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Autore: _Pulse_    04/02/2018    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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24. Epilogue


Molly bussò contro lo stipite della porta che dava sul soggiorno ed entrò.
Sherlock era in piedi davanti alla mensola del camino e fissava con sguardo assente il teschio di nuovo scoperto e la fotografia, presa da un quotidiano ed incorniciata, che ritraeva lui e Arsène ammanettati sulla soglia del 221B, mentre si rigirava tra le dita un sacchettino di plastica trasparente in cui era conservato un pezzo di stoffa intriso di sangue. Il sangue del Ladro Gentiluomo.
John gliel'aveva dato a Natale, come se si trattasse di un regalo, e ancora non aveva deciso che cosa farne. Se l'avesse ricevuto un mese prima non avrebbe esitato un attimo, ma dopo tutto quello che era successo... era seriamente tentato di gettarlo nel fuoco del camino e fingere di non averlo mai posseduto.
Il detective trattenne un sospiro e alzò il capo verso l'anatomopatologa per dedicarle tutta la propria attenzione.  
Non l'aveva mai vista così felice come negli ultimi dieci giorni e tutto quello che aveva dovuto fare era stato essere sincero.
Le aveva raccontato di quello che era successo con Magnussen, di sua sorella e dell'infanzia che aveva riscritto per proteggersi dalla sofferenza, delle prove a cui l'aveva sottoposto Eurus (e per le quali si era inaspettatamente scusata - con poche parole, ma pur sempre parole - quando era andato a trovarla con Mycroft e i suoi genitori la mattina di Natale) e persino dei sentimenti che aveva scoperto di provare per lei, ma il loro rapporto non era cambiato come temeva.
Molly aveva ascoltato tutto senza mai interromperlo, seduta sulla poltrona di John, e quando alla fine si era alzata e si era avvicinata, Sherlock aveva chiuso gli occhi, temendo uno o più schiaffi. Invece si era ritrovato col volto premuto contro il suo ventre, le sue braccia a circondargli il capo e la sua mano destra ad accarezzargli i capelli.
«Mi dispiace tanto», aveva sussurrato e Sherlock non aveva capito, non all'inizio.
«Mi dispiace che tu abbia sofferto in questo modo. Ora capisco perché per così tanto tempo hai preferito la solitudine... Non volevi che accadesse qualcosa di brutto alle persone al tuo fianco, com'è successo al tuo amico d'infanzia. Tuttavia sono convinta che vivere in questo modo non sia giusto, né per noi né, soprattutto, per te. Quello che è fatto è fatto, Sherlock, e mi dispiace. Mi dispiace così tanto...».
Alla fine, il super-detective, nella sua totale ignoranza, era riuscito a comprendere quello che in realtà Molly non riusciva a dire, nascondendosi dietro tutti quei "Mi dispiace": il suo amore non sarebbe bastato per entrambi, non più. Da sola, lei non era in grado di lavare via il sangue con cui si era macchiato le mani e ci sarebbe voluto del tempo per capire come adattarsi l'uno all'altra ora che il muro che li separava era stato definitivamente abbattuto. Bisognava liberarsi delle macerie e avrebbe richiesto dell'impegno. Ad ogni modo, chissà perché, Sherlock era speranzoso.
Aveva sempre immaginato che sarebbe rimasto solo perché "sposato" col proprio lavoro e in qualche modo questo non sarebbe mai cambiato: non sarebbe mai stato un fidanzato convenzionale né avrebbe cambiato stile di vita per qualcuno. Ironia della sorte, ora che aveva compreso che non aveva bisogno di cambiare per stare con Molly Hooper, era lei a fare un passo indietro.
«Cosa posso fare per rimediare?», le aveva chiesto allora, ricambiando la stretta cingendole la vita con le braccia. «Una colpa così grande...».
«Dovrai sopportarne il peso per tutta la vita, è così. Tutto quello che puoi fare, che devi fare, è impedirle di schiacciarti. Fai quello che hai sempre fatto, Sherlock; fai quello che ti viene meglio: aiuta gli altri».
Il consulente investigativo era rimasto in silenzio a lungo, con le lacrime agli occhi e i polmoni pieni del profumo e del calore di Molly. Avrebbe voluto dirle che l'amava come mai aveva fatto prima, ringraziarla per essere sempre stata al suo fianco, ma non una parola gli era uscita di bocca. Sperava che lei, grazie al suo inimitabile talento, l'avesse capito comunque.
