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Autore: kirarin3000    05/02/2018    0 recensioni
Sapporo, Hokkaido.
Nella gelida notte di Capodanno, la vita del piccolo Ren viene scossa per sempre. Inconscio del disastro che lo circonda, incontrerà Aoi, un ragazzino dagli occhi sorprendentemente azzurri e l'aspetto malandato, chiuso dentro il suo armadio. L'incontro segnerà la stretta di un legame indissolubile e controverso, fatto di amore ed odio, che li porterà a vivere a stretto contatto nella caotica Tokyo contemporanea.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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2. Adam

La sveglia suonò. Ren si limitò ad allungare la mano verso di essa per spegnerla. Le lancette segnavano le sette del mattino, ma per lui la giornata era iniziata due ore prima, quando dopo una notte quasi completamente insonne era finalmente crollato per lo sfinimento e aveva dormito forse un’oretta. Intorpidito, con gli occhi gonfi e la testa pesante, abbandonò il piumino caldo e si infilò le ciabatte, mettendosi in piedi e facendo un debole tentativo di stiracchiarsi. Niente da fare, il suo corpo non voleva saperne di darsi una svegliata. Forse la colazione l’avrebbe aiutato.
Rabbrividendo al contatto della pelle nuda con l’aria fresca, si sfilò il pigiama ed indossò la divisa scolastica: camicia bianca, pantalone marrone, cardigan beige. Era sempre grato agli indumenti poco appariscenti come quelli, soprattutto quando sarebbe stato costretto a sfoggiare per le strade affollate di Tokyo quell’aria da zombie.

Spazzolò i capelli neri e fece per uscire dalla camera, ma lo sguardo cadde casualmente sulla scrivania popolata da ritagli di giornale, alcuni più vecchi, altri più nuovi, nessuno, a parer suo, abbastanza recente. Mamma avrebbe dato di matto se entrando in camera sua li avesse di nuovo visti sulla scrivania, così decise di risistemarli all’interno di una cartelletta verde che prontamente avrebbe nascosto tra la rete del letto e il materasso. Apparentemente sembrava che sua madre non avesse ancora scoperto quel nascondiglio.
Aveva cercato di guardare il meno possibile le foto sgranate e in bianco e nero sui ritagli di giornale, ma inevitabilmente anche solo intravederli con la coda dell’occhio l’aveva reso amareggiato e, mentre scendeva le scale diretto alla cucina, si rese conto che gli si era chiuso lo stomaco. Conosceva tuttavia sua madre e non era assolutamente il caso di farla preoccupare. Stomaco chiuso per lei voleva dire morte imminente e Ren non era pronto a rassicurarla dalla sua ipocondria. Non quella mattina. Così entrò in cucina e l’odore della colazione gli diede la nausea, ma si sforzò di sorridere alla madre già seduta a tavola a sorseggiare il tè, mentre suo padre leggeva un quotidiano con non troppo interesse. Stava senz’altro cercando le notizie sportive: il giorno precedente la sua squadra di baseball preferita aveva perso una partita e per via del lavoro al ryokan non era riuscito a vederla in televisione. Dire che la cosa lo rendeva frustrato era dire poco.
« Buongiorno » disse Ren, mentre la domestica sorridente gli portava la colazione che quella mattina, così come buona parte delle altre, consisteva in una ciotola di riso al vapore, pesce grigliato e zuppa di miso. Era certo che non ce l’avrebbe fatta ad ingurgitare tutto e si diede dello stupido per non essere sceso in cucina più tardi, così da poter prendere un toast al volo con la scusa del ritardo.
« Sei un po’ pallido, Ren. Non hai dormito bene? » osservò sua madre, alla quale non sfuggiva mai nulla. Mentire non era un’opzione.
« Non molto. Ho studiato fino a tardi. » O forse in alcuni casi mentire era l’unico modo per sopravvivere, a pensarci bene.
La madre sospirò, pronta a ribattere e dirgli come sempre che non aveva senso studiare così tanto, che aveva preso da lei che era dotata di un gran cervello e tanta memoria, ma suo padre abbassò il quotidiano per guardare la moglie e lo sguardo fu tanto eloquente da zittirla immediatamente.
Ren cercò di cambiare discorso. « Dov’è Masae? »
« Oh, è già uscita » rispose la madre con fierezza. « Oggi lavora in reception. I clienti la adorano. È davvero una cosa inaspettata, dato che è sempre stata abbastanza acidella sin da bambina, non credi caro? »
Suo padre alzò le spalle.
« Sono molto contenta. Sembra che finalmente abbia trovato la sua strada. Tra l’altro è da un po’ che non blatera di viaggi in America o in qualunque altro posto del mondo. È un miracolo. »
Capiva la fierezza di sua madre. Ci aveva messo moltissimo tempo a convincere Masae a prendere parte all’attività di famiglia, una volta finite le scuole superiori. Erano passati tre anni prima che la sorella maggiore si decidesse a fare qualcosa della sua vita. In fin dei conti avrebbe dovuto capire che mamma e papà o qualunque altro parente avessero, non avrebbero mai acconsentito a farle scegliere il suo cammino, irresponsabile com’era, a detta di tutti “capace di portare una famiglia rispettabile al declino in men che non si dica”. Ovviamente riguardo Ren tutti erano parecchio tranquilli. Non si era mai neanche sognato di esprimere un desiderio sul suo futuro. La sua famiglia aveva tra le mani un grosso business e non sarebbe stato così stupido da mandare tutto all’aria. Non che in ogni caso avesse un qualche sogno da inseguire. Aveva degli obiettivi, certo, ma centravano ben poco con il suo futuro. Eppure in fondo in fondo, provava una certa compassione per quella sorella che lo detestava tanto e che a lui ormai non faceva né caldo né freddo. Non doveva essere piacevole avere un sogno e vederlo disintegrarsi davanti alla propria impotenza.

