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Autore: StellaDemone    03/02/2018    0 recensioni
Quanto era bella la noia.
Amavo potermi crogiolare in quegli attimi eterni tra quei momenti di strana ed insolita felicità e quelli, magari, un po’ più buii. La sentivo proprio scendere sulla mia pelle, come fosse una pioggia di acqua calda che riscalda il corpo. Sentire di non dover fare nulla, perché si è fatto di tutto. Quella stessa noia che prima mi accompagna dolcemente e, successivamente, si trasforma in uno sgradevole tedio. Nel momento esatto in cui iniziavo a pensare a me stesso, la pioggia che sentivo prima si trasformava in stalattiti che mi trafiggevano le membra. Ah, la noia quant’è bella.
E’ proprio così che inizia tutto: la noia spinge l’uomo a non annoiarsi. Cerchiamo di riempirci di impegni, di cose da fare, da leggere, da ascoltare, pur di non giungere mai davanti a quella sensazione che rende impotenti dalla testa ai piedi.
Ed io, io sono molto annoiato, lo sai. Lo sai, forse, anzi quasi sicuramente, cosa significa morire di noia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Lettera numero 10

 


Ciao Giulia,
pensavo che fosse l’ultima, invece no. E’ come se fosse sempre la prima per me. Tutto sembra accadermi come se fosse la prima volta.
Il cielo è pieno di nuvole e sembra proprio come se non ne avessi mai viste oggi. Le azalee oggi sono più rosa del solito, oppure mi sbaglio? Ed i tuoi capelli profumano tantissimo oppure sono io che non li annusavo da così tanto?
Sei proprio qui, dietro di me, distesa sul letto, nuda, che dormi. Le tue linee morbide e sottili disegnano delle bellissime colline, da cui posso ergermi per vederti meglio. Ed io fumo proprio qui, davanti a te, seduto sulla scrivania, che ti scrivo un’ennesima lettera. Che cosa datata, ormai, scriversi le lettere, quando con un click potrei copia incollarti le terzine più belle del V canto della Divina Commedia, quelle di Paolo e Francesca per intenderci. La trovo una cosa troppo fredda e distaccata, metodica e quasi meccanica. Adesso, invece, sto sprecando del tempo e delle energie per cercare di scriverti qualcosa che ti faccia battere il cuore per un attimo solo. Me ne basta uno solo di attimo. Non ne voglio cento o mille, voglio che quel battito sia per le mie parole e per me soltanto. Voglio che il tuo cuori smetta di pulsare solo per me.
Ti ho sentita che ti muovevi, proprio come se stessi ascoltando questi miei pensieri un po’ carnali ed un po’ passionali che mi girano per la testa. Forse passano pure per la tua in questo momento. Aggrovigliati tra questi tuoi sogni, muoviti nel nostro letto d’amore e poi fallo pure con me. Muoviamoci insieme. Giochiamo ad amarci o, almeno, proviamoci a fingere di farlo. Ho bisogno del tuo amore in questo momento, non penso che potrei sopravvivere un giorno di più senza il tuo respiro sulla pelle che cerca, in maniera quasi animalesca, il punto esatto per azzannarmi con i denti e finirmi con i tuoi baci.
Non potrei stare un giorno di più senza vederti mentre ti vesti di fretta e furia perché stai facendo tardi, senza vederti mentre sei così concentrata a leggere quel libro che non hai mai finito, ma è sempre riposto sul tuo comodino, senza vederti mentre ti arrabbi con me e mi urli contro che non dovrei alzare troppo il volume della musica perché ti deconcentra da quello a cui stavi pensando. Ed io mi chiedo, a cosa pensi in quei momenti? Vorrei proprio poterti entrare dentro al cervello per scoprirlo. O forse dovrei dirigermi più verso il tuo cuore? Non lo so, fatto sta che sei un mistero. Sei il più bell’enigma da risolvere della mia vita. Sei sempre un po’ persa, tra le nuvole. È proprio in quei momenti che ti trovo bellissima e allo stesso tempo impossibile da capire. Cosa guardi? A cosa punti? Ammettilo, ammettilo pure a te stessa, che, in realtà, quello a cui punti ormai l’hai perso.
Il distacco tra te e la realtà si nota quando ti perdi in mezzo a questi pensieri. È come se entrassi in un’altra dimensione e cercassi di prendere da quell’enorme matassa, un piccolo filo di speranza che possa esserti utile per renderti la giornata più semplice e meno logorante. Perché ricerchi questo filo? A cosa ti serve prenderne solo uno? È perché li hai usati tutti, vero? È perché non te ne rimane nemmeno uno da utilizzare per renderti felice? Nemmeno più io, a cui ti eri aggrappata così tanto, non riesco più a sostenerti. Si vede che giochi a fare l’equilibrista su questi fili, ma prima o poi, lo sai benissimo che cadrai di sotto. Aiutami a capirti, non voglio vederti precipitare di nuovo. Aiutami a salvarti. Lascia che sia io a prenderti la mano mentre stai per essere inghiottita da quell’oscurità cieca e buia. 
Mi ricordo ancora quell’inverno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri fresca, una persona completamente pregnante di solarità, se dovessi paragonarti a qualcosa, ti paragonerei ad un fiore appena sbocciato, pieno di vita, che ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. I capelli, che ti cadevano sulle spalle, incorniciavano le linee del tuo viso allungato, con quei tuoi zigomi pronunciati e quelle tue fossette ai lati della bocca che mi piacciono tanto. Meravigliosa apparizione, mi parevi che fossi un angelo sceso in terra soltanto per me. Eri con le tue amiche, in quel bar in centro, quello in cui andavi spesso. Mentre parlavo con Francesco, ti vidi entrare, notai soltanto te tra tutte voi. Avevi un vestito nero sui cui erano disegnate delle bellissime rose stilizzate, ma quello che ho guardato più di tutto, sono stati i tuoi occhi di un verde quasi accecante. Ti ho notata così, per caso. Il casus, in latino, che ha fatto sì che tutto iniziasse. Allora io mi chiedo, esiste veramente questo indeterminismo cosmico? Tutto ciò può avvenire veramente senza una causa alcuna? Non so risponderti, forse sì o forse no. Lascio i dilemmi filosofici a chi di filosofia ne capisce qualcosa. Fatto sta che per me non sei soltanto un caso, una che “avrei potuto” conoscere tra le tante. Anzi, sei la persona che non avrei potuto non conoscere. Non esisteva nessun’altra se non te. Tu, che mi spronasti ad andare avanti con gli studi, quando avrei voluto soltanto passare le giornate disteso sul tuo letto di casa a coccolarti e ad accarezzarti il corpo e l’anima. Tu che quando morì mia madre, prendesti il mio viso e ne asciugasti le lacrime, che mi donasti non una, bensì tutte e due le tue spalle dove poter piangere e rifugiarmi.

