Il vespaio di Northpass era in fermento. Tutti gli umani sbucati dai loro covi di pietra correvano ai ripari verso le pendici della montagna, Rappresaglie del genere accadevano di frequente ai tempi della guerra, il Var’Celen le ricordava distintamente. Mortali nel panico, in ginocchio Non vi erano più infanti da quando le Omega erano state rinchiuse a Moonbright, uniche donne fertili della specie. Un sollievo per le orecchie. Quella che il Consigliere teneva salda per il polso era perfetta per lo scopo, attirava sguardi persino nel mezzo della confusione generale. Rasequinn incrociò gli occhi gelidi del fratello, Hillgaril, per un solo istante, finché l’altro teneva la spada premuta sulla gola di un soldato anziano inginocchiato nella sua stessa urina. Bastò un cenno del capo per dare l’ordine, e zampilli di sangue imbrattarono la neve circostante. Dall’entrata segreta ai tunnel, ridotta a rocce frantumate, sbucò la sagoma imponente di Edmund Gyfford, comandante del plotone di Northpass e protettore della fortezza. Gli elfi lo tenevano per le braccia, e quello seguitava a camminare a testa alta, sforzandosi di non cedere alla paura come i compagni inginocchiati nella neve. Vedere il suo già esiguo esercito decimato accese qualcosa nel suo sguardo, ira ed orgoglio e smania di uccidere. Era un Alpha umano, ma un re dei ratti non contava nulla per un re dei lupi. “Il Consiglio di Goldcrest non approverà, Var’Celen” disse, una volta arrivato davanti all’elfo albino. L’aveva incontrato quando era ancora troppo giovane per brandire una spada, ai tempi in cui il Consiglio stava gettando le prime, traballanti basi per governare quel poco di regno che restava. All’epoca gli era parso come un incapace che faceva la voce grossa e veniva rispettato unicamente per il suo status. A conti fatti non era così diverso, anche vent’anni dopo. Rasequinn inarcò un sopracciglio, per nulla intimorito dall’idea di confrontarsi con una congrega di vecchi Alpha che credevano ancora di avere voce in capitolo. La pace fasulla stipulata tra umani ed elfi era stata una scusa, un modo per ingraziarsi la razza inferiore e costringerla a servire la regina senza le complicazioni che una guerra implicava. Il Consiglio giocava a governare, la povera gente si sentiva protetta, ma era conscia che parecchi gradini più in alto la sovrana li osservasse con una spada sospesa sopra le loro teste. “Riferiremo che hai combattuto fino alla fine, non temere.” L’elfo catturò il breve scambio di sguardi tra Omega e comandante, naturalmente attratto da una femmina in calore, e la sua pazienza - già tesa all’inverosimile - si spezzò del tutto. Alma si aggrappò alla mano tesa del Var’Celen, strappandogli un ringhio di disappunto e nulla più, appena udibile sopra i versi disperati del comandante di Northpass. Aveva gli occhi umidi di lacrime, un’espressione di puro sgomento che non le donava affatto. “Smettila! Non puoi-” Rasequinn la gettò a terra con la noncuranza riservata ad una carcassa - per quanto quel gesto gli fosse costato un certo sforzo - e seguitò a far crescere la radice che ormai era risalita fino al bacino, mentre l’uomo esauriva la voce e si esprimeva a rantoli soffocati. Non avrebbe dovuto guardarla così. Era tutta colpa sua. Quel pensiero rendeva la radice più spessa, i rami nodosi più lunghi, finché del comandante non restò che un albero insanguinato con un volto pallido e la bocca spalancata in una muta richiesta d’aiuto. Gli umani tremavano, qualcuno rigettava i resti di un misero pasto ai propri piedi. L’intero plotone si trovava lì, inerme, piegato ancora una volta al volere elfico. La facilità con cui aveva dominato l’incantesimo sorprese Rasequinn. Era un maestro nell’arte della magia e nella padronanza degli elementi, ma far crescere una pianta dal midollo osseo di un umano, di solito, richiedeva una certa dose di energia. - L’Omega - pensò, - questa nullità è la responsabile. - Perché la magia aveva risposto al suo impulso di proteggere la fattrice, ed ora Edmund Gyfford si riconosceva appena in quell’intrico di rami cremisi. La guardò mentre si disperava, le mani affondate nella neve ed i capelli scompigliati sul viso. Era tutto un tremito, così diversa dalla guerriera che aveva incontrato sulla cima del Santuario, pronta a squarciargli le budella con un misero pugnale che conservava ancora. Una voce assordante nella testa gli ordinava di portarla via, in un luogo consono ad una creatura inestimabile come lei, lontana dallo sguardo di altri maschi e vicina al suo petto. La voce di consigliere, tuttavia, ebbe la meglio. “Garil, prendi tu la cagna.” Hillgaril fece un breve cenno, sollevò Alma e la gettò malamente su una spalla, il tutto con la composta freddezza di una marionetta, Si era già voltato verso le vittime quando la voce roca dell’Omega lo richiamò. “Var’Celen!”Fu quasi più assordante delle proteste di Gyfford, per lui. Una voce autoritaria che riecheggiò nel silenzio della vallata, come provenisse dal cielo stesso. “Se gli déi non ti puniranno, lo farò io.” Lo sguardo di Alma non mentiva. Era debole, moribonda, ma le iridi verde pallido non avevano mai perso il loro fuoco. Sapeva che avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere la parola, e perciò andava eliminata. “Non vivrai abbastanza a lungo, Morier” sentenziò, squadrandola da sopra la spalla un’ultima volta prima che l’evren del fratello prendesse il volo. E mentre la distanza tra loro cresceva, la magia tornò a bussare senza preavviso, pretendendo ciò che le spettava di diritto.
