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Autore: Maki Tsune    12/02/2018    2 recensioni
Kattegat è cambiata dopo l'attacco a Parigi e i figli di Ragnar non sono più dei bambini, ma giovani ragazzi che hanno bisogno di conquistare la gente e di elevarsi oltre il nome del padre. Un nuovo personaggio, di mia invenzione, arriva a "confondere" gli animi dei principi e a conquistare uno di loro in particolare, o forse tutti. Cosa avrà in mente?
-Spesso, prendendo in considerazione gli episodi della serie tv.-
Genere: Azione, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Helea Firebender'
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Le foglie autunnali coprivano il manto erboso della foresta, cui la giovane donna contemplava mentre passava sul sentiero verso casa. Ad un tratto le venne in mente di portare un dono alla sua famiglia.
Con il sorriso sulle labbra e sicura di sé, si diresse in una zona lontana dal villaggio.
Le sue scarpe di cuoio ricoperte di pelliccia, per sopportare il freddo di quel luogo nascosto tra le montagne, scricchiolavano al passaggio sulle foglie cadute. E camminando ancora, contenta di respirare l’aria di quel posto familiare, trovò l’albero giusto per il regalo che voleva portare a casa.
 
Nel frattempo, più a largo, c’erano quattro fratelli che si allenavano tra di loro, con spade, asce, pugnali, arco e frecce. Si impegnarono anche nello scontro corpo a corpo, nel loro personale campo di allenamento che si erano creati da soli.
Quattro fratelli, principi, nonché figli di Ragnar Lothbrok.
 
Ivar era il più piccolo, nato con una malformazione alle gambe. Come suggerisce il nome che gli era stato dato, era senz’ossa. Per muoversi si spostava sulle proprie braccia trascinando il peso morto delle gambe. Però questo non lo ha fermato. È cresciuto diventando forte, non solo di corpo ma anche di spirito.
 
Di recente non correva buon sangue tra lui e il fratello maggiore Sigurd, il terzo in realtà tra i quattro. Si stuzzicavano a vicenda e Ubbe, il fratello maggiore tra i presenti, e Hvisterk, il secondo più grande di età, erano sempre con il fiato sospeso quando i due litigavano.
Sapevano come reagiva Ivar e a volte l’istinto lo sopraffaceva.
 
Ivar e Ubbe si sfidarono al tiro con l’arco.
Ubbe fu il primo a scoccare la freccia che finì nell’occhio del cinghiale ucciso. Con un sorriso beffardo e di sfida verso il giovane fratello e, soddisfatto del risultato, lo canzonò con lo sguardo.
Detto fatto, Ivar gli dimostrò di essere capace di far di meglio e, con una scoccata, la freccia colpì in pieno la pupilla del cinghiale morto, di cui rimaneva solo la testa appesa a una lancia vicino ai tiri a segno.
Ubbe ne fu molto sorpreso, avvicinando la testa e socchiudendo gli occhi per essere certo di quello che aveva visto. Esterrefatto, guardò il fratellino seduto sul ceppo e gli sorrise con un cenno di intimidazione ma fiero dei risultati del fratello minore.
Mentre loro si allenavano con arco e frecce, Hvisterk e Sigurd si allenavano corpo a corpo con le spade e i fendenti volavano uno contro l’altro così come le spade cozzavano durante i loro movimenti con le gambe.
Soddisfatti si fermarono e presero fiato.
Hvisterk notò dall’espressione di Ivar che voleva partecipare anche lui, così lo accontentò.
Ivar raccolse la spada accanto al ceppo dove era seduto e si mise in guardia.
Rimanendo tranquillo e seduto ma con anima agguerrita, si confrontò con il fratello che, nonostante si muoveva, non riusciva a penetrare la sua guardia. D’un tratto si ritrovò con la schiena contro Ivar e la lama della spada alla gola.
Hvisterk si tolse dalla presa e, come Ubbe prima di lui, lo guardò sorpreso; annuì e sorrise.
Ubbe aveva preso la brocca e un bicchiere cui ci verso dell’acqua e lo porse a Ivar.
Ivar si allungò per prendere il bicchiere colmo ma, Sigurd lanciò l’ascia verso la mano di Ivar cui colpì il bicchiere in legno facendolo cadere per terra e Ivar sussultò sbarrando gli occhi, non aspettandosi alcuna mossa. Lo aveva mancato.
Ivar guardò Sigurd con rabbia e di risposta il fratello maggiore sorrise beffardo. Il giovane fratello afferrò l’ascia dalla base del ceppo e lo lanciò contro il fratello con forza. L’ascia volò sopra la testa di Sigurd e, nonostante si abbassò di lato, urlò di dolore.
Sigurd si girò e vide l’ascia incastrata nel tronco dietro di lui. Ne rimase sorpreso e intimorito allo stesso tempo. Se non si fosse spostato leggermente, come aveva fatto, lo avrebbe colpito in pieno. E dallo sguardo di Ivar, ne aveva tutta l’intenzione.
Guardò il fratello con il rivolo di sangue che gli scendeva sulla fronte, una piccola ferita che gli aveva inferto. Lo sguardo di Ivar gli diceva che non era affatto intimidito da lui e il ghigno era un avviso: doveva star in guardia.
Sigurd guardò i due fratelli più grandi, ma non dissero nulla, anzi sembravano sorpresi quanto lui. Allora diresse lo sguardo stizzito verso Ivar e si allontanò toccandosi la fronte.
 
In quell’istante sentirono un urlo.
Si guardarono a vicenda, tutti e quattro, scambiandosi sguardi sorpresi e interrogativi.
Ivar fu il primo a parlare. “Non vi è apparso di…” fece una smorfia abbassando le labbra.
Hvisterk finì la frase del fratello “sentire un urlo?” annuì. “Sì, l’ho sentito.”
“Allora non sono l’unico. Pensavo di essermelo immaginato.” Disse Sigurd.
“Tu immagini troppo.” Lo canzonò Ivar. E i loro sguardi erano duri uno per l’altro.
“Io vado a controllare.” Disse Ubbe mettendo una mano all’ascia e procedendo verso la direzione dell’urlo.
“Vengo con te. Ti guardo le spalle.” Disse Hvisterk muovendosi con lui.
“Questa non me la voglio perdere. Chissà chi è arrivato fin qui.” Sentenziò Ivar curioso, scendendo dal ceppo e iniziando a strisciare le gambe, camminando sulle mani.
“Allora è meglio se alzi il passo, fratellino.” Sigurd camminò vicino a lui per deriderlo e lo superò canzonandolo. Ad Ivar però non andava giù e gli prese la caviglia per poi tirarlo e farlo cadere per terra di faccia. Sigurd mugolò per l’impatto.
“Vediamo chi arriverà prima, fratello.” Sogghignò Ivar riprendendo il suo cammino e superandolo a sua volta.
Sigurd digrignò i denti e alzò la testa con aria di sfida. Si rimise in piedi e iniziò a camminare con passo veloce nonostante Ivar fosse più avanti di lui.
Sigurd superò Ivar con un leggero sorriso soddisfatto e raggiunse Ubbe e Hvisterk che si erano fermati e si stavano guardando attorno dopo aver visto un corpo steso sulle foglie, vicino ai rami di un albero.
“Attenzione. Potrebbe essere un agguato.” Sussurrò Ubbe ai fratelli, muovendo dei passi lenti e leggeri girando su se stesso e aguzzando la vista alla ricerca di nemici. Gli altri fratelli lo imitarono, con la prima arma che si ritrovarono in mano.
“Non c’è nessuno. Altrimenti ci avrebbero già attaccati.” Disse Ivar sedendosi per terra e pulendosi le mani.
