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Autore: Lumen Noctis    11/02/2018    4 recensioni
«Adesso è la notte tra il sette e l’otto dicembre. Ti trovi a casa di Akira, nell’attico del caffè Leblanc. Hai dormito ininterrottamente per cinque giorni. Se senti dei pizzicori alla gamba destra, è normale, la dottoressa Takemi ha avuto il suo bel daffare a disinfettare la ferita e applicare le garze. Ha detto che sei stato molto fortunato, la pallottola non ha colpito nessuna vena o arteria e anche l’osso è intatto. Ad ogni modo, se il dolore dovesse diventare insopportabile diccelo subito, abbiamo degli antidolorifici…»
Che tipo di evoluzione avrebbe avuto la sua vita ora che, in qualche modo, era sopravvissuto a se stesso? Odiava ammetterlo, ma se era ancora in quel lurido mondo, lo doveva unicamente ai Phantom Thieves. Eppure forse la morte sarebbe stato un sollievo migliore degli antidolorifici che Akira gli dava la sera poco prima di dormire.
Spoiler: Novembre e Dicembre interni al gioco.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Goro Akechi, Ren Amamiya/Akira Kurusu
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5.

Cracks on glass.

 

«Sappiamo che sarebbe importante per te…»

«Avrei voluto fosse andata diversamente.»

«Cogliere questa opportunità non è una cosa che puoi fare due volte.»

«Ma a causa di tutto quello che è successo…»

«E per le condizioni della tua gamba.»

«Non è una scelta facile, ne abbiamo discusso molto…»

«Ma abbiamo deciso che rimarrai qui.»

 

Il libro cadde a terra sulla moquette bordeaux, tuffandosi dalle sue mani e aprendosi come le ali di una farfalla. Atterrò con un tonfo e gli occhi di Goro non osarono scollarsi dalla sua copertina scura per qualche istante, terrorizzato all’idea di aver fatto piegare in questo modo almeno una buona metà delle pagine del libro. Immediatamente dopo, venne la consapevolezza di dover rimuovere quelle scomodissime stampelle da sotto le braccia per potersi chinare. Aveva già tolto quella di destra nel momento in cui le dita affusolate di Makoto Niijima si strinsero dolcemente attorno agli angoli del libro. I suoi occhi scrutarono la copertina attentamente, vi era disegnata una piccola tazza stilizzata, dalla quale salivano scie fumanti colorate in marroncino chiaro. Quando alzò lo sguardo su di lui, sembrava divertita: «Storia del caffè.»

Akechi accennò un sorriso a bocca chiusa mentre constatava con sollievo che le pagine non si erano rovinate. Makoto chiuse il libro e glielo porse gentilmente. Ringraziandola, lui lo prese e controllò che fosse tutto a posto prima di riporlo sullo scaffale. Sapeva che non era molto corretto da fare, ma ne sfilò una copia identica: se doveva comprare quel libro, tanto valeva portarne a casa un’edizione in buono stato e lasciare indietro quello che aveva appena fatto un volo sul pavimento. Una piccola parte di sé si sentì in colpa, l’altra la silenziò e fu accompagnata dalla leggera risata di Makoto al suo fianco.

«Sei un appassionato di caffè?»

«Oh, non esattamente,» rispose piano, mentre osservava la rilegatura in cerca della più piccola imperfezione. Fortunatamente per lui, perché era l’unica altra copia disponibile, non ve ne erano. Probabilmente la ragazza non doveva esser rimasta soddisfatta della sua risposta, ma Goro non poteva proprio dire di essere preoccupato al riguardo.

«Allora è un regalo?»

Makoto Niijima era una persona brillante, a volte fin troppo intuitiva. Tuttavia Goro doveva ammettere che in quella circostanza non sarebbe stato difficile capirlo nemmeno se si fosse trattato di Ryuji. Si ritrovò a mentire per evitare l’imbarazzo.

«No, per chi mai potrei comprare un regalo del genere?»

«Forse Akira.»

Lo sguardo di Makoto al suo fianco era calmo e pacato, come il resto della sua persona. Era composta, forte, sana e tranquilla. Probabilmente tutto il contrario di quello che era lui. Improvvisamente, il pensiero del ragazzo appena nominato gli fece domandare se mai ci fosse stato qualcosa tra i due di più profondo dell’amicizia. Senza dubbio sarebbero stati una bella coppia. Tornando al presente, però, strinse la presa sul libro e scosse la testa.

«Ha già il boss a fargli da enciclopedia vivente al riguardo.»

«Su questo devo darti ragione,» senza aggiungere altro, la ragazza si voltò di lato per riprendere ad osservare i libri dallo scaffale alla sua destra, dove si era interrotta poco prima. La libreria era piccola ma ben fornita, posizionata vicina alla stazione della metro di Shibuya, e per questo frequentata da clienti sempre nuovi, anche se senza dubbio i clienti affezionati non dovevano mancare. Goro fu grato di non dover spendere altre parole di circostanza con Makoto e continuò a vagliare con lo sguardo tutta la selezione di libri sulla cucina. Dopo aver scelto la piccola guida alla storia e alle varietà di caffè nel mondo, adesso non sapeva bene quale scegliere tra un libro di ricette di dolci e uno per cibi a base di pesce. Infine, il suo sguardo si posò su un volume illustrato, piuttosto grande e all’apparenza pesante.

Avvicinatosi, maledisse il paio di stampelle che la mattina addietro la dottoressa Takemi gli aveva imposto di usare. Sospirò al ricordo. I suoi sforzi di nascondere il dolore potevano esser stati sufficienti per Akira e il maledetto gatto parlante, ma non erano valsi nulla sotto lo sguardo esperto della dottoressa. Aveva accettato di usare i sostegni unicamente perché, senza, non sarebbe guarito efficacemente in tempi brevi. Piuttosto che prolungare il periodo di guarigione preferiva mettere da parte l’orgoglio e stringere i denti. Tuttavia, era davvero scomodo muoversi e fare qualsiasi cosa con quegli aggeggi in mezzo.

«Akechi-kun, ti serve una mano?»

«Niijima-san…» disse sentendosi a disagio di fronte alla ragazza che, nuovamente, si era messa al suo fianco. Per questa volta, avrebbe accettato senza fiatare tutto l’aiuto possibile: quel libro sembrava davvero troppo pesante perché lui potesse abbassarsi e sollevarlo senza togliersi le stampelle e sentire l’ennesima stilettata di dolore alla gamba.

«Scusami, mi prenderesti quel libro laggiù? Quello grande e quadrato. In copertina mi sembra ci sia la foto di un qualche tipo di donburi [1], ma forse mi sbaglio.»

«Certo, aspetta.» Makoto si chinò verso gli scaffali obliqui più in basso, «Questo?»

«Sì, quello lì…» poi, leggendo bene il titolo, lo pronunciò ad alta voce, «Kyōdo ryōri. Cucina tradizionale, sembra interessante. Ti dispiacerebbe sfogliarlo con me?»

Makoto non si rifiutò e gli si fece vicina, aggiustandosi il libro in braccio per poi lasciare che la copertina rigida si aprisse da un lato. All’interno, la prima pagina conteneva un indice. Makoto attendeva ogni volta che fosse Goro a chiederle di voltare pagina o di sfogliare un po’. Ogni tanto si lasciava andare a qualche commento sorpreso su piatti tipici del Kantō, di cui aveva solo sentito parlare, ma che aveva paura di assaggiare per la loro fama di essere fortemente speziati.

«Come mai questo interesse per la cucina? Non ti facevo persona da comprarsi tanti ricettari, Akechi-kun,» fece la ragazza e Goro seppe che era sincera nella sua curiosità. Con un po’ di imbarazzo, fece per passarsi una mano tra i capelli ma incappò nel cappuccio che aveva calato sulla testa e sulla fronte. Akira gli aveva prestato una felpa affinché potesse nascondere il viso in pubblico ed evitare che qualcuno lo riconoscesse. Non disponendo di felpe proprie, aveva dovuto accettare la gentilezza, ma il persistente odore del ragazzo, impregnato nel tessuto, iniziava a dargli alla testa. A ogni respiro, era come sentire Akira addosso. Ringraziava i miracolosi momenti in cui era abbastanza distratto da pensare facilmente ad altro.

«Prima hai detto che stavo facendo un regalo, non ricordi?»

«Ah, ma tu hai negato,» la sorpresa sul viso di Makoto era teatralmente costruita, e non pretendeva di passare inosservata. Si trattava più di una reazione scherzosa, soddisfatta per il fatto di aver indovinato. Goro si lasciò andare a una risata più sincera dei sorrisi che le aveva propinato fino a quel momento.

«Non ho comunque intenzione di dirti chi è il destinatario.»

«Tranquillo, non serve che tu me lo dica. Mi dici, piuttosto, come pensi di portarti in giro questo mattone, nel caso lo comprassi?»

«Sai che non ne ho la più pallida idea…»

Guardandosi attorno, individuò una commessa in piedi dietro la cassa.

«Pensi che consegnino a casa?» domandò Makoto, come leggendogli nel pensiero.

Goro annuì, «Me lo stavo giusto domandando.»

«Vado a chiedere informazioni, tu non affaticarti.»