«Hai bisogno di me per un caso?», gli chiese mentre aggirava un cavalluccio a dondolo di splendida manifattura: il regalo di Natale di Arsène Lupin per Rosie.
Sherlock, ritornato alla realtà, continuò l'ispezione e la trovò particolarmente bella quella mattina: indossava dei pantaloni beige, una camicetta e un maglioncino bianco e portava i capelli raccolti, con un ciuffo laterale a coprirle parte della fronte. O forse a renderla più bella era semplicemente il sorriso che le illuminava il volto.
Si sentì quasi inadeguato in vestaglia, ma ignorò quel pensiero e prendendola per le spalle la condusse davanti alla scrivania, dove la fece sedere davanti al pc aperto su un'email.
«È arrivata questa mattina. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere leggerla».
Gli occhi di Molly si ingrandirono quando capì che la mittente altri non era che Geneviève, la quale raccontava loro del Natale trascorso con suo padre e Victoire a Parigi e delle paure e delle speranze legate alla scuola che avrebbe iniziato a frequentare a partire dal 2 Gennaio.
«Darei qualsiasi cosa per poterle parlare, dirle che il primo giorno è difficile per tutti».
«Per me non lo è stato», mentì Sherlock, beccandosi una gomitata nello stomaco.
Il detective sorrise e si chinò al suo fianco, accostando il volto al suo, per aprire l'allegato: un selfie che ritraeva lei e Arsène avvolti in un'unica sciarpa fatta a mano, in cima alla Torre Eiffel e con due sorrisi ancora più luminosi di tutte le luci di una Parigi addobbata a festa per il Capodanno.
«Sono tanto contenta per loro», disse Molly, quasi commossa. «Si meritano un po' di felicità».
Sherlock non replicò, bensì le mostrò la bozza di risposta che aveva iniziato a scrivere. Molly corresse alcuni punti, mettendoci un po' di umanità, e poi gli chiese se volesse allegare anche lui delle foto.
«Sì, pensavo queste due».
Aprì le fotografie che aveva scelto tra il mucchio di quelle scattate durante la festa di Natale al 221B e Molly arrossì quando si ritrovò davanti agli occhi l'immagine del bacio che erano stati costretti a darsi per colpa di John e la signora Hudson, i quali si erano messi d'accordo per farli passare sotto il vischio. Lei aveva provato a rifiutarsi in realtà, invece Sherlock non aveva fatto una piega e prendendole il volto tra le mani aveva posato le labbra sulle sue, per poi sussurrarle: «Facciamoli contenti, si sono impegnati tanto». Molly l'aveva fissato e la luce che gli aveva visto negli occhi, così diversa dalla tristezza a cui si era quasi abituata, le aveva fatto sorgere il sospetto che il detective avesse aspettato un assist del genere per tutta la sera. Aveva allontanato subito il pensiero ovviamente, ma il sorriso che lui e John si erano scambiati poco dopo, vicino al pudding...
«Oh mio Dio, non sapevo che qualcuno avesse scattato una foto!», esclamò lei, coprendosi il volto. «Chi è stato?».
«Lestrade».
«La prossima volta che passa in laboratorio gliene dico quattro, eccome!».
«Non capisco, sei arrabbiata per la foto o per il bacio in sè?».
Molly si girò verso di lui e i loro nasi si sfiorarono, tanto erano vicini i loro volti.
«Io... È vero che ti ho chiesto del tempo, ma... Come puoi pensare che sia arrabbiata per il bacio? La verità è che quello che provo per te mi spaventa, perché nonostante tutto non smetterò mai di...».
Sherlock però non le lasciò finire la frase. La baciò, quella volta senza scuse da poter sfruttare, e quando si allontanò le tenne comunque il volto perché non distogliesse lo sguardo mentre le diceva con tono serissimo: «Anche io sono spaventato dai tuoi sentimenti. Terrorizzato».
Molly deglutì a vuoto, le sopracciglia aggrottate. «Uhm... grazie?».
Il detective si tirò su, imbarazzato, e senza più dire una parola andò in camera da letto per disfarsi della vestaglia e recuperare una giacca.
«Vieni con me», le disse sbrigativo, porgendole la mano.
«Dove andiamo?».
«È tempo che tu conosca una persona».
Molly deglutì di nuovo, nervosa, ma si fidava di lui e per questo afferrò la sua mano.
Presero un taxi e Molly capì tutto quando sentì Sherlock dare l'indirizzo all'autista. Sorrise dolcemente e strinse un po' più forte la mano del detective, ma rispettò il suo silenzio.