I tre fratelli abbassarono la guardia e in fila uno vicino all’altro, guardarono da poca distanza la giovane donna dai capelli corvini sparsi sul volto, cui era stesa per terra supina e le gambe verso l’albero alla loro sinistra.
“Sarà morta?” domandò Hvisterk, sempre brandendo la spada. Non si fidava.
“Oh… che peccato.” Disse Ivar alzando le spalle con finto dispiacere. “Possiamo tornare al nostro campo…”
Una forte inspirazione fece alzare loro la guardia e fecero un passo indietro con gli occhi sbarrati.
Il respiro si susseguì a tosse e i quattro fratelli rimasero in attesa e in silenzio mentre guardavano la giovane donna riprendere i sensi.
 
La donna gemette di dolore mentre iniziava a sentire di nuovo tutte le parti del suo corpo. D’istinto si portò la mano destra sulla spalla sinistra che se la sentì bruciare più del fuoco stesso. Si fece forza e si mise sul fianco destro dando le spalle ai principi, per poi mettersi sulle ginocchia piegando la schiena su se stessa e la fronte contro il suolo di foglie. Stava digrignando i denti per il forte dolore alla spalla sinistra e allo stesso tempo stava provando a dominarlo.
Non si era resa conto delle quattro presenze che la stavano guardando con curiosità, finché Sigurd non le domandò “Ti sei fatta male?”
Ivar alzò il sopracciglio assieme allo sguardo, verso la sua sinistra, per guardare il fratello con un’espressione incredula che gli diceva: ma che domande fai?
La donna staccò la fronte dal suolo e girò appena la testa alla sua destra, guardando quattro figure maschili tra i fili neri dei suoi capelli.
Alzò la testa e poi si drizzò con la schiena, rimanendo seduta sulle gambe. I suoi capelli mossi ripresero la loro posizione sul capo nonostante qualche foglia le era rimasta attaccata tra i capelli e sulle treccine sul lato sinistro.
Guardò i quattro ragazzi e li studiò abbozzando un sorriso dolorante.
“No.” Rispose sarcastica. “Sono solo caduta da un albero, di almeno…” alzò la testa con smorfie doloranti per contare i rami alti “…cinque rami, per puro masochismo. Come puoi vedere, sto benissimo. Un fiore.”
Ivar abbozzò un sorriso divertito percependo il sarcasmo nella sua voce.
La donna si rimise in piedi, sforzandosi per il dolore che sentiva in tutto il corpo e continuava a tenersi il braccio sinistro con la mano destra. Notando la slogatura, mostrarono una smorfia di dolore anche loro.
“Cosa ci facevi lassù?” domandò Hvisterk.
“Raccoglievo frutti.”
“Frutti? In autunno? Non ci sono tanti frutti in questo periodo.” Si intromise Sigurd.
La giovane donna li guardò senza rispondere, si avvicinò a uno di loro mentre le foglie cadevano da sole dai suoi capelli.
“Spero che il mio istinto non si sbagli.” Guardò Ivar e poi si avvicinò a Ubbe.
Ubbe spostò la testa appena indietro per vederla meglio, ora che l’aveva vicino.
Capelli neri come la pece, leggermente mossi. Con alcune treccine sul lato sinistro che, con i capelli dall’altro lato che le coprivano il viso, assumeva un senso di mistero con quel gioco “vedo-non vedo” che le incorniciava il viso chiaro. Assieme agli occhi cerulei che lo incantarono.
La donna lo guardò negli occhi per un istante e farfugliò un “Puoi…” facendogli segno con il dito verso la spalla, come se si vergognasse a chiedere aiuto.
“Posso…” ripeté Ubbe cercando di capire cosa volesse e guardò la lussatura. “…aggiustarti la spalla?” Si risvegliò dai suoi pensieri.
Annuì lei mordendosi il labbro inferiore per il dolore. “O devo chiedere a qualcun altro tra i presenti?” li guardò come se cercasse un volontario. “Forse tu?” si avvicinò a Hvisterk e notò la sua preoccupazione. “Avete paura di farmi male?” ridacchiò “Ohh..Più sofferente di così. E poi se non siete capaci, posso guidarvi io.”
Ivar scosse la testa incredulo e si scrocchiò le dita delle mani con un sorriso compiaciuto, bramoso di sentire sotto le dita lo scioccare della spalla. “Oh, andiamo. Vieni qui..” fece segno con le mani di avvicinarsi a lui.
La donna abbozzò un sorriso “Oh, bene. Qualcuno che ha lo stomaco di rimettermi il braccio a posto.” Si avvicinò ad Ivar e fece un profondo respiro prima di abbassarsi e affrontare il resto del dolore da ogni altra parte del corpo.
Ivar sorrise e ricambiò lo sguardo. “Ho la tua fiducia o uno storpio non è di tuo gradimento?”
“Non ti affiderei il mio braccio altrimenti.”
“Ivar, non dovresti farlo. Forse è meglio se si facesse visitare da qualcuno più esperto” intervenì Hvisterk.
“E chi? Floki? Qui ci siamo solo noi e ha chiesto aiuto a uno di noi.”
“L’hai già fatto altre volte?” chiese la donna sedendosi per terra.
Ivar abbassò le labbra “Può darsi.” Sogghignò.
“Sicura della tua scelta? Perché noi non rispondiamo di altri danni.” Domandò Sigurd.
“Sicura. È quello con la faccia meno spaesata tra di voi.”Disse guardando Sigurd, per poi posare lo sguardo su Ivar. “E poi mi dà l’impressione che queste cose non gli facciano schifo.” Ivar abbozzò un sorriso, cercando di tenerlo nascosto, e le tenne la spalla con una mano e il braccio con l’altra.
“Ivar…” si intromise Ubbe.
Ivar e la ragazza alzarono lo sguardo simultaneamente verso i ragazzi e loro si ammutolirono.
“Ho un forte dolore e non posso provvedere da sola. Mi serve subito una mano visto che ne ho una penzolante, perciò... ho bisogno di qualcuno che abbia la forza necessaria per questo compito.” Il suo sguardo stizzito si spiegava bene: non intromettetevi.
Ivar sorrise divertito. “Allora è un bene che ci sia qua io.” Guardò i fratelli con sdegno per un attimo.
Lei sibilò tra i denti e deglutì. “Procedi.” La donna guardò Ivar negli occhi e la mascella si fece rigida, pronta a subire il colpo.
Ivar la tenne in sospeso guardandola negli occhi per sapere se davvero avesse retto e se dicesse sul serio.
“Non sono così masochista da attendere ancora per molto.”
 “Lascia che te lo dica…” le spostò il braccio rimettendo la spalla al suo posto, senza nessun avvertimento. “Il tuo istinto è pessimo se ha chiesto aiuto a Ubbe.”
“Ugh!” La donna strinse i denti e ringhiò di dolore respirando a fatica tra gemiti di sopportazione. Il bruciore alla spalla avvampava, inspirava ed espirava con i denti stretti e il respiro udibile. Gli occhi lucidi, ma nessuna lacrima.
Il sorriso di Ivar rimase stampato sulle sue labbra nel vedere la giovane tenersi la spalla e con occhi chiusi affrontare il dolore. Non aveva urlato o perso i sensi come lui si aspettava e rimase colpito dalla sua tenacia.
“Ivar! Le hai fatto più male.” disse Hvisterk.
“Non credo. L’ho aiutata a stare meglio. Mentre voi cosa avete fatto eh? Vi siete incantati e non avete alzato un dito.”
La donna iniziò a ridere.
“Ecco. Ora è impazzita dal dolore.” Sigurd applaudì sarcastico al fratello mentre si allontanava da loro.