Dopo aver detto così, Makoto chiuse il libro e, stringendolo al petto, si diresse verso il banco. Mentre guardava in quella direzione, Goro notò per la prima volta la vetrata di fondo che affacciava sull’affollata piazza di Shibuya e, oltre il vetro, il piccolo gruppo di ragazzi che li stava aspettando. Akira era indubbiamente il ragazzo col cappuccio grigio in testa. Futaba, Ryuji e Yusuke sembravano star conversando serenamente con lui, per non parlare del gatto parlante che si affacciava dalla solita borsa. I quattro - o cinque - avevano deciso di restare fuori per non entrare in massa nel piccolo negozio, rischiando di attirare troppa attenzione. Come linea generale si erano raccomandati di non muoversi tutti insieme, ma in unità più piccole. Stando a quanto aveva capito del programma, Ann e Haru li avrebbero raggiunti nel prossimo luogo in cui erano diretti, che in realtà era la loro destinazione ufficiale per il pomeriggio.

Quando Makoto tornò da lui con un sorriso stampato sul volto e niente tra le mani, Goro scese con la testa dalle nuvole e le andò incontro. «Dicono che non c’è problema, bisogna pagare per il servizio, ma recapitano anche a domicilio. Ho lasciato il libro sul banco, mi sembrava di aver capito che avevi intenzione di comprarlo.»

«Sì, infatti. Grazie per l’aiuto, vado a pagare.»

«Aspetta, Akechi-kun,» fermato nei suoi passi dall’improvvisa serietà del tono, Goro non si fece pregare e i due si spostarono di lato. «Prima di uscire, volevo chiederti scusa per ieri. Sono stata brusca, quando abbiamo parlato del non farti venire con noi nel palazzo di Shido.»

Per quanto l’argomento fosse prevedibile, il ragazzo non si sarebbe mai aspettato che Makoto si scusasse con lui per la maniera in cui aveva espresso la sua opinione. Non che pensasse di meritarsele - il semplice fatto che Makoto si stesse scusando con lui, Goro non riusciva a comprenderlo. D’altro canto, per quanto non gli piacesse ammetterlo, partecipare all’operazione non sarebbe stato altro che controproducente, nelle condizioni in cui si trovava.

«Non devi scusarti. È senza dubbio la scelta migliore, so di dovermi fare da parte.»

Qualcosa nel modo in cui le aveva risposto non doveva esser piaciuto alle orecchie di Makoto. Forse era stata la cadenza sbrigativa della sua voce o forse era fin troppo evidente che l’argomento ancora bruciava dentro di lui, fatto sta che la ragazza indurì notevolmente l’espressione del viso. Con ogni probabilità, non si era nemmeno resa conto di averlo fatto.

«Se dovessi avere intenzione di seguirci ugualmente, sappi che lo scopriremmo. E comunque non credo sarebbe la cosa migliore da fare per te, sotto ogni punto di vista.»

Goro sospirò, grattandosi la testa attraverso il cappuccio e fuggendo brevemente con lo sguardo. Lo so, pensò, non c’è bisogno che me lo dica tu. Già era snervante sentirsi inerme e incapace di fare qualsiasi cosa da solo, ricevere quel tipo di discorso da Makoto lo faceva sentire di nuovo come un ragazzo delle medie che veniva messo in guardia su ciò che si poteva e non si poteva fare in classe. Anche in quei casi, si era sempre trattato di fatti palesemente ovvi.

«Dove vuoi arrivare, Niijima-san? Lo so già che il gruppo non si fida di me. È normale e comprensibile. D’altro canto, nemmeno io mi fido di voi, si può dire che siamo pari.»

Makoto non riuscì a nascondere il suo disappunto e Goro rise, sinceramente divertito. Seriamente, di cosa si stava preoccupando? Il suo cellulare era sotto sequestro e senza il Nav non sarebbe stato capace di entrare nel Metaverso nemmeno se avesse pregato in tutte le lingue del mondo. La tensione che stava crescendo tra loro non gli piaceva affatto, ma la trovava curiosamente soddisfacente.

«Non guardarmi così, non è niente di personale.»

«Al contrario tuo, non abbiamo mai fatto nulla per meritarci questa sfiducia.» Il tono di voce di Makoto era ora freddo e lapidario, non lasciava spazio nemmeno per chiedersi dove fosse finita la ragazza gentile che fino a poco prima aveva sfogliato con lui un libro sui cibi tradizionali giapponesi. A Goro venne quasi da ridere per la seconda volta.

«Al tempo stesso, non si può dire che abbiate fatto nulla per meritarvi il contrario.»

La fiamma si accendeva sempre più negli occhi di Makoto, come una tempesta tenuta lontana solo dalle finestre chiuse. Era una furia controllata o forse - Goro si ritrovò a correggersi - si trattava di indignazione. Era abituato alle persone che lo guardavano dall’alto al basso pensando che fosse soltanto un essere ingrato ed egoista.

«Ma ti abbiamo salvato da quella nave!»

«No, Akira l’ha fatto.» Sentì il cuore battergli forte nel petto per il coinvolgimento emotivo che il solo ricordo comportava. Riusciva ancora a vedere chiaramente Joker lanciarsi oltre la grata prima che questa si alzasse del tutto, cadere a terra dalla sua parte, reprimere un gemito perché aveva sbattuto un ginocchio mentre saltava e l’atterraggio era stato maldestro. Il suo viso però non aveva mostrato altro che il ghigno soddisfatto di chi sapeva di avercela fatta. Lo stesso sorriso di quando sapeva di poter vincere, ancora una volta, sfidare la sorte e uscirne indenne. E lui, invece, che aveva a malapena ancora la forza di tenere su la pistola e fingere di possedere le energie necessarie a correre via. Goro lasciò che l’emozione che l’aveva colto alla sprovvista svaporasse, prese un respiro profondo. Nel giro di qualche istante, riempito dal silenzio attonito di Makoto, fu in grado di riacquisire un tono di voce calmo.

«Soltanto Akira l’ha fatto. Ora, se non ti dispiace, vado a pagare per i miei acquisti.»

Senza attendere una risposta, impugnò saldamente le stampelle e si incamminò verso la cassa, lasciandosi alle spalle Makoto in silenzio, che probabilmente si era ormai pentita delle inutili gentilezze e delle scuse superflue che gli aveva rivolto.

 

 

Appena qualche ora più tardi, Goro si guardò nello specchio di un camerino, domandandosi in che modo, esattamente, fosse passato dal provare felpe con cappucci a indossare ogni capo di abbigliamento disponibile nel negozio. Tutto ciò che aveva indosso in quel momento, fatta eccezione per l’intimo, erano abiti che Ann gli aveva passato attraverso la tenda uno dopo l’altro. La vera domanda era come avesse fatto la ragazza a convincerlo a provarli tutti quanti.

Si osservò con calma nello specchio: stivali neri coi lacci, jeans neri strappati sulle ginocchia in diversi punti, una maglietta bianca che ricadeva lenta sul petto e tagliata in maniera incomprensibile per lui e, per finire, una giacca sempre nera in pelle che gli arrivava appena ai fianchi. I pantaloni gli fasciavano le gambe in maniera troppo aderente per i suoi gusti, gli ricordava la sensazione dell’abito che indossava sempre quando invocava Loki nel Metaverso. Non era una sensazione spiacevole in sé, ma non sarebbe mai uscito di casa con indosso abiti che lo facevano sentire così a nudo e esposto.

Gli sfuggì un sospiro. Da una parte pensava che fosse abbastanza sensuale il modo in cui tutto aderiva al suo corpo, dall’altra era convinto di apparire semplicemente ridicolo. Si domandò con una punta di imbarazzo se mai qualcuno avrebbe potuto trovarlo attraente, vestito in quella maniera. L’unica cosa che si salvava era l’orologio, anch’esso rigorosamente nero nel cinturino e nel quadrante, ma elegante con le sue lancette argentate in risalto sullo sfondo scuro. Era sul punto di tirarsi fuori da quei vestiti quando Ann lo richiamò dall’altro lato della tenda.

«A-ke-chi! Insomma, quanto ci vuole?»

«Ah, no… non penso siano adatti a me,» si affrettò a dire sperando che la ragazza non prendesse l’iniziativa, ma in meno di un battito di ciglia la tenda fu tirata di lato e il ragazzo non poté più nascondersi. Ann gli apparve di fronte e i suoi occhi azzurri lo scrutarono dalla testa ai piedi prima di rivelare la propria soddisfazione. Una risata allegra sfuggì alle labbra della ragazza, che unì le mani davanti al viso, gongolando: «Scherzi, vero? Stai benissimo!»

Goro cercò di nascondere l’imbarazzo guardando altrove, poi il suo sguardo fu catturato dal cappello che Ann stava indossando. Un berretto bordeaux con una piccola visiera rigida, simile ai cappelli della polizia, ma senza i ripiegamenti spigolosi. Tre bottoni colorati, in ordine verde scuro, rosa chiaro e nero, erano cuciti sul lato sinistro del cappello.

«Oh? E questo qui?» Le domandò, incuriosito. Lei alzò gli occhi verso l’alto e toccò il copricapo con la mano destra, dando modo a Goro di notare anche il paio di occhiali da sole che stringeva tra le dita.

