fu comunque Ian; con una spinta leggera fece scendere dal proprio corpo massiccio il compagno, che rotolò subito su un fianco. Si guardarono, scoppiando a ridere di tanto in tanto, e Mickey immerse le dita nei capelli arruffati dell’altro.
«Come se la passa il ciuccia latte?», chiese all’improvviso.
Ian fu sorpreso da quella domanda del tutto inattesa e sorrise, capendo subito a chi si stesse riferendo.
«Yevgeny sta bene», gli rispose. «Ma non è più un ciuccia latte, ormai ha sei anni», aggiunse, scoccandogli un’occhiata divertita. «Ti piacerebbe vedere qualche sua foto?»
Mickey fece spallucce, fingendo nonchalance. Mai avrebbe ammesso che, nonostante fosse figlio di uno stupro ai suoi danni, provasse affetto nei confronti di quel piccoletto dal nome quasi impronunciabile. Ian si sporse verso il comodino e, allungando un braccio, afferrò il portafoglio.
«Svetlana lo sta crescendo bene», gli rese noto, mentre sfilava da una delle piccole tasche interne due istantanee scattate con una vecchia polaroid. «Adesso mi permette di vederlo ogni volta che voglio.»
Mickey prese in mano le fotografie di suo figlio e i suoi occhi, inaspettatamente, si fecero lucidi. In una era in braccio a Svetlana, infagottato nel suo cappottino, durante una giornata invernale passata al parco; nell’altra era seduto sulle spalle di Ian, che lo teneva per le gambine, mentre faceva la linguaccia ed indicava col piccolo indice l’obbiettivo. Entrambi ridevano allegri, e Mickey pensò a tutto il tempo passato lontano da lui – tempo che più nessuno gli avrebbe mai ridato indietro –, da quel bellissimo bambino dai capelli color del grano.
«Vi somigliate molto», la voce di Ian spezzò il filo dei suoi pensieri. «Avete gli stessi occhi e lo stesso modo di alzare le sopracciglia.»
Il moro si toccò il naso – come sempre quando era nervoso o vinto dalle emozioni – e restituì le foto ad Ian.
«Sono un padre di merda», esordì, mordendosi il labbro. «Non sono mai stato presente nella sua vita, non credo di averlo mai neanche visto muovere i suoi primi passi, però… cazzo, io voglio bene a quel bambino e so che è troppo tardi per rimediare, ma devo provarci», gli confessò con estrema difficoltà, guardandolo negli occhi. «Ho tenuto da parte un po’ di soldi per lui, per il suo futuro. Quando non ci sarò più, voglio che tu glieli dia.»
Ian rimase sinceramente colpito da quelle parole. Si sciolse in un sorriso, poi lo baciò piano sulla bocca.
«Lo farò», gli promise.             
E Mickey sorrise anche lui.

 

Erano da poco passate le nove e mezza di sera. Mandy, seduta intorno al bancone della cucina, stava mangiucchiando del gelato direttamente dalla vaschetta quando Mickey scese e la raggiunse. Da un cassetto tirò fuori un coltellino, poi aprì il frigorifero, afferrò due lattine di birra ed infilò il tutto nello zaino che aveva in spalla.
«Dove vai?», gli domandò subito la sorella.
«Esco con Ian.»
Mandy si allarmò.
«Sei sicuro?»
«Sì, stronzetta, sono sicuro», Mickey alzò un sopracciglio, lanciandole un’occhiata eloquente. «Sto bene. E tu dovresti smetterla di affogare le tue preoccupazioni per me nel cibo. Finirai col diventare una palla di lardo piena di cellulite.»
Mandy, pur sapendo che il fratello la stava amorevolmente prendendo in giro, non esitò a mostrargli il dito medio.
«Coglione», borbottò.
Mickey ridacchiò, scompigliandole i capelli, poi andò in salotto. Lì scorse il profilo di Ian che, immerso nel buio e con aria piuttosto annoiata, era svaccato sul divano a guardare una stupida commediola romantica.
«Alza quel tuo bel culetto bianco, Gallagher», gli sussurrò all’orecchio, cingendogli da dietro il collo. «Voglio portarti in un posto.»
Il rosso lo guardò con la coda dell’occhio.
«Dove andiamo?», gli chiese, curioso.
«A rivivere i bei vecchi tempi.»
Ian aggrottò la fronte a quella risposta vaga, ma non riuscì comunque a trattenere un sorriso.

 

