Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Segui la storia  |       
Autore: cliffordsjuliet    01/02/2018    1 recensioni
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza.
**
Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.

**
Pensavo che avrei smesso di odiarlo, di disprezzarlo con tutta la forza che avevo in corpo.
Pensavo che mi sarei abituata a quell'affetto sordo e un po' cieco che lentamente si stava facendo spazio in me.
Non mi abituai mai. In fondo io ero Kendra e lui era Ashton, ed era questo che sapevamo fare.
L'odio era l'unica cosa che non potevano toglierci.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




IV. I just wanna feel free

C’erano giorni in cui Luke tornava a casa.
Lo sapevamo che succedeva, perché le urla ricominciavano e le sentiva tutto il vicinato. Però magari l’altra casa, quella di Ashton, si era allagata, oppure era saltata la corrente, e allora per un po’ Luke doveva tornare alla vecchia abitazione.
Suo padre quando era sobrio lo accettava quasi, quel figlio che gli somigliava così tanto, con gli occhi azzurri come i suoi e lo stesso sorriso sbilenco.
Però suo padre sobrio non era quasi mai, e allora capitava che il solo guardare in faccia Luke lo tormentasse, gli desse rabbia, e lui si sfogasse urlando e riempendolo di botte.
Non ce la faceva a guardare in faccia quel ragazzo magro e un po’ scavato.
Gli ricordava se stesso da giovane, il matrimonio in cui si era trovato incastrato un po’ per caso, e le possibilità che ormai non aveva più. Non ce la faceva a sopportare il suo viso, e quindi si sfogava con i colpi.
Erano i giorni in cui Luke tornava a dormire da me, ed io lo accettavo, mi facevo andar bene che lui si intrufolasse nella mia stanza, nel mio letto, come prima che iniziasse tutto il caos. Erano i giorni in cui tutto sembrava quasi normale, e allora io desideravo di poter tornare indietro, riavere la vecchia vita.
«Perché sta urlando, stavolta?» gli domandai una sera, in cui la voce di suo padre era più scura e il pianto di sua madre più forte. Piangeva sempre, Liz Hemmings, e a me faceva rabbia.
Luke scrollò le spalle, gli occhi ancora chiusi. «Che vuoi che ne sappia io? È fatto così»
«Non puoi dire che è fatto così e basta. Non puoi, Luke» sbottai, colpendolo all’addome.
La sua smorfia di dolore mi fece insospettire. Lo toccai di nuovo nello stesso punto, con calma, con una cura che non avevo avuto mai.
La smorfia era ancora lì.
«Alzati la maglietta» gli ordinai, impietosa.
Luke sbuffò.
«Alzatela ho detto»
«Oh, ma si può sapere che ti prende adesso? Sembri pazza»
«Tu muoviti e alza quella cosa»
Prima che potesse dire altro, afferrai con entrambe le mani la stoffa leggera della sua maglia e la tirai su con forza, strattonandola. Non c’era spazio per la delicatezza.
Il suo addome, il costato, il petto, erano completamente ricoperti di lividi.
Lividi freschi, nuovi, violacei. Alcuni si stavano ancora formando.
«Che cazzo ti ha fatto?» scattai a sedere, lasciando l’indumento libero di ricadergli addosso, come scottata. Non volevo vederlo, non volevo avere sotto gli occhi la prova del fatto che non potevo proteggerlo da tutto.
Luke scrollò le spalle e «Non è niente» minimizzò.
«Luke, Cristo santo, quello non è niente. Arriva la volta che tuo padre t’ammazza» sbottai con forza, lo scuotevo per le spalle, cercavo di smuoverlo. Si mise a sedere come me, incatenò i suoi occhi ai miei.
«Non posso farci nulla, K, torna a dormire»
In quei momenti lo avrei picchiato.
Non come suo padre, però. Non volevo colpirlo per fargli male, ma per svegliarlo.
«Non torno a dormire. Tu dovresti ribellarti e invece fai il povero stronzo che si fa usare come sacco da boxe prima di scappare qui da me. Questo non mi sta bene»
Il mio tono era duro, i suoi occhi pure. Mi guardava, Luke, e forse vedeva solo la cattiveria in me, forse non riusciva a capire l’ansia e la preoccupazione che provavo vedendolo stare male.
«Non posso ribellarmi, Kendra. È mio padre»
«Lo è, ma ti sta uccidendo»
«Smettila con questa storia. Hai rotto le palle, io torno a dormire»
Io lo guardavo, mi innervosivo, odiavo la sua accidia.
«Vattene» gli intimai nervosa. Luke spalancò gli occhi e mi guardò come fossi ammattita. «Dove vuoi che me ne vada, scusa?» replicò incredulo.
«Che ne so, ovunque. Io qui nel mio letto non ti ci voglio, non lo sopporto»
Mi lanciò un’occhiata astiosa. Mi guardò con l’odio nelle pupille a lungo, prima di alzarsi e, senza neanche rispondere, fiondarsi fuori dalla finestra.
Restai a fissare il punto dove era scomparso, ancora piena di rabbia.
Volevo proteggerlo e lo cacciavo, lo prendevo a calci, lo martoriavo. Volevo proteggerlo ma avevo lasciato che mi sfuggisse dalle mani, che scappasse, che si unisse al circolo di Ashton e Michael del quale non mi avrebbe detto mai niente.
Avevo diciott’anni e non capivo il male che gli facevo. Avevo diciott’anni e non capivo che ad ucciderlo non erano quei due ragazzi, e nemmeno suo padre.
La persona che lentamente lo stava distruggendo ero io.