«Dato che sei così lento a cambiarti, ne ho approfittato per guardarmi attorno,» fece lei senza nascondere una nota di allegria. Aprì gli occhiali e li indossò, le lenti erano tagliate a forma di cuore e colorate di un rosso ciliegia che tendeva molto al rosa, contornate da una montatura dorata. Aggiustatasi il cappello sulla testa, gli fece un occhiolino: «Che dici, come mi stanno?»

Goro si concesse un sorriso divertito, «Penso che ti stiano bene. Pensi di comprarli?»

«Ah… non lo so questo,» la ragazza sbuffò, «Questo cappello costa troppo e ho superato il mio budget mensile per le compere in vestiti nuovi. Mi toccherà aspettare, sperando che non finisca fuori catalogo.»

«Capisco, che peccato. Spero lo ritroverai.»

«Già,» fece lei pensosa, prima di tornare coi piedi per terra, «Ma non penserai certo di sfuggirmi così! Vieni qui, il camerino non è abbastanza luminoso.»

Senza voler sentire ragioni, Ann lo costrinse ad uscire dalla sua piccola tana, con tanto di stampelle, per andare a vedersi nello specchio più grande e luminoso del corridoio dei camerini. Goro non desiderava altro che poter sparire. Quando si vide nel riflesso dello specchio, il suo imbarazzo si accentuò al pensiero che chiunque avrebbe potuto vederlo conciato a quel modo. Ann invece sorrideva, insensatamente.

«Guarda, potresti fare il modello,» annuì tra sé mentre lui scuoteva la testa, «Altro che investigatore prodigio! Vuoi che ti presenti a qualche fotografo?»

Goro non sapeva se trovare tenero il modo in cui cercava di convincerlo di star bene in quegli abiti. Non poteva dire che Ann fosse una persona ostile, anzi, di tutto il gruppo, la giudicava forse la più socievole e aperta. Tuttavia iniziava a dubitare che avesse tutte le rotelle al posto giusto.

«Non mi sento per niente a mio agio con questo stile… E no, grazie, nessuno mi prenderebbe, sarei troppo impacciato.» Non che la sua mente avesse mai accarezzato l’idea di poter fare il modello. Al contrario, non provava alcun interesse per l’attività in sé. E poi non aveva certamente le qualità per dedicarsi a una cosa del genere.

«Senza dubbio non assomiglia affatto a quello che porti di solito,» commentò la ragazza, portandosi una mano al mento. L’osservò e fece un giro intero intorno a lui, mentre Goro teneva salda la presa delle mani sulle stampelle e si lasciava ondeggiare avanti e indietro. Era strano non indossare i guanti, ma Ann l’aveva costretto a rimuoverli per “il bene superiore dell’estetica”. Come conseguenza, Goro non faceva altro che cercare di nasconderle il più possibile.

«Forse è la maglietta che non ti convince? O è la giacca?» chiese Ann analizzando la faccenda come se fosse un problema serio - e, soprattutto, come se fosse la prima volta che non andavano d’accordo sulle scelte di vestiario che lei gli aveva proposto.

«Devo dire che la maglietta non mi fa impazzire… ma temo sia l’insieme a non convincermi.»

«Impossibile! Questi pantaloni ti stanno troppo bene, e anche gli stivali, ti slanciano.»

«Se può consolarti, l’orologio mi piace molto.»

Ann sbuffò mentre tornava di fronte a lui, ma la sua smorfia concentrata mal nascondeva un sorriso. Ann afferrò il colletto della giacca che stava indossando e lo sistemò meglio, poi prese gentilmente il suo mento tra le dita e lo costrinse a voltarsi di lato, da una parte e poi dall’altra. Goro si lasciò guidare senza protestare. Si stava abituando ai suoi modi di fare, Ann era una persona chiara e diretta, gli sembrava di sentire una sorta di connessione con lei in quel momento. Come se fossero stati amici da una vita e andare insieme per negozi a provare vestiti inusuali fosse un’abitudine più che un evento eccezionale. Non le tolse gli occhi di dosso, chiedendosi se stesse diventando pazzo tutto all’improvviso.

«Ho avuto un’idea!» annunciò infine lei. S’infilò una mano nella tasca destra della felpa e ne tirò fuori un elastico nero, poi si spostò nuovamente alle sue spalle e senza chiedere il permesso iniziò a toccargli i capelli. Goro non si lamentò, né disse alcunché, stringendo i denti ogni volta che Ann gli tirava i capelli con troppa forza.

«Comunque, Akechi-kun…» le parole della ragazza lo raggiunsero, richiamandolo dai suoi pensieri. La voce era scivolata lentamente verso un tono più basso, mentre le sue dita si impegnavano ancora per legare le ciocche più alte in un piccolo codino dietro la sua nuca, «Volevo chiederti come ti senti, mi sembri di buon umore oggi.»

«In che senso?» chiese, imponendosi di evitare l’argomento come sempre, anche se stavolta il compito si prospettava più difficile di quanto non fosse in passato. Il solo interesse di Ann al riguardo lo faceva sentire vulnerabile.

«Nel senso: come stai? Dopo ieri, in generale…»

«Oh, sto bene, suppongo.»

Ann tacque e continuò a lavorare coi suoi capelli, tirandoli ogni tanto, e Goro si mordeva silenziosamente le labbra. Nel silenzio che si era appena creato, il ragazzo riusciva a sentire il battito forte del proprio cuore nelle orecchie.

«Anche se non ne parli, so che non è facile per te,» riprese improvvisamente la ragazza, «Speravo che alla fine saresti potuto venire con noi, ma vedrai che porteremo a termine il piano senza fallire. Fidati di noi.» Ann lasciò andare i suoi capelli. Senza pretendere alcuna risposta, tornò di fronte a lui e osservò il risultato del proprio lavoro.

«Ecco, guarda, stai bene anche coi capelli un po’ portati all’indietro.»

Seguendo il suo sguardo, Goro lasciò che i propri occhi scivolassero di nuovo verso lo specchio. Sorprendentemente, doveva ammettere però che l’esito non era poi così terribile. Forse avrebbe dovuto considerare la possibilità di farsi crescere i capelli: tenerli legati quando era a casa da solo sarebbe stato più comodo che ritrovarseli sempre davanti al viso. Inoltre, doveva anche riconoscere che questa acconciatura si intonava meglio allo stile di vestiti che Ann gli aveva proposto. Osservandosi nell’insieme, per un attimo non si riconobbe più, era diventato solo un ragazzo giapponese vestito in maniera punk-rock in uno dei numerosissimi negozi affollati di Harajuku. Mancavano la catenina in metallo legata alle asole dei pantaloni, una collana e magari un piercing o un dilatatore all’orecchio, e avrebbe potuto uscire per le strade senza un cappuccio in testa. La gente non avrebbe mai potuto riconoscere il celebre detective prodigio in un individuo come lui, al massimo sarebbe stato possibile dire che si somigliavano molto, che erano sosia o gemelli separati alla nascita. Fu la sensazione più strana della giornata.

«Allora, ti piaci di più?»

«Io… non lo so,» uscendo da quel piccolo ma infinitamente lungo attimo di trance, Goro scosse la testa, tornando a se stesso. Non sapeva se riprendere l’argomento aperto poco prima da Ann o continuare a conversare con lei come se quel breve scambio non si fosse mai verificato. Prese un respiro profondo, che bloccò appena prima di espirare, poi si sciolse in un sorriso: «Questa roba però non la compro ugualmente.»

Ann si illuminò in un altro dei suoi sorrisi, chiudendo gli occhi dietro le lenti a forma di cuore, poi riaprendoli. Goro si sarebbe aspettato una reazione diversa, non poté mancare di chiedersi cosa trovasse di così positivo nel suo rifiuto. La reazione più naturale sarebbe stata mettere il broncio, anche solo per stare al gioco. Nonostante tutto, la ragazza non sembrava intenzionata a demordere: «I pantaloni e gli stivali sì. E anche l’orologio.»

«Solo l’orologio,» contestò lui.

«Tutti e tre!»

Proprio nell’istante in cui Goro si lasciava andare a una leggera risata, ai due si avvicinò una persona con il viso interamente coperto da un passamontagna nero, fatta eccezione per una piccola porzione ritagliata che lasciava scoperti gli occhi color marrone scuro. Senza dubbio si sarebbero entrambi spaventati se il resto del corpo di questa figura non fosse appartenuto inconfondibilmente a Ryuji.

«Hey, piccioncini, che ne dite? Perfetto per l’operazione di stasera, non trovate?»

«Ryuji!» Lo sguardo di Ann saettò intorno per il negozio e arrossendo diede un pizzicotto al braccio del ragazzo. Abbassando il tono della voce, «Come ti viene in mente di mettertelo qui dentro? Tutti i commessi e i clienti ti stanno fissando. Vuoi farti denunciare?»

«Ahi, ahi!» fece lui, liberandosi dalla sua persa e massaggiandosi il punto incriminato, poi si adoperò per sfilare il passamontagna. La sua chioma bionda e arruffata fece capolino e Ryuji cercò di sistemarla con una mano. «Che hai da arrabbiarti così tanto? Volevo solo fartelo vedere. Se continui così poi pare che sto cercando di rapinarti quando invece sei solo tu che fai l’isterica.»