Quando raggiunsero l'ospedale Sherlock esitò davanti alle porte scorrevoli e Molly si chiese se avesse fatto così anche tutte le altre volte che era andato a trovarla o se si trattasse della sua presenza. Alla fine però entrarono e lui camminò a passo sicuro tra i corridoi, conoscendo a memoria la strada.
Raggiunsero una stanza privata, del tutto spoglia se non fosse stato per un vaso di fiori che dovevano essere del giorno prima, e Molly sentì un peso enorme schiacciarle il petto al pensiero che quella donna aveva posseduto il corpo di Sherlock e forse anche un pezzo del suo cuore, visto e considerato che andava a trovarla ogni giorno.
Una sera in cui si era sentito particolarmente in vena di confidenze le aveva detto che si riteneva responsabile per ciò che le era accaduto, che se le avesse detto la verità lei non si sarebbe mai rivolta ad Arsène e poi alle persone che l'avevano ridotta in quello stato, ma Molly la pensava diversamente. Imitando Arsène, avrebbe voluto dirgli di quel proverbio che faceva: "Chi semina vento raccoglie tempesta", ma alla fine era rimasta in silenzio.
Uno dei dottori che l'aveva in cura, avvisato del suo arrivo, si avvicinò e gli disse che purtroppo non c'erano novità. Sherlock annuì mestamente e Molly, guardandolo, capì che c'era un'altra ragione per cui l'aveva portata con sé: stava perdendo le speranze.
La scienziata tirò fuori le proprie conoscenze mediche e gli parlò da dottore a dottore, facendogli notare che per il momento non c'era motivo di demoralizzarsi in quel modo: finché c'era attività celebrale c'era la possibilità che si svegliasse da un momento all'altro.
Sherlock la guardò ammirato mentre congedava il dottore e poi entrarono nella stanza di Irene Adler. Il suo petto si alzava ed abbassava grazie al respiratore, una serie di tubi le sparivano sotto le maniche della camicia e la pelle delle sue mani e del suo volto era così pallida da confondersi con il bianco delle lenzuola.
Molly avvicinò una mano ai suoi capelli scuri e li accarezzò col dorso delle dita, sentendo la gola bruciare. Lei non la conosceva, ma conosceva il dolore che si provava quando una persona cara stava per andarsene e alzò gli occhi su Sherlock, trovandolo appoggiato alla sponda ai piedi del letto con entrambe le mani.
«Pensi davvero che si sveglierà o lo dicevi per compassione?», le domandò lui ad un tratto.
«Hai detto che voleva disperatamente incontrarmi, no? E da come me ne hai parlato ho capito che è una combattente, una che lotta con le unghie e con i denti, perciò non ho dubbi: si sveglierà».
«E la cosa non ti preoccupa?».
Molly frenò una risata. «Sei ancora innamorato di lei?».
«Non credo che quello che c'era tra noi potesse definirsi amore, almeno per quanto mi riguarda».
«Ecco la tua risposta».
Sherlock la raggiunse e le cinse la vita con un braccio, una mano a stringere quella di Irene.
Sì, ne era sicuro: prima o poi si sarebbe svegliata e avrebbe avuto la sua seconda occasione. Doveva avere fede, come gli aveva insegnato Arsène.

***

Nemmeno la spettacolare vista della Grande Barriera Corallina fu in grado di tirarle su il morale.
Pensava che suo padre l'avrebbe accompagnata fino al cancello della scuola, purtroppo però le coordinate dell'isola in cui si trovava l'istituto - da qualche parte nel Mar dei Caraibi - dovevano rimanere top secret persino a lui.
A quel punto le erano sorti mille dubbi, ma in realtà era semplicemente spaventata di iniziare da zero un'altra volta. Ormai avrebbe dovuto esserci abituata, ma quella volta sarebbe stata sola, su un'isola piena di ragazzini super-intellingenti, e aveva paura di non essere all'altezza.
«Io invece sono convinto che te la caverai alla grande», le aveva detto suo padre salutandola con un abbraccio e un bacio sulla fronte.
Poi era stato il turno di Victoire, la quale le aveva lasciato tra le mani un sacchetto simile a quello che le aveva dato quando si erano conosciute.
«E se i tuoi compagni non si dimostrassero amichevoli offri loro un biscotto, va bene bonbon?».
