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Autore: criminatae    05/02/2018    3 recensioni
Due ragazzi con la costante paura di perdersi e l'inconsapevolezza di appartenersi.
[Yoonmin]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Min Yoongi/ Suga, Park Jimin
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Take My Love And My Fist


 

Era sempre stato così facile da decifrare, Jimin.

Fin da quando si erano incrociati al pianerottolo del secondo piano.

Lui, occhi grandi e labbra carnose, con i capelli corvini che gli calvano sulla fronte e la timidezza di chi temeva un rifiuto o un abbraccio; e Yoongi, il playboy gentiluomo che sapeva infilarsi nella biancheria intima delle ragazze che, come lui, amavano il sesso semplice e disimpegnato, e che per questo non perdevano né il rispetto per se stessi né quello reciproco, con uno sguardo felino e un sorriso che sembrava una bugia palese.

Lo sguardo di Yoongi, su quel pianerottolo, era stato di sfida aperta, di aggressività contenuta, che nascondeva un interesse smaliziato, che sembrava urlare un mondo intero in silenzi eterni, mentre Jimin balbettava e non riusciva più a pensare e sentiva il cervello urlare e il cuore urlare e l’ossigeno pesargli nei polmoni. Yoongi lo fissava dall’altro lato del corridoio, un fianco appoggiato al muro e il respiro di Jimin intrappolato nello sguardo, permeante e invadente e così acceso da sembrare fuoco vivo sulla pelle, da incendiare ogni pulviscolo atmosferico che collideva con i suoi occhi.

 Gli aveva sorriso, sfoderando con quanta più eleganza possibile la spudoratezza di quella provocazione. Appariva come un cacciatore pigro, che attendeva con disinvoltura e aria distratta che la preda cadesse nelle sue mani, come se l’attesa lo spazientisse, la pretesa lo annoiasse.

Doveva essere stato allora, in quel breve lasso di tempo, che la situazione si era invertita.

La natura combattiva di Jimin si era risvegliata come un animale ferale dalle tenebre. L’aveva scrutato, l’aveva studiato e aveva trovato in quello studente dai capelli scompigliati un fascino di cui non aveva compreso le coordinate, ma che si era rivelato di un magnetismo irresistibile. Aveva inalato quanta più aria potesse, nonostante scottasse, nonostante facesse fisicamente male, ignorando le mani che gli tremavano e il cuore che gli tremava e ogni nervo della sua pelle sul punto di dilaniarsi sotto la tensione che lo affliggeva. Si era forzato a staccare gli occhi da quelli del ragazzo, con la stessa difficoltà e lo stesso fastidio che si prova nel sradicarsi un ago dal corpo. L’assenza di quello sguardo lo aveva pugnalato e accarezzato al tempo stesso, in un convoglio di bene e male e ogni emozione contrastante che il suo corpo non aveva mai provato tanto intensamente nello stesso istante.

Fondamentalmente, era stato quello l’inizio di tutto.

Era stato una danza di libellule che si libravano su uno stagno. La casualità era la scusa con cui i loro passi si incrociavano lungo i corridoi, nelle aree dei laboratori, all’interno delle palestre o sui campi da gioco, e poi fuori, a Seoul, nei bar, al supermercato, al cinema, al parco, finché i pensieri di Jimin erano diventati a senso unico, con un singolo fulcro attorno al quale ruotavano. Era stato un crescendo di sensazioni sempre più soffocanti, sempre più destabilizzanti: vergogna, imbarazzo, curiosità, stupore, calore, ardore, desiderio, ossessione. I pensieri si erano trasformati in fantasie, i brividi sulla pelle di Jimin in una mano attorno al suo membro bollente e duro mentre la mente gli forniva immagini assillanti e tempestose di labbra sottili sulle sue, lungo il collo, attorno al suo cazzo, di occhi scuri puntati nei suoi, lungo il profilo del volto, fissi sopra di lui con una luce accesa nelle iridi che gridava lussuria.

Yoongi gli piaceva.

Yoongi gli piaceva sul serio.

La prima volta che si erano parlati era stato l’ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze estive. Il sole batteva cocente e accecava senza ritegno, i suoi raggi accaldanti ad investire la pelle sensibile di Jimin e a farlo sentire come se fosse sul punto di sciogliersi, il tessuto sudato della maglietta ad appiccicarglisi disgustosamente alla schiena. Era stato sul punto di ingurgitare un’intera bottiglietta d’acqua per poi avviarsi a casa, ma, in quell’istante esatto, era sbucata una moto nera, lucida, così scintillante da abbagliarlo per qualche secondo. L’aveva vista accostarsi di fronte a lui, a pochi passi dal cancello principale. Poi aveva visto sbucare un’inconfondibile massa di capelli biondo platino e un ghigno, quando il ragazzo alla guida si era lentamente sfilato il casco.

“Hai bisogno di prendere un po’ d’aria?”

 

Oltre le spine con cui la maggior parte delle persone non l’avevano mai conosciuto, Yoongi era un ragazzo brillante, ragionevole, con un senso dell’umorismo creativo e arguto, sensibile e passionale. Amava le passeggiate nei boschi e visitare città d’arte, leggeva più di cinque libri al mese e riusciva a mantenere uno spirito critico obiettivo nei confronti di ciò che lo circondava, pronto al dialogo senza imporre la propria opinione. Era vanitoso — quel genere di immodestia di chi sapeva di poterselo permettere — ma le sue moine non scadevano nell’arroganza, bensì spesso le diluiva con un’autoironia che faceva ridere entrambi.

Yoongi era bellissimo, il castone prezioso di una personalità che Jimin aveva trovato, giorno dopo giorno, intrigante, gradevole, affine, ideale. Era tutto ciò di cui aveva bisogno, ciò che completava le sue mancanze e rafforzava i suoi lati migliori. Era così complementare alla sua persona che era stato quasi naturale, quasi semplice diventare amici. Jimin voleva che ogni giorno fosse costellato dai sorrisi di Yoongi, dal suo modo strano di parlare e dalle sue canzoni aggressive che gli piaceva condividere con le cuffiette.

L’aveva creduto.

Jimin l’aveva creduto davvero, che Yoongi potesse essere il ragazzo dei suoi sogni.

Aveva creduto davvero che avrebbe potuto condividere la sua vita con qualcuno.

Perché prima c’era stata quell’innegabile attrazione, quel franarsi di passione, quel vortice distruttivo che lo aveva trascinato in un oceano di pulsazioni e sogni e istinti assordanti.

Le inutili volte in cui aveva cercato di non pensarlo, gli sguardi che strozzavano i polmoni, la vicinanza inconfessata, timida e colpevole che aveva fatto sprofondare Jimin in un caos troppo simile a quello che aveva minato le sue fondamenta appena lo aveva conosciuto.

Il batticuore per Yoongi gli aveva fatto sperare che la confusione che aveva provato non fosse stata che una tappa provvisoria, un inciampo su chissà quale stupido e incomprensibile sasso che lo aveva fatto uscire dal sentiero, una paura irrazionale che l’aveva indotto in errore, lo aveva tentato fino a fargli desiderare più di quanto si sarebbe potuto permettere.

Stavano bene, insieme. Conversazioni che non terminavano mai, i silenzi condivisi, il calore candido delle discussioni, i litigi che si risolvevano con affetto, la sensazione che le giornate fossero scandite dalla vicendevole presenza, la frizzante irritazione quando non si riceveva subito risposta a un messaggio, le battutine degli amici da cui ci si schermiva ma che facevano piacere.

Che avrebbero dovuto fare piacere.

Ma che in fondo non lo facevano.

In fondo, il senso di colpa iniziava a ribollire.

In fondo, la speranza si era rivelata un’illusione.

In fondo, ripensava ancora al lubrificante segregato in una scatola da scarpe nel suo armadio, che avrebbe dovuto gettare nella spazzatura e che invece gli sussurrava che niente era cambiato.

E Jimin si era innamorato di lui.

In maniera così evidente, così forte, così genuina che si era ritrovato, per l’ennesima volta, ad arrancare per cercare ossigeno.

Nonostante tutto, si sforzava di fingere, di non scoprire le proprie carte, ma le sue mosse erano talmente impacciate, controproducenti e discordi da rendere lapalissiani i sentimenti che non riusciva a contenere. I discorsi sconclusionati quando si capitava su questioni serie, assurdi tentativi di mantenere una distanza che paresse involontaria per poi corrergli incontro all’improvviso, lo stoico impegno nel non mostrarsi felice quando era chiaro che lo fosse, l’imbarazzo nel discorrere della loro amicizia con gli amici quando fino a mesi prima non ve n’era stata traccia.

L’intestardirsi a non voler ammettere di essere preda di un’emozione che non poteva né gestire né controllare rendeva i suoi comportamenti un bizzarro misto di ostentata noncuranza, affetto che o si centellinava con fatica o esplodeva con ardore, e inconcludenti, amabili manovre che volevano nascondere una realtà che era divenuta lampante.

Yoongi, se aveva notato tutto ciò, non lo dava a vedere. Era dolce, anche con i suoi modi un po’ bruschi, quando si trattava di Jimin. Il suo carattere indipendente che poco a poco si malleava per accettare la presenza costante di un’altra persona, il temperamento risoluto che svelava un candore virginale, genuino, autentico, un affetto che si promanava come il bagliore inconfondibile della luna piena in una notte buia, che per quanto si cercasse di schermarlo avrebbe trovato il modo di splendere senza remore, senza ritegno, senza chiedere scusa. 

Ma Jimin sapeva che tutto quello non era abbastanza, che non aveva per Yoongi lo stesso peso che poteva avere per lui. Il focolare iniziale si era affievolito fino a dare vita ad un leggero e tiepido calore che addolciva l’atmosfera, ad un’amicizia che non poteva sbocciare in un incendio.

Soprattutto perché Yoongi non aveva mai accennato al fatto che fosse gay.

Yoongi continuava a portare ragazze fuori a cena, a scopare nei bagni sporchi della scuola, ad apprezzare capelli lunghi e un petto soffice e unghie smaltate. E Jimin rimaneva l’“amico”, un ruolo così insulso che gli prudeva, gli ostruiva la pelle come un maglione vecchio e rovinato, che però era costretto ad indossare, perché si trattava di quello o di niente, era un sentimento che non corrispondeva a quello provato ma non ne era distante, un po’ come una lunga e comoda bugia. Così si era ritrovato ad allontanarsi sempre un po’ di più, a fare qualche passo indietro e a rifiutare uno, poi due e infine dieci inviti. Nella speranza che se non avesse visto Yoongi, se non lo avesse visto con una donna o con chiunque non fosse lui, il dolore sarebbe pian piano svanito, fino a dissimularsi, dissolversi e ritrarsi.

Avrebbe dovuto funzionare.