« Vado » disse Ren mettendosi in piedi. Si sentiva pieno come un uovo anche se aveva bevuto solo la zuppa e mangiato un po’ di riso. Mamma se ne sarebbe lamentata al suo ritorno.
« Chiama l’autista » consigliò sua madre. Tutto pur di non fargli fare alcun tipo di sforzo.

« Non ce n’è bisogno, vado a piedi » e detto ciò sorrise alla madre nel modo più rassicurante possibile e preso zaino, parka e sciarpa uscì di casa. L’aria era sorprendentemente fredda per essere Ottobre e purtroppo era una giornata particolarmente ventosa. Quantomeno non pioveva.

Da casa alla stazione della metro impiegò circa cinque minuti, ma da Asakusa a Minato, dove si trovava la scuola superiore che frequentava, ci sarebbero voluti 50 minuti. Come sempre sperò che vi fosse un posticino libero e fortuna volle che una signora si alzasse proprio mentre lui saliva sul mezzo. Rischiò di appisolarsi miliardi di volte. L’andatura dondolante della metro sembrava conciliare il sonno e se non avesse avuto paura di non svegliarsi in tempo per scendere, si sarebbe lasciato andare ad un lungo, profondo sonno. Non desiderava altro.
Ma niente da fare. I 50 minuti passarono, scese dalla metro e si incamminò verso la scuola.
Il cortile era già gremito di gente. In fin dei conti prendendo la metro non era arrivato con largo anticipo, anzi, mancavano giusto cinque minuti all’inizio delle lezioni.
Nell’atrio si chinò per togliersi le scarpe da esterni ed indossare quelle adibite esclusivamente alla scuola, ma, mentre apriva l’armadietto per sistemarle all’interno, una pacca sulla schiena lo fece tossire e mugolare di dolore. Sapeva già di chi si trattava.
« Ren! Sei venuto! Avevo il terrore che non venissi a scuola. Avevamo un patto, no? No? »
« Buongiorno a te, Hiro » borbottò Ren, mentre si massaggiava la schiena e ricambiava lo sguardo speranzoso dell’amico. Erano una strana coppia, senza ombra di dubbio. Ren a diciassette anni era bassino, aveva mantenuto la sua corporatura minuta e all’apparenza fragile, la pelle bianca come una nuvola in contrasto nettissimo con gli occhi e i capelli neri. Al contrario Hiro era alto due metri, una tinta andata male aveva reso i suoi capelli arruffati di uno strano castano caramello, con qualche ciuffo ramato qui e lì, aveva la pelle più scura di chi era nato e cresciuto al sud del Giappone ed era maledettamente estroverso e rumoroso.
« Buongiorno, buongiorno » si affrettò a dire Hiro seguendo Ren lungo i corridoi. « Non hai dimenticato la promessa, vero? »
« No che non l’ho dimenticata, ma… »
« Ma?! » l’altro si parò davanti a lui esasperato.
« Non posso presentarti l’amica di Asami proprio oggi. Ho da fare. »
L’amico sbuffò sonoramente mentre entravano in classe. Tutti si girarono a guardarli. Quel duo era piuttosto comico e mentre Hiro attirava senz’altro i ragazzi per il suo carisma e la sua aria da macho, l’eleganza e le buone maniere di Ren erano al centro dell’interesse delle ragazze.
« Hai da fare! Hai sempre da fare. So esattamente cosa vai a fare. »
« Si? » Ren fece il finto tonto mentre tirava fuori i libri di storia dallo zaino.
« Vuoi andare di nuovo in commissariato.»
Ren non parlò e si mise seduto. Hiro recuperò la sedia dal banco di fronte e si sedette rivolto verso il banco retrostante, poggiando i gomiti con scortesia sul libro di Ren.
« Lo sai che è inutile, no? Te l’hanno detto i poliziotti, i tuoi genitori, tutti quelli che conosci. Guardati, sei bianco come un cadavere. Questa settimana avrai dormito forse cinque ore in tutto. E se questa storia non dovesse mai risolversi? Cosa pensi di fare? Vivere così per sempre? O morire a diciassette anni per una vecchia storia di dieci anni fa? »
« Tu non capisci. » tagliò corto Ren, spingendo via i gomiti dell’amico e aprendo il libro di storia su una pagina a caso, giusto per fargli intendere che non aveva voglia di continuare il discorso.
« Non capirò, certo, ma so senz’altro che ti stai dando colpe che non hai. Tutto quello che è successo non è colpa tua. »
Ren sembrò cedere per un attimo. Sospirò e mise via l’armatura che, in quei casi, la frustrazione e la stanchezza lo costringevano ad indossare. I suoi occhi divennero tristi ed esausti.
« Non riesco a non pensarci… » mormorò, mordendosi il labbro.
Proprio mentre Hiro stava per aprire bocca un altro compagno di classe andò a dare una pacca sulla spalla a Ren, che tornò ad innervosirsi all’istante.
« Amico! Fossi in te sarei preoccupato! » esclamò il compagno. Ren era preoccupato, ma non era niente della quale quel tizio potesse essere a conoscenza.
« Di cosa dovrei preoccuparmi…? » domandò incerto.
« Non ne sai niente? C’è un nuovo arrivato nella classe della tua fidanzata. Le ragazze sono esplose non appena l’hanno visto. Dicono sia per metà straniero… »
Ren fece roteare gli occhi, ma abbozzò comunque un sorriso.
« Queste cose non mi preoccupano affatto. Asami non è così superficiale » sbuffò, scrollando le spalle. La realtà era che fondamentalmente di Asami non gli importava poi più di tanto. L’aveva conosciuta ad un evento di beneficenza al quale aveva partecipato con la sua famiglia. Lei, molto graziosa, si era fatta avanti per prima, presentandosi e dicendogli che l’aveva visto a scuola. Sua madre aveva fatto così tante pressioni perché lui si interessasse a lei che alla fine Ren aveva ceduto e aveva cercato di accontentarla. Asami era molto carina, figlia di medici e non sembrava una ragazza frivola. Ah e ovviamente aveva una cotta estremamente evidente per lui. Perché rifiutarla allora? Non ne vedeva il motivo. Allo stesso tempo però non capiva perché la presenza di un bel ragazzo nella sua classe avrebbe dovuto preoccuparlo. Anche se le fosse piaciuto non poteva di certo comandarle di non farlo. E forse era strano, ma la cosa non lo avrebbe comunque ferito. Sapeva che generalmente i fidanzati dovevano essere gelosi, quindi davanti agli altri si mostrava sempre leggermente stizzito nei confronti di determinate situazioni, ma in realtà non era affatto un bravo attore. A lui avevano dato la bellezza e l’intelligenza e tutto il resto, ma la recitazione era finita tutta nelle mani della sorella maggiore. Peccato, anche a lui avrebbe fatto comodo delle volte.
Il compagno di classe sembrava piuttosto scettico, ma prima che potesse ribattere il professore fece il suo ingresso in aula e tutti tornarono rapidamente ai propri posti, pronti per una tediosa lezione di storia del Giappone.