Lei guardò Ivar che aveva alzato gli occhi al cielo in risposta al fratello e continuò a ridere, ma presa dal dolore iniziò a tossire. “Ah… che male.” Mugolò e poi guardò Ivar con i suoi occhi glaciali. “Hai la mia riconoscenza, Ivar. Doppia.”
“Mnn, doppia.” Sorrise. “Ci ho guadagnato qualcosa?” domandò beffardo.
La donna abbassò le labbra “Può darsi.”
Il ragazzo si morse il labbro inferiore come se non volesse far trapelare il sogghigno che spuntò lo stesso dalle sue labbra e vide la donna rialzarsi nelle sue vesti da vichinga: bracciali in cuoio, gilet in pelle, camicia azzurra e pantaloni scuri nei suoi stivali in cuoio ricoperti di pelliccia di coniglio. Fece movimenti al braccio ferito e tornò sul letto di foglie dov’era caduta.
Ivar alzò le sopracciglia e le riabbassò subito assieme a un mesto sorriso, curioso di sapere cosa fosse.
C’erano mucchi di fazzoletti in stoffa bianca, con la forma d’aglio, sparsi attorno alla sua borsa in pelle. Si abbassò ancora dolorante, prese un fazzoletto colmo di castagne e le offrì a Ubbe.
“Perché lo porgi a lui e non a me? Sono io che ti ho sistemato il braccio.”
La donna lo guardò mestamente. “Perché non mi va di piegarmi di nuovo.”
“Ah, quindi lo storpio è tornato a essere uno storpio.” Ironizzò.
“Non essere sciocco. Ho già dolori ovunque e non voglio fare altri sforzi.”
“Scusami. Chi è caduto dall’albero e sarebbe lo sciocco tra i due?”
Lo ignorò per un momento e Ivar sogghignò. “Sapete come funziona? Aspettate nove giorni prima di mangiarli e immergeteli nell’acqua. Accendete un fuoco, intagliate le castagne e lasciatele abbrustolire sul fuoco. Quando il guscio dove è stato inciso inizierà ad aprirsi, allora potete gustarle.”
“Tutto qui? Castagne?” domandò Ivar.
“Fidati tu, ora. Sono le migliori castagne di tutta Kattegat.” Si volse verso di lui.
“Conosci Kattegat?” domandò Ubbe, mentre sentiva il peso del fagotto con entrambe le mani e il lieve pungere dei ricci.
“Certamente.” La donna iniziò a guardarsi attorno mentre si toccava il fianco e, in mancanza di quello che stava cercando, guardò per terra. Non trovando l’ascia, alzò lo sguardo e sbuffò.
“Certo che avrà sentito di Kattegat, ormai tutti la conoscono per le imprese di nostro padre.” Rispose Sigurd con tono ovvio.
“Non potevi raccogliere le castagne da terra invece di arrampicarti? Non saresti caduta.” Chiese Hvisterk.
“E che divertimento c’è?” Lo guardò con un sorriso divertito. “E comunque quello che stavo facendo si chiama abbacchiatura. Immagino non siate contadini.”
“Dipende. Da cosa lo avresti capito? Dall’ignoranza in materia di Hvisterk o dalla stupidità di Sigurd nel nominare nostro padre?” Le frasi di Ivar erano diventate più taglienti e la donna gli rivolse un sogghigno.
“L’unica cosa da sapere è: chi è lei?” Sigurd si mise davanti a lei con le braccia conserte.
La giovane donna rivolse un sorriso ironico verso Sigurd “allora sei sveglio.”
“E tu non hai risposto.”
“Sono…” Ci pensò un attimo, rivolgendo il labbro inferiore verso l’alto e lo sguardo perso in cerca di una risposta valida “…una persona che passava di qui per le castagne.” Lo schernì mentre da dietro la schiena estrasse i suoi pugnali dalle fodere posizionate a croce.
“Cosa vuoi fare? Non sei nelle condizioni…” Sigurd fu interrotto mentre fece un passo indietro e alzò la guardia “Oh, ma non sono per te queste. Mi avete aiutata, non hai bisogno di temermi.”
“Non è paura. È che non mi fido di chi non conosco.” Rispose Sigurd.
“Bene. Allora fatti indietro, ho bisogno di spazio.” Fece roteare i pugnali tra le mani.
Ivar corrugò la fronte e studiò dove fosse diretta. “Che vuoi fare?” chiese notando la sua posizione di scatto, con il piede avanti, l’altro dietro e le braccia alzate.
“Zitto. Mi deconcentri.”
Ivar alzò le braccia in aria e abbassò le labbra “Non è affar mio se poi ti rompi qualcos’altro. Non ti aggiusto di nuovo se ti farai male. Mi hai sentito? Non contare su di me.”
La donna sospirò pesantemente e guardò l’albero, poi il ramo in alto dove la sua ascia era rimasta conficcata. Doveva recuperarla e Ivar, che aveva una visuale diversa, aveva intuito il motivo del suo folle intento con un braccio ridotto in quello stato: livido e privo di forza, si sarebbe fatta ulteriormente male.
“Cosa…” Ivar interruppe Ubbe con un forte “SSH” alzando il dito sulle labbra. Il fratello cercò di capirne il motivo e fu aiutato dallo stesso fratellino cui gli fece cenno con la testa di guardare la ragazza. Così i fratelli rimasero in silenzio a vedere il folle piano messo in atto.
 
La donna partì e corse verso l’albero, si diede la spinta sul tronco con l’aiuto del piede e il salto la fece salire vicino al ramo dove conficcò i pugnali nel tronco e, con i piedi tra il tronco e l’addome, si diede un’altra spinta estraendo i pugnali da esso. Stava per compiere una capriola in aria ma la arrestò afferrando il ramo tra le gambe e la testa in giù con i capelli sparpagliati verso il suolo, rinfoderò i pugnali dietro la schiena e allungò le mani all’ascia incastrata nel ramo. Con un enorme sforzo, nonostante i muscoli tiravano in tutto il corpo e bruciavano per le fitte, riuscì ad estrarla rimanendo a penzoloni.
Lasciò cadere l’ascia per terra, lontano dal letto di foglie e dai principi, si fece dondolare. Inarcò la schiena indietro, al momento giusto sciolse la presa dal ramo aggrappatasi con le gambe e cadde sui piedi ma lo sforzo e il pendio la destabilizzarono e cadde all’indietro sul letto di foglie compiendo una giravolta, trovandosi a gattoni, alzò la testa con una smorfia dolorante. Ansimò e si rimise subito in piedi facendosi un massaggio al braccio.
Ivar applaudì ironico. “Dire te lo avevo detto, è sempre una grande soddisfazione.” Sorrise molto colpito dalle capacità della donna. E lo erano anche i suoi fratelli, che la guardavano con la bocca aperta.
“Davvero impressionante” Sussurrò Ubbe rapito.
“E tu fai questo tutte le volte che raccogli le castagne?” chiese Hvisterk indicando l’albero con il dito.
La ragazza ridacchiò e spostò la mano destra dal braccio sinistro al fianco destro all’altezza delle costole. Ridere le provocava degli spasmi in tutto il corpo e le gambe iniziarono a tremarle per lo sforzo.
“Diciamo che dipende dall’albero.” Sogghignò andando a prendere l’ascia e mettendola al suo posto, vicino al suo fianco.
Ubbe lasciò il fagotto a Hvisterk e andò ad aiutarla recuperando la borsa in pelle per lei, dove mise la raccolta di castagne. Sorpresa per il gesto, annuì come ringraziamento e prese la borsa mettendola a tracolla sulla spalla sana.
“Dove sei diretta? Magari possiamo accompagnarti.” Si offrì Ubbe.
