Serie TV > Da Vinci's Demons
Segui la storia  |       
Autore: _armida    06/02/2018    2 recensioni
Dal capitolo XV:
“Si aspettano che io ti uccida?”, domandò lui con un filo di voce.
(...)
. “Mi… mi terrai la mano mentre… sì, insomma, dall’altra parte non sarò sola ma…”. Non riuscì ad andare avanti e si limitò a cercare aiuto nel viso che aveva di fronte.
“Lo farò per tutto il tempo che vorrai”, si affrettò a dire il Conte, mentre una lacrima sfuggita al suo controllo gli rigava una guancia.
Elettra la spazzò via con una carezza, tornando poi a sorridergli, seppur il suo tono di voce, quando parlò, fu estremamente serio. “Non per tutto il tempo che vorrò, solo il minimo indispensabile, poi correrai da Leonardo a salvargli la vita. Non voglio vedere nessuno di voi per i prossimi trenta o quarant'anni, almeno”, aggiunse in un tentativo di ironia. Si alzò sulle punte, per poter avere il suo viso all’altezza del proprio e lo baciò per l’ultima volta. “Addio, Girolamo”, disse ad un soffio dalle sue labbra.
Si guardarono negli occhi.
Una tacita domanda.
Un cenno di conferma.
Strinsero entrambi le mani intorno al pugnale e la lama si fece strada nella carne.
(seguito di "L'Altra Gemella)
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Elettra'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo VI: A piccoli passi
 
“Che cosa vedi Elettra quanto ti guardi allo specchio? Vedi una giovane donna che ha perso qualcosa, qualcosa che non può più tornare. Guardi i tuoi occhi e ti chiedi da quando essi sono diventati del colore del ghiaccio, da quando hanno perso la loro sfumatura delle stesse tonalità del cielo terso. Hai ancora tutta la tua bellezza? Forse. O forse gli altri nemmeno si sono accorti della crepa che si sta allargando dentro di te. Della lama che con lentezza ti incide l’anima, che te la fa a pezzi lasciandoti agonizzante. Quella lama ha un corpo. Un volto. Un nome: Girolamo Riario.
Lo ami, non è vero? Hai paura di ammettere la verità perché non dovrebbe essere così, non dopo tutto il dolore che ti ha arrecato. E, quindi, cosa ha intenzione di fare con lui? Mettere fine alle tue sofferenze o proseguire con la tua lenta agonia? A te la scelta”
 
Elettra voltò di scatto il volto alla propria sinistra: tutto pur di non vedere la propria immagine riflessa nella specchiera. Era da quando si era ripresa dalla caduta in mare, diverse settimane prima, che alle volte, osservandosi allo specchio, le pareva che il proprio riflesso si muovesse come se fosse dotato di una vita tutta sua. C’erano casi, come quello di poco prima, che le sembrava che esso parlasse anche: era un suono basso, quasi un sussurro, quello che scaturiva dalla sua bocca.
E tagliente, proprio come le parole che utilizzava: spietate, senza mezzi termini.
Era forse impazzita davvero questa volta? C’erano momenti in cui lo credeva veramente.
Eppure, anche se affermarlo faceva male, doveva ammettere che quel riflesso - la voce della sua coscienza, forse? - diceva il vero: qualcosa dentro lei si era rotto per sempre e un colpevole c’era. Ora stava solo a lei decidere che cosa farne di Girolamo Riario.
Fortunatamente durante il resto della convalescenza il Conte si era fatto vivo ben poche volte: erano sempre state conversazioni brevi, domande di cortesia e vuoti discorsi sul tempo. L’imbarazzo in quei momenti era palpabile, fatto di quelli parevano essere interminabili secondi di silenzio e occhiate nervose. Solitamente terminavano con l’entrata di Zita nella cabina e la conseguente fuga dell’uomo.
C’erano alcune notti in cui Elettra si svegliava e lo trovava seduto allo scrittoio, intento ad osservarla, la sua figura scura che si stagliava contro la luce lunare. In quei casi lei - entrambi, poteva esserne quasi certa - facevano finta che fosse ancora addormentata. Restavano immobili ai lati opposti della cabina, ascoltando i respiri l’uno dell’altra. Una volta Girolamo prima di uscire dalla stanza le aveva lasciato un bacio sui capelli, ma quella era stata l’unica occasione in cui l’aveva sfiorata. Per il resto mantenevano sempre una certa distanza.