Per un esperto come Mickey scassinare il lucchetto all’entrata del campo da baseball fu un gioco da ragazzi. A lavoro compiuto fece l’occhiolino ad Ian, il quale gli sorrise complice. Attraversarono il campetto, guidati dalla luce dei fari ancora accesi, e giunsero davanti al reticolato che proteggeva le gradinate. Mickey aprì lo zaino, estrasse il coltellino e lo infilzò con un colpo secco nella lattina di birra. Il liquido giallastro schizzò fuori mentre la passava ad Ian, che fulmineo se la portò subito alla bocca, sollevando la linguetta e trangugiando con gusto. Il moro rimase a guardarlo, divertito, poi lo imitò e bevve anche lui la sua birra. Si appoggiarono entrambi alla rete, ridendo soddisfatti e contenti, i menti gocciolanti.
«Mi è mancato tutto questo», sospirò Ian, reclinando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.
«Anche a me», ammise l’altro, facendo schioccare la lingua. «Cazzo, potremmo persino sposarci per davvero in questo posto.»
Il rosso riaprì di scatto le palpebre, incredulo.
«Dici sul serio?»
Mickey annuì, e il sorriso che gli regalò Ian in quel preciso istante fu il più bello che avesse mai visto. I fari del campo si spensero e il moro approfittò di quell’atmosfera mite per chinarsi e trafficare nello zaino. Con immenso stupore da parte del compagno, tirò fuori una coperta, distendendola sul terreno. Si sdraiò sopra di essa e scoccò un’occhiata fugace all’altro per invitarlo a fare lo stesso. Ian, con il cuore che batteva all’impazzata senza un apparente motivo, non se lo fece ripetere di nuovo e si adagiò di fianco a lui. Rimasero in silenzio per qualche minuto, assaporando l’aria tiepida di quella serata tipicamente estiva che muoveva leggera le foglie degli alberi circostanti. Ian sorrise tra sé e sé: neanche nei suoi sogni più reconditi avrebbe mai osato pensare che sarebbero davvero finiti a guardare le stelle sdraiati su di una coperta. Si girò con la testa verso il compagno e gli prese la mano, intrecciando le dita alle sue.
«Mi dispiace averti abbandonato al confine col Messico, anni fa», gli rivelò all’improvviso, appoggiando la fronte contro la sua spalla.
Mickey osservò distrattamente la fetta di luna che era appena comparsa in cielo.
«Non ho mai biasimato fino in fondo la tua scelta», mormorò, mordendosi il labbro. «Ce ne saremmo pentiti entrambi. Tu stavi lasciando una famiglia che ti amava e un lavoro che ti piaceva, io ero solo un avanzo di galera, un latitante… che vita avresti mai potuto fare, con me?», si lasciò andare ad un sospiro affranto. «Il solo rammarico che ho è quello di non essere riuscito a farti vedere la spiaggia.»
Ian sollevò lo sguardo su di lui.
«Potremmo andare in Messico», esclamò. «Come meta del nostro viaggio di nozze», aggiunse subito. «Mi piacerebbe stare in spiaggia, a sorseggiare tequila sotto il sole e guardare il mare insieme a te come una perfetta coppia di checche innamorate.»
Mickey lo fissò e, rifilandogli una gomitata giocosa nel fianco, scoppiò a ridere. Con uno scatto balzò sopra di lui, bloccandogli i polsi. Poi, tutt’ad un tratto, gli irrigatori spuntarono fuori dal terreno e cominciarono a bagnare il prato. La potente gittata d’acqua di uno di essi arrivò a colpire in pieno volto Ian, inzuppandogli subito anche i capelli. Cercò di divincolarsi, ma Mickey, ridendo, lo teneva giù, saldamente inchiodato a terra. Il rosso si dimenò, muovendo la testa di continuo per evitare che tutta quell’acqua gli bloccasse il respiro, e alla fine riuscì a liberarsi dalla morsa del compagno con una spinta.
«Questa me la paghi, stronzo», esclamò, tirandosi su a sedere ed asciugandosi come meglio poteva il viso.
Mickey, in tutta risposta, gli fece la linguaccia. Si alzò e scappò via, proprio come un bambino dopo essere stato scoperto a combinare una marachella. Ian scosse la testa, non trattenendo comunque una leggera risata. Restò a guardarlo mentre compiva il giro del campetto, facendo lo slalom fra gli irrigatori, poi un moto di paura gli procurò un brivido alla bocca dello stomaco.
«Mickey, ora basta, fermati!», gli ordinò, urlando per farsi sentire. «Affaticherai i polmoni!»
Il moro gli fece il dito medio da lontano, senza la benché minima intenzione di arrestare la propria corsa. Ian roteò gli occhi, sospirando. Fu costretto ad alzarsi anche lui e partire all’inseguimento di quell’idiota scriteriato per fermarlo al più presto. Fortunatamente le sue gambe erano ben allenate – frutto degli addestramenti militari – e non gli ci volle poi molto per raggiungerlo ed agguantarlo per un braccio. Mickey si piegò in avanti, appoggiando le mani sulle cosce. Aveva il fiato corto e pesantemente affannato, ma sorrideva; la sua canottiera era leggermente umida di acqua, così come i pantaloni e le sneakers consumate che portava ai piedi. Ian si pettinò i capelli bagnati all’indietro ed attese che il compagno si calmasse. Quando sentì che il respiro di Mickey era tornato regolare, premette una mano sul suo petto e, delicatamente, lo fece indietreggiare finché non ebbe toccato la recinzione del campo con la schiena. Appoggiò la fronte contro la sua, sorridendo, e infine lo baciò. Mickey si lasciò trasportare da quel bacio dolce e profondo e, circondandogli i fianchi con le braccia, lo strinse forte contro di sé, felice.

 

****

 

Ian si ficcò una sigaretta in bocca e, infilando una mano nella tasca destra dei jeans, cercò l’accendino. Non lo trovò. Provò nella tasca sinistra e in quelle di dietro, ma dell’accendino neanche l’ombra. Aprì il vano portaoggetti della Jeep, ma si ricordò che Mandy aveva smesso di fumare. Si maledì mentalmente e mise la sigaretta spenta sopra l’orecchio, capendo che non sarebbe mai riuscito a stemperare la tensione che aveva addosso. Quel mattino, a casa Milkovich, era arrivata una chiamata dalla gioielleria in cui li avvisavano che le fedi nuziali erano pronte e lui, per l’emozione, era entrato nel panico. Sbuffò, mentre i suoi occhi continuavano, imperterriti, a scrutare attraverso la vetrina trasparente della oreficeria per poter spiare la figura di Mandy. Avevano concordato di andare a ritirare gli anelli insieme, ma la sua migliore amica aveva pensato bene di chiuderlo dentro la Jeep per impedirgli di entrare nel negozio con lei. Lui l’aveva guardata senza capire, battendo i palmi delle mani contro il finestrino in segno di protesta, e Mandy, ridendo, gli aveva fatto segno con l’indice di stare zitto prima di sparire oltre l’entrata.
E così lui era lì, intrappolato come un topo in gabbia, ad aspettare. Il caldo cominciava a farsi insopportabile dentro quella dannata macchina. Si asciugò la fronte madida di sudore e decise di accendere il climatizzatore. Nervoso, guardò di nuovo fuori dal finestrino e finalmente vide Mandy uscire dalla gioielleria. La ragazza corse verso la propria auto, girò la chiave nella toppa e, aprendo la portiera, salì al posto del guidatore. Il sorriso che aveva stampato sulla bocca era a dir poco sgargiante.
«Posso sapere perché mi hai chiuso qui dentro?», le domandò Ian, con cipiglio severo.
«Eri troppo agitato», rispose lei, alzando le sopracciglia e ghignando. «Temevo che, una volta entrato nel negozio, saresti svenuto.»
«Fanculo!», sbottò il rosso, incrociando le braccia sul petto e voltando la testa dall’altra parte.
Mandy non poté fare a meno di ridere.
«Sei davvero una regina del dramma», lo apostrofò scherzosamente e, aprendo la scatolina di velluto blu, si sporse verso di lui per sventolargliela davanti al naso. «Non sei curioso di vederle?»
Ian non riuscì a resistere e abbassò gli occhi per guardare. Con dita tremanti prese una delle due piccole fedi: era argentata, sottile e brillante, esattamente come la sua gemella, solo un po’ più stretta. Capì che quella che stava stringendo fra i polpastrelli era la fede che avrebbe indossato lui. Osservò l’incisione all’interno dell’anello e notò che vicino al nome del suo futuro sposo c’era una data. Finalmente scoprì il giorno – che Mickey non aveva mai voluto svelargli – in cui si sarebbero sposati: il ventinove giugno.
«Ti piace?», gli chiese Mandy, ansiosa di conoscere il suo giudizio.
Ian non fu capace di risponderle dalla gioia. Si limitò a sorriderle e ad abbracciarla; sapeva che la sua migliore amica aveva sempre avuto ottimi gusti per quel genere di cose.
«Grazie», le mormorò all’orecchio.
Mandy sorrise contenta e lo abbracciò ancora più forte.