Sigurd rispose subito “Parla per te”.
I fratelli lo guardarono.
“Oppure…” azzardò Hvisterk “C’è una capanna nei paraggi. È nostra, ma può essere un buon rifugio se il viaggio è lungo.”
La donna rimase in pendenza sulla pianura in cui si trovavano e li guardò.
“Grazie, ma avete fatto già abbastanza. Non mi serve altro aiuto.”
“In realtà ho fatto più io che loro, ma se hai fretta di andare vai pure. Andiamo, torniamo alla capanna.” Ivar si trascinò per qualche passo e notò che i fratelli non si mossero. “Allora? Vogliamo andare? Ha già fatto una scelta, perché restate impalati?” Ivar gesticolava.
“Per una volta sono d’accordo con lui.”
Ivar incredulo guardò Sigurd. “Oh. Bene.” Fissò gli altri due. “E voi? Avete intenzione di raggiungerci?”
Ubbe provò a ignorarlo e cercò di convincere la donna andandole contro. “Hvisterk ha ragione. Se il viaggio è lungo puoi stare con noi… da noi… abbiamo l’occorrente per una persona in più.”
“Voglio solo tornare a casa.”
“Ed è distante?” si intromise Hvisterk poco più dietro del fratello.
La donna sorrise compiaciuta dalla loro premura, mentre gli altri due fratelli scossero la testa alzando gli occhi al cielo e ripresero il loro cammino. Anche se Ivar dava un’occhiata indietro.
“No, non è distante. Ve l’ho detto, sto bene. Non mi serve altro aiuto. Non mi piace essere in debito più del dovuto, ma apprezzo la vostra ospitalità.”
“D’accordo. Se hai già deciso…” Hvisterk appoggiò la mano sulla spalla del fratello. “Dai andiamo.”
Ubbe annuì deluso e la lasciò andare. “Buon ritorno a casa.”
“Grazie, Ubbe.” Sorrise anche a Hvisterk e diede loro le spalle incamminandosi.
Ognuno tornò sui suoi passi e mentre Ubbe seguì i fratelli minori, si rese conto di una cosa.
Si fermò di scatto e si girò indietro, notando la ragazza più distante.
“Ubbe, che ti prende?” il fratello guardò Hvisterk.
“Mi sono reso conto di una cosa” corrugò la fronte.
“Ed è importante?” chiese Hvisterk.
“Direi di sì” annuì sogghignando. “Non sappiamo come si chiama.”
Anche Hvisterk ci pensò e sorrise. “Hai ragione. Ci siamo comportati in modo insolito, non trovi?”
Ubbe gli diede ragione. “Già. E non ci siamo neanche presentati. Davvero insolito.”
“Forse dovrà rimanere un mistero.”
“Stai dicendo che forse è la volontà degli dei, eh Hvisterk?”
“Tu lo credi? Ammetto che ne sono rimasto affascinato e forse per questo non ci abbiamo fatto caso.”
“Troppo distratti per chiederle il nome?” ridacchiò Ubbe.
“Non ti ha colpito? Sei stato il primo a balbettare quando ti si è avvicinata.”
“Cosa? No! Non è vero.” Ridacchiò Ubbe nervoso. “Mi ha colto alla sprovvista. A parte noi e Bjorn è difficile trovare qualcuno quassù.” Hvisterk e Ubbe si riunirono ai fratelli.
“Comunque ha colpito tutti.” Sentenziò Hvisterk.
“Come no. Da come la guardavate, sembravate pesci lessi. Come se non aveste mai visto una donna.”
“Avanti Ivar, vuoi dire che a te non ha sorpreso? Non ti è piaciuta nemmeno un po’?” Chiese Hvisterk.
Ivar ghignò per non far trapelare un sorriso imbarazzato. “Dipende cosa intendi. È molto... atletica.”
“Non intendevo solo di bravura, ma anche di aspetto.”
“Fisico? Beh, con un braccio rotto…” ridacchiò.
“Dovresti essere l’ultimo a parlarne. Almeno a lei il braccio guarisce.”
“Dai Sigurd.” Hvisterk lo spinse per la cattiveria detta e Ivar lo squadrò.
“Solo per questo, stareste bene insieme.” Sigurd continuò a stuzzicarlo.
Ivar cercò di mantenere la calma, ma gli dava fastidio. “Nah. Non credo sia il mio tipo.”
“Perché tu avresti in mente una donna ideale?” Sigurd rise.
“Cosa vorresti dire?” Ivar lo fulminò.
Sigurd abbassò lo sguardo verso di lui. “Dico che forse... farai fatica a trovare una donna.”
“Perché sono uno storpio, non è così? È questo che intendi?”
Fece spallucce. “L’hai detto tu.” Ridacchiò Sigurd mentre Ivar lo guardò truce.
“Non c’è bisogno di litigare. E comunque non ci credo. L’unico che non ha colpito è Ivar?” sogghignò Ubbe.
“Da come la guardavate, sembrava ve la stavate contendendo.” Rispose Sigurd.
“Giusto fratellino. Tu hai avuto dubbi su di lei, ma ne sei rimasto sorpreso anche tu, non è vero?” Hvisterk gli saltò alle spalle mentre camminavano e ridevano tra loro.
“L’ho già detto. Non mi fido delle persone che non conosco. Se n’è andata. Fine.”
“Sempre diretto e conciso.” Sigurd guardò Hvisterk con un sopracciglio alzato e un sorriso che si stava formando.
Il fratello scosse le spalle del fratellino “Lo sapevo. Ha colpito anche te.” Hvisterk ridacchiò.
“La volete smettere? O dovete parlare di quella donna per tutta la giornata?” domandò Ivar stufo.
“Mnn… non saprei. A quanto pare quella donna non avrà un nome e forse non lo avrà mai perché neanche tu hai pensato di chiederglielo. Questo mi fa pensare che sotto sotto ha colpito anche te. Perciò, se ci andrà bene, dovremo aspettare di incontrarla di nuovo. Non vi interessa scoprire chi è?”
Ivar ci pensò e voleva rispondere no, ma non ne era sicuro. “Se non la smetti, ti colpisco io.” Ghignò.
Sigurd rispose secco. “No. E spero di non incontrarla.”
“Perché ti ha messo paura?” ridacchiò Ivar prendendo la sua rivincita.
“Ripeto che non ho paura di lei. È solo che non mi fido e anche voi non dovreste fidarvi.”
“Lo abbiamo capito, Sigurd.” Sospirò Ubbe.
“Sicuri? Perché ho la sensazione che vi mettereste nei guai per lei.”
Ivar ridacchiò “Parla per te, fratello. Non tutti si fanno incantare come voi.”
“Voi chi? Loro, vorrai dire” Sigurd lo corresse.
“D’accordo. Ora basta. Argomento ragazza senza nome chiuso per adesso. Hvisterk può aver ragione. Magari non la vedremo più e ci stiamo ponendo domande e problemi per nulla. Torniamo alla capanna e facciamo ciò per cui siamo venuti qui.” Concluse Ubbe.
“Era ora. Finalmente si ragiona. Ma questa volta voglio proprio vedere se farete ciò che bisogna fare.”
“Ivar, non eri tu a voler chiudere il discorso?” Ubbe lo guardò.
“Mnn, sì… ma volevo infierire ancora un po’” Sogghignò, mentre arrivarono nella radura e videro la capanna.
“Io mi faccio una dormita. Ho già fatto abbastanza, per oggi.” Ivar li guardò dal basso e accennò un ghigno mentre i fratelli scossero la testa: sempre il solito.
 
Ivar si mise a dormire, Hvisterk mise il fagotto con le castagne nella capanna e gli altri fecero ciò che dovettero fare.