Per quanto ancora sarebbe durata quella posizione di stallo? Elettra sperava ancora il più a lungo possibile: non aveva ancora preso una decisione su loro due e, visto la forte indecisione che la contraddistingueva in certe questioni, ciò non sarebbe di certo avvenuto in tempi brevi.
Fu immensamente grata alla maniglia della porta che si abbassò, distogliendola così da quei pensieri. Nella cabina entrò Zita.
Ci fu un momento di smarrimento nello sguardo dell’efficiente serva abissina, che si aspettava di trovare la giovane ancora a letto, come sarebbe convenuto ad un malato, e non seduta allo scrittoio.
“Ma… mia signora, non siete a letto”, balbettò confusa, osservandola poi con apprensione.
Elettra le rivolse un largo sorriso furbetto, identico a quelli che esibiva da bambina quando qualcuno la beccava a fare qualcosa che le era stato proibito. “Deve essere una caratteristica tipica delle governanti quella di chiamarmi a tutti i costi signora”, disse con marcata ironia. Zita era come Maria, la sua cameriera: nonostante avesse ripetuto loro più volte di chiamarla semplicemente Elettra, le due parevano scordarselo sempre.
Aveva sperato che l’abissina prendesse quel commento sul ridere, invece la vide abbassare il capo mortificata, quasi spaventata dalle sue parole. “Non sono una governante ma una schiava”, mormorò. Se fosse stata una governante o anche solo un’umile sguattera Sisto non l’avrebbe trattata come proprio personale giocattolo notturno. “Dovreste punirmi per l’affronto che vi ho arrecato”. Sospirò e chiuse gli occhi, come se si preparasse a ricevere veramente una punizione.
Dal canto suo, Elettra la osservava ad occhi spalancati. “Punirti per l’avermi chiamata mia signora e non Elettra? Non ti punirei nemmeno per cose più gravi, figuriamoci per una sciocchezza del genere”. Lei la schiavitù non la capiva: nella sua Firenze non esisteva. Almeno che non si parlasse degli uomini di Madame Sing, ma quella era tutt’altro tipo di schiavitù…
Distolse lo sguardo dalla schiava, concentrandosi sull’oblò alla sua destra: quella piccola apertura da quando era salita a bordo di quella nave era stata il suo unico contatto con il mondo esterno. Ascoltò l’infrangersi di un’onda contro lo scafo e poco dopo vide alcuni schizzi d’acqua sollevarsi e colpire il vetro. Avrebbe tanto voluto poter aprire quella piccola finestra ovale per permettere all’odore salmastro del mare e al rumore delle onde di entrare, ma così facendo avrebbe allagato la cabina.
Sospirò e tornò ad osservare Zita con aria malinconica.
“Come è il tempo là fuori?”, le chiese.
“Soleggiato, con una piacevole brezza che fa scivolare bene la nave tra le onde”. Lo aveva chiesto di persona al capitano, in modo da poterglielo riferire appena le avesse posto la domanda. Quella era sempre la prima della giornata.
Elettra accennò un sorriso: per navigare erano ottime condizioni… ma anche per un malato che doveva ancora ristabilirsi esse andavano più bene.
Da un sorriso stentato passò ad un sorriso pieno.
“Vorrei fare un giro sul ponte oggi”, disse con aria angelica, in netto contrasto con l’espressione sconvolta sul volto di Zita.
“M-ma… mia sign… Elettra, il cerusico ha detto…”
Elettra si ricordava perfettamente le parole del medico: “Sarebbe consigliabile che restiate a riposo ancora qualche giorno”, aveva detto.
“Mi ha consigliato il riposo, ma non ha specificato dove”, la interruppe con un sorriso furbetto, di chi la sapeva lunga su come eludere eventuali divieti. In fondo lo faceva da che ne aveva memoria.
Osservò la schiava fremere e mordersi la lingua nel tentativo di tacere la propria disapprovazione. Ovviamente Elettra sapeva che si sarebbe controllata e che dalla sua bocca non sarebbe uscita nessun’altra rimostranza: le lanciava frecciatine di ogni genere da giorni ma niente, Zita pareva avere persino più autocontrollo di Riario.