Ann gonfiò le guance, trattenendo la rabbia per le redini. «Sei solo stato inopportuno.»

«Io trovo che sia perfetto,» si intromise Goro cercando di rasserenare la conversazione. Ryuji lo fulminò con lo sguardo come se l’avesse appena insultato, senza aggiungere una parola, e Goro desiderò potersi fare piccolo e svanire. La consapevolezza di essere sgradito - o meglio, indesiderato - gli affondò nello stomaco. Come una sanguisuga che si attacca alla pelle e succhia via il sangue lentamente ma inesorabilmente, allo stesso modo quest’ansia gli si avvinghiò con le unghie vicino al cuore, dove poteva avere il controllo di ogni sua emozione. Adesso ricordava perché da bambino i suoi tentativi di socializzare con gli altri ragazzi degli orfanotrofi avevano sempre avuto vita breve. Ogni volta il ruolo di ultimo arrivato ricadeva su di lui come una condanna, continuamente spostato da una casa di accoglienza all’altra, tormentato dai falsi allarmi di qualche famiglia che prima diceva di volerlo adottare, poi improvvisamente cambiava idea. Se pure fosse riuscito a fare amicizia, non sarebbe durata, perché la sua permanenza raramente superava i sei mesi. Col tempo, aveva imparato a non desiderare alcun contatto con gli altri, a vivere per sé e a familiarizzare con la solitudine. Anche adesso, per il tempo che sarebbe rimasto, aveva davvero senso per lui cercare di farsi degli amici?

Nel silenzio pieno di disagio che era scivolato tra loro, inaspettatamente Ann avvicinò la mano destra al viso di Ryuji e gli lasciò una schicchera proprio in mezzo agli occhi. Il gesto fu così naturale che nessuno dei due ragazzi se ne accorse prima che fosse troppo tardi. Goro non riuscì a trattenere lo stupore e sotto il suo sguardo attonito Ryuji indietreggiò di un passo, portandosi subito le mani al viso.

«Ehi, ma sei impazzita? Ma che ti prende?» lamentò strascicando le parole tra i denti, sorprendentemente molto meno arrabbiato di quanto Goro si sarebbe aspettato. Per un attimo si chiese se non fosse successo qualcosa tra i due per cui ora reagivano a quella maniera. A ripensarci, per la maggior parte del tempo che avevano trascorso assieme i due non si erano rivolti altro che scambi veloci, ignorandosi per quello che rimaneva.

«Smettila, sai di cosa parlo e non ho voglia di ripetermi,» Ann parlò esattamente come Goro immaginava che avrebbe fatto una madre col proprio bambino; come forse aveva sentito fare ad alcune signore durante le sue passeggiate in qualche parco pubblico di Tokyo.

«Oh, scusami tanto se ti ho rovinato il divertimento, miss sono meglio io,» rispose Ryuji, le sopracciglia aggrottate per la frustrazione, «O forse preferisci miss “meniamo gli amici, abbracciamo i nem—”»

«Stai esagerando!» fece lei, interrompendolo e arrossendo per la rabbia. Goro, preso tra i due fuochi, non sapeva davvero come fare per calmare la situazione e si sentì mortificato. Non voleva che Ann prendesse le sue difese, non ce n’era bisogno, e Ryuji non faceva niente di male nel riconoscere che non c’era nemmeno l’ombra di un’amicizia tra di loro.

«Ragazzi… Non fa niente, davvero, non ha fatto niente di male.»

I due lo guardarono in silenzio, entrambi ancora gonfi di parole infiammate che, senza dubbio, continuavano a lanciarsi mentalmente senza dar loro voce. Goro riusciva quasi a cogliere gli insulti che correvano tra uno sguardo furtivo e l’altro. Poi, col suo passo silenzioso, la familiare presenza di Akira si avvicinò al piccolo gruppo. Colta al volo l’atmosfera tesa il ragazzo li osservò tutti e tre uno dopo l’altro e Goro si ricordò improvvisamente di come era vestito. Avrebbe voluto tornare a nascondersi nel camerino inventando qualche scusa ma tutto ciò che riuscì a fare fu dondolare nervosamente sul posto.

«Qualcosa non va?» domandò Akira con tono di voce serio, che fece scattare Ryuji.

«No, è tutto a posto. Qui qualcuno non apprezza il senso dell’umorismo.»

Così dicendo, il ragazzo dai capelli biondi si mise le mani in tasca assieme al passamontagna e se ne andò a grandi falcate. Un sospiro sfuggì alle labbra di Akira, mentre Ann incrociava le braccia al petto e voltava lo sguardo in direzione opposta a Ryuji. Goro aprì e strinse la presa più volte sulle impugnature delle stampelle, cercando disperatamente qualcosa di interessante su cui posare lo sguardo che non fossero i due ancora in piedi di fronte a lui.

«Ann, stai bene?» si informò Akira, al che la ragazza sembrò sciogliersi un po’ e la tensione alleviarsi. Mentre lei gli rispondeva, Goro lasciò scivolare il proprio sguardo altrove. In un piccolo angolo del negozio, riconobbe Yusuke e Futaba, intenti a provarsi diversi tipi di occhiali da sole dalle forme strane. In quel momento, il giovane artista ne indossava ben due paia insieme, uno decorato con fenicotteri rosa e un altro con al centro un’ananas gigante. Poco distanti, Makoto e Haru osservavano gli espositori pieni di sciarpe invernali. Per qualche istante la sua attenzione si concentrò sui lineamenti del viso di Haru, che sorrideva apparendo spensierata.

«Akechi,» la voce di Akira lo richiamò e i suoi occhi corsero verso di lui. Solo in quel momento Goro si accorse che il ragazzo teneva stretta tra le mani una camicia chiara, di un azzurro tenue, e gliela stava porgendo. «Tieni.»

Goro lasciò la presa sulla stampella sinistra e strinse le dita attorno alla camicia, avvicinandola per poterla osservare meglio. Aveva un leggero motivo di pois bianchi, ma erano così piccoli e distanziati che quasi non si notavano. Trovandosi di fronte a un vuoto di parole, poiché non sapeva interpretare la presenza di quell’oggetto fra le sue mani, guardò Akira in cerca di una spiegazione e l’altro sembrò capire.

«Mi è stato detto di non dirtelo, ma lo faccio ugualmente. L’hanno trovata Haru e Makoto laggiù e hanno pensato che ti si addicesse. Mi hanno chiesto di portartela.»

Senza pensarci Goro tornò a guardare le due ragazze, intente ora a provare insieme una sciarpa che sembrava decisamente troppo lunga per una persona sola, sempre che uno non avesse voluto sotterrarcisi dentro. Realizzare che proprio da loro giungeva il pensiero gli strinse lo stomaco.

«G-grazie…» disse con poca sicurezza ad Akira, «Ti chiederei di ringraziare anche loro, ma non credo tu possa.»

«No, infatti,» il ragazzo si voltò ora verso Ann, «E anche tu, acqua in bocca.»

Lei annuì senza esitare, prima che l’altro riprendesse.

«Non metteteci troppo, comunque, tra poco sarà tempo di andare.»

«Certo, ci sbrighiamo.»

«Scusatemi per tutto il tempo che vi sto trattenendo qui,» s’intromise Goro, sentendosi sempre peggio, per motivi che non sapeva spiegare nemmeno a se stesso. «Ci metto molto anche per via di queste…» spiegò facendo cenno alle stampelle. Akira gli sorrise dolcemente e Goro sentì il cuore sprofondargli in fondo allo stomaco.

«Non preoccuparti, è solo che dobbiamo fermarci a cena da qualche parte,» così dicendo si passò una mano tra i capelli dietro l’orecchio. «Ah, tra le altre cose, volevo dirti che stai benissimo così, anche coi capelli legati,» aggiunse, e accompagnò le ultime parole con un gesto della mano che stava a indicare la piccola coda che Ann gli aveva fatto. Senza riuscire a processare la cosa razionalmente in meno di tre secondi, Goro si maledisse perché non riusciva a costruire una frase di risposta coerente, finendo col ripiegare su un «Oh, grazie,» poco convinto.

Akira si lasciò sfuggire una risata e fece un cenno di saluto ad entrambi. «Adesso vado, fate presto.»

Con quest’ultima raccomandazione, si allontanò, senza attendere una risposta da nessuno dei due, e Goro si sentì sollevato nel ritrovarsi di nuovo solo con Ann. Dopo un attimo di pausa, lei batté le mani tra loro, come a voler fare il punto della situazione.

«Visto? Non sono l’unica a pensare che stai benissimo così. Cosa vogliamo fare?»

Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei, ancora stordito. Come incoraggiato e senza pensarci su, si girò un’ultima volta verso lo specchio. Sorprendentemente, più che un’altra persona, adesso riusciva a scorgere un lato di sé che non gli era affatto nuovo, ma privato e probabilmente inesplorato. Uno che in qualche maniera quadrava nel tutto di quell’immagine riflessa. La sensazione di diversità era scomoda, ma si rivelava interessante.

«Sai… Penso che prenderò tutto, alla fine.»