Finchè non arrivò Bjorn a cavallo.
Ubbe si affacciò all’interno della capanna “Ivar, svegliati. È arrivato Bjorn.”
Quando Bjorn salutò i fratelli, si misero poi a parlare tutti insieme di loro padre, Ragnar.
Erano sistemati fuori, al cielo aperto e nuvoloso. Ivar era sdraiato su un mucchio di fieno, Bjorn era seduto e poteva osservare i suoi fratelli; chi in piedi e chi seduto. E fu così che Bjorn diede loro la notizia cui Ragnar sapeva dell’insediamento lasciato nel Wessex, massacrato dopo il loro ritorno a Kattegat.
E iniziarono a parlare di Ragnar; di quanto fosse un buon padre, un buon re e un buon uomo e che non si aspettavano una cosa del genere da lui tanto da non crederci e, cosa fatta notare, che come uomo è lecito fare errori, anche se la maggior parte lo ritiene un discendente di Odino.
 
 
La donna guardò il villaggio dall’alto della collinetta. “Kattegat. Non si direbbe, ma non sei cambiata.” Pensò la giovane donna con un leggero sorriso di nostalgia sulle labbra mentre i suoi capelli scuri sventolavano nella fresca brezza e gli occhi cerulei contemplavano il panorama delle montagne e dell’immensa acqua che toccava fino al porto, respirando l’aria di casa.
Camminò sul sentiero e passò sotto l’arco d’entrata per il villaggio e, mentre passeggiava verso un punto stabilito, guardava i suoi compaesani al servizio della quotidianità. Tra allevamenti e vendite del pescato e della caccia del giorno, sentì dei brusii riferiti a lei mentre passava di lì e la guardavano con la coda dell’occhio. Sentì addirittura un sorpreso “No, non è lei. Non ci credo.”
Eppure era proprio lei.
Se ne resero conto quando si fermò davanti la casa del mastro fabbro più richiesto di Kattegat negli ultimi anni e lasciò cadere la sua borsa di cuoio dalla spalla.
Il tintinnio del ferro si bloccò di colpo mentre sul volto sorpreso dell’uomo si manifestò incredulità.
“Fa sempre caldo, come il primo giorno che me ne sono andata. È sempre un piacere sapere che certe cose familiari non cambiano mai.” Disse la donna con un beffardo sorriso sulle labbra.
L’uomo guardò la ragazza e la guardò per bene. Quando la riconobbe sgranò gli occhi. “Helea. Sei… tu?”
“Sì, padre. Sono io.”
Il padre appoggiò il martello con non curanza sul bordo della fucina a cerchio, aperta al centro della stanza senza mura ma con un tetto sulla testa, lasciò cadere la spada di nuovo nel fuoco per andare ad abbracciare la figlia.
“Come ero in pensiero figlia mia. Sei viva!” Disse l’uomo barbuto dai capelli corti castano scuro, sollevato di rivedere la figlia la strinse a sé con amore e calore. Molto calore, visto il sudore e la lavorazione con il fuoco.
Lei strinse i denti per il dolore. “Mi dispiace avervi fatto preoccupare, ma sono stati anni intensi.” Abbracciò con piacere suo padre, nonostante le fitte. Era da tanto che non sentiva un affetto così sincero e quasi si commosse, ma si trattenne.
“Ora che sei tornata, dobbiamo festeggiare. Tutti insieme.” Disse il padre prendendola dalle spalle.
“Ugh. Tutti insieme? A casa è tornato anche Thorodin?” Domandò speranzosa e dolorosa.
Il padre abbassò lo sguardo, quasi deluso. “N-no. Ecco… da quando te ne sei andata, sono cambiate molte cose ed è giunta l’ora di colmare quel vuoto.”
“Padre, mi state preoccupando. È successo qualcosa a Thorodin?” Helea si sentì all’improvviso un groppo in gola.
“No. Tuo fratello sta bene. Anche gli altri stanno bene. Io stavo parlando, ehm… delle vicende di Kattegat.”
Helea sospirò sollevata. “Padre, pensate davvero che dove sono stata non sono giunte notizie della scomparsa di Ragnar?” sorrise divertita. “Non sono poi così fuori dal mondo come credete. Saranno passati anni, ma mi sono tenuta informata di proposito.” Diede un bacio sulla guancia del padre. “Ora scusatemi padre, ma il viaggio è stato molto lungo e vorrei riposarmi un po’. E voi avete una spada da dover forgiare prima che si sciolga del tutto.” Ridacchiò dandogli una pacca sulla spalla.
“Oh… la spada!” Come se si fosse svegliato da un sogno, tornò alla sua postazione e riprese il suo lavoro cercando di salvare quel che rimaneva della spada.
La figlia si caricò la borsa in spalla e entrò in casa. Tutto era rimasto come lo aveva lasciato.
Più o meno.
 
“Ridammelo! Non è tuo Helorn!” si lamentò una voce femminile.
“Non è nemmeno tuo! È di nostra…” il ragazzino guardò dietro la sorellina e abbassò il tono di voce “…sorella.”
“Cosa?” La bambina si girò e vide una ragazza sulla soglia di casa che stava osservando il loro giro tondo attorno al tavolo. Spalancò la bocca non credendo ai suoi occhi.
“T-tu… sei nostra sorella maggiore, vero? Helea, giusto?” domandò il ragazzino.
“Ehm. Direi di sì. E voi… miei fratelli?”
“Sì! Io sono Helorn! E non vedevo l’ora di poterti conoscere. Mentre lei è Heladis e non credeva alla tua esistenza. Ho cercato di tenerla lontana dai tuoi effetti personali.” Poi guardò ciò che aveva nelle mani. “Oh, ecco. Prendi. Questa è tua.” Helorn si avvicinò alla sorella maggiore porgendole la bambola di pezza con i capelli di paglia.
Helea sorrise e la prese tra le mani guardandola bene. Ricordava le notti di paura e l’affetto che cercava quando si sentiva sola, ma ormai apparteneva al passato.
Si inginocchiò e guardò i due bambini. “Sapete la storia di questa bambola?”
I due bambini la guardarono con i loro occhi azzurri, entusiasti di conoscere la storia. “Vedete, questa bambola è di nostra sorella maggiore che non c’è più da molto tempo. Io la tenevo stretta a me quando ne avevo bisogno, pensando così di poter parlare con lei e di ricordarla sempre.” Guardò la sorellina. “Perciò, ora voglio passarla a te. Credendo che te ne prenderai cura e le vorrai bene come fosse una parte di nostra sorella.”
Porse la bambola a Heladis e lei non riusciva a trattenere l’emozione, con gridolini acuti trattenuti dalle labbra, afferrò la bambola e abbracciò la nuova sorella.
“Grazie, sorella. Le vorrò bene per sempre. Uhm. Come si chiamava nostra sorella?”
“Synnøve. È morta a otto anni quando c’è stata una strana epidemia. Una influenza che colpì molti e alcuni morirono. Alcuni pensano sia passata la dea Hel. Nostro padre non vi ha parlato di loro?” domandò sorpresa.
“Loro?” domandò Heladis.
“Quanti altri ci sono?” chiese Helorn.
“Øyvid e Kjell i gemelli che morirono a dieci anni durante l’attacco di Jarl Borg e Vegard che morì durante il parto. Non ne sapete nulla?”
“Da quando la mamma sta male, non ha parlato molto in generale.”
“La mamma sta male?” Domandò Helea a Helorn.
“Sì. Non lo sapevi? Non ti sono giunte notizie? La mamma sta nel letto da qualche anno ormai.”