 

Quando tornarono a casa, Mickey non era più sul divano del salotto. I due amici si guardarono, allarmati, e corsero su per le scale. Lo trovarono nella sua camera da letto, davanti allo specchio, mentre si stava provando il vestito – comprato quasi due settimane prima – che avrebbe indossato al matrimonio. Ian e Mandy, all’unisono, tirarono un sospiro di sollievo.
«Sembri un pinguino», esclamò lei, cercando di sciogliere l’ondata di paura che le aveva attanagliato la gola pochi secondi prima.
Mickey si voltò verso la sorella e, molto elegantemente, le mostrò il dito medio.
«E tu sembri una stronza», ribatté per le rime. «Anzi, no, lo sei
«Idiota», borbottò Mandy, scuotendo il capo e dileguandosi.
Ian si avvicinò al compagno e gli raddrizzò il papillon. Lo guardò negli occhi e non gli ci volle poi molto ad accorgersi che il moro si sentiva in imbarazzo vestito in quel modo così lontano dal suo stile.
«Sono calato di altri tre cazzo di chili, questa settimana», si lamentò, schiarendosi la voce e ritornando a guardarsi allo specchio. «Ho voluto provarlo per vedere se mi calzava ancora bene», si giustificò.
Ian sorrise e, appoggiando il mento sopra la sua spalla, lo cinse da dietro.
«Sei bellissimo», gli disse, fissando negli occhi il suo riflesso.
Mickey lo fissò di rimando, in silenzio, non sapendo bene come reagire a quell’affermazione. Nessuno gli aveva mai detto che era bellissimo prima di quel momento. Ian gli diede un piccolo bacio sul collo e lo liberò dal suo abbraccio. Guardò Mickey svestirsi, poi lo aiutò a riporre cautamente il vestito nel cellophane e ad appenderlo nell’armadio. Si distesero entrambi sul letto e Ian tirò fuori dalla tasca dei jeans la piccola custodia vellutata; la aprì, rimirando felice le fedi argentate, e infine la passò a Mickey per farle vedere anche a lui.
«Perché hai scelto proprio il ventinove giugno come data per sposarci?», gli domandò, curioso, incrociando le braccia dietro la testa.
Il moro fece spallucce, ma sorrise.
«È una data come un’altra, Gallagher.»
Ian finse di crederci, nonostante il sorriso malcelato sulla bocca del compagno non gliela raccontava giusta. Si girò verso di lui e gli circondò la vita con un braccio, serrando gli occhi. Mickey passò la punta dell’indice sulle fedi come per saggiarne la consistenza: erano reali, splendide, ma soprattutto erano loro. Infine chiuse la scatolina e la appoggiò sul comodino. Contemplò il rosso per qualche istante, poi rivolse lo sguardo al soffitto e sorrise di nuovo, ripensando a quel ventinove giugno di tanti anni addietro in cui smise di avere paura e, per la prima volta, baciò Ian Gallagher.***

 

****

 

Le condizioni di Mickey cominciarono lentamente a peggiorare. Il pallore sul suo volto si era fatto più marcato, così come la stanchezza, l’inappetenza e la forte tosse. Il dolore era quasi diventato insopportabile ed era Ian stesso a fargli le iniezioni di morfina quando non riusciva più a tenerlo sotto controllo. Ma lui continuava a sorridere, così maledettamente attaccato a quelle poche briciole di vita che gli rimanevano. Quella sera erano seduti sul divano a guardare uno dei soliti programmi spazzatura tanto adorati da Ian, il quale era sdraiato e aveva la testa appoggiata sulle cosce del compagno. Mickey gli stava accarezzando piano i capelli – era una cosa che lo calmava maledettamente – quando il rosso, tutto ad un tratto, sbuffò una risata dal naso.
«Che cazzo hai da ridere?», gli chiese allora, inarcando un sopracciglio.
Ian sollevò lo sguardo su di lui, il riflesso della televisione accesa gli dipingeva il volto in uno strano gioco di colori azzurrognoli.
«Siamo in procinto di sposarci, ma ancora non abbiamo avuto il nostro primo appuntamento», esclamò.
Mickey lo fissò, sbattendo le palpebre.
«Cazzo, hai ragione», si passò una mano sulla nuca. «Beh, possiamo sempre rimediare e andare fuori a cena.»
«Davvero?», il rosso si alzò di scatto con la schiena, puntellandosi sui gomiti per sostenersi. «E quando?»
«Anche questa sera stessa, se vuoi.»
Ian sorrise, ma la sua felicità si spense non appena notò che il volto di Mickey era abbastanza distrutto. Abbassò lo sguardo, rimanendo in silenzio: mai si sarebbe permesso che il compagno si affaticasse per un suo stupido capriccio.
«Ci stai forse ripensando, Gallagher?», il moro gli schioccò le dita davanti al naso. «Non vuoi uscire?»
«Mi piacerebbe, ma tu sei stanco», gli disse allora. «Non voglio che…»
«Stronzate», sbottò subito Mickey, alzandosi in piedi. «Sto bene. E questa sera avremo il nostro cazzo di primo appuntamento.»
Ian rimase a fissarlo per qualche secondo e capì che, anche se avesse provato a protestare, Mickey sarebbe stato irremovibile sulla sua decisione.
«Va bene», acconsentì, non troppo convinto.
Salirono in camera per cambiarsi. Il caldo estivo era opprimente anche durante le ore serali, così entrambi optarono per delle camicie di seta chiara e dei jeans leggeri. Quando furono pronti, andarono nella stanza di Mandy per avvisarla della loro uscita. La ragazza non disse nulla, ma guardò con aria preoccupata Ian, che le rivolse lo stesso sguardo.
Raggiunsero il ristorante più vicino dopo circa un quarto d’ora. La Jeep di Mandy era dal meccanico, così dovettero usare la vecchia auto di Mickey. Il locale era piccolo ma accogliente e un buon profumo si spandeva per l’aria. Si sedettero ad un tavolo al centro della sala e, dopo aver dato una fugace scorsa al menu, chiamarono un cameriere per ordinare. L’apprensione di Ian scemò lentamente, lasciando spazio all’emozione che gli procurava essere al suo primo, vero appuntamento con Mickey. Si guardò un po’ in giro, scrutando l’ambiente circostante. Le pareti erano in legno, le luci soffuse degli eleganti lampadari appesi al soffitto regalavano un’atmosfera romantica e il lieve chiacchiericcio dei commensali intorno a loro offriva un sottofondo quasi familiare. Osservò Mickey con la testa inclinata da un lato, sorridendo.
«È davvero un bel posto», apprezzò, sincero.
«Già», concordò l’altro. «E anche parecchio costoso.»
Ian gli lanciò un’occhiataccia.
«Ti sembra questo il momento di fare il tirchio?», esclamò, prendendolo in giro.
Mickey non fece in tempo a ribattere. Cominciò a tossire e il sapore ferroso del sangue gli risalì lungo la gola. Afferrò veloce il tovagliolo e, premendoselo contro la bocca, ne macchiò di rosso il tessuto. Guardò il proprio compagno che, paonazzo in volto, lo fissava sconvolto, prima di crollare a terra svenuto. Ian si alzò di scatto, facendo cadere dietro di sé la sedia con un tonfo secco. Si gettò in ginocchio vicino a Mickey, gli slacciò i primi bottoni della camicia per aiutarlo a respirare meglio e gli picchiettò il viso con le mani cercando di fargli riprendere i sensi. Alcuni dei clienti si avvicinarono, bisbigliando parole incomprensibili, e lui sollevò gli occhi infuocati su di loro.
«Non state lì impalati a guardare, cazzo!», gridò, disperato. «Chiamate il 911!»