Non aveva funzionato.

Yoongi aveva compreso che quella strafottenza era una posa, una patina artificiosa volta a celare altre cause, altre verità, e la rabbia che l’aveva animato durante quella discussione aveva l’amaro retrogusto dell’angoscia, della tristezza, della delusione.

Perché?

Perché all’improvviso Jimin aveva smesso di preferire il cinema ad una serata passata a casa? Perché aveva smesso di discutere dei libri che avevano letto? Perché aveva smesso di fare sarcasmo salace che lo faceva ridere? Perché aveva smesso di cucinare per lui? Perché lo respingeva mentendo?

Cosa c’era che non andava?

Jimin, in quel momento, avrebbe desiderato essere diverso.

Essere etero, in primo luogo. Avrebbe desiderato essere in grado di apprezzare una ragazza qualsiasi e non solamente Yoongi nella sua interezza;  avere le vertigini quando gli sorrideva come quando gli sorrideva Yoongi; perdere la testa quando una mano scivolava troppo vicino all’inguine come accadeva con Yoongi. Avrebbe desiderato amarla senza riserve, senza segreti, senza la consapevolezza che non sarebbe mai bastata, perché non era Yoongi.

Con gli amici stretti era stato un poco più difficile: gli sguardi interrogativi, i silenzi titubanti, la preoccupazione tesa e inconfessata che lo seguiva a scuola, in classe, al pub, e l’indiretta pretesa di una confidenza per ogni domanda che gli veniva avanzata.

Stava distruggendo tutto, qualsiasi cosa, perfino quell’amicizia che si era ripromesso fosse la cosa più importante che aveva, l’unica cosa che lo legava a Yoongi abbastanza da non sentire il dolore colpirlo come una cascata, ma che levigava un po’ l’assenza, la mancanza, le emozioni represse e i sensi di colpa quando si ritrovava addosso una felpa che gli aveva prestato il più grande e non poteva fare a meno di infilare il naso nello scollo e inalare il suo profumo, o quelli di quando ricordava improvvisamente il modo in cui quelle dita avevano stretto una bottiglia o si erano avvolte attorno al suo polso e neanche un minuto dopo era costretto ad incastrarsi una mano nelle mutande.

 

 

Yoongi era disteso di schiena sulle assi levigate del ponticello dipinto di bianco latte. Teneva le mani intrecciate sul ventre e gli occhi socchiusi, volti al cielo, dove una ragnatela di stelle si stagliava gloriosa e superba, felice di aver trovato un luogo dove la luce artificiale non potesse nulla contro il suo brillio celeste.

Stavano in silenzio.

Jimin era appoggiato con una spalla al primo paletto di legno della ringhiera sinistra, con lo sguardo che vagava nella macchia d’alberi che circondava il giardino. I primi fuochi d’artificio della stagione erano terminati da tempo, forse da un’ora o più, e dalla collina scelta come pubblico punto d’osservazione non provenivano rumori se non sussurri, uno sporadico russare sommesso e lo strillo lontano di giovani che si attardavano tra le frasche. Lo stridio delle civette e il bubolare dei gufi, fievoli movimenti qua e là che testimoniavano che la vita notturna non si era ammutolita né di fronte allo spettacolo pirotecnico né alle loro chiacchiere nelle tenebre.

Jimin e Yoongi avevano discusso così pesantemente da non essersi parlati per giorni, forse quasi una settimana — Jimin cercava di non tenere il conto.

Ma Jimin sapeva che si sarebbe meritato di venire ignorato o completamente dimenticato dopo essere sembrato così schivo, si meritava che Yoongi lo sgridasse per essere sempre così maledettamente testardo nel voler isolarsi nella sua esistenza.

Certo, rammentava quella discussione con risentimento e livore, riportando alla mente qualche frase che lo faceva particolarmente incazzare — per l’esagerata sfacciataggine di quelle parole, per la sua indelicatezza estrema —, eppure, quando si erano incontrati in biblioteca, l’espressione di Yoongi aveva stroncato qualunque sfogo o insulto Jimin avesse in programma.

L’espressione di chi era cosciente di aver superato il limite, e che ci sarebbero state delle conseguenze; l’espressione di un assassino che si presenta a chiedere scusa con mani insanguinate.

Quanto detestava la sicurezza di Yoongi.

Il cipiglio con cui si gettava nelle situazioni sapendo con esattezza come raggiungere il proprio obiettivo, la totale assenza di indugi malgrado conoscesse gli effetti delle sue azioni, e quegli occhi neri che lo avvolgevano serici, lucidi, sconfinati, che sembravano comunicargli che capiva.

Yoongi lo capiva.

Lo capiva con una profondità che faceva quasi male.

Per cui Jimin aveva deciso che per una volta, per punizione, avrebbe potuto fare il bastardo e reagire nell’unica maniera che Yoongi non sarebbe riuscito a contrastare.

Trattarlo con distacco.

Yoongi era di natura emotiva, dinamica, avrebbe preferito di gran lunga un confronto aggressivo, aperto, istintivo, piuttosto che la freddezza misurata, la distanza pragmatica e lapidaria che Jimin sapeva apporre con precisione quando ce n’era bisogno.

Si era divertito nell’accorgersi di quanto Yoongi fosse spiazzato di fronte alle conversazioni mozzate, alle frasi telegrafiche, ai monosillabi in risposta, alle allusioni che cadevano in un vuoto che non poteva essere risolto col suo solito atteggiamento saccente, perché dall’altra parte non c’era nessuno disposto a prestargli attenzione.

In ultimo, prima che si dividessero nel parcheggio, Yoongi aveva aperto bocca per dirgli qualcosa in proposito, ma Jimin aveva tagliato corto, asserendo di avere un impegno. Se n’era andato senza fretta ma non guardandosi indietro, abbandonando Yoongi in uno stato di frustrazione che non gli era sfuggito.

Era stato un affondo teatrale, doveva riconoscerlo, un comportamento enfatico e suscettibile che non gli apparteneva, ma aveva pensato che si sarebbe rivelato più stordente di una sfuriata, più eloquente di un’occhiata di biasimo, più efficace di una qualunque recriminazione.

E aveva avuto ragione.

Il venerdì mattina, Yoongi gli si era accostato con diligente remissività, un tono di arrendevole accettazione e — dannazione a lui — un sorriso di scuse talmente delizioso che l’aveva fatto vacillare davanti agli armadietti.

Aveva mantenuto l’atteggiamento sostenuto del giorno prima, mitigato da un cenno di morbidezza inevitabile quando inciampava in quei due specchi color ebano, e se n’era andato in classe con l’intenzione di protrarre quella punizione per molto.

Per il weekend, se non altro.

Ma aveva ceduto.

Aveva ceduto per un motivo egoistico, personale, aveva ceduto perché adesso che Yoongi, dentro di sé, era al corrente di cosa significasse avere bisogno di qualcuno, Jimin poteva sentirsi libero di ricordarlo, di confessarlo, di spezzare il sigillo che l’aveva avvelenato come un anatema e spartire il peso che all’improvviso aveva assunto contorni talmente limpidi da poter essere frammentato, analizzato e accettato. Finalmente aveva visto nello sguardo di Yoongi la stessa sofferenza che si rifletteva nel suo quando il cuore gli ricordava di non poterlo avere. E non gli importava se fosse da stronzi, se fosse sadico o esagerato o diverso dall’agonia che provava lui per Yoongi; gli bastava sapere che, almeno un po’, gli mancasse.

Per cui fottesega il castigo e aveva organizzato un incontro, adducendo come pretesto il primo spettacolo pirotecnico della stagione estiva di Seoul, e Yoongi si era dimostrato abbastanza sensato da replicare senza alcuna traccia di umorismo.

O abbastanza magnanimo da non replicare con:“Sapevo che l’avresti fatto”.

L’aria fresca della notte si muoveva con lentezza. Maggio si stava inoltrando e l’odore dei fiori si intuiva quando i refoli che scendevano dalle strade alberate incappavano in una Seoul che iniziava a sbocciare, riverberando un riflesso d’estate che sembrava premere con un’impazienza insolita.

“Mi odi?” domandò Jimin al florido cespuglio di fucsie lì accanto.

“Ho creduto di farlo, per un attimo.” rispose Yoongi. La sua voce arrochita dal silenzio era una di quelle esperienze a cui Jimin non si sarebbe mai abituato. Una vibrazione intima, un sussurro suadente, l’impressione sciocca e inevitabile che invece di fermarsi all’udito s’instillasse negli altri sensi e li collegasse, rendendoli troppo facili da toccare.

Jimin sospirò, abbassando le palpebre.

“Certe volte mi sento così stupido.”

Yoongi teneva le ginocchia piegate e la schiena inarcata, seguendo la lieve curva pendente del ponte.

“Immagino fosse per l’orgoglio, o per paura di non so cosa. Non dovresti avere paura di me.”

Jimin non ribatté. Non era diventato facile. Per quanto potesse considerarsi ormai convinto della propria rassegnazione, era difficile scoprirne tutte le tessere senza titubanze, e rievocare gli errori che aveva commesso per aver preteso che il disegno fosse diverso. Era come un dardo nel petto che bruciava ancora.

“Non sto dicendo che essere schietto avrebbe risolto la situazione,” riprese Yoongi, sorprendendolo. “Ti avrebbe risparmiato il doverti inventare una scusa plausibile, ma non so se l’avrei presa bene.” 

“Se non altro sarei stato onesto.”

“Già.” udì Yoongi respirare profondamente, in quel modo che rivelava la presenza di pensieri incerti se emergere o restarsene inespressi. Attese una manciata di attimi, nel frusciare delle foglie.

“Ma?”

Ma cosa?”

“Già, ma…?”

“Non c’è nessun ma.” Jimin lanciò un’occhiata alle converse di Yoongi, nel caso fossero più eloquenti del proprietario, ma, dal momento che non lo erano, cambiò posizione e si voltò sino a scorgere nel buio i rilievi bianchi della sua felpa. L’illuminazione in giardino era scarsa, limitata a pochi fiochi neon installati come spiritelli addormentati, e il riverbero delle stelle bastava appena a fendere i rami del sorbo che proteggevano lo spazio in cui si erano ritirati.

Vide le sue dita tendersi, e il pollice scorrere sull’altro a lenta ripetizione.

“Intendevo: non so se l’avrei presa bene anche in caso mi avessi spiegato il vero motivo per cui mi hai ignorato…” 

Parve rifletterci un istante. Posò i palmi sulle assi lisce e si mise seduto. “Magari avrei capito, avrei preso la cosa con flemma e pace fatta. O magari mi sarei arrabbiato ancora di più, ti avrei odiato perché avrei pensato che tu mi avessi preso in giro dall’inizio alla fine.”