“Vado a prendere i vostri vestiti e il vostro bastone. Il medico dice che dovreste usarlo per aiutarvi a camminare, non lasciarlo immobile di fianco al letto”, disse invece. Però c’era eccome del rimprovero nella sua voce.
Elettra soffocò una risata nel pugno, gesto, quello della risata, che le causò dolore, facendo assumere al suo volto un’espressione sofferente.
I lividi sulla sua pelle erano pressoché scomparsi, ma era all’interno il vero problema: l’impatto della sua schiena con l’acqua, dall’altezza a cui si era buttata, era stato violentissimo. C’era gente che per una caduta del genere era rimasta paralizzata o peggio, lei invece se l’era cavata solo con diverse costole rotte. Era stata fortuna, miracolata avevano detto altri.
I primi giorni erano stati un inferno: costretta a letto, immobile, con ogni parte del corpo che le doleva; persino prendere un piccolo respiro era stato doloroso come uno stiletto in pancia. Poi fortunatamente il male era diminuito, anche se alcuni movimenti erano ancora difficoltosi. Per poter alzarsi dal letto in completa autonomia si era fatta mettere alcune corde collegate a delle carrucole; un progetto degno di Da Vinci in persona, le piaceva pensare.
Il medico le aveva dato un bastone per aiutarsi a camminare e, per mantenere la schiena dritta e il torace compresso, era stata costretta a portare uno stretto corsetto pieno di rigide stecche di ferro. L’arnese infernale in questione era stato reperito in modo fortuito: trovato nascosto in una delle cabine della nave e facente parte di un appariscente abito che qualche ‘brava donna’ aveva lasciato come ricordo di sé sul Basilisco. Elettra non aveva voluto sapere altro, anche se temeva già di sapere a quale categoria quella ‘brava donna’ appartenesse. Comunque le pareva impossibile che qualcuna avesse indossato quel corsetto di propria spontanea volontà e non sotto costrizione come lei.
Sentì Zita alle sue spalle armeggiare con quella diavoleria e sbuffò, preferendo tornare a guardarsi allo specchio.
Il riflesso in esso pareva guardarla dall’alto in basso, arrogante, sfidandola a fare qualcosa. Ma Elettra non sapeva che cosa. Si studiò in silenzio, osservò le fattezze del proprio volto: la pelle di porcellana troppo pallida ma perfetta, le guance troppo scavate, le occhiaie troppo marcate, gli occhi blu ghiaccio che esprimevano comunque una certa vitalità, ma non abbastanza come avrebbe voluto. Osservò i propri capelli, che le ricadevano in lunghi boccoli dorati sul seno e sulle spalle; non si ricordava di averli mai avuti così lunghi come in quel momento.
Il riflesso nello specchio le appariva quello di una moscia e piagnucolosa dama di corte di Clarice; una di quelle donne che lei aveva sempre disprezzato.
Si spostò i capelli tutti su di una spalla, improvvisamente infastidita da essi e distolse lo sguardo focalizzandolo sulla propria spada, poggiata in un angolo buio della cabina; si trovava ancora nel fodero di cuoio che aveva indossato alla cintura il giorno della congiura. Non era un fodero da battaglia quello, ma uno da utilizzare solo per bellezza i giorni di festa; molti uomini portavano le proprie armi predilette come semplice addobbo e lei non era da meno. Il cuoio era stato dipinto a mano con scene di battaglia; unico particolare: una dama che con armi alla mano ed armatura salva il cavaliere. Ora esso era rovinato e un profondo taglio sfregiava il paesaggio collinare che faceva da sfondo alla scena.
“Zita, pare anche a te che ci sia qualcosa di troppo?”, domandò alla serva, tornando a guardarsi allo specchio. Quando vide l’espressione perplessa della donna, spostò i capelli sull’altra spalla in un gesto più che eloquente.
La schiava aggrottò la fronte. “Desiderate che vi acconci i capelli?”, domandò confusa. Era brava a farlo, o almeno così le aveva detto l’altra donna del Conte, quella che c’era stata prima di Elettra.
“Assolutamente no”, fu la pronta risposta della giovane. Dovette trattenersi per non scoppiare a ridere, gesto anche questo tutt’altro che piacevole. “Passami la spada, per favore”, disse quando si fu ripresa.