La donna portava gli occhiali da sole, come il novanta percento del tempo, ma Geneviève l'aveva capito dalla voce che si stava trattenendo dal piangere.
Quindi era salita su quell'elicottero militare scortata da un uomo armato, vestito completamente di nero e con degli occhiali a mascherina che gli nascondevano gran parte del viso, ed era partita.
Tra le mani stringeva ancora il sacchetto con i biscotti e il cellulare, giusto per dirsi che poteva chiamare suo padre in qualsiasi momento, ma anche quella specie di auto-consolazione venne spazzata via quando il militare seduto al suo fianco le disse: «Probabilmente non ti hanno avvisata, ma non c'è campo sull'isola dei piccoli geni. Per una questione di sicurezza siete completamente isolati dal mondo. Perciò scordati anche Netflix».
Per fortuna Sherlock aveva risposto alla sua e-mail il giorno precedente!
«E non si può in alcun modo comunicare con la terra ferma?», domandò quindi, in ansia.
«Questo elicottero e la nave che porta i rifornimenti speciali sono l'unico contatto con la terra ferma. Per il resto l'isola è stata resa quasi completamente autosufficiente: ci sono pozzi e cascate per l'acqua, campi coltivati, allevamenti di bestiame, navi da pesca... Tutto quello che vi arriva in tavola è kilometro zero. Solo il meglio per i nostri piccoli geni».
«La smetta di chiamarci così».
Il militare sogghignò. «Piccoli geni? Vedrai, ti abituerai. Cos'hai in quel sacchetto?».
«Non lo sa? Mi ha perquisita da capo a piedi prima di farmi salire».
«Ehi, facevo solo il mio lavoro».
Geneviève sospirò ed aprì il sacchetto. «Biscotti».
«Posso averne uno?».
«Prego».
«Io sono Kinnon, comunque. Tu ti chiami?».
«Geneviève».
L'uomo infilò una mano nel sacchetto e si portò un dischetto con le gocce di cioccolato alla bocca, sbriciolandosi sulla divisa. Mentre faceva commenti d'apprezzamento le parve molto più umano e la ragazzina si rilassò, riuscendo persino a stendere un sorriso.
«Prima ha detto che c'è una nave che porta dei rifornimenti speciali. In che cosa consistono?».
«Oh beh, quelle cose che sull'isola non si possono produrre: medicinali, vestiti, armi...».
«Cioè mi sta dicendo che se tra i "piccoli geni" uno svalvola e diventa un pazzo omicida avrebbe delle armi per farci fuori tutti?!».
Il militare si tolse gli occhiali, rivelando un paio di glaciali occhi azzurri, e la fissò sbalordito. «Qual è il tuo problema, ragazzina? Sono cinquant'anni che esiste questo programma e non è mai successo nulla del genere».
«Potrebbe accadere proprio mentre ci sono io», mormorò.
«Okay, senti: su quell'isola gli studenti vengono sorvegliati praticamente ventiquattr'ore su ventiquattro da noi delle forze speciali e all'istituto lavorano alcuni dei migliori psicologi del mondo, perciò se anche qualcuno dovesse mostrare segni di squilibrio - e ti ripeto che non è mai successo, dato che i prescelti hanno tutti un pedigree impeccabile - verrebbe subito messo in isolamento e poi rispedito sulla terra ferma».
«Pedigree? Adesso ci paragona a dei cani?».
Kinnon si infilò nuovamente gli occhiali, sbuffando. «Era una metafora per dire che solo gli studenti con un albero genialogico impeccabile vengono ammessi. Per capirci: nessun figlio di criminali ha mai messo piede sull'isola. Fin'ora almeno». Fece per grattarsi la testa, ma ricordandosi di indossare il caschetto ci rinunciò. «Non saprei dirti se è una regola, ma sta di fatto che...».
«Grazie per la spiegazione, tutto molto interessante», lo interruppe bruscamente la ragazzina, tirando fuori dallo zainetto le cuffie ricevute come regalo di Natale da Sherlock ed isolandosi nella propria musica.
Paradossalmente, anziché tranquillizzarla Kinnon aveva aggravato le sue fobie al limite della paranoia.
Nè Mycroft Holmes nè suo padre l'avevano informata di quel piccolo, insignificante dettaglio: anche in quella scuola per ragazzi speciali, dove sperava finalmente di essere apprezzata per tutto ciò che era, avrebbe dovuto tenere nascosto che era la figlia del ladro più famoso di Francia, pena l'espulsione, la reclusione in un qualche sotterraneo o magari la correzione del gene criminale che aveva nel DNA tramite chissà quale avanzato trattamento.