La giornata andò avanti a rilento. Ren era da sempre il primo della classe, ma ultimamente faceva enormi sforzi per stare al passo con gli altri e non deludere le aspettative dei genitori e dei professori. L’insonnia gli risucchiava via tutte le energie e mentre il professore di matematica scriveva sulla lavagna divenne letargico e rischiò di appisolarsi una o due volte. Un letto, non desiderava altro.
Quantomeno, forse, la lezione di educazione fisica lo avrebbe aiutato a darsi una svegliata. Non che fosse la sua materia preferita, assolutamente no. Gli sport non facevano per lui. L’unico che praticava assiduamente sin da ragazzino era il kyudo, il tiro con l’arco giapponese. Era uno sport che non prevedeva grandi sforzi fisici, ma piuttosto una spiccata concentrazione mentale. Non lo stancava terribilmente e non lo faceva sudare. Era lo sport perfetto per uno come lui.
Per quanto fosse membro del club di kyudo, che si riuniva tre volte a settimana, l’ora di educazione fisica non lo entusiasmava. Ragazzi e ragazze si alternavano due volte a settimana: quel giorno le ragazze avrebbero fatto nuoto, mentre i ragazzi basket. Niente di peggiore.

Al formarsi dei team Hiro venne scelto per primo, alto e possente com’era, ma Ren venne lasciato come eventuale sostituto. Era sempre così e lui di certo non se ne sarebbe lamentato. La coordinazione non era il suo forte, era bassino e quelle poche volte che lo lasciavano giocare finiva per cadere a terra, tornare a casa con qualche livido e dover sopportare sua madre pronta a portarlo al pronto soccorso.
Ren si scelse allora un angolino a bordo campo e si mise seduto, quando le porte della palestra si spalancarono e un altro gruppetto di ragazzi si fece avanti rumorosamente.
« Sono quegli idioti della B-3 » sbottò Hiro massaggiandosi la nuca. I ragazzi dell’altra classe li battevano ogni volta e a Hiro non piaceva perdere, ma Ren tenne queste osservazioni unicamente per sé.
« Farò il tifo per te. Spera che nessuno debba essere sostituito, se dovessi entrare in campo io potreste dire addio al vostro orgoglio di squadra » mugolò Ren rassegnato, ma Hiro di certo non dissentì. Rabbrividiva all’idea di vedere Ren in campo.

