Fumetti/Cartoni americani > Voltron: Legendary Defender
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Autore: DonutGladiator    29/01/2018    0 recensioni
Raccolta di brevissime oneshot (max 700 parole) slegate tra loro che avranno per protagonisti diversi.
[1: Hunk vuole finire il suo progetto, ma Lance non sembra pensarla allo stesso modo
4: Una piccola Pidge fa un regalo al fratello maggiore
5: Lance si è beccato una terribile malattia, ma Keith ci crede poco
8: Sheith preKerberos al crepuscolo
9: Momenti di affetto familiare passato (SPOILER S5)
10: Lotor è degno della fiducia di Allura? (SPOILER S5)]
Genere: Angst, Fluff, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
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Immerso nell'oscurità


Quanto tempo era passato da quando lo avevano rinchiuso in quella cella buia?
Ore. Forse addirittura giorni.
Lì, in quello spazio vuoto, dove il tempo non aveva più una vera e propria continuità, non poteva fare a meno di tenere un calcolo mentale del suo passaggio, mentre si trovava nel silenzioso buio della cella.
Le cose per passare il tempo non erano tante, quindi aveva incominciato a riflettere. Aveva pensato a tutto quello che l’aveva portato lì, in quel preciso momento. Poi, il pensiero era andato a quello che aveva lasciato sulla Terra. A coloro che attendevano il suo ritorno.
Sapeva quale fosse la procedura della Garrison quando, dopo un determinato numero di ore non avevano notizie dell’esplorazione.
Aveva quindi pensato alla sua famiglia, che ormai lo credeva morto.
E a Keith, che, se lo conosceva bene quanto credeva, si era sicuramente impuntato per cercare un modo per arrivare su nello spazio, e capire cosa fosse successo al suo gruppo. Gli si strinse lo stomaco al solo pensiero che anche lui credesse che fosse morto.
Scosse la testa, sperando di scacciare quei pensieri.
Ripensò a quanto accaduto nell’arena, chissà quanto tempo prima.
Aveva vinto; ma a che prezzo? E cosa aveva sacrificato per farlo?
Forse con la sua mossa aveva messo nei guai Matt, era una contraddizione ma, piuttosto che farlo andare contro a morte certa, attaccarlo era sembrata la cosa più ovvia da fare per salvarlo.
Forse però aveva preso una decisione sbagliata. O forse quanto aveva fatto gli aveva salvato la vita. Di certo, qualcosa nella sua era cambiata.
Vincere nell’arena lo aveva portato a essere conosciuto come uno che aveva foga di combattere, ed era stato nominato come Campione tra i Galra.
Gli avevano medicato le ferite più profonde e poi lo avevano buttato in una cella a marcire.
Completamente da solo.
Immerso nell’oscurità.
La cosa peggiore era che si era quasi abituato a quella prigione.
All’inizio, non avere nemmeno una fonte di luce lo aveva destabilizzato. Aveva urlato ripetutamente che qualcuno gli desse delle spiegazioni, che lo facesse uscire, che gli dicesse come stavano i suoi amici.
Ma nessuno era venuto per Shiro.
Almeno nessuno di amico. In realtà anche troppa gente veniva per lui. L’avevano preso e buttato ancora nell’arena. Poi erano iniziati gli esperimenti e qualcosa che era oscurato nella sua testa. L’avevano quindi portato in una nuova cella, diversa dalla precedente, più luminosa, ma forse più soffocante della precedente.
Nella solitudine, si era adagiato al suolo, con le mani che coprivano il volto e aveva fatto l’unica cosa che poteva fare.
Resistere.
Aveva resistito alla voglia di gridare ancora, di piangere, di prendere quelle sbarre e distruggerle con quel maledetto braccio di cui gli avevano fatto dono.
Nell’oscurità, immerso in un tempo che pareva infinito, l’unica cosa che Shiro aveva fatto era resistere. Anche quando erano venuti di nuovo per lui, aveva alzato la testa e li aveva guardati con disprezzo, non dandogli alcuna soddisfazione di vederlo cedere a quel vuoto che in cui lo avevano buttato.
Ma la sua tenacia vacillava.
Sarebbe bastata una piccola spinta per farlo cadere nel baratro dell’oscurità più totale e della disperazione. Per un tempo che sembrava ormai non avere più fine, aveva combattuto battaglie nell’arena. Troppe.
Aveva visto troppe guardie passare davanti la sua cella, prima di capire cosa poteva effettivamente fare.
In quel tempo che era sembrato infinito, era rimasto abbastanza lucido da poter evadere. Capendo il loro ritmo, aveva calcolato i tempi delle guardie meccaniche. Di quelle macchine che non sforavano mai il secondo, che facevano lo stesso numero di passi ogni volta che passavano davanti alla sua porta.
Una volta sull’astronave, dopo essere fuggito dalla sua prigionia, ringraziò di essere rimasto lucido abbastanza per riuscire a scappare da quella prigione, dopo un tempo che gli era sembrato infinito.
O almeno, questo era quello che credeva.
   
 
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