Jimin non aveva mai considerato una tale eventualità.

La sua coscienza era del genere che non ammetteva sotterfugi. Tendeva a esprimersi nel modo più logico e razionale per non lasciare nulla in sospeso che potesse tornare a minarne la stabilità, e quando si ostinava a violare i suoi principi subentrava un senso di colpa subdolo e acuto, uno stillicidio che non smetteva di tormentarlo sottopelle.

Non aveva mai preso in considerazione che, invece, tacere potesse essere la cosa migliore.

Forse perché per se stesso non lo era.

“Non saprei…” mormorò. “Non penso di volere che tu sappia la verità…”

Il profilò di Yoongi lo sbirciò. La goccia di sudore che gli era rimasta intrappolata sopra al labbro era una piccola sfera brillante che rifletteva chissà quale impercettibile fonte di luce, dando alla linea della sua bocca contorni surreali, freddi, alteri.

“Ovvero?”

“Sono… piuttosto sicuro che tu non voglia saperlo.” una breve pausa, “Se c’è qualcosa di insopportabile, è portare sulle spalle un imbarazzo incompleto.”

Le ciglia di Yoongi sbatterono con lentezza. Unì di nuovo i polpastrelli, come per recuperare il filo delle riflessioni precedenti.

“E la sincerità a qualunque costo?”

Parlò in un tono talmente insolito, reciso, che Jimin se ne stupì. Stava citando ciò che egli stesso aveva detto in passato. Sforzandosi, riusciva a ricordare ancora il momento esatto in cui aveva pronunciato quelle parole, quella promessa a se stesso e alla loro amicizia. Quanta ipocrisia.

“Non a qualunque costo… solo se puoi permetterti di essere onesto.”

“Fai ancora in tempo,” ribadì Yoongi, stavolta scivolando in una neutralità sospetta. “Adesso. Siamo solo io e te, puoi darmi le spiegazioni che mi devi.»

Jimin aggrottò la fronte.

“Non posso fare una cosa simile.”

“Perché no?” Yoongi non lo guardava. Aveva raccolto una rossa foglia d’acero portata dal vento e ne stava tastando ogni venatura. “Ti stai lamentando di non essere stato sincero con me. Cosa c’è di più facile che parlarmene ora e chiudere il cerchio?”

Jimin provò uno sgradevole brivido lungo la schiena.

Era vero, avvertiva con nitidezza avvilente la scottatura rimasta per aver deluso Yoongi, che si rinnovava ogni dannata volta che le loro strade s’incrociavano, soprattutto dopo il loro litigio, ma affrontarlo a viso aperto era… era…

“Non lo farai.” proseguì Yoongi, dopo un’opportuna manciata di secondi. “Non lo farai perché, per quanto ti impegni, ti senti come se essere sincero sia sconveniente, perché malgrado i tuoi buoni propositi rimani un maniaco del controllo quindi rimuginerai su quest’eventuale conversazione fino alla nausea, e perché dopo averci rimuginato fino alla nausea ti renderai conto che c’è una matematica probabilità che io la prenda molto male e decida di sbandierare la tua stronzaggine a destra e a manca.”

La bocca di Jimin si schiuse, scioccata, ma Yoongi lo pervenne.

“Che tu sia stronzo l’abbiamo appurato, non stare a badare alla semantica.”

“Hey, dopo il casino che hai combinato davanti a tutti a scuola, quello che dovrebbe fare l’acido incazzato sono io.”

Yoongi non si mosse per qualche istante, continuando a palpare la foglia a cinque punte, quasi volesse farne un foglio di carta. Poi la lasciò andare con un sospiro.

“Scusa,” bisbigliò. Si portò una mano al viso ma parve non sapere come adoperarla. Risolse premendosi la radice del naso, che sembrò un pretesto per non posare gli occhi su Jimin. “È solo che... che non vorrei che questo rovini le cose tra di noi.”

Jimin lo scrutò nel buio.

All’improvviso, un’urgenza inspiegabile gli sorse nel petto, gli sgorgò nell’anima, implorandolo di urlare tutto quello che soffocava da troppo tempo, tutto quello che lo affliggeva e gli pesava e lo feriva con disinvoltura.

Yoongi era lì.

Così vicino. Così vivido. Così magnifico da apparire intoccabile.

Non disse nulla, in attesa di una rivelazione che poteva arrivare così come rimanere un lontano miraggio avvolto negli strali sgargianti del sole di Los Angeles. Non avrebbe dovuto.

Non avrebbe dovuto avere remore, timori, scrupoli, non avrebbe dovuto dimostrarsi così delicato nei confronti del ragazzo che dal suo esordio non aveva fatto altro che confondergli la vita.

Eppure esitava.

Per un pudore a cui si rifiutava di dare un titolo.

Yoongi sospirò di nuovo, e stavolta si coprì la faccia coi palmi, finendo con lo scompigliarsi i capelli.

“Forse ho capito qual è il tuo problema.”

Jimin deglutì aria. Aveva temuto di ascoltare quelle parole con tanta intensità che ora si sentiva un maledetto insetto, schiacciato sotto il peso dei suoi sbagli e delle sue bugie.

“No, forse l’ho sempre saputo.” Yoongi si posò le braccia sulle ginocchia, tenendosi i polsi.

“Quindi?"

Una pausa sospesa, immobile, un momento in cui le labbra di Yoongi si fecero tese e la saliva di Jimin inesistente.

“Ho visto il modo in cui mi sorridi, in cui mi guardi. Ho sempre pensato… ho sempre cercato di lasciar stare perché era impossibile.”

Il cuore di Jimin gli traballò nel petto, si inceppò come un meccanismo difettoso. Sentì l’impellente necessità di piangere.

“Jimin,” disse con fermezza, con una disperazione sottile nel tono della voce. “Ti prego, dimmelo.”

Jimin stava già piangendo quando si ritrovò semplicemente ad annuire, sentendosi nudo e sciocco e tremendamente inutile. Era disgustato da se stesso e dal suo stesso corpo che non la smetteva di tremare per la vergogna e il pianto represso e tutti quei sentimenti che gli stavano venendo strappati dal cuore con forza, che stavano rotolando in pezzi proprio sotto gli occhi di Yoongi. E la consapevolezza che lui sapesse, lo avesse sempre saputo, gli ricordava di quanto stupido fosse stato e di quante volte aveva finto, aveva mentito, aveva riso quando avrebbe voluto cadere a terra in ginocchio ed annegare tra le sue lacrime perché faceva male, male, un male infinito che ora si espandeva e non era possibile arrestare, annullare, disintegrare. 

Era tutto reale. 

“Non posso essere tuo amico.” mormorò dopo un istante, gli occhi chiusi e il petto stremato. “Io… io ti volevo bene. Ti voglio bene. Ti amo.” Si fermò. Dovette inspirare ed espirare a piccole riprese. “Non c’è nessuno, al mondo, per cui provi ciò che provo per te.”

Jimin ingoiò quella frase senza riflettere, e sperò scivolasse lontano senza procurare danni.

“Ma so che i nostri sentimenti… non potranno mai collimare.»

Yoongi cercò nei suoi lineamenti chiaroscuri una traduzione, un codice di codifica alla sua portata, ma non lo trovò.

“Temo di non capire…”

Jimin sospirò di nuovo. Era nervoso. Le spalle rigide, i pollici che premevano contro gli scafoidi, lo scostante ciondolare delle ginocchia che pareva tremassero di tanto in tanto, il cuore in tumulto e l’aria a fluire con una pressione insopportabile all’interno dello sterno.

“Certe volte mi chiedo cosa sarebbe successo se quel giorno non fossi venuto con te. Di certo non mi sarei innamorato, ma non sarei neanche diventato tuo amico. Allora… ho iniziato ad immaginarmi una vita senza di te, senza di noi. E ho capito che non posso averti se non posso amarti. Mi fa troppo male anche solo pensarti perché so che non mi stai pensando allo stesso modo. E io…” un singhiozzo, la voce a spezzarsi, fragile, fragilissima, “Io non posso continuare così.”

“Jimin, di cosa cazzo stai parlando?”

“Non posso esserti amico, Yoongi. Non più.” mormorò lento. Lo sguardo era fermo, immerso nel labirinto di giochi d’ombre del giardino.

“Jimin—”

“Per favore, vattene. Vattene dalla mia vita e dal mio cuore e da ogni parte di me. Non ti ho mai voluto, la nostra amicizia mi ha sempre fatto schifo. Ho sempre odiato stare con te, ho sempre odiato il male che mi faceva la tua presenza.” la gola gli bruciava, le lacrime gli sporcavano la lingua e le guance e le parole. “Vattene.”

Yoongi rimase immobile per qualche secondo, i pugni stretti, la mascella contratta. Poi si alzò di scatto e scomparve nel buio, i suoi passi veloci solo un’eco in lontananza.

Jimin lo udì allontanarsi finché poté, finché i battiti del suo cuore reciso non si fecero assordanti.

E tornò a sdraiarsi sulle assi del ponte, fissando un cielo immenso. 

Il peso dal suo petto era svanito, ma dietro di sé aveva lasciato una voragine.

 

 

Erano passate due settimane. Due settimane fatte di vuoto, di pianti, di autocommiserazione e di chiamate ignorate. 

Jimin si rendeva conto di aver esagerato, di aver rovinato tutto ciò che sarebbe potuto salvarsi, ed ora non era in grado di rimettere insieme i pezzi.

Non sapeva come rimediare, come non impazzire.

Le telefonate di Yoongi erano incessanti, i suoi messaggi brevi e continui. Jimin era arrivato al punto in cui spegnare il cellulare e rinchiudersi in casa fosse l’unica soluzione, l’unico modo di trascurare, per quanto possibile, ciò che non andava.

Jimin non era bravo ad aggiustare le cose. In particolare, le cose che era lui stesso a rompere.

Tendeva a fuggire dai problemi, per non doverne affrontare le conseguenze e non doverli mai più guardare in faccia.

Fuggiva perché era la cosa più semplice, quella che gli riusciva meglio, quella con cui si salvava sempre.

O, almeno, questo era quello che credeva.

In realtà, i suoi problemi non svanivano mai. Avrebbe potuto correre chilometri interi, ansante e distrutto, con i piedi in fiamme ed i talloni consumati, con i muscoli delle gambe a tremargli per lo sforzo; avrebbe potuto saltare sul primo treno, cambiare città, cambiare vita, cambiare nome; avrebbe potuto fare finta che non fosse accaduto nulla, come se ogni singola cosa fosse al posto giusto, senza che si fosse spostata di un singolo millimetro.

Avrebbe potuto provarle tutte, metterci l’anima, sudare cinquecento camicie, ma i suoi problemi non sarebbero mai svaniti del tutto. Mai.