La partita iniziò. Ren era così annoiato ed assonnato e così poco interessato al basket che fissare le punte delle scarpe da ginnastica per tutto il tempo fu l’unico passatempo che trovò. Ad un certo punto l’insegnante gli chiese di aiutarlo a mettere a posto dei palloni nel ripostiglio, ma poi tornò seduto al suo solito posticino. Alzò lo sguardo solo le volte in cui Hiro inveì contro gli avversari e venne ripreso dal professore per la sua volgarità. Ren roteò gli occhi un paio di volte e quando Hiro cercò il suo sguardo, come a pretendere sopporto morale, Ren scosse il capo e lo guardò in cagnesco. Gli aveva detto miliardi di volte che quel suo temperamento non l’avrebbe portato da nessuna parte.
La partita ricominciò, un’ora era quasi trascorsa, lenta più che mai, poi finalmente il professore fischiò la fine della partita, Ren entusiasta sollevò lo sguardo pronto a mettersi in piedi, ma prima che potesse mettere in moto un qualunque muscolo, qualcosa lo colpì con tanta forza da farlo scivolare di lato sul pavimento. Qualcuno doveva aver calciato la palla che per sbaglio era andata proprio a colpirlo sulla guancia sinistra. Non si sarebbe stupito di sapere poi che si trattava di Hiro, in uno scatto d’ira dovuto alla perdita della partita. Ma fu proprio l’amico, seguito da altri ragazzi della sua classe, a correre per primo da lui e inginocchiarsi per vedere come stava.

« Amico… sul serio? Dobbiamo andare subito in infermeria. Ti verrà un livido enorme, dobbiamo mettere del ghiaccio… merda, chi la sente tua madre? Che razza di idiota... »
Ren era ancora stordito, ma vedendolo digrignare i denti seguì la direzione del suo sguardo. Un secondo gruppetto era radunato al centro della palestra. L’insegnante sbraitava contro qualcuno dell’altra classe mentre i compagni lo difendevano. Ren lo individuò. Era il più alto del gruppetto, alto poco più dell’insegnante, le spalle larghe, il fisico sviluppato come quello di un ragazzo ben oltre i diciassette anni. Lo colpirono i suoi capelli biondi, quasi bianchi, che tirati all’indietro scoprivano la sua fronte chiara. Osservò il suo profilo perfetto. C’era qualcosa di mascolino, deciso e al contempo delicato nei suoi tratti. Si fermò anche ad osservare i piercing neri alle orecchie. Erano tre o quattro. Non pensava che determinate cose fossero permesse in una scuola privata come quella.
Da quel che poté dedurre, apparentemente con fare annoiato, aveva calciato la palla con un bel po’ di forza e aveva colpito Ren in maniera non intenzionale. Ovviamente. Perché avrebbe dovuto farlo intenzionalmente? Non si conoscevano neanche.
L’insegnante lo obbligò a chiedere scusa e l’altro spostò lo sguardo sul più basso, trascinato da Hiro verso l’uscita.
« Scusa » urlò con fare piuttosto indifferente. Ren lo guardò per un attimo. Aveva degli occhi incredibilmente grandi, espressivi e color nocciola. Stranamente l’altro sembrò gelarsi per un attimo, lo vide deglutire, poi Ren distolse lo sguardo per primo. Si disse che doveva essere messo piuttosto male per mettere a disagio un simile sborone. Sentì l’insegnante che gli ordinava di andare a fargli delle scuse appropriate, ma le scarpe da ginnastica del ragazzo fischiarono contro il pavimento lucido della palestra mentre girava i tacchi e andava verso lo spogliatoio. Inutile dire che la cosa provocò le ire dell’insegnante e i versi di apprezzamento degli altri studenti.
Ren si disse solo che non se ne faceva niente delle sue scuse. Tutto il volto gli faceva male.

Quando Ren riaprì gli occhi era sdraiato a letto. Si rallegrò del fatto che il suo desiderio del giorno fosse stato esaudito, ma solo prima di tendere appena le labbra e rendersi conto che il lato sinistro del suo volto era appena gonfio e doleva.
« Come ti senti?! » urlò Hiro entrando in infermeria in quell’istante.
Ren si mise seduto e sospirò.

« Potrei stare peggio. Non fa poi così male »
« La dottoressa ha applicato del ghiaccio e una pomata mentre dormivi. Ha pensato fossi svenuto per il colpo, era piuttosto preoccupata, ma a quanto pare stavi solo dormendo beato. »
Ren sorrise e alzò le spalle « Ne avevo davvero bisogno »
Se fosse servita una pallonata in faccia ogni notte per farlo addormentare avrebbe valutato di assumere quel ragazzo biondo.

Giusto, lui.