Il viaggio non fu troppo lungo, per fortuna, e l'elicottero atterrò su una piattaforma a qualche chilometro dall'isola, rendendola ancora più inacessibile agli occhi di Geneviève. Fu fatta salire su un humvee - manco dovessero attraversare una zona di guerra - il quale poi fu caricato su un traghetto che li portò finalmente a riva. Lì percorsero un paio di chilometri di spiaggia bianca, costeggiando a sinistra l'oceano cristallino e a destra delle pareti rocciose su cui la vegetazione cresceva rigogliosa.
La geografia le era sempre piaciuta e quell'isola aveva tutte le caratteristiche per essere di origine vulcanica.
Ci manca solo un vulcano, pensò affranta, mentre nelle orecchie i Fall Out Boy le dicevano che i ragazzi non stavano bene.
Ad un tratto la spiaggia terminò a causa di una parete rocciosa che continuava per diversi metri nell'oceano, tuttavia il mezzo militare non rallentò né l'uomo alla guida si preparò a cambiare direzione. Kinnon invece se la rideva sotto i baffi, in attesa che iniziasse a gridare per la paura forse, e Geneviève decise che non gliel'avrebbe data vinta: tirò fuori il coraggio e la sfrontatezza dei Lupin ed accavallò le gambe, sorridendo tranquilla in direzione della parete di pietra.
Come aveva immaginato una lastra di forma rettangolare scivolò di lato, mostrando una galleria segreta che portava verso la superficie, rivestita in metallo ed illuminata da moderne luci a led.
«Hai fegato, ragazzina», le disse Kinnon. «Non sai quanti prima di te se la sono fatta sotto».
Geneviève sorrise orgogliosa e fu quasi accecata dalla luce del sole quando uscirono dalla galleria e si ritrovarono in un viale cementato nel bel mezzo di una foresta tropicale. C'erano pappagalli e lemuri che passavano di albero in albero sopra le loro teste e la biondina si portò le cuffie intorno al collo per ascoltare i suoni della natura.
«Siamo arrivati», esclamò ad un tratto Kinnon, puntando il dito verso la facciata di un edificio dai mattoni scuri che le ricordò il duomo di Notre Dame con i suoi rosoni, le nicchie ogivali e le guglie appuntite.
Davanti al portone principale c'erano altri due uomini delle forze speciali, i quali diedero loro il lasciapassare per accedere al grande quadrilatero interno, circondato su tre lati da un porticato, da cui si entrava ufficialmente nell'istituto.
Geneviève scese dall'humvee e si guardò intorno con la netta sensazione di essere finita in una scuola cattolica del tardo Medioevo: mancavano solo le suore e i frati incappucciati.
«Bene, ti auguro una buona permanenza».
La ragazzina si voltò verso il militare, il quale nel frattempo aveva scaricato i suoi bagagli ed era già risalito sulla vettura.
«Aspetti un momento! Dove dovrei andare?».
Kinnon le scompigliò i capelli sulla testa e le indicò la scalinata centrale, sormontata da due leoni simili a quelli di Trafalgar Square.
«Non ti preoccupare, prima o poi qualcuno lo troverai».
«Cosa? Ma...».
L'uomo le fece il saluto militare, dopodiché il collega fece inversione ad U e la lasciarono sola nel quadrilatero deserto.
Geneviève raccimolò il coraggio e, zaino in spalla, trascinò il pesante trolley su per la scalinata fino al portone che trovò socchiuso. Allora entrò e rimase stupefatta nel notare che se l'esterno somigliava in tutto e per tutto ad una chiesa gotica, l'interno era ultra-moderno: i pavimenti erano di lucido marmo bianco, le porte a scorrimento elettronico e in mezzo alle grandi scale a chiocciola che si trovavano ai lati della sala c'erano persino due ascensori in vetro.
«C'è nessuno?», esordì nel modo più banale possibile, ma ottenne l'effetto desiderato.
«Signorina Geneviève?».
La ragazzina sobbalzò e si guardò intorno, realizzando che dovevano averle parlato attraverso gli altoparlanti che si trovavano ai lati del grande salone, sotto le telecamere.
«Sì, sono io», rispose con voce incerta.
«Io mi chiamo Natalie e dirigo questo istituto. Mi dispiace per la scarsa accoglienza, ma il personale, così come la maggior parte degli studenti, è ancora in congedo per le feste. Ti dispiacerebbe raggiungermi nel mio ufficio? Lascia pure lì i tuoi bagagli, li prenderai dopo».