Sarebbero sempre rimasti lì, in agguato, in attesa del momento giusto per attaccare, in attesa del primo accenno di debolezza, di arrendevolezza, di cedimento.

Lo avrebbero raggiunto, rincorso per miglia intere, assalito e soppresso.

Gli sarebbero sempre stati alle calcagna, come fossero legati alle sue caviglie tramite delle catene invisibili ed indistruttibili.

Poteva accantonarli momentaneamente, fingere di dimenticarsene, giurare che li avrebbe fronteggiati in seguito. Ma loro sarebbero sempre esistiti.

Nonostante gli sforzi, nonostante tutto.

E lo avrebbero inseguito, gli sarebbero stati col fiato sul collo ogni singolo giorno della sua vita, come un’incudine battente che pesa sulle spalle per ricordarti di ciò che hai lasciato indietro, di ciò che però è ancora lì, nell’esatto punto in cui credevi di averlo eliminato.

Anche quella volta, Jimin era fuggito. Aveva preso la scorciatoia per evadere da quel casino che si era andato a creare. Che lui aveva creato.

Coglione.

Fu il fischio del citofono a farlo sobbalzare, a riportarlo alla realtà e a lasciarlo frastornato. Pochissime persone conoscevano il suo indirizzo, ma era quasi del tutto sicuro di chi si trattasse. 

Lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino: mezzanotte e quattro. I suoi sospetti vennero immediatamente confermati.

Con gambe tremanti e il cuore in gola, si alzò e si fermò di fronte al citofono. Attese due minuti interi, battendo nervosamente il piede a terra, sentendo il fiato mancargli, la paura inondarlo e il suo dito finalmente premere sul pulsante di apertura. Il portone si aprì.

Rimase ad ascoltare il rumore dei passi che salivano i gradini, fino ad arrivare al secondo piano, dove aveva lasciato la porta semi-aperta.

Trattenne il respiro, il silenzio si protrasse tanto a lungo da farlo sentire sul punto di svenire.

Le luci erano spente e la casa sembrava completamente deserta, a parte il rumore incessante del suo battito cardiaco che premeva con prepotenza.

Jimin provò a chiamare il nome di Yoongi, con voce tremante, esitante, come se avesse paura di rompere il silenzio che regnava in quel misero appartamento.

L’aria vibrò quando venne attraversata dalle lettere soffiate fuori dalle sue labbra, ma poi non accadde nient’altro.

Tese un orecchio per tentare di captare qualche suono impercettibile, ma anche quella volta i tentativi furono vani.

“Jimin?”

Quando sentì una voce dietro la porta pronunciare il suo nome, con un tono debole ed allibito, si voltò sobbalzando.

Aprì la bocca istintivamente per la sorpresa, ma si affrettò a richiuderla e a deglutire un paio di volte, prima di riaprirla per dire:“Yoongi.”

Il biondo si sorreggeva con una mano appoggiata allo stipite della porta, mentre con l’altra si teneva la testa, come se gli pesasse quintali e lo stesse costringendo ad accasciarsi su se stesso.

Si stropicciò gli occhi un paio di volte, prima di riuscire a metterlo a fuoco. Quando lo fece, un sorriso deformato dalla stanchezza e dall’alcool comparì sulle sue labbra all’istante.

Si staccò dallo stipite con un leggero slancio, facendo qualche passo avanti.

Jimin non riusciva a distinguere bene il volto di Yoongi nel semi-buio dell’appartamento.

Quasi lo sentì sorridere nell’oscurità, “Dov’è il tuo viso, Jiminie?”

“Sono qui.” sussurrò, improvvisamente nervoso, insicuro di tutto, la determinazione di prima spazzata via dalla presenza di Yoongi.

“Dove?” fece un altro passo barcollante nel buio.

Jimin ne fece un altro verso di lui, “Sono qui.”

“Ancora non ti vedo.” disse, ma d’un tratto la sua voce era molto più vicina di prima, “Tu mi vedi?”

“No.” mentì, cercando d’ignorare la tensione istantanea dei suoi muscoli, l’elettricità che scorreva tra di loro.

Fece un passo indietro, improvvisamente incapace di sopportare quella vicinanza micidiale col corpo di Yoongi, desideroso di fuggire da quella casa all’istante e non dover tornare più.

Sentì le sue mani sulle braccia, la sua pelle contro la propria, e trattenne il fiato.

Non si mosse neanche di un millimetro.

Non disse nulla quando le mani di Yoongi scesero fino alla sua vita, toccando il tessuto fin troppo sottile della sua maglietta. Con le dita gli sfiorò la pelle delicata della bassa schiena, proprio sotto l’orlo dell’indumento che indossava.

Jimin perse il conto delle volte in cui il cuore gli smise di battere.

“Yoongi,” lo richiamò, forse nel tentativo di distrarlo dai suoi movimenti, mentre tentava in tutti i modi di mantenere la concentrazione, di non far ardere la gola più di quanto già stesse facendo.

Si sforzò di dare ossigeno ai polmoni, di tenere ferme le mani, anche se non avrebbero voluto far altro che aggrapparsi alle spalle di Yoongi, per tenerlo ancora più vicino, direttamente contro il suo petto; insinuarsi tra i suoi capelli ispidi, tirare sulle punte, tracciare i contorni del suo viso.

Si schiarì la gola, sentendola secca, arida, completamente asciutta, “Perché hai bevuto?”

Sentì la risata di Yoongi, spropositatamente forte in confronto al silenzio che c’era stato fino a quel momento, dall’odore di alcool e falsità, un entusiasmo che non aveva nulla di reale, né di concreto da cui sarebbe potuto scaturire.

“Dopo l’ultima volta…” iniziò, per poi fare una breve pausa, come se ci stesse riflettendo sopra, e continuare:“Dopo che abbiamo parlato, mi sono sentito strano.”

Le sue mani risalirono per le braccia di Jimin, rimasto immobile sotto il suo tocco leggerissimo.

Le sue dita scivolarono sotto il tessuto del colletto della maglia.

Tutto questo gli fece male nel profondo. Ferì Jimin come la lama di un coltello.

Era una forza vitale che scuoteva ogni centimetro del suo corpo e cercava di convincerlo a non perdere la testa, mentre le dita di Yoongi gli solleticavano il pomo d’Adamo, per poi scendere lentamente più giù.

Tutto si fermò.

L’aria era immobile, la sua pelle spaventata, i suoi pensieri sussurravano per non fargli dimenticare di respirare, ma era così difficile.

“In quel momento, avrei solo voluto che mi stessi prendendo per il culo. Sai, dopo tutto questo tempo che siamo stati amici, perderti, ritrovarti e poi scoprire che mi ami è stato un po’…” un’altra risata, “Sconvolgente. E non ho fatto altro che pensarci. Non ho fatto altro che pensarti in questi ultimi giorni, perché non riuscivo a togliermi dalla testa quest’assurda sensazione.”

Le sue dita scostarono un piccolo lembo di tessuto, scoprendo la spalla liscia e ambrata di Jimin.

“Sentivo la pelle... sentivo qualcosa d’incredibile attraversarmi, ogni volta che m’immaginavo come sarebbe stato baciarti davvero, toccarti ovunque, assaggiarti. E mi ripetevo anche che era ridicolo, che io non sono gay, che tu eri un ragazzo ed era tutto così fottutamente insensato da mandarmi fuori di testa.”

Jimin sentì il suo respiro già precario incastrarglisi in gola quando Yoongi abbassò di poco il capo, e poi percepì le sue labbra contro la spalla scoperta, soffici, bollenti, delicate, così delicate che avrebbe potuto credere fosse stato un bacio lasciato dalla carezza del vento, e non dalle labbra di qualcuno.

Ma poi le percepì ancora. Stavolta sulla clavicola, ed era come se stesse sognando, come se stesse rivivendo la carezza di un ricordo dimenticato, un dolore che cerca sollievo, una pentola fumante che viene gettata nell’acqua gelida, una guancia accaldata premuta contro un cuscino fresco in una calda notte.

Jimin aveva istintivamente chiuso gli occhi, abbandonandosi a tutte quelle sensazioni che aveva aspettato così tanto, che aveva agognato ogni minuto, che credeva di meritarsi più di chiunque altro, prima di ricordarsi che la bocca di Yoongi era sul suo corpo e lui non stava facendo nulla per fermarlo, anche se avrebbe dovuto, perché era ubriaco.

Ma non ci riusciva, e Dio, perché doveva essere tutto così complicato?

Prima che potesse farlo lui, però, Yoongi si allontanò, non di troppo.

Jimin si rifiutò di aprire gli occhi, per non dover incontrare quelli del biondo, adesso così vicini, così luccicanti anche nel buio leggero che li avvolgeva.

“Penso che profumi di un odore che mi piacerà sempre.”

“Yoongi…” sussurrò Jimin, troppo piano, troppo debolmente, senza la capacità di opporsi, senza la voglia di opporsi a tutto quello, “Che stai facendo?”

“Non lo so. Ho solo— Credo di... volerti sentire.”

Con un dito gli toccò il labbro inferiore. Tracciò la sagoma della bocca, le sue curve, la sua cucitura, le sue rientranze.

E le sue labbra si schiusero, anche se gli aveva chiesto di non farlo.

Yoongi si avvicinò.

Lo sentì molto più vicino, riempì l’aria che lo circondava finché non ci fu altro che lui e il calore del suo corpo, il profumo di sapone ormai ancorato alla sua pelle e qualcosa d’irriconoscibile, qualcosa di dolce ma non dolce, qualcosa di caldo e vero, qualcosa che sapeva di lui, come se gli appartenesse, come se fosse stato versato nella bottiglia in cui Jimin stava affogando.

Non si rese nemmeno conto che si stava spingendo verso di lui.

Respirò il profumo del suo collo, finché le dita di Yoongi non erano più sulle sue labbra, bensì con le mani gli stringeva la vita.

“Ho sbagliato ad andarmene così. Solo che non sapevo come sentirmi, cosa diamine provare. Ero solo... confuso. E lo sono ancora, perché... Cazzo.” le parole che si trascinarono fuori dalla sua bocca erano distorte, indefinite, storpiate dall’alcool.

“Tu.” sussurrò ancora, una lettera alla volta, premendo quella parola contro la pelle bollente di Jimin prima di esitare. Poi più piano, mentre il petto gli si gonfiava e le sue parole diventavano un rantolo, “Tu mi distruggi.”

Jimin si sentì crollare tra le sue braccia.

“Jimin.” disse, mimando il suo nome con le labbra, quasi senza parlare, versando lava fusa nel suo corpo, fino a scioglierlo, uccidendolo.

Jimin strizzò più forte le palpebre, per non sollevarle, per non vedere, per non tremare.