 

Dopo una serie di esami ed accertamenti, Mickey fu ricoverato in ospedale. Ian avvertì Mandy usando uno dei telefoni della struttura e lei, servendosi di un taxi, riuscì a raggiungerlo dopo una ventina di minuti. Si abbracciarono e Mandy pianse col viso affondato nell’incavo del suo collo, bagnandogli la camicia. Ian le accarezzò la schiena, cercando invano di calmarla. Si sedettero sulle poltrone della sala d’attesa, tenendosi forte per mano, e aspettarono. Passò circa un’ora prima che un dottore in camice bianco si dirigesse verso di loro.
«Siete i parenti del signor Milkovich?»
«Sono il suo compagno», disse subito Ian, scattando in piedi. «Lei è la sorella», aggiunse, indicando Mandy, ancora seduta, con un cenno della testa. «Come sta Mickey?»
«Ora è stabile e vigile. Date le sue condizioni preferiamo tenerlo in osservazione per le prossime ventiquattro ore», gli rispose il medico, sistemandosi gli occhiali da vista sul naso. «Quando avremo gli esiti degli esami, decideremo cosa fare.»
«Possiamo vederlo?», domandò infine Mandy, con un filo di voce.
«Sì, ma evitate di affaticarlo troppo. Ha bisogno di riposare.»
Lo ringraziarono e il dottore, stringendo loro le mani, se ne andò. Ian circondò le spalle di Mandy per sostenerla – nonostante stesse cadendo a pezzi anche lui – ed entrarono nella stanza. Mickey aveva le palpebre leggermente socchiuse, ma non dormiva. Due piccole cannule erano all’interno delle sue narici per farlo respirare, una flebo era piantata nel suo braccio sinistro e un monitor registrava il suo battito cardiaco. Ian volle solo piangere. Si sedette sulla sedia vicino al letto, mentre Mandy, troppo straziata, preferì restare in piedi, in disparte.
«Ehi», sussurrò appena, e Mickey aprì del tutto gli occhi per guardarlo. «Ci hai fatto prendere un bello spavento, lo sai?»
«Scusa», la sua voce era roca e bassa, così cercò di schiarirsela. «Siamo destinati a non avere mai il nostro primo appuntamento.»
«Non ci pensare», Ian gli prese la mano, accarezzandone piano il dorso con il pollice. «Ora dormi.»
Mickey annuì flebilmente, chiudendo le palpebre. Si addormentò pochi minuti più tardi e Ian, appoggiando la fronte sul proprio avambraccio, poté finalmente liberare quelle lacrime da troppo tempo trattenute.

 

Era pomeriggio inoltrato quando un medico di mezz’età, con i capelli brizzolati e gli occhi chiari, varcò la soglia della stanza di Mickey. In mano stringeva la sua cartella clinica.
«Potete lasciarci soli?», chiese, guardando Ian e Mandy. «Devo parlare col paziente.»
«No», rispose per loro Mickey. «Voglio che restino.»
Il dottore lo fissò un attimo, poi acconsentì. Chiuse la porta e, mettendosi di fianco al letto, aprì la cartella.
«Le sue condizioni sono estremamente gravi, signor Milkovich» gli disse, sollevando lo sguardo dal foglio per poterlo guardare negli occhi. «Il cancro si è diffuso. Gli esami fatti ieri sera hanno rilevato la presenza di una metastasi nel cervello.»
Ian, esattamente come Mandy, raggelò a quella notizia. Il cuore saltò un battito; la consapevolezza che il tempo da passare con Mickey stava per scadere lo travolse all’improvviso, come uno schiaffo in pieno volto.
«Le consigliamo di rimanere in ospedale», continuò il dottore. «Procederemo con dei cicli di chemioterapia per…»
«No!», lo interruppe il moro. «Non voglio stare un minuto di più in questo posto!»
«Signor Milkovich, capisco che lei adesso sia turbato, ma la sua situazione peggiorerà di giorno in giorno. Con le nostre cure potrebbe vivere un po’ più a lungo e…»
«Non me ne frega un cazzo delle vostre dannate cure!», sbottò, con quel poco fiato che gli era rimasto. «Voglio essere dimesso! Ora!»
Il medico sospirò.
«Se è questo quello che vuole...»
«Ma dottore, lei non può lasciarlo andare!», protestò Ian, alzandosi in piedi di scatto. «Non può farlo!»
«Non posso nemmeno obbligare i pazienti a restare quando non vogliono. D’altro canto, il signor Milkovich è abbastanza adulto per prendere le proprie decisioni», soggiunse, chiudendo la cartella. «Ora, se volete scusarmi, devo proseguire con le visite», e così si congedò, lasciando i tre soli nella stanza.
Mickey firmò le dimissioni una ventina di minuti più tardi. Quando tornarono a casa, Mandy si rifugiò subito nella propria camera, sconvolta e con gli occhi gonfi di pianto. Ian, invece, gettò le chiavi della macchina sul tavolino con un colpo secco. Era furente con Mickey, con quello stupido cancro che lo stava consumando da dentro, con quella vita bastarda che aveva deciso di portarglielo via troppo in fretta, ancora troppo giovane.
«Sembra che non ti importi nulla di morire, cazzo!», gli sbatté infine in faccia, non riuscendo più a trattenere la rabbia.
Mickey si sedette sul divano, stringendosi nelle spalle.
«Anche se mi importasse, ciò non mi farebbe vivere più a lungo», replicò, e lo fece con una tale tranquillità da renderlo ancora più nervoso. «Morirò comunque, Gallagher.»
Ian strinse forte i pugni, piantando le unghie nei palmi. Le mascelle gli si contrassero, il respiro era corto ed affannato. Doveva uscire da quella maledetta casa o sarebbe esploso, dando di matto. Così, con gesto repentino, riafferrò le chiavi dell’auto.
«Vaffanculo, Mickey!»
E sbatté la porta dietro le proprie spalle.