Helea rimase un attimo in silenzio. Non aveva ricevuto nessuna notizia se non la visita inaspettata del fratello più grande, Thorodin. Ma lui non le raccontò nulla della situazione a casa. Disse solo che stavano bene e che non doveva preoccuparsi.
“Sapete cos’ha?” chiese con il cuore agitato e lo sguardo verso il letto dei genitori coperto dalle tende.
“No. Dicono che non deve più sforzarsi.”
“Chi lo dice?”
“Floki” intervenì Heladis.
Helea cercò di calmarsi e di trovare la lucidità. “Abbiamo molto di cui parlare.” Si tolse la borsa dalla spalla, lasciandola vicino la porta e si rialzò dolorante. “Facciamo così, io ora vado a riposarmi un po’. Quando mi alzo ne parleremo ancora.”
I fratelli sorrisero e annuirono, poi la abbracciarono insieme.
Helea li guardò sorpresa e Helorn le sorrise “Ben tornata a casa sorella.” Ricambiò il sorriso e carezzò le loro teste: quella castana del bambino e quella bionda della bambina.
Helea guardò i letti e li contò. Tre. Ingoiò il sorriso amaro e capì che non avrebbe più dormito in casa.
“Se vi serve qualcosa non esitate a svegliarmi. Vado a dormire nella fattoria. Quella c’è ancora vero?”
“Sì, ci sta lavorando Reidar.” Rispose Helorn.
“Bene. Allora posso fargli qualche scherzo di ben tornato.”
“Come?” chiesero.
“Non vi preoccupate. È una cosa tra me e Reidar. Voi tornate pure a giocare.”
Helea uscì di casa e costeggiò il fienile, per poi fermarsi alla soglia. Si affacciò, cercando il fratello maggiore con lo sguardo senza farsi scoprire e lo vide di spalle mentre nutriva le pecore e le capre.
Pecore e capre belavano a Reidar alla ricerca di più cibo e Helea approfittò del rumore per avanzare nel fienile con passo felpato.
“Buoni, buoni. Ce n’è per tutti.” Il suo tono era grave e annoiato e non si accorse di nulla.
Non si accorse della sorella che prese un rastrello e lo mise dietro di lui, ai suoi piedi, per poi scappare sulle scale e salire al piano di sopra mettendosi seduta con le gambe a penzoloni.
Avevano creato un piano superiore fatto di assi in legno sostenute da travi su tutto il perimetro del tetto, raggiungibile con una scala in legno, per poter osservare il bestiame dall’alto e creare posti in più per dormire. E specialmente per dare più spazio a Thorodin. Ma bisognava far attenzione perché era tutto aperto e si poteva cadere di sotto. C’era solo un basso parapetto nella zona del letto in fieno, cosicché, se uno dormiva, non sarebbe caduto di sotto quando si sarebbe girato nel sonno. Mentre sul tetto avevano installato due vie di fuga nei due punti lontani uno dall’altro, con una piccola finestra segreta in legno.
Helea era seduta vicino le scale, senza parapetto, che guardava il fratello darle ancora le spalle ignaro di tutto. Sapevano che c’era una capra che si spaventava ai rumori acuti, specialmente se improvvisi. Così Helea mise due dita in bocca ed emise un fischio.
Come pensava, la capra si spaventò e andò a sbattere la testa contro il recinto facendo indietreggiare il piede di Reidar che, nel calpestare il rastrello, il bastone si alzò e colpì la nuca del ragazzo. Il giovane urlò per la botta e si spostò per vedere cosa fosse successo mentre si massaggiò la nuca corvina.
“Vedo che hai perso il tuo tocco nel corso degli anni.”
Il ragazzo alzò lo sguardo e nella leggera penombra vide una ragazza seduta al piano di sopra, con un sorriso largo e trattenuto a stento, compiaciuta per lo scherzo riuscito.
“Helea?” si girò guardando il rastrello e ghignò verso la ragazza. “Se quello è opera tua, devi rivedere i tuoi scherzi.”
“Ma intanto ha funzionato.” Sogghignò, scendendo dalle scale. “Da lassù ho visto tutto per bene. Non ti sei accorto di nulla, eh.”
“Volevo fartelo credere. Sapevo che c’era qualcuno e sono stato al gioco.”
“Certo, certo. Ripetilo pure se è quello che credi, ma io sono migliorata e tu hai perso il tuo tocco.”
“Non ne sarei così certo. Ora che sei tornata, ho tanti scherzi da dover recuperare.” Ridacchiò.
“Non ci provare nemmeno. Questa volta non te li faccio passare così facilmente, sono più agguerrita che mai e devi pagare per tutti gli scherzi che mi hai fatto.”
“Contaci. Se è quello che vuoi credere.” Le diede una pacca sulla spalla sinistra e lei fece una smorfia.
“Che succede? Sei appena tornata e ti sei già fatta male?” domandò divertito.
“Non ho nessuna voglia di darti soddisfazioni. Voglio soltanto andare lassù e riposarmi per il lungo viaggio. Poi dobbiamo parlare.”
“Parlare?” domandò il fratello. “Di co… Oh, aspetta. Helorn e Heladis vero? Vuoi sapere come ti ritrovi ad essere la sorella maggiore da un giorno all’altro?” Ridacchiò.
“Sì, più o meno. Anche di quello. Ma voglio sapere cosa è successo in mia assenza in questa famiglia. Kattegat sarà rimasta uguale al di fuori, ma dentro e tra le persone e in questa casa è cambiata del tutto.”
Reidar sorrise compiaciuto. “Ora ho una sorella tosta. Bene. Sarò felice di scoprire cosa è cambiato anche in te, sorella. Come hai ben detto, è cambiato tutto. È meglio se ti abitui.”
Il fratello colse il dispiacere negli occhi della sorella e con un leggero sospiro alzò gli occhi e poi aprì le braccia.
Helea lo squadrò. “Cosa stai facendo?”
“Non chiedere. Fallo e basta prima che cambio idea.”
Helea sorrise. “Non è da te. Sicuro? O è uno scherzo?” lo guardò diffidente.
“Cinque, quattro, tre...”
Helea lo guardò con un leggero sorriso. Accettò il gesto e lo abbracciò. “Devo andare via più spesso?”
“Non prenderci l’abitudine.” Chiuse l’abbraccio. “Bentornata a casa, Helea.”
“Ammetti che ti sono mancata?” sorrise sempre più divertita.
“Sei pur sempre mia sorella. Sono lieto che stai bene. O almeno per metà.” Ridacchiò sciogliendo l’abbraccio. “E poi… a chi potevo fare gli scherzi? Mi sono annoiato a morte.” Rise ancora.
Helea sorrise e si massaggiò il braccio. “Io ti ho avvertito. E ora, se permetti, vado a riposarmi un po’.”
“Prima dovresti aggiustare il braccio.”
“Con una fasciatura? Non è molto d’aiuto.”
“Oh, ma che sorpresa. Che fine ha fatto la bambina paurosa? Sei proprio diventata orgogliosa e tosta eh. Ma sai bene che se non si cura in tempo può peggiorare. Lascia che dia un’occhiata.”
“Sei diventato un esperto?”
“Non proprio, ma ho dovuto imparare qualcosa in più. Allora?”
Helea sbuffò e gli mostrò la spalla spostando il pezzo di stoffa che lo copriva. Si era formato un grosso livido violaceo.
Reidar sospirò. “Sei tornata da pochi istanti e sei già messa così male. Hai battuto te stessa.”
“Smettila di fare il sarcastico. Vuoi aiutarmi o no? Altrimenti vado a letto.”
Reidar alzò un sopracciglio e aggiunse una smorfia di dissenso. “Credo di aver capito perché passavi molto tempo da Floki e Helga. Aspetta qui.” Andò a prendere gli ingredienti da dentro casa e Helea lo aspettò nel fienile. Si guardò attorno e rivolse le spalle alla porta.