I resti arborei di Edmund Gyfford divennero sempre più piccoli man mano che l’evren saliva, sbattendo le quattro ali all’unisono contro i venti freddi dell’inverno. I rami rossi erano una macchia di colore disturbante in tutto il candore del paesaggio. Alma non riusciva a togliersi quella scena raccapricciante dalla testa, il modo in cui l’albero si era fatto spazio ed era spuntato rigoglioso dal corpo di un umano il cui sangue era ancora caldo quando il fratello del Var’Celen l’aveva portata via. Cielo e terra divennero indistinguibili, un mare di nubi grigie dove nemmeno gli uccelli osavano librarsi. L’elfo alle sue spalle non emetteva un fiato, con la mano stretta al piumaggio dell’evren ed un braccio attorno allo stomaco della prigioniera, abbastanza saldo da non lasciarla cadere nemmeno se si fosse buttata di proposito. Ripensò alla morsa possessiva di Rasequinn, la facilità con cui l’aveva attirata nella sua trappola per puro divertimento, profanando il corpo di un anziano guaritore la cui unica colpa era quella di prestare soccorso ai bisognosi. Ed ora che l’elfo si allontanava, impegnato in chissà quale massacro, il subconscio avvertiva la sua assenza. Sempre di più. E faceva male.
Tutto il calore si prosciugò in un istante, nemmeno la pelliccia bastava. “Mani naa lle umien, Morier” sibilò stizzito Hillgaril al suo orecchio, chiedendole cosa le fosse preso. Avrebbe voluto rispondere che non lo sapeva, ma sperava che la morte sopraggiungesse prima che le guglie di Calilmarith spuntassero all’orizzonte, invece seppellì il viso nelle piume umide dell’evren e pregò che il dolore finisse.Da molto gli déi erano divenuti sordi alle richieste dell’Omega, e finché il male si estendeva alle tempie, privandola di lucidità, una figura maestosa affiancò i due nel volo. Un evren dal piumaggio color sabbia era sbucato dalle nuvole, silenzioso e veloce. La persona sul suo dorso indossava una pelle di lupo dal colore talmente similare che appena si distingueva, ed alla sua vista Hillgaril imprecò. Ad un solo cenno del capo le creature alate planarono in perfetta sincronia verso il basso, verso le piante scarne che punteggiavano il fianco della montagna. Alma orbì l’impatto in ogni singolo osso, e avrebbe urlato se le fosse rimasta aria nei polmoni. Attorno a lei tutto vorticava, sentiva freddo e sudava. Poteva farlo per Edmund Gyfford, per la povera gente in balìa della crudeltà del Var’Celen, per le compagne lasciate a Moonbright e per la famiglia che l’attendeva a casa, ma quelle lacrime avevano un gusto diverso. Non aveva mai pianto per sé stessa. “Non dovresti essere qui, Isa.” “Dopo. Aiutami a farla sdraiare.” Una voce inequivocabilmente femminile, compassionevole. Nessun elfo si era mai rivolto a lei con tanta gentilezza. Iniziò a credere che si trattassero davvero di allucinazioni. “Perché si trova qui, allora?” “È un suo ordine, Isa. Devo portarla a Calilmarith.” Calilmarith. Alla fine le divinità l’avevano accontentata. Stava spirando fuori dalle mura nere della torre, lontana dalle torture ed il tocco mefitico della magia. Non pensava di poterne gioire, ma fu così. La mano dell’elfa seguitava a sfiorarle la fronte, gli zigomi, l’incarnazione di Ranyra discesa dal cielo per guidarla nell’aldilà. La sua voce copriva lo stridere degli evren ed il tremito degli stessi denti di Alma, che nel delirio la chiamò madre e si allungò verso di lei alla ricerca di conforto. “Non ci andrà” disse infine l’elfa, ed anche le bestie tacquero. “Verrà con noi ad Uril Gawin.” Alma non poté vederlo, ma capì dal ringhio di Hillgaril che era in profondo disaccordo. Dovunque fosse quel luogo non ci sarebbe mai arrivata. “Vuoi disubbidire al Var’Celen? Devi essere pazza.”“Quinn non sa quello che vuole. E adesso accendi un fuoco, teniamola al caldo.” ‹ Note dell'Autrice › Halcyon |