« Il tizio che ha tirato la palla… è quello nuovo vero? » domandò Ren, retorico.
Hiro si infiammò immediatamente. « Quell’idiota, si. Adam. Dovresti vedere come i cagnolini della sua classe gli vanno dietro, per non parlare delle ragazze »

Ren avvertì un filo di invidia nella sua voce, ma anche questa volta lo tenne per sé.
« Se i suoi compagni di classe non fossero stati degli incompetenti avrebbe potuto vincere la partita ad occhi chiusi. È alto quanto me, certo, ma non si tratta solo di questo. Era davvero agile, sembrava giocasse a basket da una vita. L’avrai notato anche tu. »
Ren alzò di nuovo le spalle. Hiro era convinto davvero che l’amico prestasse attenzione al basket? Comunque rimase sorpreso del fatto che l’altro stesse riconoscendo la superiorità di quel biondo beffardo. Avvertì quasi timore nelle parole dell’altro. Ren si disse che probabilmente il fatto che avesse fatto inavvertitamente del male a Ren doveva averlo turbato. Hiro era sempre stato premuroso e protettivo nei suoi confronti.

Come si dice, parli del diavolo e spuntano le corna.

La porta dell’infermeria si spalancò. Lo sguardo di Ren si posò immediatamente sulla figura del ragazzo che teneva la porta scorrevole aperta e lo fissava con aria quasi euforica.
« Lo sapevo. Non ci sono dubbi. » dichiarò l’altro, sfoderando un ampio sorriso. Si avvicinò ad ampie falcate al letto. Hiro si alzò immediatamente con fare minaccioso, intimandogli con lo sguardo di non avvicinarsi oltre, ma il bel biondo lo ignorò senza pietà e si mise seduto sul materasso quel che bastava da avvicinarsi al viso di Ren che arretrò all’istante. Quella vicinanza gli mozzò il fiato. Quegli occhi lo scrutavano. Sembravano scavare nella sua anima. Sembrava così euforico, così felice e al contempo così terrificante. Un senso di nausea lo colse e strinse le mani sul lenzuolo non potendo fuggire dalla gabbia delle sue braccia, posate ai lati del suo corpo.


« Lo sapevo. Sei Hana! »

L’entusiasmo con cui pronunciò quel nome sferzò l’aria e spezzò il cuore di Ren tanto forte da temere che fosse rimbombato tra le mura asettiche dell’infermeria.
Hiro agì prima che Ren potesse fare o dire alcun che. Afferrò l’altro per il retro della camicia e lo tirò indietro con tanta forza da sbatterlo giù dal materasso. Ren sentì chiaramente la botta, ma il suo cuore si era rimpicciolito infinitamente tanto. Erano anni e anni che nessuno si permetteva più di chiamarlo con quello stupido nomignolo. Neanche sua sorella. Ma soprattutto, credeva che coloro che gli avevano affibbiato quel soprannome fossero ormai lontani da lui. Che il ragazzo appena trasferitosi facesse parte della sua infanzia?

Hiro fece per calciare l’altro, ormai a terra, ma quello si mise in piedi in men che non si dica, allontanandosi di scatto quel che bastava per evitare il calcio dell’altro.
« C’è mancato poco » commentò allegramente, sistemandosi il cardigan come se niente fosse.
« Chi sei?! Non permetto a nessuno di chiamarlo in quel modo! »
Hiro era sempre stato il suo difensore più agguerrito e Ren gli sarebbe stato grato per sempre. Il tentativo di proteggerlo sembrò stizzire il biondo, quell’Adam di cui tutti parlavano. La sua espressione cambiò, divenendo gelida e scocciata.
« Io lo chiamo come preferisco. » decretò, riportando gli occhi su Ren che si sentì minuscolo, un insetto, mentre l’altro lo divorava nel profondo.
Hiro tornò alla carica sollevando il pugno, ma prima di poter fare ulteriori danni, la voce acuta della dottoressa lo fermò. Strillando ordinò ad entrambi di uscire dall’infermeria, poi chiamò a gran voce un insegnante in corridoio e gli chiese di scortare i due in presidenza. Quando tornò dentro continuava a borbottare tra se e sé.
« Non è colpa di Hiro, quell’altro ha… »
Ren ci aveva provato, ma lo sguardo della dottoressa bastò a farlo zittire.
« Se stai bene puoi anche andare » disse e Ren percepì che il posto più sicuro non era più sotto quelle coperte. In fretta si alzò, indossò il cardigan e si infilò le scarpe.

Dopo essere tornato in classe a recuperare libri e zaino si diresse all’uscita. Davanti al suo armadietto trovò Asami, già stretta nel suo cappotto beige, pronta ad andare.
« Ren! Ero preoccupata per te! Mi hanno detto cos’è successo… stai bene? Il livido non sembra molto grande… »
In effetti era giusto una macchiolina violacea di qualche centimetro all’altezza dello zigomo. La fidanzata, graziosa come sempre, si avvicinò e gli scostò una ciocca di capelli per dare meglio un’occhiata. Lui la lasciò fare, poi recuperò le sue cose dall’armadietto.
« Torniamo a casa insieme? » propose lei.
« Solo fino a un certo punto. Devo passare in commissariato. » disse Ren, pronto ad andare.
« Non sarebbe meglio se tornassi a casa a riposare? »
« Riposerò più tardi, ho una serata intera, no? » le rivolse un sorriso tenue e lei arrossì. Come sempre pendeva dalle sue labbra.