Dall’entrata grande entrava la luce, così come dalle fessure in legno illuminavano il posto.
Sulla sinistra c’erano gli attrezzi del lavoro, con i cesti delle raccolte di frutti di stagione e la scala appoggiata all’asse che portava al piano di sopra. Si avvicinò al lato destro dove era tutto affiancato dal recinto di animali.
Allungò la mano destra e accarezzò il manto bianco delle pecore che belavano; le capre si prendevano a testate per mangiare il fieno che Reidar aveva gettato nel recinto. Divertita, Helea afferrò un ciuffo di paglia dal cumulo che il fratello aveva creato accanto alle capre ed esse si avvicinavano per mangiare. Poi proseguì verso il cavallo rinchiuso nel suo spazio e lo guardò con il muso di fuori.
Stava agitando la coda nera a destra e sinistra e sbuffò alzando il muso verso Helea. Voleva una carezza anche lui.
Helea avvicinò piano la mano al muso e carezzò il manto rossiccio del cavallo in mezzo agli occhi scuri, divisi da una striscia bianca verticale dalla fronte al naso. “E dire che avevo paura di te da piccola.” Sussurrò con un leggero sorriso e il cavallo emise un altro sbuffo.
Helea sorrise. “Sì, mi sei mancato anche tu. È bello vedere che stai bene, Arne.” Udì le galline chiocciare nella loro zona, sotto le assi, mentre beccavano il mangime.
Reidar tornò con una mistura puzzolente e di un colore per niente invitante. “Ecco, vieni che ne spalmo un po’ sulla spalla.”
Helea si girò verso di lui e si avvicinò. Il cavallo era contrariato per aver interrotto le carezze e nitrì.
I due padroni sorrisero e poi la ragazza iniziò a tossire per il tanfo. “Sicuro che quella cosa faccia bene? Preferisco il tanfo degli animali a quel miscuglio. L’odore non mi farà dormire.”
“Hai finito di lamentarti? Questa mistura è fatta apposta per la tua spalla.”
Helea mise il broncio e poi si abbassò la spallina azzurra della camicia mostrandogli la spalla, cercando di allontanare il più possibile il naso da quell’intruglio. Poi vide Reidar prendere un pezzo di stoffa e avvolgergliela attorno alla spalla più volte una volta finito.
“Ecco. La fascio così non sentirai troppo l’odore e non ti sporchi. Con il riposo dovrebbe agire più velocemente, in più, ho inciso queste rune.” Le diede un sasso con le rune della guarigione.
Helea prese il sasso e guardò le rune, poi la fasciatura e infine il fratello. “Ti ringrazio Reidar. Sei stato davvero bravo. Si vede che sei migliorato.” Si girò il sasso tra le mani e lo strinse forte, salendo su per le scale e andando a mettersi comoda nella montagna di fieno, letto di Thorodin. Si trovava proprio di fronte all’ingresso della stalla, al sicuro e nascosta dal basso parapetto.
“Sai che poi dovrai crearti un altro letto vero?” domandò Reidar dal basso.
“Lo so. Ma per adesso lui non c’è. Ci penserò dopo o domani.” Helea si mise comoda e chiuse gli occhi, lontana da occhi indiscreti provenienti dal piano terra, il corpo si rilassò ma il dolore ebbe il sopravvento.
 
Fece fatica ad addormentarsi. Un po’ per il dolore e la bruciatura che la mistura le provocava, segno che faceva effetto, un po’ per pensieri, domande e cambiamenti che doveva affrontare.
Alla fine riuscì a dormire a tratti, svegliandosi di soprassalto a volte per il dolore.
Da quando lasciò casa la prima volta non riuscì più a dormire con il sonno pieno. Sempre allerta in un ambiente che non era casa. Ma ora era diverso e nonostante fosse a casa, non riuscì più a dormire con tranquillità.
Una voce familiare le interruppe il sonno e con gli occhi socchiusi rimase immobile ad ascoltare, mentre si stropicciava gli occhi.
“Ehi Reidar, ce l’hai fatta senza di me oggi?”
Helea aprì gli occhi abituandoli alla luce del giorno e si affacciò cautamente dal parapetto. Sgranò gli occhi e si nascose subito.
“Così come gli altri giorni” rispose Reidar.
Helea si affacciò di nuovo e vide Ubbe guardare le pecore e le capre dandole le spalle e Reidar che dava un occhiata verso l’alto, pronto a parlare.
La sorella gli fece segno con il dito sulle labbra di stare in silenzio, di non dire nulla su di lei. Reidar corrugò la fronte non capendone il motivo e gesticolò verso la sorella. Subito dopo Ubbe sorrise e parlò all’amico, il quale ricambiò il sorriso e si portò la mano tra i capelli dopo un gesto fugace.
“Non puoi sapere cos’è successo oggi.” Lo vide guardare verso l’alto e si girò anche lui. Helea si nascose d’istinto.
Reidar guardò Ubbe tenendo il forcone tra le mani infilzato nel mucchio di fieno.
Ubbe assottigliò lo sguardo. “Hai visto qualcosa?”
“Sì. Mi era sembrato di vedere un uccello, sai, quei passeggeri. Poi andrò a controllare e lo scaccerò via. O magari mi sono sbaglio, ma su una cosa hai ragione: non posso sapere cosa ti è successo oggi visto che non ero presente. Racconta. Io intanto finisco quello che ho iniziato.” E riprese a spostare il fieno nella carriola in legno con il forcone.
Ubbe si guardò in giro e si appoggiò con la schiena contro una trave. “Sono stato nella capanna con i miei fratelli e ci siamo allenati nel nostro campo d’addestramento. Poi abbiamo sentito un urlo e siamo andati a controllare e…” sorrise divertito “abbiamo incontrato una giovane ragazza dai capelli neri e occhi azzurri.”
Il viso di Reidar si illuminò e abbozzò un sorriso, iniziando a capire perché la sorella non volesse scendere.
“Ed era carina?” chiese Reidar.
Ubbe lo guardò con un sorriso largo sulle labbra “Sì. Lo era. Ma la cosa che mi meraviglia è il fatto di non averle chiesto il nome. Non ti sembra strano? Se una persona ti interessa ed è la prima volta che la incontri, la prima cosa che fai è presentarti e chiedere il suo nome.”
“E se non fosse la prima volta che la incontri?” ridacchiò Reidar.
“Che cosa vorresti dire?” chiese mentre prendeva in mano la ciotola con il miscuglio.
“Non saprei. Magari l’hai già vista ma non ti ricordi di lei o non le hai dato la giusta importanza fino a oggi. Forse la tua mente non le ha chiesto il nome perché sentiva di conoscerla o…” Reidar scosse la testa pensando a un’altra alternativa. “Non averglielo chiesto sarà un segno degli dèi?” pose una domanda retorica.
“Anche Hvisterk pensa possa essere un segno degli dèi. E ora che lo dici anche tu, forse sarà così.”
“Baciata dagli dèi, lo sarà sicuramente.” Sogghignò.
“Perché lo dici?” Ubbe lo guardò con stupore.
“Oh. Da come ne parli, sembra una dea.” Ridacchiò.
Ubbe ridacchiò a sua volta. “No. Non credo lo sia. O, non saprei, forse lo è. Aveva una soglia di dolore superiore a quella umana ed è molto agile e brava ad arrampicarsi sugli alberi, solo che si è fatta male alla spalla cadendo dai rami.” Girò la ciotola verso l’amico. “Questo intruglio nauseante a cosa ti serve? Mi sorprende che gli animali non siano scappati da qui.”