 

Ian reclinò la testa all’indietro, buttando giù l’ennesimo shot di whiskey. Aveva perso il conto di quanti shots avesse trangugiato, alternandoli ad un paio di boccali di birra. Il bar in cui era finito qualche ora prima era malconcio e sgangherato. La maggior parte dei clienti erano tutti dei vecchi ubriaconi poco raccomandabili che, seduti ai loro tavolini, strillavano, ridevano e qualche volta si pestavano, facendo un chiasso infernale.
«Un altro», ordinò il rosso, urlando e sbattendo il bicchierino sul bancone per riuscire a farsi sentire.
Il barista, un uomo robusto e con un paio di baffoni scuri, si rifiutò di servirlo.
«Mi dispiace, ragazzo, ma la risposta è no», gli disse, sistemandosi la salvietta su una spalla. «Forse è meglio se vai a casa.»
«Ho detto che ne voglio un altro», ripeté, strascicando leggermente le parole.
«No, hai già bevuto troppo, per i miei gusti.»
Ian si alzò dallo sgabello e, fuori di sé, afferrò il barista per il colletto della camicia. Nessuno, in quell’antro di perdizione e sregolatezza, fece caso a loro due.
«Pensa ai cazzi tuoi e dammi da bere», sibilò, ad un centimetro dal suo naso. «Muoviti, stronzo!»
L’uomo rimase impassibile, ormai abituato alle sceneggiate che, quasi ogni sera, l’ubriacone di turno pensava bene di fare nel suo bar. Ian fu costretto a lasciarlo andare. Con rabbia afferrò il bicchierino e lo scagliò a terra dal nervoso, riducendolo in piccole schegge di vetro.
«Non verrò mai più qui, pezzo di merda», sbottò, prima di decidersi ad andarsene via.
Fuori era già quasi buio. Ciondolante, raggiunse l’auto e vi salì a bordo. Nonostante fosse sbronzo da far schifo, non riuscì a smettere di pensare a Mickey. Strinse le mani intorno al volante e, abbassando la testa, cominciò a piangere. Le lacrime scesero, bagnando i jeans, e lui rimase a guardare quelle piccole macchie più scure impregnate nel tessuto. Poi, stanco, si accasciò contro il sedile e, col volto umido di pianto, si addormentò.
Si svegliò poco dopo l’alba. La sbornia era quasi del tutto smaltita, così decise di tornare a casa. Quando rientrò, Mickey era ancora seduto sul divano. Ian si bloccò un attimo sulla porta: lo aveva aspettato lì per tutto il tempo, ne era più che certo.
«Dove cazzo sei stato tutta la notte?», gli chiese il moro, con un tono da brividi, senza guardarlo in faccia.
Ian non rispose e, lanciando le chiavi sul tavolino, salì le scale. Mickey lo seguì subito e, una volta arrivati in camera, lo afferrò per un braccio.
«Dove cazzo sei stato, Ian?», ripeté, scuotendolo.
«Fottiti!», gli soffiò in faccia il rosso, liberandosi dalla sua presa con uno scatto.
Fu in quel momento che Mickey capì tutto: aveva sentito chiaramente il forte odore di alcool nell’alito del compagno. Lo osservò mentre si toglieva la camicia e buttava all’aria l’armadio, alla ricerca quasi spasmodica e maniacale di qualcosa di pulito da mettere.
«So che non prendi più le tue medicine da una settimana, Ian», gli disse allora, e il compagno si bloccò all’istante. «E so anche che bere non ti servirà a nulla.»
Ian chiuse l’armadio e, ancora a petto nudo, strinse in un pugno la maglietta che aveva scelto.
«Perché non vuoi farti curare, maledetto stronzo?», urlò, le vene del collo gonfie per la rabbia. «Perché non vuoi neanche provarci?»
«Perché sarebbe tutto inutile», gli rispose Mickey, con una calma a dir poco sconcertante. «La chemioterapia mi ridurrebbe in uno stato pietoso ed io non posso vederti soffrire a causa mia. Non voglio che tu trascorra le tue giornate a farmi da balia, a reggermi la testa mentre sono piegato sul cesso a vomitare.»
«Ma io lo farei, Mickey. Farei di tutto pur di averti accanto anche solo un giorno in più», la voce di Ian era un rantolo di dolore. «Farei di tutto per te, perché ti amo, cazzo!»
Lo sguardo malinconico del moro si addolcì per un breve istante.
«Se mi ami, devi accettare la mia decisione.»
«Non posso…»
«Devi farlo, Ian. Non voglio passare gli ultimi giorni in un cazzo di ospedale a soffrire come un cane… per cosa, poi? Non guarirei comunque», gli spiegò, cercando di convincerlo che la sua era la scelta migliore. «Preferisco morire prima se ciò significa aver passato i miei ultimi istanti di vita con te.»
Ian non ce la fece più. La sua rabbia esplose e, furioso, spinse Mickey sul letto con una foga che non credeva possibile. Si sedette sopra di lui a cavalcioni e gli bloccò entrambi i polsi con una mano mentre, con l’altra, si preparò a tirargli un pugno. Tentò di colpirlo, ci provò davvero, ma si fermò ad un centimetro dal suo zigomo. Mickey lo fissò, sfidandolo con lo sguardo.
«Avanti, Gallagher, picchiami», lo provocò, pensando che lasciandolo sfogare lo avrebbe fatto sentire un po’ meglio. «Forza, che aspetti? Colpiscimi! O sei forse diventato una femminuccia cagasotto?»
Il pugno cominciò a tremare, ma Ian non riuscì a fare niente. Liberò i polsi del moro e, respirando affannosamente, lo guardò. E tutto quello che vide fu un Mickey fatto di vetro, così fragile e debole sotto il suo corpo. Capì che se l’avesse picchiato lo avrebbe distrutto e lui non voleva fargli del male – Mickey non aveva colpa alcuna di essersi ammalato –, voleva solo che guarisse e stesse bene. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e, affondando il viso nel collo del compagno, pianse.
«Andrà tutto bene», lo rassicurò Mickey, abbracciandolo. «Ma tu devi promettermi che continuerai a prendere le medicine e che non ti lascerai andare. Tu devi vivere, Ian, mi hai sentito?»
Il rosso annuì appena, il volto ancora premuto contro la sua spalla.
«E tu non morire, cazzo», sussurrò, soffiando sulla sua pelle. «Ti prego, non morire. Fallo per me.»
Mickey lo strinse più forte. Infilò le dita fra i suoi capelli rossi, accarezzandogli dolcemente la testa, e chiuse gli occhi. Una lacrima sfuggì al suo controllo. Lui aveva accettato la morte, ormai. L’unica cosa che non voleva – non poteva – accettare era il fatto che, una volta morto, non avrebbe mai più visto Ian.