«Okay».
«Perfetto! Adesso ti indicherò la strada. A tra poco!».
Una luce blu illuminò il pavimento davanti a lei e Geneviève realizzò che quello che aveva scambiato per marmo era in realtà un pavimento formato da mattonelle di led impostate per sembrare semplice marmo.
«Su su, avanti, non avere paura».
Geneviève seguì le mattonelle luminose fino a giungere in un'altra sala che sembrava proprio un salotto comune sviluppato su più piani, con tanto di divani, TV al plasma e giochi di ogni tipo, tra cui anche un tavolo da biliardo.
Proseguì ancora e si ritrovò in un altro giardino circondato da porticati in pietra.
«E adesso?», si domandò e si guardò intorno per cercare la luce blu che doveva farle da guida. Alla fine notò una lampada illuminarsi ritmicamente dall'altra parte del giardino e si affrettò a raggiungerla, ma a metà percorso finì per sbattere contro qualcuno che era uscito da una porta scorrevole senza guardare davanti a sé, probabilmente perché non poteva: diversi scatoloni una volta pieni di libri, appunti, vestiti ed effetti personali gli erano caduti nello scontro ed ora tutto era sparpagliato per terra.
«Ohi-ohi, pensavo che queste cose accadessero solo nei film», esordì il ragazzo e Geneviève  si ritrovò ad arrossire incrociando i suoi occhi blu, vivaci e sorridenti.
Lui fu il primo ad alzarsi e le porse le mani per aiutarla. Lei le accettò e pur di levarsi dall'imbarazzo si concentrò sul disastro ai loro piedi: «Ti do' una mano a mettere a posto, va bene? In fondo è anche colpa mia».
«Ti ringrazio. Sei nuova? Ma certo che sì, che domanda idiota. Io mi chiamo Isidore Beautrelet».
Geneviève gli strinse la mano dopo aver infilato in una scatola una pila di libri, un po' sorpresa. «Sei francese pure tu?».
«Nato e cresciuto a Castagniers, vicino a Nizza».
«Lo conosco! Io abitavo ad Aspremont, è praticamete lì accanto!».
«Ma non mi dire! Che coincidenza incredibile trovarci qui, non trovi?».
«Io sono Geneviève. Geneviève Destange».
«È un vero piacere. Posso chiamarti Gen?».
La bionda sorrise ed annuì, felice di aver trovato qualcuno con cui poter condividere qualcosa. Il fatto che fosse così carino era tanto di guadagnato.
Mancava ormai poca roba da raccogliere e Geneviève non riuscì a trattenere la curiosità: «Come mai gli scatoloni?».
«Perché me ne sto andando».
E addio ai suoi sogni di aver già trovato un amico.
Notando la sua espressione triste Isidore strinse gli occhi e scosse freneticamente le mani davanti al volto.
«No, mi sono spiegato male! Sto andando via da quell'ala del dormitorio perché quest'anno hanno deciso di tenere maschi e femmine in un unico edificio! Non sto andando via dall'isola. Magari. Sono due anni che non vedo la terra ferma».
Forse parlava un po' troppo per i suoi gusti, ma era un difetto a cui poteva facilmente porre rimedio una volta ottenuta maggiore confidenza.
«Quindi hai trascorso qui le vacanze di Natale e il Capodanno?», gli domandò ad occhi bassi, sentendosi all'improvviso estremamente fortunata.
«Già. Quest'anno è stato ancora più triste dell'anno scorso, dato che non è rimasto nessuno a parte me».
«Nessuno? Vuoi dire davvero che tu hai trascorso il Natale su un'isola deserta?».
«No, deserta no... C'erano Natalie, lo chef Kazuo e gli agenti speciali Bust e Tonnerhop. Mi riferivo agli studenti».
«Ho capito».
Geneviève raccolse una serie di appunti e poi dei fogli pinzati insieme il cui titolo attirò la sua attenzione: "Arsène Lupin e il Faraglione Cavo - Il mistero risolto da Isidore Beautrelet".
«E questo che cos'è?», gli domandò la ragazzina.
Isidore alzò di scatto il capo e il suo viso si imporporò. Le strappò il plico dalle mani e se lo portò al petto con una mano, mentre con l'altra si tirava indietro i capelli biondi che per via del caldo e dell'umidità si erano arricciati sulla fronte e sul collo.