L’altra tentennò, chiaramente indecisa sul da farsi.
Elettra allora sbuffò e poggiò le mani sui braccioli della sedia con il chiaro intento di provare ad alzarsi. Non appena Zita si rese conto delle sue intenzioni si fiondò a prendere la spada e gliela portò. Per ringraziamento ottenne un cenno del capo e il sorriso tipico di chi aveva architettato tutto alla perfezione.
La giovane osservò l’arma ancora nel fodero che teneva sulle ginocchia. Un tempo avrebbe detto che il suo, tenuto tra le mani, era un peso piacevole, rassicurante. Ma ora non era più così, non dopo quel giorno.
Con la mano più tremante del previsto strinse l’elsa e la estrasse dal fodero. Il suono metallico che essa produsse le fece accapponare la pelle: i rumori, le urla e le immagini di quel giorno per un istante ritornarono a galla, ma lei fece di tutto per ricacciarle da dove erano venute.
Non si guardò nello specchio, sapeva già quale aspetto avesse in quel momento: pallida, se possibile ancora più pallida del solito. Dietro di lei Zita probabilmente la osservava con apprensione, indecisa se intervenire per toglierle l’arma oppure no. Si voltò, sforzandosi di sorriderle, e nel mentre raccolse i propri capelli nel pugno, tenendoli belli tesi. “Sono troppo lunghi per una nave”.
 E detto questo, con un colpo secco di spada, li tagliò di poco sopra alle spalle.
Poggiò i capelli che le erano restati in mano sullo scrittoio e rimise l’arma nel fodero. Tornò a guardare Zita con aria angelica.
L’abissina, dal canto suo, la osservava sconvolta.
“Come mi stanno?”, le chiese, prendendo poi una spazzola e cominciando a lisciarli. Dalle sue spalle giunse solo il silenzio.
Ridacchiò sommessamente. “Ora, Zita, è il caso di vestirsi ed andare sul ponte”
 
***
 
Poco dopo…
 
Il Sole era lì, a pochi passi da lei, caldo e rassicurante, pronto a cullarla con i propri raggi. Quasi non si rese conto di aver salito gli ultimi gradini che la dividevano dal ponte della nave correndo, né della voce di Zita che la intimava di andare più piano e usare il bastone per sorreggersi.
Chiuse gli occhi una volta arrivata in cima, il cuore che le batteva forte in petto e il sorriso sulle labbra. Lasciò che il sole le riscaldasse il viso, che si posasse sulle sue braccia che da troppo tempo lo reclamavano. In un gesto di frenesia arricciò velocemente le maniche della camicia bianca che indossava sotto al corsetto stretto fin sopra ai gomiti.
Prese un lungo respiro, inebriandosi dell’odore del mare, un profumo intenso di salsedine che andava a mischiarsi con quello di resina della nave.
Il dolore all’addome, le costole che lentamente si stavano rinsaldando, erano solo un fastidio di sottofondo: troppo poco importante in quel momento, troppo forte per ignorarlo del tutto.
Sorrise, tornando a guardare il cielo azzurro sopra di lei. Solo qualche nuvola in lontananza spezzava la monotonia di quell’immensa distesa d’acqua e di cielo.
Si voltò verso Zita. I capelli sopra alle sue spalle si muovevano disordinati al ritmo del vento, lambendole e solleticandole il viso.
Camminò a passo svelto fino a trovarsi contro il parapetto della nave. Lo percorse lentamente con le dita, sfiorando quel legno ruvido, segnato dallo sferzare del vento, l’arsura del sole e l’erosione del sale.
Ad un certo punto si fermò, sporgendosi oltre per osservare le onde infrangersi a ritmo regolare contro lo scafo solido.
Forse Zita l’aveva seguita per tutto quel percorso, ma lei così presa dalla propria frenesia non se ne era accorta. Ora poteva avvertire la sua presenza alle spalle, il suo sguardo apprensivo trafiggerle la schiena.
“Questa volta prometto di non fare scherzi”, disse ironica, alzando le braccia in segno di resa. Si sarebbe aspettata di avvertire la risata della serva da un momento all’altro, ma ciò che sentì fu solo il suo nervosismo farsi più tangibile.