 

****

 

La vasca da bagno era quasi colma di schiuma quando Ian chiuse il rubinetto. Immerse una mano nell’acqua per verificarne la temperatura e sorrise: era piacevolmente calda. Si spogliò dei vestiti e così fece anche Mickey. Il rosso entrò nella vasca per primo, poi, tenendo il compagno per una mano, lo aiutò a fare lo stesso. Si sedettero e l’acqua li immerse fino a metà delle braccia. Ian prese la spugna, la bagnò e, dolcemente, la passò sulle spalle di Mickey, che chiuse gli occhi.
«Sei emozionato per domani?», gli chiese, sussurrando.
Mickey si lasciò andare all’indietro, toccando il petto del compagno con la propria schiena.
«Un po’», ammise, non riuscendo a nascondere un sorriso.
L’indomani si sarebbero finalmente sposati e la cerimonia si sarebbe davvero svolta al campo da baseball. Il comune aveva dato loro il permesso e la migliore amica di Mandy avrebbe fatto da testimone a Ian pur non conoscendolo di persona, ma a lui non importava: bastava che firmasse, esattamente come avrebbe fatto Mandy per suo fratello, e il matrimonio sarebbe stato valido a tutti gli effetti.
Ian abbandonò la spugna nell’acqua e abbracciò Mickey, lasciandogli qualche piccolo bacio sotto l’orecchio. Rimasero così per quasi mezz’ora, stretti l’uno all’altro, finché l’acqua non cominciò a raffreddarsi e decisero di uscire dalla vasca. Si asciugarono e, una volta infilatisi canottiera e pantaloncini, si diressero nella loro stanza. Non rispettarono le tradizioni – non facevano per loro – e quindi, nonostante fosse la notte prima delle loro nozze, non avrebbero dormito separati. Si misero a letto e Ian spense la luce. Mickey, ormai stanco, gli dava le spalle, e lui gli cinse subito la vita con un braccio, prendendogli la mano.
«Domani, a quest’ora, sarai già la signora Gallagher», mormorò, ghignando.
«Col cazzo», ribatté Mickey, sbuffando una risatina sardonica. «Domani tu diventerai la signora Milkovich.»
Ian premette il naso contro la sua nuca, soffocando una risata. Poi, come faceva sempre, inspirò il profumo della pelle del compagno, e infine avvicinò la bocca al suo orecchio.
«Ti amo, Mickey», gli disse, in un sussurro.
Il cuore di Mickey batté più forte a quelle parole e, protetto dal buio della stanza, sorrise.
«Ti amo anch’io, Gallagher», rispose, portandosi la mano del compagno alla bocca per poterne baciare il dorso.

 

Ian si svegliò di soprassalto. Tese le orecchie, completamente vigile, e si accorse che nella stanza c’era troppo silenzio. Quel silenzio assordante lo allarmò: non sentiva più il respiro affannoso e pesante di Mickey a cui, notte dopo notte, si era ormai abituato. Col cuore in gola accese la luce. Mickey era dritto sulla schiena, il volto rilassato e pallido come un cencio. Notò subito che non respirava.
«Mickey?», provò a chiamarlo.
Il moro non rispose, non mosse nemmeno un muscolo. Ian appoggiò due dita sul suo collo, ma non sentì alcun battito. Il panico lo assalì e, invano, si chinò su di lui, cercando in tutti i modi di rianimarlo. Gli praticò il massaggio cardiaco, gli fece la respirazione bocca a bocca, una, due, tre, mille volte, ma fu tutto inutile.
«Mickey!», lo chiamò di nuovo, spingendo nuovamente con le mani sul suo sterno. «Mickey, ti prego, svegliati!»
Ian non riusciva a rassegnarsi, nonostante fosse perfettamente consapevole che Mickey era morto e, imperterrito, continuò col massaggio cardiaco finché la sua vista non cominciò ad appannarsi di lacrime. Urlò il suo nome, lo urlò con tutto il fiato che aveva in gola. Urlò come solo un uomo devastato dal dolore avrebbe potuto fare. La porta della camera si spalancò e comparve Mandy che, spaventata, si coprì subito la bocca di fronte a quella scena. Capì tutto e, straziata, si lasciò crollare in ginocchio. Ian si sdraiò vicino al corpo di Mickey e, appoggiando la fronte contro la sua tempia, gli accarezzò una guancia.
«Domani dobbiamo sposarci, non puoi morire», gli sussurrò all’orecchio, ormai fuori di sé. «Ti prego, non lasciarmi… non puoi farmi questo.»
Fu così che Mickey Milkovich, la notte del ventotto giugno, si congedò dalla vita.