“Ti voglio.” sussurrò ancora, “Voglio tutto di te. Ti voglio dentro e fuori, voglio che cerchi di riprendere fiato e mi desideri intensamente come io desidero te intensamente.”

Yoongi pronunciò quelle parole come se avesse una sigaretta accesa in gola, come se volesse immergere il corpo di Jimin nelle fiamme che divampavano dal suo petto.

“Sei... sei ubriaco, Yoongi.” si sforzò di rispondere, anche se avrebbe voluto soffocare con quelle parole morte sulla punta della lingua, o incastrate nella trachea.

“Mi dispiace di aver bevuto, però ti volevo e tu non c’eri, allora... l’ho fatto perché non c’eri, Jimin. Tu non c’eri ed io non avevo la forza di chiederti scusa.” disse, inciampando in ogni sillaba.

“Hai... hai detto che volevi essermi amico.” disse Jimin con aria interrogativa, perso e spaurito.

“Sì.” rispose deglutendo, “Lo volevo. Lo voglio. Voglio essere tuo amico.”

Quando annuì, Jimin percepì un leggero spostamento d’aria tra di loro.

“Voglio essere l’amico di cui sei perdutamente innamorato. L’amico che fai stare tra le tue braccia, nel tuo letto e nel mondo riservato che tieni intrappolato nella tua mente. Voglio essere quel genere di amico.” aggiunse Yoongi, continuando:“Quello che memorizzerà le cose che dirai e la forma delle tue labbra quando le dirai. Voglio conoscere ogni curva, ogni lentiggine, ogni brivido del tuo corpo, Jimin…”

“No.” ansimò, “Non... non dirlo. Non lo pensi davvero.”

“Invece sì, cazzo! Ci ho pensato così a lungo. Sin da quando ti ho visto la prima volta. Ci ho pensato incessantemente, e ne sono sicuro. Se tu hai bisogno di me come io ne ho di te, allora sarò l’amico che vorrei essere, e la persona che tu vorresti accanto. Per non perderti, Jiminie. Per non perderti.” rispose, con tono più deciso e meno strascicato, con una certa intensità nella voce.

Jimin non sapeva cosa avrebbe fatto se avesse continuato a parlare, e non si fidava di se stesso, “Non sei costretto a... Se non provi nulla per me, va bene. L’ho sopportato per mesi, posso farlo anche adesso.”

Yoongi scosse la testa, deglutendo, “Voglio... voglio sapere dove toccarti. E voglio sapere come toccarti. Voglio sapere come fare per convincerti che penso davvero tutto questo.”

Jimin sentì il suo petto alzarsi, abbassarsi, poi alzarsi ancora, ed abbassarsi. Su, giù, su, giù.

“Sì.” proseguì, “Voglio essere tuo amico. Voglio essere il tuo migliore amico.”

Jimin non riusciva a pensare, a respirare.

“Voglio tantissime cose.” sussurrò Yoongi, “Voglio essere parte del tuo tempo.”

Con le dita sfiorò il bordo della maglietta di Jimin, “Voglio alzarti questa.”

Infilò due dita nel passante dei suoi pantaloni, “Voglio abbassarti questi.”

Gli toccò i fianchi con la punta delle dita, “Voglio sentire la tua pelle andare a fuoco. Voglio sentire il tuo cuore battere veloce accanto al mio e sapere che batte solo per me, perché mi vuoi.”

Sospirò, “Perché non vorresti mai che mi fermassi. Voglio ogni secondo, ogni centimetro di te. Voglio tutto.”

E Jimin si sentì morire, riversandosi completamente a terra.

“Jiminie.”

Credeva di essere morto definitivamente, e non capiva come fosse possibile sentire ancora la voce di Yoongi, così roca e profonda, così bella e calda.

Il più grande deglutì, gonfiando il petto con forza. Le sue parole furono un sussurro ansante e tremante quando disse:“Ho— Ti voglio adesso, adesso. Per favore. Dimostrami che ci sei, che non ti ho ancora perso, che non ti perderò. Dimostrami che mi ami.”

Jimin era immobile, a terra. Si sentiva girare mentre se ne stava in piedi. Aveva le vertigini nel sangue e nelle ossa e respirava come se fosse il primo uomo che aveva imparato a volare, come se avesse inalato l’ossigeno che si trova solo nelle nuvole.

E ci stava provando, ma non sapeva come impedire al proprio corpo di reagire a quello di Yoongi, alle sue parole, al desiderio e alla disperazione nella sua voce.

Yoongi gli toccò una guancia. Piano, pianissimo, come se non fosse sicuro che Jimin fosse reale, come se avesse paura di avvicinarsi troppo e di farlo scomparire.

Gli sfiorò un lato del viso con quattro dita, lentamente, molto lentamente, prima di fargliele scivolare dietro la testa, fermandosi nel punto proprio sopra al collo.

Col pollice gli sfiorò il rossore che aveva sulla guancia.

Continuò a guardarlo, a guardarlo negli occhi in cerca di aiuto, di una guida, di un segno di protesta. Come se fosse sicuro che Jimin avrebbe iniziato a piangere, urlare e scappare, ma non lo fece.

Non avrebbe potuto nemmeno se lo avesse voluto, perché non lo voleva.

Voleva restare lì, paralizzato in quel momento.

Yoongi si avvicinò di un centimetro, afferrandogli con la mano libera l’altro lato del viso.

Lo teneva come se fosse fatto di piume.

E lo guardava, quasi incredulo, quasi terrorizzato.

Gli tremavano le mani, un poco, ma comunque abbastanza perché Jimin percepisse un leggero tremore contro la pelle.

E si avvicinò con molta cautela.

Respiri, silenzi, cuori che battevano tra loro.

Yoongi era vicinissimo, così vicino che Jimin non sentiva più le gambe, né le dita, né il freddo, né il vuoto di quella casa, perché non sentiva altro che lui, ovunque, che riempiva ogni cosa.

“Per favore.” sussurrò, il fiato inesistente.

E lo baciò.

Le sue labbra erano più soffici di qualunque cosa Jimin avesse mai provato, soffici come una prima nevicata, come se mordessero zucchero filato, come se si sciogliessero, fluttuassero e diventassero leggerissime nell’acqua.

Era dolce. Era spontaneamente dolce.

Una semplice sovrapposizione di labbra, comunque così intenso da lasciare Jimin senza fiato, senza voglia di tornare alla realtà, senza tempo per stringere le dita e non lasciarle tremare.

Poi cambiò.

“Oh, Dio…” sussurrò Yoongi contro la sua bocca, baciandolo di nuovo, questa volta con più forza, disperatamente, come se avesse dovuto averlo, come se stesse morendo dalla voglia di memorizzare la sensazione delle proprie labbra contro le sue.

Il suo sapore stava mandando Jimin fuori di testa: era calore, desiderio e menta.

E ne voleva ancora, altro, fino a disgustarsi, fino a consumarlo, fino ad imprimerselo sulle papille gustative.

Jimin aveva appena iniziato a tirarlo verso di sé, a spingerlo contro il suo corpo, quando si allontanò improvvisamente.

Respirava come se avesse perso la testa e lo guardava, come se qualcosa gli si fosse spezzato dentro, come se si fosse svegliato e avesse scoperto che non erano altro che incubi, che non erano mai stati reali, che era stato solo un brutto sogno, sembrato fin troppo reale, ma che era sveglio, al sicuro, e andava tutto bene.

Jimin stava cadendo a pezzi.

Stava cadendo a pezzi, nel suo cuore, ed era un disastro.

Yoongi lo scrutò, scrutò i suoi occhi in cerca di qualcosa, di certezze sconosciute, o forse di un indizio che lo spingesse a continuare. Cercando di ricordarsi che quello di fronte a lui fosse davvero un ragazzo.

E Jimin non voleva altro che perdersi in lui. Voleva solo che lo baciasse finché non sarebbe caduto tra le sue braccia, finché non sarebbe stato lasciato alle ossa e alle spalle, volando verso uno spazio nuovo ed interamente loro.

Niente parole.

Solo le sue labbra.

Ancora.

Profonde ed urgenti, come se non avesse potuto permettersi di aspettare ancora, come se ci fossero troppe cose che voleva sentire e non ci fossero abbastanza anni per sperimentarle tutte.

Le loro lingue si sfiorarono, prima toccando le labbra in modo effimero, poi trovando il loro posto nella bocca dell’altro, accarezzandosi per sussurrarsi segreti e promesse silenziose.

Evitarono i denti, tastarono il palato, ne scoprirono la ruvidezza ed il piacere scaturito da ogni tocco, da ogni spiffero d’aria che intercorreva tra loro.

E contarono i battiti, ogni volta che i loro cuori pompavano un po’ di sangue, che non sembrava mai abbastanza, che li costringeva ad ansimare, a supplicare per dell’ossigeno, anche se non volevano staccarsi, anche se non c’era modo di lasciarsi andare.

C’era così tanto bisogno, così tanta necessità, così poco tempo.

Era una confusione di emozioni e di paure, che creavano le loro anime, che gli avvolgevano i polsi come le loro lingue si avvolgevano tra loro.

Poi le labbra, di nuovo, umide di saliva e rosse, calde, bollenti, piene di baci e di morsi.

Le mani di Yoongi percorsero la schiena di Jimin, imparando ogni curva del suo corpo.

Le loro labbra si staccarono con riluttanza, mentre il più grande scendeva a baciare il collo di Jimin, la gola, le spalle.

I suoi respiri diventarono più profondi, più forti, più pesanti.

Le sue mani s’intrecciarono ai capelli neri spettinati, inclinandogli la testa.

Jimin aveva le vertigini, mentre spostava le mani dietro al collo di Yoongi e si aggrappava a lui per non cadere.

Sentiva un calore freddo come il ghiaccio, un dolore che attaccava tutte le cellule del suo corpo. Era una volontà così disperata, un bisogno così soave che superava ogni cosa, ogni momento felice che credeva di aver vissuto.

Jimin si ritrovò contro il muro, le spalle a contatto col cemento freddo e le scapole premute così forte da temere che si sarebbero potute fratturare.

Yoongi lo baciò come se il mondo stesse rotolando giù per un pendio, come se lui avesse deciso di resistere e di aggrapparsi, come se fosse affamato di vita, d’amore, e non avesse mai pensato potesse essere così bello stare vicino a qualcuno.

Come se fosse la prima volta che non sentiva altro che la fame, e non sapeva come regolarsi, non sapeva come mangiare a piccoli morsi, non sapeva fare niente con moderazione.

Jimin sentì le mani di Yoongi scivolargli lungo il busto, solleticargli i fianchi e poi le sue dita armeggiare col bottone dei pantaloni, slacciarlo e fare la stessa cosa con la zip un istante dopo.

Un ansito.