Si voltò, poggiandosi con la schiena al parapetto e mise il bastone a terra, sentendo - ora - il bisogno di qualcosa a cui reggersi. Le costole erano tornate a dolerle e respirare a pieni polmoni era una tortura.
Osservò il volto greve della donna, pesando che probabilmente nemmeno Zoroastro o Giuliano avrebbero mai riso alla sua macabra battuta. Si guardò in giro, constatando ad occhio e croce di trovarsi nel punto da cui quella notte si era buttata.
“Avresti dovuto ridere, ma capisco che non è un fatto su cui si possa esattamente scherzare”, disse nuovamente, cercando di apparire più seria.
Zita abbassò il capo, come mortificata. “Era un ordine?”, chiese con incertezza a mezza voce.
Elettra la osservò improvvisamente confusa. “No, no, certo che no”, si affrettò a rispondere. Dentro di sé si chiese quante volte fosse stata costretta a fare qualcosa contro la propria volontà. Di certo ridere a comando sarebbe stato un ordine più sopportabile di altri.
Scrutò il suo volto, leggendo in quegli occhi di ossidiana orrori ben peggiori di quello.
Distolse immediatamente lo sguardo, sentendosi quasi sopraffare da un senso di colpa a cui nemmeno lei sapeva dare un senso.
Zita aveva mai avuto qualcuno con cui condividere le proprie pene, con cui parlare del più e del meno e provare a ridere? Certo, c’era sempre Riario. Sapeva che loro due erano legati da un sincero affetto e dal rispetto l’uno dell’altra, ma sentiva che lui per lei non era abbastanza.
Poggiò il bastone contro il parapetto, facendo poi alcuni  passi nella sua direzione. Le tese entrambe le mani, invitandola a stringere le proprie.
Forse lei non conosceva quel gesto, forse nessuno le aveva mostrato un po’ di calore umano dal momento che rimase immobile e tesa, con l’espressione circospetta.
Elettra fece ancora un passo avanti, prendendole entrambe le mani tra le proprie. “Vorrei che tu mi vedessi più come un’amica che come una padrona da servire e da cui guardarsi le spalle”, le disse, sorridendole in modo rassicurante.
“Io non ho mai avuto un’amica, non da quando…”. Le parole le morirono in gola rammentando un tempo in cui era felice. Libera e non schiava in catene.
“Ora ce l’hai”, ribattè in fretta la giovane, carezzandole con il pollice il dorso della mano.   
Zita piegò le labbra in un timido sorriso, gli occhi ancora velati di incertezza, ma comunque ricolmi di gratitudine.
Entrambe avrebbero voluto dire qualcosa, ma tutte le parole nelle loro menti svanirono nell’esatto istante in cui udirono dei passi avvicinarsi: Girolamo Riario stava venendo verso di loro; doveva essere stato nel cassero di poppa a parlare con il Capitano, intento ad armeggiare con il timone. Forse era stato attirato dalle loro voci.
Elettra strinse istintivamente le mani della serva abissina, ma esse le sgusciarono comunque via mentre lei faceva un passo indietro.
“Buongiorno, Conte Riario”, disse Zita con riverenza, prostrandosi in un inchino.
Il Conte le sorrise, accennando però appena un cenno del capo: tutta la sua attenzione era focalizzata su altro. Elettra potè chiaramente vedere il lampo di sorpresa che passò nelle iridi color nocciola di lui; osservò i suoi occhi soffermarsi sul suo volto. Apprezzava ciò che vedeva? O era in disappunto? Lei questo non lo poteva sapere dal momento che, dopo essersi involontariamente tradito, la sua maschera era tornata a farsi imperscrutabile.
“Conte”, lo salutò a disagio. D’istinto le sarebbe venuto d’abbassare lo sguardo, imbarazzata dal lungo sostare degli occhi di lui sulla sua figura, ma si impose di non farlo. All’Elettra di un tempo quel pensiero non sarebbe mai passato nell’anticamera del cervello.
“Signore”, rispose finalmente lui.
Un istante, uno sguardo d’intesa tra padrone e serva, e Zita si dileguò velocemente.
Ci furono dei momenti di silenzio dei quali Elettra approfittò per voltarsi e tornare a guardare il mare sotto di loro.