Sulla strada di casa Ren le raccontò cos’era successo.
« Spero che Hiro non sia nei guai… sua madre lo metterà in punizione per un anno intero » mormorò Ren, sbuffando.
« Hiro è sempre in punizione » osservò la ragazzina con fare rassegnato. Come darle torto.
« Spero comunque che questa volta gli vada bene. Non è colpa sua. »
« è stato Adam, giusto? »
Ren non le aveva raccontato di come lo aveva chiamato e quando Asami si rendeva conto che l’altro non voleva dire troppo non cercava mai di forzarlo. Era una sua qualità che Ren apprezzava.
« Si. Ha iniziato lui. »
Asami sospirò un po’ pensierosa. « In classe tutti lo adorano. A me non sta un granchè simpatico, così, a pelle. Fa tanto il ribelle. Risponde ai professori e hai visto tutti quei piercing? Non mi sembra un tipo raccomandabile. Ha un’aria da bullo. »
“Bullo” però non era il termine che Ren avrebbe usato per descriverlo. Non ne aveva ancora trovato uno adatto nella sua testolina confusa. Chiaramente Asami temeva per la sua incolumità, Ren sembrava proprio qualcuno che i bulli avrebbero preso di mira, in fin dei conti.
« Sinceramente non mi interessa. Voglio che mi stia lontano. »
« In realtà ci sono già delle dicerie sul suo conto. Dicono che si sia trasferito da un’altra scuola fuori dalla prefettura in seguito a un’espulsione… dev’essere successo qualcosa di grave, non credi? »
Ren non l’aveva ascoltata, era sovrappensiero. Si fermò ad un incrocio e fece cenno all’altra. Lui doveva procedere verso sinistra. Lei esitò per un attimo. Una volta gli aveva chiesto un piccolo bacio, ma Ren non aveva acconsentito. Ora ogni volta temeva che glielo chiedesse ancora. Aveva detto che era normale, che stavano insieme, ma qualcosa del concederle un bacio lo faceva sentire terribilmente in colpa. Non voleva prenderla in giro fino a quel punto, ma affrontare la cosa non era tra le sue priorità. Quindi si affrettò a salutarla agitando una mano per aria e a dirle che si sarebbero visti il giorno dopo durante l’intervallo o magari già all’entrata, poi le diede le spalle e procedette lungo il viottolo a sinistra.

Il commissariato era poco distante. Proprio alla fine di quella via stretta, costeggiata da alberi già spogli e qualche casetta abitata. C’era anche un gatto nero e bianco, solitamente, e quando aveva qualche rimasuglio del pranzo da dargli si fermava a coccolarlo un po’, ma quel giorno non era riuscito ad avvistarlo, così raggiunse il commissariato senza ulteriori indugi.
Entrò senza che la guardia in portineria lo notasse e andò dritto verso le scale. No, non avrebbe potuto girovagare per quel posto come desiderava, ma ormai lo conoscevano tutti. Lo vedevano almeno tre volte alla settimana e tutti ne conoscevano la ragione. Raggiunto il primo piano una segretaria goffa sobbalzò vedendolo e fece volare per aria una serie di scartoffie.

« Oh cielo » piagnucolò, chinandosi a raccoglierli. « Ciao Ren » disse sorridente, mentre lui l’aiutava a raccogliere tutto.
« Il signor Tanizaki? » chiese Ren. La segretaria fece roteare gli occhi, ma sapeva bene che era inutile fargli la predica.
« In ufficio »
« Grazie mille. Ecco qui. » e le passò i fogli raccolti. La superò e andò verso uno degli uffici, il quarto a destra. Bussò un paio di volte, poi aprì la porta senza aspettare.

Il fumo di sigaretta lo fece tossire un paio di volte. L’uomo seduto sulla poltrona davanti a lui saltò dalla sedia per la paura e spense in fretta la sigaretta. Era un uomo dalla barba incolta, le spalle larghe e una lunga cicatrice lungo il collo. Si vantava sempre di come era riuscito a scampare alla morte quando qualcuno aveva tentato di farlo secco, ma ogni volta cambiava versione, rendendo la storia sempre meno credibile.
« Ho bussato » si giustificò Ren.