 

Il corpo ormai esanime e freddo di Mickey venne successivamente vestito con il completo scuro che avrebbe dovuto indossare al proprio matrimonio. I funerali si svolsero solo tre giorni dopo, nel tardo mattino del primo lunedì di luglio. Il suo desiderio di farsi cremare fu rispettato e le sue ceneri vennero riposte in due piccole urne: una destinata a Mandy, l’altra ad Ian.
Qualche pomeriggio più tardi, stranamente arrivò la pioggia. Mandy, scrutando fuori dalla finestra della cucina, pensò che anche il cielo stesse piangendo suo fratello. Si voltò e guardò Ian che, in piedi, stava piegando i propri vestiti sul tavolo. Era rimasto con lei fino a quel giorno – entrambi troppo distrutti per poter restare da soli e alla ricerca di un po’ di conforto –, ma l’indomani sarebbe ritornato a Chicago. I suoi fratelli, ne era certa, dovevano essere in pensiero per lui.
«Credo sia giunto il momento di darti ciò che ti spetta», gli disse.
Il rosso alzò lo sguardo su di lei, aggrottando la fronte senza capire.
«Di cosa stai parlando, Mandy?»
Lei non gli rispose. Scese nello scantinato e vi ritornò dopo un paio di minuti, con un borsone nero stretto in mano. Lo appoggiò sul tavolo e, facendo scorrere la cerniera, lo allargò, mostrandogli ciò che conteneva. Era pieno zeppo di soldi, legati in mazzette piuttosto spesse con degli elastici di gomma.
«Sono circa trecentomila dollari. Mickey voleva che tu li avessi una volta mo…», la voce le si ruppe e non riuscì a terminare la frase, ancora troppo sconvolta dalla perdita del fratello. «Sono tutti tuoi, Ian», continuò, deglutendo sonoramente, ed aprì una tasca esterna del borsone. «Qui, invece, ci sono i cinquantamila dollari per Yevgeny.»
Ian era senza parole: non poteva credere che Mickey gli avesse lasciato tutto quel denaro. Si passò una mano fra i capelli, pettinandosi il lungo ciuffo rosso all’indietro.
«Porterò i soldi per Yev a Svetlana… l’ho promesso a Mickey», le disse infine, poi scosse leggermente la testa. «Ma gli altri non posso accettarli, Mandy.»
«Era ciò che voleva mio fratello», mormorò la ragazza, stringendogli una mano nella propria. «Prendili, Ian.»
«Servono più a te che a me», ribatté subito lui.
Mandy si lasciò andare ad un sorriso nostalgico.
«Mickey ha pensato anche a me», gli rese noto, e gli occhi le si inumidirono.
Ian la fissò per qualche istante, poi sospirò e abbassò lo sguardo sul pavimento.
«Perché mi ha chiesto di sposarlo?», le domandò all’improvviso. «Perché propormi una cosa simile se aveva già tenuto i soldi da parte per me?»
«Davvero non l’hai ancora capito?», Mandy gli risollevò il viso, accarezzandogli una guancia. «Voleva dimostrarti fino a che punto sarebbe stato disposto ad arrivare pur di averti accanto, anche se per poco. Voleva dimostrarti quanto ti avesse sempre amato.»
Il rosso deglutì a vuoto. Sovrappose la propria mano al dorso di quella della ragazza e chiuse gli occhi. Si costrinse a essere forte e non piangere. Non poteva farlo. Avrebbe distrutto Mandy. Quando riaprì le palpebre, però, vide che lei stava già piangendo.
«Cosa farò senza di lui, adesso?», gemette, mordendosi il labbro.
Ian mise una mano sulla spalla della ragazza e, delicatamente, se la tirò contro il proprio petto. La abbracciò, stringendola forte a sé, e Mandy nascose il viso nell’incavo del suo collo. Singhiozzando, si aggrappò con le dita alla sua maglietta, piantandogli le unghie nella schiena. Gli fece male, ma Ian non disse nulla: quel dolore non era niente in confronto a quello che aveva nel cuore.
«Potresti ritornare con me a Chicago», le propose, con il mento appoggiato alla sua testa. «Tuo fratello Iggy abita ancora nella vostra casa. Gli farebbe piacere rivederti. E farebbe piacere anche a Lip.»
«No», Mandy scosse il capo e, sciogliendo l’abbraccio, si asciugò violentemente gli occhi col palmo delle mani. «Non ce la faccio. Non adesso.»
Ian annuì, spostandole la frangia nera dietro l’orecchio.
«Quando te la sentirai, chiamami», disse, e sulle labbra di Mandy sbocciò un piccolo sorriso. «Io sarò lì ad aspettarti.»

 

Ian partì quella notte stessa con la macchina di Mickey. Mandy, dopo averlo abbracciato per l’ultima volta, gli aveva consegnato le chiavi: ora anche quella vecchia auto scura apparteneva a lui. Giunse a Chicago la prima domenica di luglio, e seppe subito dove andare. Il campo da baseball, quel mattino, era aperto; alcuni bambini stavano giocando in mezzo ad esso, vigilati dal loro allenatore. Cercò di non farsi vedere e, addossato alla recinzione, si nascose vicino alle gradinate. Ian chiuse gli occhi, stringendosi la piccola urna al petto per qualche minuto. Infine la aprì e, scuotendola, gettò via le ceneri di Mickey. Le guardò volteggiare e spargersi nell’aria come granelli di polvere, e un sorriso malinconico gli piegò le labbra. Mickey avrebbe voluto così, lo sapeva. Avrebbe voluto sentirsi libero fino alla fine. Lui, che era sempre evaso da tutto, persino dalla galera, adesso sarebbe evaso anche dalla vita. Alzò lo sguardo al cielo e il sole gli inondò il volto, lambendogli la pelle con il tocco del proprio calore. Ian immaginò che quella fosse la carezza di Mickey.
«Addio, Mick», sussurrò, con voce rotta.
E quello fu l’ultimo saluto al ragazzo che aveva sempre amato.

 