«È un progetto a cui sto lavorando da qualche mese a questa parte, ma è difficile lavorare a un vecchio caso in condizioni normali, figuriamoci confinati qui».
«Tu... Tu sei un fan di Arsène Lupin?», la buttò lì, fingendosi non troppo interessata, ma lo era eccome.
«Sono un fan della sua mente», rispose Isidore, di nuovo sorridente. «Il mio sogno è affrontarlo e riuscire ad arrestarlo. Sherlock Holmes ci è andato così vicino, prima di Natale! In quell'occasione ammetto di aver tifato per il Ladro Gentiluomo perché voglio essere io a batterlo».
«Cavolo, sei un tipo ambizioso». Geneviève si alzò e sorridendo nervosamente indicò la luce blu che stava ancora lampeggiando. «Scusami, ma Natalie mi sta aspettando e non vorrei farla arrabbiare il primo giorno».
«Oh, se vuoi ti posso accompagnare nel suo ufficio!».
La ragazzina si guardò intorno alla ricerca di un modo gentile per scaricarlo. «Davvero, non è necessario. Ti ho fatto sprecare già troppo tempo».
«Figurati, il tempo è l'unica cosa che non mi manca».
Sorridendo le afferrò la mano e Geneviève non poté far altro che seguirlo lungo i corridoi, tra le varie stanze e sulle scalinate. Tutto era avvolto nel silenzio.
Provò a rimanere concentrata sul percorso, in modo da poterlo fare da sola al ritorno, ma il calore della sua mano, il suo sorriso e i suoi occhi brillanti la stavano mandando in tilt. Ed era la cosa peggiore che potesse capitarle, dato che Isidore era un aspirante detective il cui sogno era quello di catturare suo padre.
«E, dimmi una cosa», lo interruppe durante la spiegazione sulle attività serali.
«Sì, chiedimi pure quello che vuoi».
«Quand'è che ritorneranno gli altri studenti?».
Isidore, candido ed ingenuo, non capì il sottotesto di quella domanda e rispose: «L'8 Gennaio».
«Ah. Quindi per sei giorni saremo qui da soli, dico bene?».
Il ragazzo sorrise. «Corretto».
«Fantastico», mormorò Geneviève senza farsi sentire e finalmente raggiungerso la porta dell'ufficio della preside.
«Vai, io ti aspetto qui», le disse dopo aver bussato.
La voce femminile che Geneviève aveva sentito attraverso gli altoparlanti le diede il permesso di entrare e lei rivolse uno sguardo scioccato ad Isidore.
«Non so quanto mi tratterrà lì dentro!».
«Non ti preoccupare». Il ragazzo si addossò contro la parete e si lasciò scivolare sul pavimento con le mani intrecciate dietro la testa e le gambe stese. «Come ti ho già detto, ho fin troppo tempo libero».
Geneviève sospirò affranta. Si sarebbe innamorata di quel ragazzo e del suo stupido sorriso, ne era certa.
Senza dire una parola si tolse lo zainetto dalle spalle e tirò fuori il sacchetto di biscotti di Victoire per lanciarglielo. Isidore lo afferrò al volo, un po' confuso, ma Geneviève non gli diede il tempo di porre domande, aprendo la porta e sparendo all'interno dell'ufficio della preside, nel quale venne colta di sorpresa dalla vista mozzafiato di cui si godeva dalle ampie finestre accanto alla scrivania: si vedevano la foresta, la spiaggia che avevano attraversato con l'humvee e in lontananza il traghetto che portava alla piattaforma d'atterraggio in mezzo all'oceano, ma anche tutto ciò che Kinnon le aveva descritto e anche di più: serre e campi coltivati con ortaggi, alberi da frutto e vitigni; fattorie con recinti pieni di mucche, pecore e cavalli; campi da tennis, da basket, da calcio e da baseball; un'arena per il tiro con l'arco e quella che sembrava proprio una piscina olimpionica coperta da una cupola di vetro.
«So cosa stai pensando, bambina mia».
Geneviève posò gli occhi sulla donna seduta dietro la scrivania e la trovò infinitamente più giovane di quanto si era immaginata: avrà avuto trent'anni al massimo ed era una bomba sexy con le sue gambe lunghe, il decolté prorompente e un viso bellissimo contornato da morbidi boccoli neri.
«Ah sì?», le domandò arrossendo.
«Pensi che, più che una scuola, questo sembra un resort. Non hai tutti i torti».