 

 

«Oh, ma che cos’ha Kendra oggi?»
«Che ne so, non sono Luke. Quando lui non c’è lei parte, è sempre intrattabile»
Sentivo Ashton e Calum che discutevano tra loro, sapevo che parlavano di me, ma non volevo farci caso. Forse ero intrattabile senza Luke, era vero, ma lo ero ancora di più nelle sere in cui lui spariva con Michael, e io non sapevo che faceva. Allora me ne stavo a casa, ripescavo il cellulare da chissà dove, aspettavo che mi dicesse che stava bene.
Oppure uscivo e bevevo, così non ci pensavo e il giorno dopo erano entrambi con noi, e stavano bene.
Mi ero quasi abituata a Michael in quei mesi, avevo imparato a prenderlo e lui sapeva come comportarsi con me. Una volta smesso l’atteggiamento da psicopatico era quasi normale. Uno che ci avrebbe anche provato, a fare qualcosa di semplice, ma poi la vita gli aveva dato quello che poteva e lui si era accontentato, anche se la sua realtà non gli piaceva. A volte provavo a provocarlo, a smuoverlo, a fare leva sul suo amor proprio.
Michael però non era Luke. Non lo fregavi facilmente, non si lasciava manipolare.
Non era così cieco da non rendersi conto dei miei giochi.
Ashton era un altro paio di maniche ancora. Lui non mi vedeva con gli occhi di Luke, ma neanche nello stesso modo in cui mi percepiva Michael. Non avevo lo stesso rapporto, con lui, e questo era stato chiaro piuttosto presto.
Ashton era il più taciturno, tra i due, ma anche il più osservatore.
Era capace di stare zitto per ore, e fissarti con quei suoi occhi un po’ verdi un po’ marroni così sporchi, imperscrutabili, da far saltare ogni tuo singolo nervo, per poi uscirsene con qualche parola, o una semplice frase, capaci di farti sentire esposto. Vulnerabile.
Mi sentivo così, in presenza di Ashton.
Mi alzai dal divanetto del Paladar di scatto, sottraendomi al suo sguardo analitico, silenzioso. L’avevo capito, che aveva voglia di psicanalizzarmi, ma io proprio non lo reggevo.
Il Paladar ogni tanto organizzava queste serate a tema, e allora la musica la sentivi per tutta la piazza, e quei pochi ragazzi che di solito frequentavano il posto si moltiplicavano, diventavano una massa indistinta di corpi che si muovevano a tempo, ridevano, danzavano ubriachi.
Mi infilai velocemente nella mischia, prendendo poi a ballare anch’io.
Non mi piaceva nemmeno, quel pezzo, e forse in corpo avevo un po’ troppo alcool, ma ero felice così. Non ce la facevo, a stare seduta a rodermi il fegato chiedendomi dove fosse Luke, cosa stesse facendo, perché.
Mi muovevo senza un particolare senso, danzavo priva di logica, per il gusto di farlo.
Mi nascondevo dietro ai capelli che volavano da ogni parte, ridevo. Tutto pur di non pensare.
«Quando fai così sembri quasi normale. Ubriaca, ma normale»
La voce che sussurrò nelle mie orecchie mi fece sobbalzare. Mi voltai di scatto, sorridendo poi sorniona al viso di Ashton, incredibilmente vicino.
Mi scostai un po’, nonostante non lo permettessero molto le sue mani posate sui miei fianchi. Io tutta quella vicinanza non la volevo, mi metteva a disagio, mi faceva sentire indifesa.
«Hai un bel modo di parlare alle signore, tu» sospirai poi, continuando a muovermi.
Ashton finse un’espressione pensierosa.
«Io qui di signore non ne vedo» replicò poi, con un sorrisetto che in quel momento mi sembrò adorabile. Ero stordita dall’alcool.
«No, infatti. Io non sono una signora. Al massimo sono una per cui la guerra non è mai finita...»
Ripresi a ballare con più foga, mi distanziai ancora da lui, dalle sue mani sui miei fianchi. Volevo andarmene, allontanarmene da tutti, da lui e pure da me, ché se volevo stare bene avrei prima dovuto dimenticare anche il mio nome. Sono sempre stata egoista da far schifo, ma ipocrita mai; per questo, in quel momento, con l’alcool in corpo e gli occhi magnetici di Ashton, non potevo negare a me stessa quanto mi sentissi annebbiata, desiderosa di un contatto diverso, più intimo.
Quindi feci l’unica cosa possibile.
Voltai le spalle a quella pista, al Paladar, al suo viso stupito. Voltai le spalle anche a me stessa, al modo crudele e meschino con cui stavo concedendo nuovo territorio in me a quei ragazzi, e corsi via.
Avevo una faccia da schiaffi assurda, ad andarmene così sapendo i casini in cui avrei messo i miei amici quando Luke l’avesse saputo, ma in quel momento non me n’importava un accidenti.
In quel momento, ubriaca e col vento della notte tra i capelli, io volevo solo stare bene.

 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: cliffordsjuliet