«Uh? Tutto il completo?» esclamò la ragazza, sgranando gli occhi. La mano destra corse a giocare con alcune ciocche di capelli che le ricadevano sulle spalle, «Come mai hai cambiato idea?»

«Non saprei,» cercò di evitare l’argomento. Non lo sapeva bene nemmeno lui.

«Ah! E questa qui non te la provi?»

Ann riportò l’attenzione sulla camicia che ancora teneva in mano. Goro la sfregò lentamente tra le dita. Il tessuto era piacevole al tatto, il colore tranquillo, non dava nell’occhio e incontrava il suo senso estetico. Si rese conto, rigirandola, che il taglio delle maniche era corto, con il risvolto. Sebbene il modello fosse fuori stagione, non aveva molta importanza. Per un attimo si chiese se avrebbe mai davvero avuto l’occasione di indossarla e sentì il cuore farsi più pesante, al punto che quasi gli mancò il respiro. Voltandosi verso Ann, infine, deglutì e scosse la testa, cercando di mostrarle un sorriso. «No, non serve… La prendo.»

Per qualche motivo, non aveva dubbi che la misura fosse giusta. E se pure non lo fosse stata, se ne sarebbe fatto una ragione. Voleva quella camicia, esattamente e unicamente quella, per poter conservare il ricordo intatto, per sempre.

 

 

«Dunque, ricapitoliamo.»

Futaba stava camminando sul bordo rialzato di un’aiuola, le braccia tese per mantenere l’equilibrio, e non si poteva dire se fosse più concentrata sul parlare o sul non cadere. Al suo fianco, Akira era pronto a prenderla in caso di necessità. «Dovrebbero essercene cinque, più o meno. Una all’ingresso del palazzo, una sul pianerottolo, probabilmente due nel salotto e una nel corridoio.»

«Sì,» rispose Goro continuando a ragionarci su, «Non vedo che necessità ci sia di metterne anche in bagno, in cucina e in camera da letto. Sono tutte aree della casa alle quali si accede passando prima nel salotto e nel corridoio.»

«Se fossi nella testa di Shido, penserei di volerti spiare in qualsiasi cosa tu faccia, una volta tornato a casa. Insomma, non mi accontenterei di sapere che sei rientrato.»

L’appunto di Makoto giunse puntuale come lo scoccare della mezzanotte. La ragazza camminava alla sua sinistra e portava tra le mani una delle diverse buste di acquisti che aveva fatto. Goro non avrebbe voluto lasciare che gli altri portassero le sue cose, ma tutti avevano insistito dal momento che non poteva farlo da solo. Tutti, fatta eccezione per Ryuji, che però aveva acconsentito solo dopo aver ricevuto l’ennesima gomitata nel fianco da parte di Ann. Il gruppo si era ridimensionato, dal momento che Yusuke era dovuto rientrare in dormitorio per via del coprifuoco e Haru non se l’era sentita di accompagnarli. Goro non poteva biasimarla né dirsi scontento della sua assenza. Morgana, da bravo gentiluomo, aveva deciso di accompagnarla a casa e aveva abbandonato il gruppo a sua volta.

“Ve la caverete anche senza di me,” aveva detto prima di saltare giù dalla borsa di Akira. Forse era stato per il meglio.

«Ha ragione,» accordò Futaba mentre tornava coi piedi sul marciapiede, eseguendo un saltello entusiasta. «Sono pronta a scommettere che ce ne sono anche lì, come sono certa che ci saranno delle cimici installate in tutto l’appartamento.»

«Per le microspie non c’è altro modo che trovarle e disattivarle, ma non possiamo farlo sotto gli occhi delle telecamere,» appuntò Akira lanciando uno sguardo d’intesa a Futaba. La ragazza sorrise diabolicamente soddisfatta.

«Non temete, ragazzi. Come vi avevo promesso, ho trovato la soluzione al problema.» Dalla tasca destra del giaccone verde tirò fuori una custodia nera e la agitò in aria con fare trionfante. «Ta-dan! Occhiali a infrarossi!»

Il gruppo intero la guardò con stupore. Futaba aveva detto al gruppo che avrebbe trovato un modo per individuare la posizione delle telecamere in uno schiocco di dita, ma non pensavano sarebbe riuscita a procurarsi un dispositivo così. Ryuji fu il primo a lasciarsi andare all’entusiasmo: «Capperi, come funzionano? Me li fai provare?»

«Posso rispondere solo alla tua inaspettata sete di conoscenza,» la ragazza gli fece la linguaccia e Ryuji rispose con una smorfia a propria volta, mentre allungava una mano per prendere la custodia. Futaba si mosse indietro sfuggendogli.

«Ehi, giù le mani!»

«Dai, facceli vedere almeno!»

«Quando saremo arrivati.»

«Lo siamo,» disse Goro fermandosi all’angolo della strada, sotto il cerchio luminoso di un lampione. Gli altri fecero altrettanto, azzittendosi immediatamente. Goro guardò in fondo alla strada, la palazzina nella quale abitava era la terza sul lato sinistro, in tutto simile alle altre. Le mura esterne pitturate di blu ceruleo, con davanzali e finestre dagli infissi bianchi, i giardini erano pieni di alberi che in primavera si riempivano di gemme chiare. Non era un brutto luogo in cui abitare, ma Goro si sentiva sempre nel posto sbagliato. Il peso delle chiavi nella sua tasca si fece improvvisamente più evidente.

«Bene, come procediamo da qui in poi?» la voce pacata ma risoluta di Makoto lo richiamò all’attenzione. Ryuji, che aveva entrambe le mani occupate per via delle buste, scalpitò sul posto.

«Per prima cosa, nascondiamo questa roba da qualche parte.»

«Sì, magari in un posto dove non ingombrano… sperando che nessuno le veda e pensi di rubarle,» enfatizzò Ann, mordendosi un labbro e lanciando qualche occhiata ricognitiva intorno. Goro fece qualche passo avanti e indicò l’area condominiale.

«C’è un angolo, nel giardino, che non è facile da individuare dall’ingresso,» iniziò a spiegare, «Nessuno dei condomini ha animali, quindi non rischiamo di incontrare qualcuno che porti a spasso il cane. Non ci sono molti cespugli, ma la siepe di recinzione dovrebbe bastare. Ci sono anche abbastanza alberi nei dintorni, credo sia il punto migliore per lasciare le cose.»

«Credo possa andare, ma come ci arriviamo?»

«Forse voi riuscireste a scavalcare il recinto, ma per me è impossibile in queste condizioni. L’unico accesso diretto è il cancello, Niijima-san.»

«Pensate ci sia una telecamera anche lì?» Fu Akira ad informarsi, direttamente rivolto più a Goro e a Futaba che al resto della squadra. Il ragazzo si grattò la testa, pensandoci su.

«Mi sembra eccessivo…» mormorò, ma forse Shido era disposto a prendere misure drastiche.

«Già, pensa che sbatti controllare tutta la gente che entra ed esce,» sbuffò Ryuji.

«Un gruppo numeroso come il nostro che entra per la prima volta, però, salterebbe subito all’occhio, nel caso ci sia davvero qualcuno a guardare.» Ann aveva un punto a suo favore. Sfortunatamente, non potevano permettersi di essere incoscienti e, a differenza del Metaverso, nessun travestimento qui sarebbe stato in grado di nascondere le loro identità. Dopo aver osservato le prime reazioni, Futaba dondolò sui tacchi dei suoi stivali e ridacchiò soddisfatta, come se il loro arrovellarsi sulla faccenda fosse cosa superflua.

«Ragazzi, non serve fasciarsi la testa prima di rompersela,» sollevò la custodia nera per mostrargliela nuovamente, «Intanto vediamo se c’è davvero una telecamera all’ingresso. Poi andiamo in cerca del pannello di controllo dell’elettricità della palazzina. Le telecamere di sorveglianza necessitano di un’alimentazione costante per poter funzionare ventiquattro ore su ventiquattro, altrimenti bisognerebbe dotarle di pile e cambiarle continuamente non appena si scaricano. La stessa cosa è valida per possibili microfoni nascosti, per questo le cimici saranno verosimilmente connesse a reti elettriche fisse.»

«Shido non è il tipo da sprecare uomini in compiti futili come sostituire le batterie alle telecamere, sfrutterebbe senza dubbio la corrente elettrica,» completò Goro. Un senso di fastidio allo stomaco gli strinse le viscere al pensiero di quanto sarebbe stato pericoloso fare quello che era necessario fare. Ann distolse lo sguardo dall’edificio per puntarlo su di lui, seria come non l’aveva ancora mai vista in quella giornata, e lui si preparò ad ascoltarla.

«Akechi-kun, avevi detto che il quadro di controllo si trova nel seminterrato?»

«Sì, proprio in fondo alle scale.»

«Cosa c’è lì sotto?» Domandò Ryuji, «È un garage?»

«No, no…» Goro cercò di richiamare tutte le proprie conoscenze al riguardo, «Non ci vado quasi mai, ma ci sono soltanto cantine e ripostigli. Io non ne ho una, tengo la mia bici in casa. Ad ogni modo, non offre nessuna uscita secondaria, quindi dubito fortemente che abbiano installato una telecamera lì.»

«Concordo, è un vicolo cieco e Shido sicuramente sa che non hai una cantina.»