Girolamo si umettò le labbra, nervoso per i brutti ricordi che aveva di lei e del parapetto della nave; le si accostò, imitandola. Braccio contro braccio. Un calore che alla giovane pareva tutt’altro che spiacevole e che al suo corpo sembrava non bastare. Per la seconda volta nel giro di pochi minuti doveva imporsi di non mostrarsi bisognosa di lui.
Avvertì sulla propria pelle il suo voltarsi verso di lei per tornare a studiarla.
“Non mi aspettavo di vederti qui, mi hai sorpresa”, le disse.
Si voltò a sua volta ad osservarlo, ma lui era già tornato ad osservare il mare. Ritornò a guardarlo anche lei, non riuscendo però a celare un sorriso.
“Il medico non mi ha detto di averti dato il permesso di lasciare la tua cabina”, continuò lui.
“Me lo darà quando mi vedrà”, ribattè, con il suo solito tono di voce insolente.
Riuscì finalmente ad osservarlo in volto, vedere le sue labbra storcersi in quello che poteva quasi dirsi un’espressione ironica; dalla sua bocca uscì un suono strano, una lontana somiglianza con una risata, la prima dopo molto molto tempo.
Lo vide scuotere la testa divertito, prima di tornare a farsi serio. “Come ti senti?”, le chiese. Nessuno avrebbe mai detto che un istante prima aveva riso con leggerezza.
Come si sentiva? Elettra sapeva esattamente come si sentiva. Ma davvero ne avrebbe parlato a lui?
Si era smarrita, era caduta, caduta, caduta e, quando aveva creduto di aver toccato il fondo, qualcuno le aveva spiegato come fare a risalire. La aveva dato una scelta: restare sul fondo oppure provare a risalire, provare a ritrovare sé stessa. Non sarebbe stata una risalita facile, eppure provarci ne valeva la pena.  
E lo stava facendo, ogni giorno da quando si era risvegliata.
“Bene”, rispose in tono atono.
No, a lui non ne avrebbe parlato.
Lei gli aveva dato piena fiducia troppe volte e puntualmente lui l’aveva tradita. Non sarebbe successo di nuovo.
Girolamo annuì come comprensivo, anche se nel suo sguardo una punta di sconforto era segno di aver capito la menzogna: lei doveva ancora riprendersi, sia a livello fisico che mentale. Provava pena nei suoi confronti. E senso di colpa.
Si inumidì nuovamente le labbra in cerca di qualcosa da dire: se fosse rimasto in silenzio era certo che l’atmosfera di quel momento si sarebbe rotta e lei si sarebbe allontanata.
“Hai tagliato i capelli”
Le si avvicinò ancora di più, portando una mano al suo viso e arricciando una ciocca tra le dita; inavvertitamente le sfiorò con le nocche una guancia.
“Ti danno un’aria più…”. Si fermò, in cerca della parola giusta.
“Marinara?”, gli venne in aiuto lei.
“Marinara”, ripetè piegando le labbra nuovamente in un sorriso.
Si guardarono negli occhi e scoppiarono entrambi a ridere; quanto gli era mancata la sua risata cristallina. Sapeva di vita.
Non si accorse nemmeno che il proprio tocco lieve sul suo viso era diventato una carezza piena. Sotto alla sua mano la pelle pallida della guancia era soffice come velluto.
L’espressione sul volto di Elettra però cambiò in fretta, rabbuiandosi. Fece un passo lontano, sottraendosi così al suo tocco.
Girolamo la osservò mortificato. “Elettra, io…”
“…ti tratterò bene d’ora in poi”, avrebbe voluto dire, aggiungendo che le mancava, che avrebbe fatto di tutto per poterla riavere tra le proprie braccia.
Probabilmente lo avrebbe detto davvero, se lei non lo avesse interrotto.
“No”, disse con voce rotta, evitando accuratamente di guardarlo in viso. Fece ancora alcuni passi indietro, tornando poi ad appoggiarsi al parapetto per guardare il mare.
Il Conte la osservò ancora per lunghi istanti: osservò il suo respiro concitato, il suo premere nervosamente le mani sulle zone ferite e capì che era meglio fermarsi lì.
“Tra pochi giorni saremo in vista delle Canarie”, rivelò in un tono privo di colorito. “Ti auguro una buona giornata, Elettra”. Non attese una sua risposta, preferendo dirigersi a lunghe falcate sottocoperta.    