Le labbra di Yoongi tornarono quasi subito su quelle di Jimin, mentre lo toccava ovunque, come per accertarsi che fosse concreto, che non si stesse volatilizzando sotto le sue dita.

Le sue mani non restavano nello stesso punto per più di qualche istante.

Jimin si morse il labbro per non lasciarsi sfuggire un gemito, proprio quando il corpo di Yoongi si pressò contro il suo, ventre a sfregare contro ventre e petti a toccarsi, battiti che si riversavano gli uni dentro al cuore dell’altro.

Yoongi staccò la bocca dalla sua per respirare pesantemente contro il suo orecchio, poggiando le labbra umide e calde proprio in un punto poco più sotto del lobo. Vi impresse i denti, senza troppa forza, come se non ne avesse più, come se fosse esausto.

Jimin fece correre le sue dita tra i capelli biondi dell’altro, stringendoli leggermente, tirando quelle ciocche che gli solleticavano il viso e non lo lasciavano respirare.

Poi si sentì trascinare, come tirato via da una corrente a cui non poteva opporsi.

I suoi piedi si mossero automaticamente, mentre gli occhi erano ancora chiusi e non controllavano dove si stesse dirigendo.

Il suo fianco destro sbatté contro lo spigolo di un mobile, mentre gli parve di pestare accidentalmente qualcosa che ricordava un telecomando.

Urtò con la spalla quello che fu certo si trattasse dello stipite di una porta, prima di ritrovarsi con il retro delle ginocchia contro il bordo di un letto, mentre Yoongi ce lo spingeva sopra, costringendolo a distendersi.

La sua testa sprofondò tra i cuscini, ancora prima di recepire che stesse cadendo all’indietro.

Yoongi era a cavalcioni su di lui e non aveva più la maglietta, senza che Jimin avesse idea di dove fosse finita, perché era riuscito ad aprire gli occhi solo in quel momento.

Alzò lo sguardo verso quello di Yoongi e riuscì solamente a pensare che non avrebbe cambiato nulla, assolutamente nulla di quel momento.

Yoongi aveva centinaia, migliaia, milioni di baci, e li stava dando tutti a lui.

Gli baciò il labbro superiore, poi quello inferiore.

Lo baciò sotto il mento, sulla punta del naso, lungo tutta la fronte, entrambe le tempie, le guance, lungo la mascella.

“Non avrei mai immaginato…” Yoongi ansimò, le labbra schiuse in cerca di un briciolo d’aria, “Non avrei mai immaginato potesse essere così bello.”

E tornò a baciargli il collo, dietro le orecchie, scendendo lungo la gola, mentre le sue mani scivolavano lungo tutto il corpo di Jimin e lui si sentiva perfetto.

La figura di Yoongi si abbassò sulla sua, scomparendo mentre si spostava verso il basso.

All’improvviso, il suo petto si ritrovò all’altezza dei fianchi di Jimin, senza che riuscisse più a vedere i suoi occhi, bensì distingueva solo la punta della testa, la curva delle spalle, la sua schiena che si alzava ed abbassava in modo irregolare quando inspirava ed espirava.

Fece scendere le mani lungo e intorno alle cosce di Jimin, facendole poi risalire, su per le costole, per la bassa schiena, e poi di nuovo giù, proprio sotto il bacino.

Le sue dita si agganciarono ai pantaloni già slacciati del ragazzo sotto di lui, che trattenne il fiato mentre glieli calava senza troppa attenzione, afferrando poi l’elastico dei suoi boxer una volta che furono arrivati a metà coscia.

Jimin ansimò.

Yoongi si chinò, sollevandogli di qualche centimetro la maglietta col naso a strofinare contro il ventre, ora scoperto, dove le sue labbra lo toccarono.

Era solo l’accenno di un bacio, ma qualcosa fece sprofondare Jimin, che sentì solo tanto, tanto caldo, come una fiamma all’interno del suo stomaco che ossidava gli organi circostanti.

La bocca di Yoongi era leggera come una piuma, mentre gli sfiorava la pelle in un punto che non riusciva a vedere bene.

Poi si rese conto che Yoongi si stava facendo strada su per il suo corpo.

Lasciò una scia di fuoco lungo il suo torso, un bacio dopo l’altro, e Jimin pensò che davvero non sarebbe riuscito a resistere a lungo, non sarebbe riuscito a sopravvivere a tutto quello.

Un mugolio gli crebbe in gola, implorando di essere liberato, mentre le sue dita erano intrecciate a capelli biondi, senza che ne ricordasse il motivo.

Lo tirò su, su di lui, sopra il suo corpo.

Doveva baciarlo.

Perché non ci credeva, non riusciva a crederci. Era tutto ciò che aveva sempre desiderato, e lo stava avendo, in quel momento, tutto per sé.

Yoongi lo voleva.

E si sentiva così fottutamente felice.

Mi vuoi anche tu, Yoongi?

Mi vuoi come ti voglio io?

Mi vuoi davvero?

Jimin alzò le braccia per far scivolare le mani lungo tutto il suo collo, sul suo petto liscio e per tutta la lunghezza del suo corpo, arrivando alla cintura in cuoio.

Esitò, le sue dita si arrestarono bruscamente. Un respiro, solo uno, poi erano tornate a muoversi, avevano oltrepassato quell’invisibile barriera e si erano finalmente posate sulla patta in rilievo appena più sotto.

Jimin sorrise, sorrise veramente, contro la bocca calda e rassicurante di Yoongi.

Applicò un po’ più di pressione, per accertarsi davvero della presenza dell’erezione del più grande.

Tu mi vuoi.

Dio, mi vuoi.

Cazzo, quanto ti amo.

E, solo in quel momento, si rese conto di non essersi mai sentito così, non fino a quel punto, non come se ogni attimo fosse pronto per esplodere, come se ogni respiro potesse essere l’ultimo, come se ogni tocco bastasse per incendiare il mondo.

Felice. Felice come non era mai stato, come aveva sognato a lungo di essere.

E completo.

Dimenticò tutto: il passato, il dolore, le bugie, i litigi, le parole di Yoongi, il mondo che continuava a ruotare, il cielo che si scuoteva.

Non riusciva a ricordare nemmeno perché stesse dimenticando, cosa stesse dimenticando, che c’era qualcosa che sembrava avesse già dimenticato.

Era difficile prestare attenzione a qualcosa che non erano i suoi occhi ardenti, la sua pelle nuda, il suo corpo fremente.

Yoongi faceva attenzione a non schiacciarlo, sorreggendosi sui gomiti poggiati su entrambi i lati della sua testa.

Jimin pensava di star sorridendo, perché anche lui gli stava sorridendo, ma lo faceva come se fosse pietrificato.

Respirava come se avesse dimenticato che doveva farlo; lo guardava come se non fosse sicuro di come dovesse fare; esitava come se fosse insicuro su ogni singola cosa che aveva dato per scontata troppo presto.

Come se si sentisse fuori posto, mostrandosi così vulnerabile.

Ma eccolo.

Ed anche Jimin era lì, nonostante stentasse ancora a crederci.

La fronte di Yoongi era poggiata contro la sua, la sua pelle era arrossata per via del calore, il suo naso toccava quello dell’altro.

Spostò il peso su un braccio solo, usando la mano libera per accarezzargli piano la guancia, per afferrargli il viso come fosse comparso dal nulla.

Jimin si rese conto di star ancora trattenendo il respiro, senza riuscire a ricordare nemmeno quando aveva respirato l’ultima volta.

Yoongi abbassò gli occhi sulle sue labbra e poi li rialzò. Il suo sguardo era carico, affamato, oppresso da un’emozione che Jimin non credeva avrebbe mai potuto provare.

“Jimin,” sussurrò, “Promettimi una cosa.”

Jimin deglutì, ma non ebbe il coraggio di rispondere, così si limitò a fissare gli occhi scuri dell’altro, che lo demolivano ogni secondo di più.

“Promettimi... Promettimi che non te ne andrai ancora, adesso che puoi avere ciò che hai sempre voluto. Promettilo.”

Allora, con quelle parole a risuonargli nelle orecchie, Jimin capì.

Capì tutto, e la sua felicità si frantumò come vetro al suolo.

“È per questo che lo stai facendo? Perché credi che voglia solo scoparti?” domandò, la voce ferita e morente, in bilico tra un pianto disperato ed un urlo di dolore.

Yoongi non rispose, limitandosi a restare immobile sopra di lui, i muscoli del corpo tesi, il petto incredibilmente stretto da una morsa letale.

Jimin sospirò, “Gesù, avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto saperlo!”

Si passò una mano sul viso, sconvolto e disperato, addolorato come non mai.

Yoongi non lo voleva in quel modo, non lo voleva in quel senso.

Lo voleva solamente accanto, ed aveva messo in piedi tutta quella sceneggiata solo per fargli credere che fosse davvero ciò che desiderava, ciò che lo aveva spinto tra le braccia di Jimin.

Invece era solo una bugia.

“Ma... io ti voglio.” disse, aggrottando la fronte.

“No, Yoongi. Tu non mi vuoi. Non così. Non sul serio.”

Jimin si sentiva come se avesse le ossa piene di ghiaccio.

Voleva vomitare con tutto se stesso.

Scivolò via da sotto il peso di Yoongi, allontanandosi, cadendo quasi sul pavimento.

Quella sensazione così travolgente di disprezzo per se stesso e per ciò che aveva creduto di fare gli si conficcò nello stomaco come il taglio di un coltello troppo affilato, troppo spesso, troppo letale per restare in piedi.

Cercò di non piangere, continuando a ripetersi che non era successo davvero, che non poteva star succedendo.

“Jimin…” lo richiamò Yoongi, tendendo una mano verso il suo viso, ora un po’ più lontano, ma ancora raggiungibile.

“No!” scattò subito, fermandolo di colpo con la mano a mezz’aria.

“No.” ripeté con più calma, scuotendo la testa, volendo solo che Yoongi scomparisse e cessasse di esistere.

“Ti giuro che non è come credi, te lo giuro!” esclamò disperato, cercando di toccarlo di nuovo, mentre Jimin continuava a fuggirgli.

“Smettila di continuare a mentire!” urlò, perdendo il controllo che stava cercando di mantenere con tutte le sue forze.

L’espressione sul volto di Yoongi era così triste, così spenta che sembrava lo avessero privato dell’unica scintilla di calore in mezzo al gelo micidiale che lo circondava da sempre, “Te ne andrai di nuovo?”

Jimin sospirò, “Yoongi... No, non me ne andrò. Anche se vorrei.”

“Perché vorresti?”

“Perché mi fai così fottutamente male che a volte vorrei solo non amarti tanto.” ammise, “Ma tu sei qui che mi stai usando per degli esperimenti che ti aiutino capire il tuo stupido orientamento sessuale, sei qui che mi tratti come una delle tue puttane e io— ” continuò, fingendosi divertito, anche se in realtà si trovava sull’orlo del precipizio che precedeva la follia pura e l’esasperazione.