Futaba si accodò al commento di Makoto, «Dunque sfrutteremo il pannello di controllo per far saltare la corrente nella palazzina e, una volta dentro l’appartamento dovrò essere veloce a disattivare le telecamere, piazzando su ciascuna di esse… uno di questi qui!»

Dalla stessa tasca di prima, estrasse un piccolo oggetto metallico, dotato di un pungiglione che non doveva essere più lungo di cinque millimetri. Il resto del corpo era nero e tondeggiante, la grandezza simile a quella di una biglia. Ryuji di nuovo liberò una mano dalle buste e fece per toccare il piccolo oggetto tra le dita di Futaba, ma esattamente come prima la ragazza si scansò. «Non provarci nemmeno, sono delicati!»

«Eh ma è tutto delicato, per te!»

«Che cos’è, esattamente?» La sola voce di Akira calmò il dibattito. Come sempre, Goro era colpito dalla sua capacità di rimanere in silenzio e usare le parole al momento giusto - qualcosa che sentiva estremamente distante dalla propria realtà. Futaba rivolse le proprie energie alla spiegazione, mentre si voltava verso Akira e dimenticava le pretese di Ryuji.

«Un trasmettitore, ma non uno qualunque. Questi qui li ho modificati io stessa, con l’aiuto di qualche amico esperto online…» dalla tasca, estrasse un’altra manciata di quegli oggetti tondi e scuri, tenendoli sul palmo della mano, «Il prezzo non è elevato, ma non ho potuto fabbricarne di più in così poco tempo. Questo piccolo ago qui va inserito nei cavi di collegamento elettrico delle telecamere, è abbastanza appuntito da perforarli e non troppo lungo da bucarli da parte a parte.»

«Suppongo tu abbia il ricevitore,» Goro si lasciò sfuggire ciò che stava pensando. Futaba sorrise e con la mano libera diede una leggera pacca alla borsa che teneva a tracolla. La ragazza non usciva mai con borse o zaini, teneva sempre tutto nelle grandi tasche della giacca verde. A giudicare dalla forma rettangolare, Goro dedusse che all’interno vi si trovasse il suo laptop.

«Precisamente,» Futaba sembrava contenta del fatto che tutti stessero seguendo il suo discorso, «Ma come vi ho detto, non si tratta di semplici trasmettitori. Dal mio computer posso mandare degli input e modificare il funzionamento interno delle registrazioni. Non è una cosa facile da fare, né da spiegare… ma la farò funzionare, non serve che vi ci arrovelliate sopra.»

«In poche parole, vuoi hackerare le telecamere,» fece Ann, ricevendo risposta positiva. Senza perdere tempo, Futaba si voltò verso Akira, affidandogli tutti i piccoli trasmettitori. Il ragazzo li prese e ne saggiò il peso nel palmo della mano. Subito dopo, la più piccola del gruppo aprì la custodia dei fantomatici occhiali a infrarossi e li indossò. Le lenti erano tonde, arancioni e leggermente protuberanti, montate su una struttura a fascia dall’aspetto saldo. Inutile dirlo, la somiglianza con la maschera di Oracle era sorprendente.

«Beh, che ne pensate? Forti vero?»

Lo stesso pensiero era corso, probabilmente, nelle menti di tutti. Soddisfatta della sorpresa e dei complimenti ricevuti, la ragazza iniziò a spiegare a tutti in che modo funzionassero gli occhiali a infrarossi, rispondendo alle domande entusiastiche di Ryuji, che poi però finiva inevitabilmente per non capirci nulla. Per Goro il concetto era piuttosto chiaro, sebbene non se ne intendesse granché di tecnologie all’avanguardia. Non avrebbe saputo dire quale fosse la differenza esatta tra i modelli di terza e quarta generazione, a cui secondo quanto diceva la ragazza questi occhiali si avvicinavano, ma non ne aveva bisogno. Per quanto potesse essere difficile per lui, finché Futaba avrebbe saputo come sfruttarli, si sarebbe fidato di lei senza porre domande.

«Adesso, Akira, tu dovrai entrare usando le chiavi di Akechi, scendere nello scantinato e far saltare la corrente. A questo punto, torni indietro e piazzi uno di questi amichetti sulla telecamera dell’ingresso. Dopo qualche secondo, dovrebbe illuminarsi un Led, probabilmente sarà rosso all’inizio ma poi diventerà verde» spiegò Futaba, mentre si guardava attorno con gli occhiali e si esibiva in una piccola smorfia. «Ah, troppo luminoso qui.»

«E per il cancello all’area condominiale?» Domandò Makoto.

«Oh, giusto. Di solito ci sta sempre una telecamera, ma in pochi sanno che sono finte. Basterà comunque che anche qui Akira, una volta entrato, ci piazzi sopra uno dei trasmettitori. Se la luce che si accende è rossa, significa che in realtà non c’è alcuna trasmissione di dati in atto, quindi puoi ritirare il trasmettitore e usarlo su un’altra telecamera. Meglio non sprecare questi cosetti.»

«Ricevuto,» disse Akira poggiando a terra la busta che stava portando e tirandosi il cappuccio il più giù possibile sugli occhi. Goro si domandò se ci avrebbe davvero visto qualcosa in quel modo. Durante il dibattito che si era acceso il giorno prima riguardo questa operazione, aveva insistito molto affinché non fosse Akira ad esporsi tanto passando sotto le telecamere ancora attive. La sua preoccupazione era probabilmente passata per scetticismo, perché non era bravo ad esprimere questo tipo di interesse per gli altri, e quasi per ripicca Akira aveva deciso di assumersi il compito. Col suo solito, maledetto sorriso di quando la decisione era presa e non sarebbe tornato indietro.

«Ripetiamo le altre tappe del piano,» sollecitò Makoto, «una volta che Akira ha sistemato la telecamera esterna e riattivato la corrente, Futaba si occuperà di manomettere le trasmissioni così da permetterci di entrare a nostra volta senza farci vedere. A questo punto, dovremo innescare un secondo blackout nella palazzina: dal momento che gli altri condomini senza dubbio inizieranno ad allarmarsi, da quel momento in poi il tempo a nostra disposizione sarà indeterminato, finché qualcuno non scenderà nello scantinato per riattivare la corrente.»

Il gruppo annuì, Futaba ridacchiò soddisfatta, «Poi lasciate fare a me.»

 

 

L’appartamento era silenzioso, la corrente ancora non accennava a tornare e dal piccolo sgabuzzino buio in cui si era nascosto assieme a metà del gruppo non proveniva alcun suono. Goro, accovacciato a terra con le spalle al muro, teneva le stampelle tra le gambe e poggiava la fronte al loro corpo metallico. Respirava piano, non si azzardava a muovere un muscolo e avrebbe voluto che i propri pensieri fossero altrettanto silenziosi. Alla sua sinistra stava un mobiletto pieno di cianfrusaglie utili per la casa, alla destra Ryuji era a propria volta seduto a terra e faceva del proprio meglio affinché i loro corpi non si toccassero. Goro ne era grato da una parte, ferito dall’altra, ma sapeva di meritare ogni tipo di sfiducia e persino repulsione da parte loro. Se avesse potuto, lui stesso si sarebbe evitato come si fa con la gente malata.

Voltato il viso verso il mobile, si abbracciò le ginocchia, con tanto di stampelle in mezzo che ricadevano ora sulla sua spalla, e vi poggiò sopra la guancia destra. Avrebbe voluto farsi piccolo e sparire sotto gli occhi di tutti, si sentiva stanco dalla giornata, stanco dell’operazione per recuperare la sua casa che tanto odiava e tutti i ricordi che vi albergavano dentro come fantasmi. Tutto quello in cui aveva creduto fino a qualche giorno prima era crollato in pezzi, il piano che aveva perseguito per così tanti anni era destinato a fallire fin dall’inizio e se era ancora vivo, su quel pavimento freddo e polveroso, era grazie alle persone che ora lo circondavano, a quelle altre che si nascondevano in cucina e alle altre tre che non erano presenti. Il fatto che non potesse considerare nessuna di queste persone un amico non lo sorprendeva, ma faceva male come un ago che gli affondava lentamente nello stomaco.

Passò un tempo infinito in quel silenzio.

 

 

Un leggerissimo bussare riscosse i ragazzi nello stanzino e la porta si schiuse. Con l’indice alzato sulle labbra, Futaba apparve oltre lo spiraglio e fece loro segno di uscire. Accompagnati dalla silenziosità che si addiceva a dei ladri professionisti, Ann, Makoto e Ryuji si alzarono da terra. Goro rifiutò scuotendo la testa l’aiuto ad alzarsi propostogli dalle ragazze, le quali finirono per precederlo. Una volta da solo, Goro ebbe premura di spostare silenziosamente le stampelle da un lato e si alzò sostenendosi al mobile al suo fianco e facendo leva sulla gamba sana. Akira si affacciò alla porta in quel momento e, raggiuntolo, lo fermò prima che potesse riprendere le stampelle. In labiale, gli spiegò, fanno rumore.

Goro annuì e si avvicinò da solo alla porta. Ogni passo poggiato sulla gamba destra era come una lama che affondava nel muscolo e scavava fino all’osso. Faceva sempre così male ricevere una pallottola? Non gli era mai successo prima, né aveva mai trascorso del tempo a immaginarselo.