Solo quando i passi di Riario furono lontani la giovane decise di voltarsi e tornare ad osservare la nave: dalla stretta scala che portava al ponte di mezzana giunse Zita con un vassoio con la colazione e dietro di lei un marinaio portava una sedia di legno.
L’espressione sul volto della serva era di puro disappunto, seppur cercasse con tutte le proprie forze di celarla: doveva aver incontrato il Conte mentre andava da lei e lui le aveva parlato della conversazione di poco prima. Oppure lo aveva semplicemente intuito con un’occhiata; era senz’altro più probabile visto l’orgoglio dell’uomo.
Si lasciò letteralmente cadere sulla sedia ad occhi chiusi, improvvisamente prosciugata delle proprie energie: era stato il troppo tempo in piedi o il discorso con Riario? 
Si mise a sorseggiare lentamente la tisana che Zita le aveva portato, tornando a guardarsi in giro con aria curiosa: era da quando era salita sul ponte che sentiva che qualcosa mancava… studiò con frenesia crescente l’ambiente, soffermandosi su ogni particolare. Quella mancanza era sempre lì, costante nonostante avesse osservato tutto.
Cercò di concentrarsi ancora di più.
Spalancò di scatto gli occhi: non era qualcosa a mancare ma qualcuno: Nico!
 
***
 
Girolamo chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, grato del silenzio che regnava nel proprio studio.
Un improvviso rumore di passi concitati ruppe però ben presto quella quiete: doveva trattarsi di un marinaio di pessimo umore.
Senz’altro aveva aggravato il suo di umore.
Avrebbe dovuto alzarsi e uscire ad intimargli di fare più piano.
Aveva appena formulato quel pensiero che la porta dello studio si spalancò di colpo con foga, sbattendo contro il muro per poi richiudersi bruscamente alle spalle dell’ospite inaspettato.
Elettra era entrata come una furia, con il volto contratto in una smorfia rabbiosa e gli occhi che lanciavano saette. Avrebbe potuto ucciderlo solo con lo sguardo.
“Voi!”, disse a voce alta, puntandogli un dito contro.
Riario la osservò con perplessità.
“Come avete potuto?”, continuò a voce alta. Senz’altro la stavano udendo fino sul fondo dell’oceano.
Avrebbe dovuto chiederle a cosa si stesse riferendo, ma c’era altro che per lui ora aveva la priorità: osservò il suo volto madido di sudore, il suo colorito troppo pallido e il suo respiro concitato; anche arrabbiarsi, nelle sue condizioni, era uno sforzo non indifferente.
“Elettra, prima di tutto siediti”, disse invece con tono placato, indicandole una delle sedie disposte intorno alla scrivania.
Lei fece per ribattere, ma alla fine si sedette, apparentemente docile. 
Docile come una serpe che aspettava il momento giusto per colpire.
La osservò prendere dei respiri, con il petto che cercava di espandersi e contrarsi all’interno di quel corsetto troppo stretto. Quei tentativi di prendere più aria dovevano farle male visto l’espressione sofferente del suo viso.
L’istinto gli diceva di starle a distanza di sicurezza, ma alla fine le si avvicinò comunque, sedendosi al suo fianco.
“Dovresti provare a stare più tranquilla, mia diletta”, disse a mezza voce, con una sfumatura di dolcezza a lui estranea. Solo con lei riusciva ad utilizzarla.
Si sarebbe aspettato di vederla ammorbidire almeno lo sguardo, come accadeva sempre in passato, ma l’occhiata che lei gli lanciò gli fece quasi temere per la propria incolumità.
“Non osate chiamarmi in quel modo”, sbottò. Si alzò di scatto in piedi senza che Riario avesse il tempo - e il coraggio - di fermarla. “Credete che io sia ancora così ingenua? Che mi lasci abbindolare da qualche modo gentile e un nomignolo? Non accadrà più, potete esserne certo”
Sotto gli occhi di Girolamo si mise a camminare per lo studio. Sulla scrivania, semi sommerso da alcune scartoffie, trovò un tagliacarte. Lo prese tra le mani continuando a camminare, giocherellandoci nel frattempo.