Svetlana aprì la porta del suo piccolo appartamento dopo che Ian ebbe bussato per quattro volte di fila. Era avvolta in un accappatoio bianco e, con un asciugamano, si stava tamponando i capelli umidi.
«Pel di carota», esclamò, quasi stupita di trovarselo di fronte. «Entra.»
Ian le sorrise e varcò la soglia del salotto. La televisione era accesa su un canale dedicato ai bambini, ma Yevgeny stava dormendo beato sul divano. Il rosso gli si avvicinò, cercando di non fare rumore, e ne approfittò per accarezzargli dolcemente una guancia e lasciare un piccolo bacio fra i suoi capelli biondi. Raggiunse Svetlana in cucina solo qualche minuto più tardi, trovandola seduta su uno sgabello intorno alla penisola.
«Tuoi fratelli erano preoccupati. Sono venuti a cercare tua testa rossa anche qua», gli disse col suo marcato accento russo, mentre avvolgeva i capelli nell’asciugamano. «Dove esserti cacciato?»
«Non importa», Ian aprì la tasca esterna del borsone che aveva in spalla, tirò fuori cinque mazzette di soldi e li mise sul bancone. «Sono cinquantamila dollari. Per Yevgeny. E anche per te, naturalmente.»
Svetlana alzò un sopracciglio.
«Dove trovato tu tutti questi soldi?»
«È una lunga storia.»
La russa lo guardò. Gli occhi di Ian, improvvisamente, si erano fatti lucidi. Capì che, per qualche assurdo motivo, in quella lunga storia c’entrava anche Mickey Milkovich.
«Cosa combinato mio stronzo di ex marito?», domandò, incrociando le braccia sul seno.
Ian prese un profondo respiro, mordendosi il labbro.
«Mickey se n’è andato… per sempre», cominciò, col cuore che batteva all’impazzata. «Vi ha lasciato questi soldi per farvi avere una vita dignitosa, per dare un futuro sicuro a vostro figlio», continuò con un filo di voce, e Svetlana, a quelle parole, comprese tutto. «Ma adesso voglio che tu faccia una cosa per me.»
«Cosa io fare per te, testa rossa?»
«Devi promettermi che, quando Yevgeny sarà abbastanza grande per capire, gli parlerai di Mickey. Promettimi che gli dirai che grande uomo fosse veramente suo padre e quanto lui gli avesse voluto bene», disse, trattenendo a stento le lacrime. «Ti prego, Svet, promettimi che manterrai vivo il ricordo di Mickey.»
Svetlana, per la prima volta in vita sua, rimase ammutolita. Lo fissò dritto negli occhi e, infine, annuì.
«Prometto.»
Ian, sorridendo, la ringraziò.

 

Il borsone sembrava pesare come un macigno sulla spalla di Ian mentre, a passo deciso, saliva gli scalini in legno della sua casa. Aprì la porta, entrò silenziosamente in salotto e adocchiò Lip, Carl, Debbie e Liam seduti intorno al tavolo della cucina. Gli davano le spalle e, come al solito, stavano facendo un gran chiasso. Si diresse verso di loro e fu in quel momento che Fiona, in piedi dopo aver chiuso il frigorifero, si accorse di lui. Il bicchiere colmo di spremuta cadde dalla sua mano, andando a frantumarsi in mille pezzi sul pavimento. A quel rumore, tutti i fratelli si girarono per capire cosa fosse successo. Quando videro Ian, il silenzio scese di colpo nella cucina. Basiti, rimasero a fissarlo come se avessero visto un fantasma. Nessuno sapeva bene cosa dire o cosa fare. Nessuno, tranne Fiona.
«Brutto stronzo, dove cazzo eri andato a finire?», gli urlò contro, intenzionata a sbattergli in faccia tutta la sua apprensione e la sua ira, e gli diede una spinta sul petto. «È passato più di un mese, maledetto pezzo di merda! Un mese! Mai una chiamata, mai un messaggio, niente! Ti abbiamo cercato ovunque, anche al lavoro, ma nemmeno lì sapevano dove ti fossi cacciato! Hai una vaga idea di quanto fossimo in pensiero per te? Dove diavolo sei stato finora?», gli mollò un’altra spinta, col respiro affannato a causa dello sfogo, gli tempestò il torace di pugni e fece per tirargli un ceffone, ma dovette fermarsi quando vide una lacrima rigare la guancia del fratello. «Ian?», sussurrò allora, e la preoccupazione finalmente vinse sulla rabbia. «Cos’è successo?»
Ian non rispose. Si sfilò il borsone dalla spalla e, aprendolo, ne svuotò il contenuto al centro del tavolo, facendo cadere i soldi di Mickey come una cascata.
«Mickey è morto», disse, con voce tremante. «Questo denaro è suo. Ci saremmo dovuti sposare, ma lui non ce l’ha fatta», proseguì, il petto dilaniato dal dolore. «Non mi importa niente di tutti questi soldi, non li voglio neanche più vedere perché non potranno mai riportarmi indietro l’unica persona che io abbia mai amato», stravolto, alzò lo sguardo su ognuno dei fratelli che, in quell’istante, lo stavano fissando attoniti. «Sono vostri. Potete farne ciò che volete.»

Senza dar loro il tempo di proferire parola, si congedò. Voleva stare da solo. Salì in camera e, dopo aver buttato il borsone ormai vuoto a terra, si sdraiò sul letto. Il sole caldo filtrava dalla piccola finestra, colpendogli il volto. D’istinto, mise una mano nella tasca dei jeans e prese la propria fede nuziale. Se la infilò all’anulare sinistro, la baciò, poi si girò su di un fianco, continuando a fissare quel piccolo cerchietto argentato. Non riuscì più a trattenere le lacrime e, rannicchiandosi in posizione fetale, pianse, bagnando il fodero del cuscino. Pianse come mai aveva fatto in vita sua. Pianse, e la catenina che portava al collo, a cui era appesa la fede di Mickey, scivolò fuori dalla maglietta, brillando alla luce del sole. Ian Gallagher, con gli occhi gonfi e pieni di lacrime, strinse forte tra le dita la più grande prova d’amore che Mickey Milkovich gli avesse mai dimostrato.

 

 FINE

 

* Da qualche parte nel deep web, ho letto che la polizia smette di cercare un detenuto dopo un anno dalla sua evasione di prigione. Non so quanto questo possa essere vero, ma io mi sono basata su ciò. Nella mia storia, Mickey cambia identità, ma solo quando si trova in Messico; una volta andato a Los Angeles ad abitare con Mandy, la sua identità ritorna ad essere vera (la polizia, in quel frangente e come specifica Mickey stesso, non è già più sulle sue tracce).

** Mickey ha più spesso ‘apostrofato’ Ian con il termine tough guy. Avendo io sempre visto Shameless in lingua originale con i sub, la traduzione di quel termine variava da tipo tosto a ragazzaccio: nella mia storia ho preferito usare quest’ultimo, perché credo che, in un certo senso, suoni meglio rispetto all’altro.

*** Nella 3x05, al minuto 8:46, sul calendario appeso al frigo di casa Gallagher, si vede chiaramente il mese MAY; nello stesso episodio (e nello stesso giorno, almeno in quelle scene), al minuto 11:08, il calendario è sul mese JUNE. Errore di distrazione, probabilmente, ma io ho deciso di ambientare la mia storia a partire dall’inizio di giugno in modo da coprire ogni eventualità. Ovviamente non so il giorno preciso in cui Mickey bacia Ian per la prima volta, in quanto nella serie non l’hanno mai effettivamente specificato, quindi io ho solo tenuto il mese (al minuto 52:36 si riesce ad intravedere JUNE nuovamente sul calendario, poche scene dopo il bacio), ma il giorno l’ho inventato di sana pianta.

   
 
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