La prima cosa che notò, entrato nella cucina, fu la lampada del soffitto smontata e poggiata sul bancone vicino ai fornelli. L’ambiente era quasi del tutto avvolto nell’oscurità, l’unica luce giungeva dalla finestra del salotto ed era tenue, ritagliava la sagoma della porta sul pavimento in un piccolo tappeto luminescente. Indicando i fili scoperti e l’attacco vuoto della lampadina, Goro si voltò verso Akira, che annuì in risposta. Quando fece ruotare il dito alludendo al resto della stanza, invece, il ragazzo gli indicò un punto preciso e lo Goro seguì con lo sguardo. Nell’angolo vicino al forno al microonde, una piccola luce verde lampeggiava ad indicare la presenza di una telecamera attiva, ma dirottata. Deglutendo, Goro cercò di restare calmo e con l’indice indicò il proprio orecchio, poi la presa della corrente scoperta della lampada da soffitto e nuovamente tutta la stanza. Akira non colse immediatamente e alzò un sopracciglio nella sua direzione, Goro ripeté il gesto finché non fu chiaro, e la risposta che ricevette stavolta fu negativa.

Pur rivolgendogli un “ok” con la mano, Goro non si sentiva abbastanza tranquillo e iniziò ad aprire cautamente tutti gli scaffali, in cerca di altre videocamere o microspie nascoste. Questo gesto lo riportava indietro di anni, a quando per la prima volta aveva scoperto di venire spiato da suo padre, a quel giorno in cui aveva ringraziato di non aver mai avuto amici a cui poter raccontare i propri segreti, o semplicemente di non aver mai preso l’abitudine di parlare da solo. Da quella volta in poi, aveva iniziato a controllare regolarmente ogni angolo della casa, circa una volta a settimana, per anni e anni. Conosceva a memoria quali fossero i punti migliori per posizionare telecamere e lo stesso poteva dirsi delle spie audio. Difatti, non si sorprese che la propria ricerca tra gli scaffali della cucina si rivelasse infruttuosa, ma si sentì ugualmente più sicuro in questa maniera.

La casa era silenziosa, sembrava non vi fosse davvero nessuno. Il gruppo sapeva dimostrare le proprie abilità quando necessario, perfino una persona chiassosa come Ryuji non sollevava un filo d’aria. Messo piede nel salotto, il suo sguardo registrò immediatamente tutti gli oggetti che erano stati spostati, soprattutto libri e sedie. Per il resto, l’appartamento si presentava esattamente come l’aveva lasciato una settimana addietro. Akira lo seguì nella stanza e facendogli un cenno lo portò verso la libreria che si trovava alla loro sinistra; qui gli mostrò una piccola telecamera nascosta in mezzo ai libri. Era identica alla stessa che Goro aveva adocchiato in cucina: grande quanto un pugno chiuso, nera e tondeggiante; sul retro uno dei trasmettitori di Futaba era stato inserito nel cavo di alimentazione ed emetteva una luce verde lampeggiante. Di fronte all’occhio della telecamera, le mani di Goro iniziarono a sudare. Lo sguardo che lanciò ad Akira dovette essere piuttosto eloquente, perché il ragazzo lo rassicurò e fece ruotare un indice in orizzontale, segno che le spiegazioni avrebbero avuto attendere.

Con passo felpato, Futaba fece capolino dal corridoio, occhiali a infrarossi sul viso e un altro dispositivo stretto in mano. Quando vide Goro, unì i polpastrelli di indice e pollice verso di lui come a chiedergli se fosse tutto a posto e con un accenno di incertezza lui rispose alzando il pollice in su. Con un sorriso soddisfatto, la ragazza riprese la ricognizione della stanza, avvicinando il dispositivo dallo schermo luminoso a diversi oggetti. I vasi di piante allineati sul davanzale sotto la finestra, il tavolino della televisione - la quale era già stata scollegata dalla corrente - il tappeto al centro della stanza. Quando arrivò al divano, lo schermo del dispositivo iniziò a lampeggiare. Futaba si fermò e fece cenno ai due ragazzi di avvicinarsi. Come previsto, Akira fu il primo a raggiungerla, muovendosi con passi leggeri.

Quando anche lui arrivò, Goro comprese al volo la situazione e Futaba confermò il suo pensiero mostrando loro un messaggio scritto sul suo smartphone: “Ce ne sta uno nei cuscini”. E quando diceva nei cuscini, intendeva proprio dentro. Akira si dedicò subito a rimuoverli con la maggior cura possibile: la corrente era tornata già da prima che Goro e gli altri uscissero dallo sgabuzzino, ciò significava che tutte le microspie ancora non rinvenute si erano riattivate. Fu facile individuare il cavo di collegamento alla corrente che sbucava da sotto uno dei cuscini dello schienale. Con un gesto deciso Futaba scansò Akira e tagliò il cavo utilizzando un paio di forbici dalle lame grandi e spesse. Il filo si spezzò senza proteste e Futaba non perse tempo ad accertarsi che non ve ne fossero altri, poi proseguì.

Goro si chiese quante microspie Shido avesse fatto installare in quell’appartamento in seguito alla sua scomparsa. Era sicuro che non ve ne fossero prima, ma ovviamente quell’uomo avrebbe voluto saperlo immediatamente se lui fosse mai rientrato in casa. Non poteva permettersi di farselo sfuggire, era il suo asso nella manica, dopotutto - gli serviva ancora. Goro storse il naso, stizzito e si guardò attorno. Ad essere analizzati e aperti o smontati erano stati anche quadri, lampade, scaffali, tende, orologi da parete. Cose così rumorose dovevano esser state fatte immediatamente, quando la corrente non era ancora stata ripristinata, e quello che non erano riusciti a rimettere a posto in tempo ancora giaceva sul pavimento. Per fortuna, il telefono fisso non lo aveva mai avuto, quindi era un fastidio in meno a cui pensare per tutti loro. Ora che non disponeva più di un telefono cellulare, tuttavia, Goro si domandò come avrebbe fatto per contattare i Phantom Thieves in caso di necessità. Se tutto fosse andato per il verso giusto, ne avrebbe parlato con gli altri alla fine dell’operazione.

Quando Makoto, Ann e Ryuji si unirono a loro all’ingresso, la più grande rivolse a Futaba un pollice alzato, la quale rispose facendole cenno di attendere. Preso in mano il telefono, scrisse un messaggio che poi fece passare a tutti loro: “Faccio un ultimo controllo, voi aspettate qui”. Così dicendo, si posizionò al centro della sala e, trascorsi alcuni attimi di silenzio, si schiarì rumorosamente la gola, osservando il proprio dispositivo. Nulla accadde e la ragazza, spostandosi in diversi angoli della stanza ripeté il test emettendo degli uhm o altri suoni che potevano passare come rumori accidentali. Fece altrettanto in cucina, nello sgabuzzino, nel corridoio, nel bagno e nella camera da letto, con il gruppo che osservava i suoi movimenti fin dove poteva senza seguirla nelle stanze. Al suo ritorno, Futaba si avvicinò a loro quasi saltellando lungo il corridoio e quando li raggiunse si lasciò andare in un sorriso a trentadue denti. «Ragazzi, è fatta!»

 

 

La tensione si era sciolta in un attimo. Per qualche tempo sentire di nuovo le voci di tutti riempire l’aria fu strano, ma Goro si sentì singolarmente felice della loro presenza. Dopotutto, era la prima volta da quando viveva lì che quelle quattro mura accoglievano tante voci diverse allo stesso tempo. La prima cosa che fece fu informarsi da Futaba di come fosse andata l’operazione e lei lo trascinò in camera, dove vennero seguiti poco dopo anche da Ann. Qui ogni cosa era fuori posto, dai libri alla lampada smontata sulla sua scrivania, a quella del comodino, per non parlare degli abiti riposti a terra fuori dall’armadio. La confusione era spiacevole a vedersi, ma sarebbe stato preoccupante trovare la situazione opposta.

«C’erano cinque telecamere, una in salotto, una in cucina, una nel bagno, una qui in camera e una nel corridoio. Per non parlare delle microspie, ne abbiamo collezionate una ventina. Shido deve avere proprio tanti soldi da spendere, peccato doverle buttare, sono modelli piuttosto avanzati,» spiegò la ragazza avvicinandosi al letto, dove aveva poggiato il laptop. Sullo schermo, scorrevano stringhe infinite di codici e cinque finestre rettangolari mostravano un’inquadratura ferma di diversi angoli della casa. Notando il suo sguardo, la ragazza aggiunse: «Non preoccuparti, è tutto a posto. Ho copiato le immagini delle registrazioni dei giorni scorsi e le ho sovrapposte alla registrazione in tempo reale. Non possono beccarci e in questa maniera non penseranno nemmeno che sia cambiato qualcosa. Per i minuti di blackout non possiamo farci nulla, ma dato che abbiamo coinvolto l’intero condominio il fatto che la corrente sia saltata non dovrebbe destare sospetti.»