« Avresti dovuto bussare più forte! Dannazione… » sbottò l’altro buttando la sigaretta fuori dalla finestra con noncuranza.
« C’è scritto che è vietato fumare all’interno dell’edificio » commentò Ren, mettendosi seduto davanti alla scrivania.
« Non sono affari tuoi ragazzino. E chi ti ha invitato a sederti? Vattene subito. Non ho tempo da perdere. Sono estremamente impegnato. »
« Quindi non sta ancora una volta dando un’occhiata a qualche sito porno mentre nessuno può beccarla? »
L’altro divenne paonazzo e infastidito spense in fretta lo schermo del computer.
« Ricordami di spegnertela in fronte la sigaretta, la prossima volta. Cos’è successo al tuo bel faccino d’ angelo? »
« Un incidente ad educazione fisica »
« Peccato che non sia servito a farti rinsavire »
Ren era abituato ai battibecchi con quell’uomo. Si sporse semplicemente in avanti e tirò fuori la questione che lo interessava.
« Dovete riaprire il caso. »
L’altro sbuffò sonoramente e rise di lui. « Non c’è alcun motivo di riaprire un caso chiuso di dieci anni fa.»
« Potrei aver ricordato qualcosa »
« Tu non hai ricordato un bel niente, ragazzino. Quante volte hai tirato fuori questa storia? Poi ci hai fornito identikit imprecisi, fantasie campate per aria. Un mostro che esce da un armadio! Quella volta fu davvero interessante. Se hai bisogno di parlare con qualcuno delle tue allucinazioni posso darti il numero di un bravo psicologo »
Ren sospirò. Non riusciva a farlo ragionare.
« Ci sono prove che non sono state messe in conto. Il caso è stato chiuso senza la minima indagine. Niente di niente. Nessuno è venuto a controllare l’edificio dopo la rimozione dei cadaveri. »
« Semplicemente perché il colpevole, quell’inutile uomo delle pulizie, ha confessato. È andato dritto dritto al commissariato centrale di Sapporo urlando che era stato lui a commettere l’omicidio. Ebbene? Cosa volevi che facessero? Il colpevole è stato trovato, adesso è in gattabuia, caso chiuso, addio. »
Il signor Tanizaki si alzò scocciato e andò verso la finestra, lanciando un’occhiata vaga alla città viva fuori di essa. Ren era arrossito di rabbia e ancora una volta la sua armatura stava vacillando. In fin dei conti non gli piaceva essere preso per un pazzo visionario che non riusciva ad accettare la realtà dei fatti.
« Non smetterò di chiederle di avviare le procedure per riaprire il caso. »
« Tu non hai nessuna autorità di chiedermi una cosa del genere. Dovresti lasciar riposare in pace quelle povere anime defunte, anziché tentare di ritirar fuori la storia dei loro omicidi solo per via del tuo senso di colpa »
Ren, in parte, dava ragione al detective. In parte non riusciva proprio a rassegnarsi. C’era qualcosa di losco nella ricostruzione degli eventi di quella gelida notte di dieci anni fa. Qualcosa non tornava, ma nessuno sembrava volergli credere o collaborare. Sembrava che a nessuno importasse più nulla, neanche alla sua famiglia.
« La farò cedere » disse deciso, tornando in piedi. Non aveva la forza di continuare ad insistere quel giorno. Forse Asami aveva ragione, sarebbe dovuto tornare a casa a riposarsi.
« Non ci riuscirai mai ragazzino. Daremo ordine al portiere di non farti più entrare »
Tanizaki non si voltò a guardarlo mentre usciva con le spalle e lo sguardo bassi.

Aveva perso tutto il suo entusiasmo. Succedeva tutte le volte che arrivava lì e non otteneva ciò che voleva e si sentiva sbagliato, quasi malato. Sulla strada del ritorno si disse che non gli avrebbero vietato di entrare, che la segretaria e qualcun altro si erano affezionati al suo caso e avevano piacere a vederlo di tanto in tanto a stremare il signor Tanizaki.
Calciando l’asfalto con rassegnazione, camminò verso la stazione, scegliendo tuttavia i percorsi più isolati, meno affollati, dove il traffico delle auto non l’avrebbe disturbato mentre il flusso dei suoi pensieri lo guidava più delle sue gambe. Perso nel suo mondo si fermò solo quando sentì delle voci provenire da un parchetto. Sollevò finalmente lo sguardo e vide un gruppo di ragazzi accanirsi su altri due. Il cuore fece un balzo. Avvertì un senso di paura mista a dispiacere. Li stavano pestando senza pietà. Perché? Quale motivo poteva spingerli a fare qualcosa del genere?
Si avvicinò di qualche passo. Non avrebbe avuto il coraggio di andare oltre, lo sapeva già, ma non sarebbe riuscito neanche ad andarsene. Sussultando ad ogni pugno in faccia ai due, il suo sguardo vagò per il parco alla ricerca di un modo per farli smettere senza rischiare necessariamente di essere pestato a sua volta e, mentre lo faceva, notò, ancora una volta, purtroppo, un viso ormai conosciuto. I capelli biondissimi quasi brillavano alla luce rosata del tramonto, i suoi grandi occhi color nocciola guardavano il gruppetto che se le dava di santa ragione, mentre seduto su un’altalena si dondolava appena.

« Sollevate quello lì. Non riesco a guardarlo bene in viso » disse Adam, sorridendo in maniera inquietante quando poté avere una chiara visuale del naso sanguinante della vittima.