“No, no!” si affrettò a rispondere Yoongi, “Non è così! Sto solo cercando di capire se riuscirò a stare insieme a te, nel modo in cui vuoi tu. Per non perderti.”

Jimin lo fissò, tutto il finto divertimento di prima evaporato, ora sostituito da un paio di occhi tristi e addolorati, “Yoongi... Non devi farmi alcun favore.”

“Ma tu mi ami, no?” chiese il biondo, fissandolo dritto negli occhi, in modo profondo, così che non potesse riuscire a mentirgli. Anche se probabilmente non l’avrebbe fatto lo stesso.

Jimin esitò un istante, prima di annuire fermamente.

Allora Yoongi riprese:“Potrei provare ad amarti anch’io. Così avrei te, e tu avresti me: tutto quello che desideriamo. Perché voglio starti accanto, Jiminie. Non m’importa se come un amico, un amante, o chissà cos’altro. Mi basta sapere che mi sveglierò la mattina e troverò un tuo messaggio sul cellulare; oppure ti vedrò ancora addormentato nel tuo lato del letto, con la faccia nascosta sotto al cuscino. Ogni mattina, per tutte le mattine. Mi basta solo questo, nient’altro.”

“Yoongi…” Jimin trattenne un singhiozzo inaspettato, “Non dirmi così, ti prego. Non dirmi così se non mi vuoi davvero.”

“Ma io—”

“No, tu non mi vuoi. Non sei pronto, non sei sicuro. Ed io non voglio approfittarne, non voglio costringerti ad amarmi in un modo in cui non riesci a fare. Aspetterò, Yoongi. Non andrò via, lo giuro. Aspetterò finché non sarai sicuro, finché non capirai cosa vuoi veramente. Posso farlo. Ti ho aspettato mesi interi, credo di poterlo fare un altro po’.” Jimin gli sorrise tristemente, avvilito, però irremovibile nella sua scelta.

Yoongi però non sembrava d’accordo, forse terrorizzato dall’assurda idea che Jimin avrebbe potuto cambiare idea e decidere di non aspettarlo più, privo di quelle certezze necessarie per non mollare.

“No, Jiminie. Io ti voglio. Adesso, ora, davvero. Ti voglio.” si spinse automaticamente in avanti, cercando di raggiungere l’altro ragazzo, nel tentativo almeno di sfiorarlo.

“Yoongi…” lo ammonì, facendo un passo indietro.

“Baciami. Avanti, fallo. Ti dimostrerò che è la verità.” insistette, continuando a protendersi verso il volto di Jimin, che non sapeva più come evitarlo, come non respirarlo.

“Yoongi, per favore. Non lo farò.”

“Bene.” esclamò, “Allora lo farò io.”

E, detto ciò, si fiondò sulle labbra di Jimin ancor prima che quest’ultimo avesse modo di captare chiaramente le parole pronunciate dalla stessa bocca che ora premeva con insistenza sulla sua, applicando fin troppa pressione.

Cercò di allontanarlo, ma senza successo.

Yoongi continuava a spingersi contro la bocca di Jimin, che lo teneva distante stringendolo per i bicipiti, anche se non serviva a molto.

Yoongi tentò di muovere le labbra contro le sue, incitandolo a fare lo stesso, a baciarlo sul serio, stringendo forte le palpebre come per non vedere, per sforzarsi.

Jimin, esasperato e giunto veramente al limite, fece l’unica cosa possibile che gli venne in mente in quel momento.

Strinse le dita, sollevò il braccio.

E lo colpì sullo zigomo.

La mattina dopo il letto era vuoto, la casa silenziosa e il cuore di Jimin un fantasma. 

La stanza stava bruciando, il suo corpo stava bruciando, ogni cosa stava bruciando.

Ma lui continuò a ripetersi che l’incendio non sarebbe durato per sempre: presto, non ci sarebbe stato più niente da bruciare.

 

 

Quella mattina faceva freddo.

Un freddo secco, acuto, che s’infilava tra le fibre dei tessuti e si convertiva in spilli acuminati che premevano contro la pelle, rilasciando una fulminea scossa ogni volta che si compiva un minimo movimento.

Yoongi non sapeva perché di punto in bianco avesse iniziato a gelare, ma senz’altro rimpiangeva di essersi addormentato la sera prima solamente con un misero quanto insignificante paio di boxer.

Si avvolse nelle coperte che erano scivolate ai piedi del letto, ammucchiandosi disordinatamente, nel vano tentativo di recuperare un po’ di calore.

Allungò il collo di lato per controllare l’ora sulla sveglia sopra al comodino, sbuffando quando lesse che fossero solamente le cinque e ventidue.

Era stato costretto a svegliarsi perché non riusciva a smettere di tremare, ma adesso non sarebbe più riuscito a tornare a dormire.

Sbuffò un’altra volta, ruotando poi su un fianco e stringendosi ancora di più la coperta attorno al corpo.

Rimase a fissare per almeno una decina di minuti il comodino accanto al letto, fino a quando decise finalmente di alzarsi e di andare in bagno.

Si sciacquò velocemente il viso, sperando che bastasse qualche goccia d’acqua per cancellare quelle orrende occhiaie dai suoi zigomi.

Tornato in camera, si gettò a sedere sul letto e prese il cellulare in mano, come faceva tutte le mattina appena sveglio.

Ciò che non si sarebbe aspettato assolutamente era di trovare un messaggio in segreteria telefonica.

Da parte di Jimin.

Il cuore gli schizzò in gola nel leggere il suo nome, e subito le dita presero a tremargli paurosamente, col rischio di lasciar cadere a terra il cellulare da un istante all’altro.

Dio, doveva calmarsi.

Magari voleva solamente dirgli qualcosa di urgente che non riguardava minimamente ciò che era successo la sera prima.

Però Yoongi aveva un presentimento del tutto opposto, che lo avvertiva di reggersi forte, trattenere il fiato ed ascoltare quel messaggio.

Così, con non pochi sforzi, lo fece.

Si sdraiò a pancia in su sul letto, abbandonando la testa contro i cuscini, mentre aspettava che la voce di Jimin gli riempisse le orecchie, il cuore, l’anima.

Hey…” un sospiro incerto, “Mi dispiace chiamarti a quest’ora. Effettivamente, sono davvero un coglione. Non so perché lo sto facendo, non so nemmeno perché sono ancora sveglio.

Yoongi sorrise fra sé e sé ad udire Jimin così imbarazzato e nervoso. Era... tenero.

Il fatto è che ti stavo pensando e... Cioè, a dire il vero ti penso sempre, non faccio altro... Però... No, okay, non c’entra nulla. Volevo solamente sentirti. Ma, naturalmente, stai dormendo. Per cui... sì, credo che mi limiterò a parlare da solo. Dopotutto, lo sto già facendo.

Yoongi ridacchiò ancora, una tiepida allegria ad allargarglisi nel petto, come se si stesse espandendo al suo interno.

Non voglio metterti alcuna fretta, Yoongi. Davvero, non mi aspetto nulla da te, non ho pretese. Volevo dirti comunque che ti amo. Lo so, te l’ho già detto troppe volte, ma non riesco a farne a meno.

Il suo cuore subì una pugnalata dritta al centro, poi un’altra, un’altra ancora, fino a che le parole di Jimin non lo ridussero ad una massa sanguinante ed informe.

Era vero: non era la prima volta che gli diceva di amarlo. Ma quella volta... quella volta c’era qualcosa di diverso.

Forse nel suo tono, così disperato e bisognoso, così sofferente e sincero, che trasudava affetto e necessità; o forse in Yoongi, che aveva iniziato ad ascoltare un po’ di più il suo cuore, a sincronizzare i battiti con ogni lettera che pronunciavano le labbra di Jimin, a pensare più profondamente ad ogni singola cosa che prima si sarebbe limitato a studiare solamente in superficie.

Jimin gli stava dando quella certezza di cui aveva bisogno, gli stava assicurando che avrebbe potuto avere la consapevolezza di essere desiderato, che lui lo voleva ancora nella sua vita, forse più che mai.

Jimin gli stava mostrando quanto tenesse a lui, si stava aprendo perché riuscisse finalmente a capire cos’aveva dentro, cosa provava, cosa lo tormentava.

E Yoongi non poteva fare a meno che essergliene grato.

Non so dirti esattamente come è successo, quando è successo e perché è successo. So solamente che un giorno mi sono svegliato, e ti ho visto in modo diverso. Il mio cuore batteva più veloce del normale, avevo la gola troppo secca, le gambe troppo fragili. C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine ho capito. Mi ero innamorato di te. Ed è stato come tornare a respirare dopo anni passati in apnea.

Un attimo di silenzio, una pausa carica di emozioni così forti da vibrare in quella quiete apparente, “Ma ho avuto anche tanta paura. Non sapevo... Ero convinto che mi avresti odiato, che ti avrei fatto schifo, che non mi avresti più guardato negli occhi. Avevo paura di perderti, e sarebbe stata tutta colpa mia, perché ero stato così sciocco da innamorarmi proprio di te, quando al mondo ci sono sette miliardi di persone.

Yoongi deglutì, la gola che gli scottava in un modo strano, come se qualcuno avesse acceso un fiammifero dentro la sua trachea e la stesse bruciando lentamente.

Non volevo perderti, ma ho finito per perderti lo stesso.” un sospiro amareggiato, “È così che faccio: scappo dai problemi, mi rifugio nel tempo con la vana speranza che possa bastare per alleviare i danni. Ma non basta mai. Perché il tempo peggiora solo le cose, sembra sfuggire al nostro controllo, nonostante siamo noi ad essere a conoscenza dei suoi meccanismi, del suo funzionamento. Il tempo mi ha tenuto lontano da te troppo a lungo, mi ha privato di giorni che avremmo potuto trascorrere insieme, magari a guardare l’alba sul tetto di casa.

Il biondo sorrise al ricordo, ma in quel modo sentì solo il bruciore alla gola accentuarsi.

Nonostante fossi ben deciso a starti lontano, non ci sono riuscito veramente. Avrei voluto prendere un aereo ed andarmene chissà dove, oppure traslocare da mio padre. Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto perché, anche se in un modo del tutto contorto, avevo bisogno di sapere che non fossi poi così irraggiungibile. E sono rimasto qui, sperando che mi dimenticassi, che ti dimenticassi — anche se in fondo non lo volevo…

Si passò una mano sul viso e si rese conto dell’umido che gli restò sulle dita: lacrime.

Yoongi stava piangendo.