L’entusiasmo con cui spiegava queste cose le faceva brillare gli occhi e a Goro venne da sorridere in maniera spontanea. Non riusciva a credere che tutti quanti, ma lei in particolar modo, si fossero impegnati tanto solo per permettergli di rimetter piede in casa sua.

«Non ho idea di come tu faccia, ma è davvero…» Prima che potesse concludere la frase, tuttavia, venne chiamato da qualcuno e la voce allegra di Ann precedette il suo arrivo nella stanza. Il ragazzo si voltò con un balzo di sorpresa.

«Akechi! La tua camera è così ordinata! Cioè, era, prima che la mettessimo sottosopra,» si lasciò andare a una risata divertita, «Mi piace molto, e ho potuto sbirciare un po’ tra i tuoi vestiti. Ora io ed Akira scendiamo a recuperare le buste con i nuovi acquisti. Appena rientro, prometto di darti una mano a rimettere tutto a posto.»

Goro sorrise, «Ma no, davvero. Non è necessario, si sta anche facendo tardi.» La ragazza non diede segno di accettare né di rifiutare la condizione e semplicemente uscì dalla stanza. Senza sapere lui stesso in che maniera si sarebbe svolto il resto della serata, Goro andò a sedersi sul bordo del letto, dove Futaba si era stesa. Dondolando i piedi a mezz’aria, la ragazza continuava a lavorare al computer; i suoi occhi scorrevano lungo lo schermo luminoso, mentre Goro si soffermò semplicemente ad osservare i tratti dei suo viso.

«Grazie per l’aiuto, con… le telecamere e il resto,» prese infine il coraggio di dirle. Futaba, richiamata dalla sua voce, distolse la propria attenzione da quello che stava facendo e si voltò per metà verso di lui. Per un attimo si guardò attorno come chiedendosi se stesse parlando proprio con lei.

«Figurati, non pensarci nemmeno,» rispose infine con nonchalance, «Potrai offrirmi qualcosa da mangiare nei prossimi giorni per sdebitarti.»

«Senza dubbio,» il ragazzo sorrise appena tra sé. Lei tornò al suo daffare e Goro si permise di sbirciare da sopra la sua spalla, «Cosa stai facendo, esattamente?»

«Programmo le registrazioni per le prossime ore, mi servirà del tempo per coprire più giorni, ma ora come ora riesco a coprire senza dubbio tutta la giornata di domani. Dovrò tornare per continuare a lavorarci su.»

«Non riesci a controllarlo da casa?»

La ragazza scosse la testa, «No, purtroppo i trasmettitori e il ricevitore riescono a collegarsi solo entro un raggio massimo di cinquanta metri.»

«Capisco, sembra roba complicata.»

«Lo è, devo dire che questo non è nemmeno il mio campo d’azione primario. Ho dovuto studiare per conto mio per riuscirci! Non succedeva da anni.»

«Penso tu sia una persona geniale, Sakura-chan. Anche se non si direbbe, io non riuscirei mai a imparare tante cose complesse in così poco tempo.»

La ragazza sorrise soddisfatta, «Eheh, grazie. È un bel complimento da parte tua.»

Goro si fissò le mani, timidamente. Dopo non molto tempo, si sentì bussare alla porta, il volto incorniciato da indomabili capelli corvini di Akira fece capolino sulla soglia. Assieme ad Ann, il ragazzo portò dentro le buste degli acquisti, poggiandole vicino al letto mentre la ragazza andava ad aprire l’armadio. «Volete del caffè? Posso prepararne un po’, se volete,» propose.

Le ragazze accettarono di buon grado, mentre Goro declinò gentilmente, consapevole che altrimenti non sarebbe stato in grado di dormire quella notte. Il resto del tempo passò più in fretta di quanto pensasse, non sapendo se esserne felice o meno. Ann si divertì molto a sistemare assieme a lui i vestiti, vecchi e nuovi, dentro i cassetti e sulle stampelle. Ancora una volta, Goro riuscì a sentirsi come una persona qualsiasi, con amici invitati a casa per festeggiare un buon voto, raccontarsi i segreti, giocare, restare a dormire assieme ma finire col guardare serie tv fino all’alba. Ne aveva sentite di storie così, ne aveva lette nei libri, viste nei film, e aveva sempre pensato a quanto gli sembrassero irreali e inverosimili.

Quando Akira e Ryuji rientrarono nella stanza per offrire a tutti il caffè, con Makoto che sorseggiava la propria tazzina ferma sulla porta, ormai avevano finito di riordinare e la camera aveva ripreso parte della sua familiare parvenza di ordine. L’unica altra persona a non bere il caffè fu Ryuji, al qualche non piaceva, ma che a quanto diceva aveva appena imparato come prepararne da solo. Che avesse chiesto ad Akira di insegnarglielo per poter fare colpo su qualcuno? Non che le sue motivazioni l’interessassero, si disse Goro. Non che Akira avesse mai fatto colpo su qualcuno preparando del caffè, giusto?

Il ragazzo in questione si sedette sul letto al suo fianco e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Akechi, scusami.»

«Dimmi tutto.»

«Hai un doppione delle chiavi di casa? Vorrei che le affidassi a me, per il tempo necessario.»

Dopo uno straziante momento di esitazione, Goro annuì. Pensava non avrebbe mai dato le chiavi di casa a qualcuno, nemmeno in circostanze simili. Sapeva che non vi era alcuna implicazione sentimentale, che era una mera esigenza pratica, ma il fatto che fosse Akira la persona a cui avrebbe affidato quelle chiavi l’imbarazzava molto più di quanto lo rassicurasse.

«Sono lì… nel secondo cassetto del comodino.»

«Ci starò attento, non preoccuparti.»

«Non ho dubbi al riguardo.»

Finalmente non vi fu più nulla da fare e i ragazzi si radunarono sulla porta d’ingresso, pronti a tornare ognuno a casa propria, tuttavia Goro prese il coraggio che gli era mancato fino a quel momento e fermò Akira e Futaba prima che uscissero. Seppur tentennando, decise di buttar fuori il peso che si era incastrato nel suo petto.

«Tornerete domattina?»

«Sì,» Akira lo guardò con uno sguardo chiaramente preoccupato. Goro si sentì stupido fin nel midollo, perché ne avevano già parlato e sapeva di star chiedendo l’ovvio. In realtà, il problema era soltanto che non sapeva da che punto cominciare.

«Ecco io… Vorrei che ci foste solo voi due, se è possibile. Ho bisogno di parlarvi.» Fissò lo sguardo su Futaba, che l’osservava con curiosità. Goro non sapeva davvero cosa la ragazza pensasse di lui, ma ormai sentiva che era giunto il momento di affrontare la questione. «Io, in particolare, vorrei parlare con te, Sakura-chan.»

Sentendo gli occhi pizzicare, abbassò lo sguardo. Odiava sentirsi così, ma era finalmente arrivato il tempo di rispolverare quel cassetto del suo passato. Forse allora se ne sarebbe potuto andare con un peso in meno sulla coscienza. Tornando a guardare Futaba, che stava lì, di fronte a lui, con sguardo silenzioso e in completa attesa, si maledisse perché entrambi avrebbero intravisto un lato di lui che aveva sepolto per anni.

«Ho bisogno di parlarti, riguardo tua madre.»









 

Note:

[1] Donburi: è un piatto giapponese a base di riso servito in una scodella assieme a pesce, carne, verdure, uova o altri ingredienti che vengono serviti sopra il riso. Donburi è sia il nome del piatto che della scodella nella quale viene servito. Ne esistono tantissimi tipi diversi, tra i più famosi l’okayodon, il katsudontamagodon e così via.




Note dell'autrice.
Salve a tutti! Questo quinto capitolo è davvero lungo, complimenti a chi è giunto fino in fondo! Ci tengo a spiegarvi bene alcune cose, quindi appongo questa nota: oggi è il 21 giugno e finalmente ho finito di aggiornare tutti i capitoli, ai quali ho dedicato una seconda lettura attenta nelle ultime settimane perché avevo bisogno di rileggerli prima di dedicarmi alla stesura del sesto capitolo. Cogliendo questa occasione, ho cambiato alcune cose: si tratta soprattutto della formulazione di alcune frasi e concetti, ma in altri punti anche piccoli dettagli e contenuti sono cambati. 
Questo capitolo 5 è stato il più soggetto a modifiche. Una mia amica mi aveva infatti segnalato delle falle logiche nelle idee che avevo trasposto in questo capitolo. Per chi ha avuto l'occasione di leggere entrambe le versioni, noterà che in questa ho aggiunto molti dettagli riguardarti la presenza di microspie nell'appartamento di Goro, punto sul quale avevo completamente sorvolato durante la prima scrittura del capitolo. Ringrazio moltissimo Lerenshaw da cui era giunto l'appunto e la mia carissima amica Mary che con tanta pazienza ha riletto i capitoli corretti, segnalandomi i refusi e i punti che meno le sembravano ben resi. Senza queste due persone, probabilmente, non sarei tanto spronata a fare del mio meglio. Ringrazio tantissimo inoltre tutte le altre persone che hanno dedicato parte del loro tempo a recensirmi e anche quelle che pur silenziosamente continuano a seguire questa storia!

Grazie a tutti, ci leggeremo presto con il prossimo capitolo!
Aspettatene delle belle!

Lumen Noctis

   
 
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