La donna si alzò dalla poltrona e la raggiunse al centro dell'ufficio muovendo sinuosamente i fianchi, dopodiché le alzò il volto e sorridendo ammaliante aggiunse: «Grandi menti hanno bisogno di corpi sani e in forma, per questo prendiamo molto sul serio lo sport e l'alimentazione. Ma per ottenere risultati questo non basta: serve impegno e sacrificio. Sei pronta, Geneviève Lupin?».
La ragazzina rimase a bocca aperta. «Allora... Allora lei lo sa chi sono».
«Certo che lo so».
«E mi ha... mi ha ammessa comunque in questa scuola?».
«Diciamo che tu sei il mio piccolo esperimento», ammise, pizzicandole il naso prima di dirigersi verso le finestre con le mani intrecciate dietro la schiena. «Sei la prima figlia di un criminale che mette piede su quest'isola e voglio vedere che effetto farà sui nostri studenti».
Geneviève strinse i pugni lungo i fianchi, adirata. Prima che potesse dimostrare a parole il proprio malcontento però Natalie si voltò e le rivolse un sorriso quasi materno.
«Io non mi preoccuperei troppo se fossi in te. Dubito che tra i nostri piccoli geni ci sia qualcuno di così stupido da credere che esista il "gene del criminale". Qui i pregiudizi non esistono: conta solo cosa puoi fare per rendere il mondo un posto migliore. Ricordatelo».
La ragazzina annuì, ammettendo che il mondo sarebbe potuto essere un posto migliore se solo tutti avessero ragionato in quel modo sin dall'inizio.
«Bene, bambina mia». Natalie diede le spalle alla finestra e aprì le braccia. «Sei pronta ad uscire dall'ombra di tuo padre e a scoprire cosa rende speciale te?».
La figlia di Arsène Lupin chiuse gli occhi e quando li riaprì erano quelli pieni di determinazione di Geneviève. Sì, era pronta.



FIN




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Non mentirò, non è mia abitudine. È stata dura, a volte è stata durissima. Ci sono stati momenti in cui credevo di non farcela, di essermi imbarcata in qualcosa di più grande di me. Eppure, grazie all'affetto e al sostegno di tutti voi, che avete letto questa mia creatura, e all'amore incondizionato che nutro per questi personaggi - dal primo all'ultimo - sono riuscita a rimboccarmi le maniche e a giungere alla fine di questa avventura. Ho provato un misto di soddisfazione e tristezza quando ho spuntato quel "sì" a completamento della storia, perché mi mancherà da morire il nostro appuntamento domenicale.
Quello che spero è che non sia una fine definitiva: da qualche parte Sherlock continuerà a risolvere casi con l'aiuto di John, Molly, Lestrade e gli altri; Arsène continuerà la sua personale lotta contro il male nell'unico modo che conosce e sa fare, seguito da Victoire, François, il resto della sua banda e sorvegliato dall'alto da Grégorie; Geneviève crescerà e diventerà una splendida donna capace di fare le sue scelte; Maurice scriverà le avventure del ladro e farà carriera; Ganimard ritroverà l'equilibrio tra le famiglia e il lavoro, senza sacrificare niente, e sarà felice; e, un giorno, tutti quanti calcheranno di nuovo lo stesso palcoscenico per regalarci nuove emozioni.
Questo è quello che spero, ma per ora mi godo ciò che sono riuscita a fare fino a questo momento e tutte le parole e i complimenti inaspettati che mi sono arrivati.
Vorrei ringraziarvi tutti, uno per uno, ma è impossibile. Perciò grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite/preferite/ricordate. Grazie a chi ha letto semplicemente. Grazie a chi ha commentato, una sola volta oppure quasi tutti i capitoli (tra cui non posso fare a meno di citare: LadyStark, BorderCollie, Shimba97, CreepyDoll e Intergirl84. Leggere le vostre recensioni, settimana dopo settimana, mi ha resa felice e in alcuni momenti mi ha dato la forza per andare avanti!). Un grazie speciale alla già citata Shimba97 , la quale ha ritenuto questa storia degna di una segnalazione per le storie scelte della categoria.
Grazie a Sir Arthur Conan Doyle e all'Onorevole Maurice Leblanc per aver creato due dei personaggi più iconici della letteratura, che io amo alla follia.
Grazie di cuore a tutti ♥
Ci vediamo presto, qui e in qualche altro fandom! ;)

Sempre vostra,

_Pulse_



   
 
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