Non sapeva neppure quand’era stata l’ultima volta che aveva pianto, quando avesse iniziato a piangere, o per quale motivo esattamente, ma era sicuro che la voce di Jimin ne fosse in gran parte responsabile.

Sai... sono stanco di mentirti. Io odio le bugie, e ne ho già dette fin troppe. Quindi ti dirò la verità, il vero motivo per cui in questo momento ti sto chiamando.” riprese la voce metallizzata dalla pessima ricezione, “Ho paura. Ho una fottuta paura che tu possa realizzare che tra noi non esisterà mai nulla, che mi preferisci come un amico, che non sono abbastanza per te. Ho paura della risposta che mi darai, perché non è vero che riuscirò ad accettarla in qualsiasi caso, non è vero che rispetterò la tua scelta. Io ti voglio, cazzo. Ti voglio da morire, Yoongi, e non ce la farei a reprimere ogni cosa, non più, non un’altra volta. Ti voglio e voglio averti veramente. Sono stanco d’immaginarmi come potrebbe essere il tuo sapore la mattina presto, o la forma delle tue labbra quando dici di amarmi, o vederti girare per casa con solamente un paio di boxer addosso. Sono stanco d’immaginare ogni cosa. Voglio che tutto questo diventi realtà, voglio che si concretizzi, perché non mi basta più sognare di baciarti, di fare l’amore con te. Voglio farlo davvero.

Yoongi non poté fare a meno di arrossire lievemente.

Ti amo da morire, ti amo così tanto che... Dio, non avrei dovuto dirti tutto questo. Adesso ti sentirai sotto pressione, crederai che io voglia forzarti a... Yoongi, ascolta: ti ho detto tutto questo perché sono stanco di mentirti e di tenermi tutto dentro, ma se la tua risposta sarà un no, non sentirti obbligato a cambiarla. Io... me ne farò una ragione, o almeno ci proverò. Ma preferisco stare con te perché sei sicuro di provare qualcosa, non perché vuoi costringerti a provare qualcosa. Scusami ancora per... per questo. Non ha senso, me ne rendo conto. Ah, e scusami anche per… beh, per il pugno dell’altra volta. Adesso devo andare... Spero di sentirti presto. Buonanotte.

Attese un paio di secondi prima che il messaggio giungesse effettivamente al termine, poi lasciò cadere il cellulare al suo fianco e sollevò lo sguardo verso il soffitto.

Quando si rese conto di non riuscire a respirare, si alzò velocemente e corse fuori casa.

 I polmoni stavano per scoppiargli.

L’unica cosa che voleva in quel momento era Jimin, sapere che c’era, poterlo abbracciare.

Dopo quella telefonata, aveva paura che tutto sarebbe potuto finire da un momento all’altro.

Era in bilico su un precipizio e non c’era modo di salvarsi: qualsiasi sarebbe stata la sua scelta, avrebbe finito per precipitare nel nulla.

Temeva che Jimin si sarebbe stancato di aspettarlo, che avrebbe deciso di lasciar stare, che lo avrebbe lasciato solo.

Yoongi aveva bisogno di lui nella sua vita, di quello era certo.

Ma si sentiva come costantemente aggrappato al braccio di Jimin, mentre tentava di trattenerlo, di tenerlo vicino, di convincerlo a restare, di non lasciarlo andare via.

Ed era faticoso, così tanto che non sapeva ancora per quanto sarebbe riuscito a resistere.

La sua mente gli si ritorse contro, il fumo delle fiamme che gli cuocevano i polmoni salirono agli occhi, glieli annebbiarono e pizzicarono, sul fondo del bulbo, evocando immagini tristi e squarcianti di un futuro senza Jimin, di giorni vuoti e lunghi, infiniti, in cui tutto non aveva forma o spessore, ma faceva parte del margine, di un mondo che non gli apparteneva realmente.

Tremò quando si convinse che non ci fosse nulla che dovesse farlo pensare ad una cosa del genere. Un altro scossone, al pensiero che non ci fosse nulla che glielo impedisse.

Lui mi ama.

Continuava a ripetersi quelle parole nella speranza di renderle più concrete, più veritiere, più reali. Come se gli sarebbe bastato solo quello per convincersi che Jimin non lo avrebbe abbandonato per nessuna ragione al mondo.

Ma, dopotutto, lo aveva già fatto una volta; non avrebbe esitato a farlo anche una seconda, no?

Una nuova fiammata lo fece tossire, ansimare sempre più affannosamente, costretto a sporgersi per l’ennesima volta sul portaoggetti davanti al sedile del passeggero, per imprecare di fronte al fondo grigio completamente sgombro.

Yoongi si era rifugiato in macchina con l’intenzione di prendere una boccata d’aria e guidare chissà dove, il più lontano possibile dai pensieri che lo torturavano e trucidavano la sua stabilità emotiva.

Però non l’aveva fatto. Era fermo da quasi un’ora, immobile, con gli occhi puntati sul lampione spento nel parcheggio sotto il suo condominio.

Si allungò sullo schienale del sedile, cercando d’ignorare la vista, oltre il parabrezza, di un parallelepipedo di timore e cemento, sforzando le costole e il diaframma fino a farseli dolere.

Quando la testa gli iniziò a girare e gli occhi si inumidirono, si arrese a tirar fuori dalla tasca il cellulare, lo stesso che conteneva la voce di Jimin, lo stesso che avrebbe voluto gettare il più lontano possibile.

Compose l’ultimo numero che si sarebbe aspettato di cercare, quella mattina.

Dopo pochi squilli, che sembravano scandire il ritmo dell’alzarsi delle code infuocate nel petto di Yoongi, la voce di Namjoon irruppe nell’abitacolo della macchina.

“Yoongi,” lo sentì esclamare, stupito, “Che succede? C’è un’emergenza al lavoro? Devo—”

“Sto avendo un attacco d’asma.” si sforzò di rispondere, senza fiato, “E non ho il Ventolin.”

Era tanto tempo che non gli capitava una cosa del genere, quindi aveva addirittura smesso di preoccuparsi, ma in quel momento rimpiangeva di non avere con sé l’unica cosa che avrebbe potuto farlo sentire meglio.

Yoongi si morse un labbro, stringendo un pugno sul volante perché non sapeva se fosse più patetica la difficoltà dell’incanalare aria tra le corde vocali, o ciò che l’aveva scaturita.

“Dove sei?” chiese Namjoon, cercando di mantenere la calma.

Yoongi aveva avuto attacchi ben peggiori.

Ma non per un ragazzo. Non per un cazzo di ragazzo.

Si sentiva così ridicolo ed impotente che desiderò morire soffocato dal fumo, in quel momento. Arrendersi a non respirare più, come ormai i suoi polmoni sembravano essere determinati a fare.

“In macchina.” sospirò, “Dimmi qualcosa.”

Lo udì sospirare a sua volta, “Cosa fai in questi casi?”

Cerco Jimin.

Ed avrebbe dovuto saperlo, che non doveva chiedere aiuto, lottare ancora.

Morire bruciato: sarebbe stata quella la sua fine.

Rinunciare a combattere con il proprio corpo come stava lottando contro lo sgretolarsi del rapporto tra lui e Jimin.

Mollare la presa sull’aria come quella che aveva serrato attorno al suo corpo.

Poi cadere, cadere, cadere fino a schiantarsi al suolo.

“Joon, che vuol dire quando non si riesce nemmeno a respirare all’idea di perdere qualcuno?”

Namjoon, dall’altra parte, aveva taciuto.

Perché sapeva che Yoongi conoscesse già la risposta.

 

Il sole era salito già da un po’ nel cielo, erano arrivati troppo tardi. Ma era comunque piacevole e meraviglioso osservarlo dal basso, mentre se ne stava immobile a risplendere con le sue prime luci nel mezzo del cielo vasto.

Era altrettanto magnifico avere Jimin al suo fianco.

Yoongi sorrise, continuando a fissare la sfera infuocata con le palpebre socchiuse, mentre l’altro ragazzo tentava di fare una foto che riuscisse a ritrarre anche quei minuscoli ma veramente perfetti sprazzi di rosa sul fondo del cielo, che arrotondavano la fila di nuvole più in basso.

“Diamine, questo riflesso continua ad oscurare tutto!” imprecò Jimin, studiando l’ennesima foto che aveva scattato con una mano a coprire lo schermo del cellulare dai raggi abbaglianti.

Yoongi si voltò per osservarlo, mentre se ne stava con le spalle leggermente curve, le sopracciglia aggrottate e la bocca corrucciata.

Sorrise.

Ed in quel momento, con la luce delicata dell’alba a baciare la sua pelle ed il suo profumo così vicino, Yoongi capì che Jimin fosse tutto ciò di cui avesse bisogno.

“Non capisco come riuscire a—”

“Jimin.” lo interruppe, facendogli sollevare subito le iridi verso il suo viso.

Sorrise ancora, più ampiamente, poggiando le mani sul pavimento sporco del tetto del palazzo per sporgersi verso il moro.

Gli poggiò una mano sulla guancia e lo fissò intensamente, dritto negli occhi, come per mostrargli tutto ciò che non sapeva come dirgli a voce.

Lo accarezzò lentamente, con delicatezza, sentendo la morbidezza della sua pelle sotto i polpastrelli.

Poi si avvicinò ancora, fino a far sfiorare i loro nasi, e gli poggiò una mano alla base del collo per tenerlo il più stretto possibile.

“Ti prego,” sussurrò contro le sue labbra, così vicino che riusciva toccarle con le proprie, “Non darmi un pugno per questo.”

E lo baciò.



Hello! 
Sono contenta di aver finalmente finito questa OS, l'ho sudata parecchio perché tra la scuola, la pigrizia e altri impegni non riuscivo mai a terminarla. Ma eccola qui.
Okay, penso che più AU di così non si possa, perché, diciamocela tutta: non esiste un universo in cui Yoongi non sia gay, ma okay, mi serviva per la storia quindi shh.
Ho avuto un pensiero sull'aggiungere o meno dello smut (come potete constatare a metà della OS lol), ma non mi sembrava giusto e oltretutto appariva un po' improbabile all'interno di un contesto del genere; la sessualità è qualcosa di delicato, non bisogna pensare che una persona possa scegliere di diventare gay da un giorno all'altro e subito tuffarsi in ogni occasione che gli si presenta davanti, bruciando le tappe. Per questo volevo che non accadesse nulla tra gli yoonmin, proprio perché Yoongi era ancora confuso e, nonostante sentisse che c'era qualcosa di diverso sin dall'inizio, non ne era ancora certo. Nel frattempo però vi siete beccati una bella limonata lololol
Okay, non so cos'altro aggiungere, a parte il fatto che commenti, insulti o scleri sugli yoonmin sono sempre ben accetti nelle recensioni o sul mio twitter
Spero abbiate apprezzato <3

Petra




 
   
 
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