Il senso di nausea tornò più forte che mai. Poteva dire senza ombra di dubbio che stesse godendo del dolore altrui, che fosse eccitato come un bambino davanti ad un nuovo cartone animato e che sembrava proprio che fosse stato lui ad aizzare quelle persone contro gli altri due.
Ren, incosciente più che mai, non poté più sopportare una scena simile. Si sfilò lo zaino dalle spalle e con tutta la forza che possedeva lo scagliò contro il gruppo. Gesto improvviso, più stupido che mai, che non l’avrebbe sicuramente portato a niente di buono, ma non aveva trovato altro modo di farli smettere, né era riuscito a controllare abbastanza le sue emozioni. Ovviamente si accorsero di lui all’istante, quello che aveva ricevuto lo zaino pieno di libri dritto in testa gli si avvicinò minaccioso, mentre gli altri ridacchiavano chiedendosi chi fosse quel marmocchio piantagrane, se fosse masochista e desiderasse prenderle un po’ anche lui. Il tizio era abbastanza vicino da colpirlo, Ren lo fissava e le sue gambe non si muovevano, erano pietrificate dalla paura, le scarpe non si spostavano di un millimetro sulla sabbiolina fine del parchetto. L’ombra del pugno alzato dell’altro si proiettò sul terreno e Ren cercò di prepararsi mentalmente al dolore. La seconda botta della giornata, perfetto. Avrebbe fatto meglio a cancellare quel giorno sin dalle prime luci dell’alba.

Eppure il colpo non arrivò. Sentì un tonfo, una sagoma si era parata davanti a lui. Per un attimo la sua mente andò ad Hiro, che era magicamente sempre lì, pronto a difenderlo, ma questa volta, per quanto la corporatura fosse simile, il profumo dolce della figura lì davanti gli suggerì che non si trattava del suo migliore amico. Adam si era parato di fronte a lui e aveva preso il pugno sulla guancia al posto suo. Ren riuscì ad indietreggiare di un passo, il suo cuore tachicardico non accennava a fermarsi neanche per un secondo. Preoccupato fece per aprire bocca, ma il biondo si mosse in fretta, la mano si posò sul volto del bullo che l’aveva attaccato e prima che chiunque potesse rendersene conto lo scaraventò a terra, lo calciò allo stomaco con forza, poi premette con forza la suola della scarpa contro il volto del malcapitato, facendolo supplicare di smetterla, facendolo temere di sentire la propria mandibola comprimersi e rompersi. Solo allora Adam fu soddisfatto e dopo un altro calcio lo lasciò perdere.
« Nessuno ti ha detto di cambiare giocattolo. » disse sprezzante all’altro, poi la sua mano scattò verso il polso di Ren e lo trascinò davanti a sé. La mano scivolò lungo la sua spalla e si chinò verso il suo orecchio. Sentì che lo stava annusando, inalava il suo odore a pieni polmoni, terribilmente soddisfatto.
« Questo giocattolo è mio. Nessuno di voi può giocarci. » li avvisò con lo sguardo più minaccioso che Ren avesse mai visto fino a quel momento. La sua vicinanza continuava a renderlo nervoso. Aveva paura e al contempo si sentiva al sicuro sotto quel braccio che gli cingeva le spalle. Era un controsenso ridicolo. Si fece forza e si allontanò piano dalla sua stretta, ma l’altro non protestò. Piuttosto gli rivolse un sorriso radioso e si indicò lo zigomo arrossato.

« Adesso siamo pari, no? » disse ridendo. Improvvisamente era un’altra persona.

Questo cambio repentino di personalità gli diede i brividi, ma anche uno strano senso di familiarità. E il suo sorriso era così caloroso che da quel calore si sarebbe lasciato scaldare per sempre. Eppure si trattava comunque della stessa persona che un attimo prima godeva di una cruenta scena di violenza, consumata sotto i suoi occhi.
Adam fece un piccolo inchino rivolto a Ren « Sono Adam, piacere di conoscerti »

Ren rimase interdetto. Per lui era davvero un piacere conoscere una persona del genere?
Si era detto che si sarebbe allontanato da un simile soggetto e così avrebbe fatto.
« Non ho idea di chi tu sia, ma non ho nessuna voglia di fare conoscenza » sbottò Ren. Il gruppetto ridacchiò, quasi pronto a vederlo sbattuto a terra come quell’altro, ma Adam guardò il gruppo irritato. I suoi occhi promettevano a quei delinquenti che avrebbero fatto i conti più tardi, ma quando tornò a rivolgersi a Ren gli sorrise dolcemente.
« Immagino che non sia facile. Abbiamo davvero iniziato col piede sbagliato. Credi sia troppo tardi per avere una seconda possibilità? »
Ren non capiva perché una persona del genere fosse così interessata a fare amicizia con lui. Di qualunque cosa si trattasse avrebbe ascoltato la sua testa e non sarebbe stato tanto irresponsabile da lasciar entrare qualcuno del genere nel suo fragile mondo.
« Io non do seconde possibilità » disse abbassando gli occhi e andando a riprendere il proprio zaino evitando lo sguardo dei bulli. « E lasciate stare quei poveri ragazzi! Li avete ridotti già abbastanza male! » ebbe il coraggio di urlare al gruppetto.
Adam rise e scrollò le spalle. « Avete sentito, no? Tutti a casa »
Gli altri lo guardarono scioccati e delusi, ma non osarono ribattere. Ren era sempre più sorpreso. Deglutì e celò il proprio senso di soddisfazione, mentre si sistemava lo zaino sulle spalle.
« Ci vediamo a scuola » disse Adam, mentre Ren usciva dal parchetto.
« No che non ci vedremo » sbottò il più basso, dandogli le spalle e affrettandosi verso la stazione.

Il cuore non smetteva di battere e le mani di tremare.

   
 
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