Sei tu l’unica persona che poteva salvarmi. Sei tu. Solo che non l’hai mai capito. Ci siamo fatti tanto male a vicenda. Ci siamo feriti e graffiati il cuore troppe volte, tante forse, ma non potrei mai abbandonarti. Si dice “se ami davvero qualcuno, lascialo andare”, ma io ti amo così tanto che l’idea di non averti, mi uccide.
Mi ami anche tu, vero?

Non ti vidi più per molto tempo dopo quell’unico episodio, mi eri rimasta incastrata dentro. Non dico che ti cercavo con gli occhi nei locali che frequentavo, perché mentirei, però eri rimasta. Se ti avessi rivista, ti avrei riconosciuta subito. E poi venne quel fatidico giorno, qualche anno dopo, in cui pure tu ti accorgesti di me. Te lo ricordi?
Sulle note di una canzone nostalgica degli anni ‘80 passata alla radio in macchina, mentre giravo il volante per entrare in una piccola stradina, una vettura rossa mi venne incontro proprio dalla strada in cui dovevo entrare. (Ti ricordo che era a senso unico, comunque). Questo scontro frontale non fu mai così forte, come quello che ebbi quando ti vidi uscire da quella stessa auto. Mi sembrava di vivere un sogno. Urlavi “mi dispiace, mi dispiace”, quasi ti piangevano gli occhi al solo pensiero di quello che avrebbero detto i tuoi genitori sulla cifra che dovevi sborsare per ripagarmi. Dicesti “ma dai, è solo un piccolo graffietto”, quando in realtà l’avevi ammaccata di brutto. Non è mai cambiato questo tuo lato di voler rimpicciolire le cose, anche se poi sono enormi. Non sapevo come comportarmi, non sapevo che dirti. Ti chiesi di darmi le generalità, forse per strapparti qualcosa in più di te. Ti chiamavi Giulia, avevi 24 anni e quando ti dissi che avremmo fatto la constatazione amichevole, mi hai mostrato per la prima volta il tuo sorriso di gratitudine mista alla consapevolezza di aver commesso un errore. Lo stesso, preciso, identico sorriso che mi facesti anni e anni dopo.
Ti chiesi se volevi venire a prendere un caffè, per parlare e metterci d’accordo su tutto l’incidente in generale. Guardando l’orologio, con un filo di voce, mi rispondesti con un diniego, che stavi facendo tardi, che quell’incidente non avresti mai voluto farlo e che ti eri sbagliata. Per me, invece, quell’incidente fu la cosa più bella che potesse capitarmi. Mi desti il tuo numero di cellulare e mi dicesti che potevo scriverti per vederci in qualsiasi momento. Avevi quella sciarpa verde smeraldo che ti copriva il collo, ma che ti aggiustavi sempre in maniera quasi maniacale, e quel berretto nero sulla testa, ma sentivi freddo lo stesso. Mi salutasti con fare discreto, mi stringesti la mano e corresti subito in macchina. Pronta, forse, per fare qualche incidente nei cuori di qualche altro uomo, per te ero soltanto il ragazzo a cui avevi distrutto la macchina e che non volevi più rivedere per l’imbarazzo. 
Che strana la vita, no? Per questo non penso che sia stato il caso a farci incontrare. Quante probabilità c’erano? Una su un milione? Era destino, com’è destino tutto quello che venne dopo.

 
tuo, Febo
 
 
   
 
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