Dava sempre le spalle al Conte, che si era rimesso a sua volta in piedi, attento a qualsiasi sua azione. Era certo che una mossa avventata sarebbe arrivata da un momento all’altro.
“Perché Nico è rinchiuso in una gabbia?”, gli domandò, picchiettandosi l’oggetto acuminato sul palmo della mano.
“Il giovane Nico è apparso fin dal primo istante poco propenso alla collaborazione”
Elettra fermò il passo, voltandosi a guardarlo. “Liberatelo immediatamente”
Il suo sguardo era serio come poche altre volte lo era stato e la sua voce era ferma e decisa. Avrebbe messo in soggezione chiunque con quei modi, forse perfino il Magnifico in persona, ma lui era Girolamo Riario e l’unica persona che era in grado di incutergli timore era il Santo Padre. E lei con quell’arma improvvisata in mano non era nulla in confronto ad una sfuriata di Sisto.
“No”, ribattè con calma, scandendo bene e con lentezza quella semplicissima parola.
Lei lo osservò immobile, indispettita da quella risposta. Aveva anche smesso di battere il tagliacarte sul palmo della mano. Ora stringeva il manico e scrutava la figura di Riario.
Il Conte non riuscì a non farsi sfuggire una risata ironica, ma ebbe almeno il buon senso di voltare il viso e nascondersi la bocca dietro al pugno chiuso. Sapeva cosa stava facendo: lo studiava, valutando le possibilità di riuscita nel tentare a sopraffarlo. Elettra non la considerava una stupida, tutt’altro, quindi doveva essere arrivata anche lei alla conclusione che non sarebbe mai riuscita nel suo intento. Nemmeno in piena forma avrebbe prevalso, ora avrebbe solo rischiato di farsi male.
Ma quanto sarebbe stata disposta a rischiare pur di vedere Nico fuori da quella gabbia?
Le diede le spalle, cominciando a fingere di osservare la cabina solo per il gusto di stuzzicarla.
Avrebbe nuovamente tentato di puntargli un’arma al collo? Un sottile segno su di esso, quasi completamente scomparso, era il retaggio del loro primo incontro. Avrebbe davvero provato ad emulare i vecchi tempi?
Osservò la propria scrivania, stranamente in disordine, zeppa di fogli di carta; sotto ad alcuni di essi, in parte visibile, la Pelle dell’Abissino aspettava di essere decifrata. Un’idea gli passò per la testa ma non riuscì ad esprimerla a parole dal momento che alle sue spalle Elettra si era mossa per tentare di sfruttare l’effetto sorpresa.
Davvero era cascata in quel semplice trucchetto con così tanta facilità? Era sempre stata impulsiva, ma ora era troppo.
Rimase di spalle, lasciando che lei gli arrivasse ad un soffio, e poi agì: Elettra nemmeno si rese conto di essere stata presa per un braccio e lasciata cadere su una delle poltrone. Si accorse di tutto quando fu ormai seduta, con i polsi fermamente bloccati sui braccioli dalle mani di Riario.
Il Conte aumentò la stretta sul sinistro fino a quando lei non lasciò la presa sul tagliacarte, che cadde a terra producendo un rumore metallico.
Le concesse alcuni secondi di silenzio per riprendere fiato - e per riprendersi dal dolore, per quanto avesse provato ad essere il più delicato possibile l’impatto con la poltrona era stato tutt’altro che indolore -, prima di parlare.
Si chinò su di lei, studiando i suoi occhi: erano come fatti di ghiaccio puro e lanciavano saette rabbiose. Era abbastanza vicino al suo volto perché avvertisse il suo fiato solleticargli la pelle, ma anche abbastanza lontano per evitare eventuali tentativi di morso.
“Ho un patto da proporvi, mia diletta”, sussurrò.


Nda 
Sopravvissuta anche al primo esame di questa sessione (per questo ho pubblicato in ritardo)!
Per questo capitolo ho optato per una specie di ritorno ai modi del passato, con un Conte un po' più rude del solito (quanto mi era mancato!) e la nostra Elettra ritornata con la lingua lunga e l'idea di non farsi più mettere i piedi in testa da nessuno. Sentivo proprio il bisogno di un ritorno al passato. Voi cosa ne pensate?
Appuntamento al prossimo mese!  
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Da Vinci's Demons / Vai alla pagina dell'autore: _armida