“Divertente. Davvero divertente.” Ridacchiò Reidar cercando nel frattempo una scusa convincente.
“Quello… serve per Arne. Si è fatto male a una zampa e l’ho fasciato stamattina, gliel’ho tolto da poco e aspetto questa sera prima di mettergliene ancora un po’ sulla zampa così fa effetto mentre dorme. L’ho preparato prima così non faccio tutto di fretta.”
Ubbe abbozzò un sorriso. “Non ti ricordavo così organizzato.”
“Cosa posso dire… c’è molto lavoro da fare e ci sono solo io, per adesso.”
“Mi spiace non averti dato una mano.” Gli diede una pacca sulla spalla.
“Non è vero. Ma… guarda il lato positivo. Hai incontrato una dea.” Sogghignò Reidar.
Ubbe rise. “Sì, forse. Se riuscirò a trovarla le chiederò il nome. Invece, se hai ragione, devo solo capire se l’ho già vista da qualche parte.”
“E una volta chiesto il nome, se non svanisce nel nulla, cosa farai?”
Ubbe lo guardò pensieroso. Non aveva pensato al dopo. Gli bastava davvero sapere solo il nome?
“Non saprei. Perché ti interessa?”
“Perché mi hai parlato di Margrethe e sembra che lei ti piacesse davvero molto.”
Ubbe alzò appena il mento con bocca socchiusa. Non se lo aspettava. “Chi?”
“La schiava che vi serve. Si chiama Margrethe. Non lo sapevi?”
Ubbe rimase in silenzio e abbozzò un sorriso imbarazzato.
“Non ci credo.” Dichiarò divertito. “A quanto pare ti dimentichi spesso di chiedere il nome.”
Ubbe abbassò la testa con il labbro inferiore alzato e annuì. “Hai ragione. Margrethe mi piace molto. Per questo, se incontrerò quella ragazza, voglio chiederle il nome. Magari sapendolo, non mi interesserà più. Però posso sempre aiutare i miei fratelli, visto che qualcun altro ne è rimasto affascinato.”
Reidar si appoggiò all’asta del forcone e rise. “Davvero? Anche gli altri si sono interessati? Sarà davvero una dea allora..” ridacchiò cercando di celare il suo sarcasmo, ma era davvero impressionato. La sorella era riuscita in poco tempo a far interessare di lei almeno due, se non tutti, i fratelli Lothbrok.
“Lo scoprirò solo se uno di noi la incontrerà di nuovo. Anzi, se la vedi mi avverti vero?” Sorrise speranzoso.
Reidar abbassò gli angoli della bocca e abbassò la testa con un cenno. “Come no. Contaci.” Strinse forte le labbra cercando di non ridere per l’ironia di quella situazione.
“Bene. Passo domani per darti una mano, va bene?”
“Domani? Oh… no. Lascia stare. Alla fine il grosso del lavoro l’ho fatto oggi. Ti ringrazio lo stesso per esserti offerto ma puoi prenderti un altro giorno di riposo.” Sorrise.
Ubbe rise. Lo guardò cercando di capire qualcosa in lui, ma ogni tanto Reidar era un mistero. A volte era cupo, a volte gentile e spiritoso. “Se hai bisogno vieni pure a cercarmi, intesi?”
Reidar annuì. “È un vero piacere far lavorare un principe. E come tale, non posso costringerti ad aiutarmi.”
“Ancora con questa storia? Sai benissimo che non è rilevante. Mi fa piacere aiutare un amico d’infanzia.”
“E io di essere quell’amico d’infanzia.”
Ubbe rise. “Non ti smentisci mai.” Gli porse la mano e Reidar incastrò per bene il forcone nel rimanente mucchio di fieno prima di stringergli la mano abbracciandosi con una pacca sulla schiena.
“Io vado. A presto Reidar.”
“Grazie per il passaggio, Ubbe. Lo apprezzo davvero.”
Ubbe annuì e con il sorriso se ne andò, tornando a casa.
Reidar caricò la carriola in legno e la portò vicino all’ingresso come scusa per affacciarsi dal portone, e la lasciò lì, assicurandosi che l’amico fosse lontano abbastanza per poter urlare alla sorella.
“Caduta dai rami? La dea che ha fatto innamorare i principi Lothbrok? Non sono neanche convinto che stessero parlando di te.” Rise di gusto.
Helea si sedette e si affacciò dal parapetto.
“Non li ho fatti innamorare. Ho solo chiesto aiuto per il braccio. Non ho colpe se si sono interessati a me.” Si alzò camminando sugli assi. “E poi la storia della dea l’hai detta tu.”
“Fammi indovinare. Ti sei arrampicata per raccogliere le castagne.”
“E qual è il tuo premio per aver indovinato? Aspetta, lo so! Un bel niente.” Helea si sedette sull’asse per scendere la scala, ma Reidar si avvicinò e gliela spostò.
“Reidar! Porta qui la scala. ORA!”
“Altrimenti? Vuoi cadere di nuovo da quell’altezza?”
Helea socchiuse gli occhi guardando il fratello. “Questo scherzo me lo paghi.”
“Non è uno scherzo. Voglio capire cos’è successo e sono alquanto sicuro che se scendi da lì, poi sparirai chissà dove. Volevi parlare no? Allora parliamo.”
“Ma non così! Riporta la scala.”
“No. E ti faccio notare che io non ci perdo nulla. Posso andare dove mi pare lasciando qui la scala e lasciarti lassù finché non inizi a parlare. Spiegami cos’è successo.”
Helea sbuffò impazientita e lo squadrò arricciando le labbra. “E va bene.” Si mise con braccia conserte.
“Pensavo di portare un dono a casa per festeggiare insieme il mio ritorno, visto che le castagne vi piacciono tanto e solo io le andavo a raccogliere, pensavo fosse il regalo giusto. Ma… sono caduta dall’albero, o meglio, si è spezzato un ramo e sono caduta dall’albero ritrovando i quattro principi a soccorrermi. Mi sono slogata la spalla e, una volta capito chi fossero, ho voluto metterli alla prova cercando di capire se con il tempo fossero cambiati o no.”
“Li hai messi alla prova?”
“Sì. Ho chiesto a loro di rimettermi a posto la spalla e… sorpresa! La spalla è ancora attaccata al collo e al braccio.” Glielo mostrò a gesti. “Posso scendere ora?”
“Non mi stai dicendo tutto, lo so.”
Sospirò “Cos’altro vuoi che ti dica?”
“Hai capito che erano i principi ma non hai detto nulla e non ti sei presentata. Perché?”
“Perché non era affar loro e non me lo hanno chiesto.”
Reidar rise per la risposta. “Sempre diffidente e vaga.”
“Se non li avessi riconosciuti, non avrei di certo affidato loro il mio braccio.”
“Ah sì? E come avevi intenzione di presentarti a casa? Come una bambola di pezza senza braccio?”
“No! Me lo mettevo a posto da sola. Bastava appoggiare il braccio a un tronco e fare forza. Se ti interessa questa storia posso raccontarti del tempo passato a Hedeby, ma prima fammi scendere visto che vuoi parlare. Giuro che non scappo da nessuna parte.”
Reidar si grattò la testa pensieroso, poi si arrese. “Va bene.” Prese la scala tra le mani. “Altra domanda…”
Helea sbuffò e alzò lo sguardo e la testa al soffitto per poi guardare il fratello maggiore.
“Perché non hai voluto presentarti adesso a Ubbe?”
Helea alzò un sopracciglio e poi rispose con un leggero sorriso sulle labbra. “Perché mi ero appena svegliata e non è carino presentarsi in disordine.”
Reidar sogghignò per la bella risposta e le avvicinò la scala.
“Finalmente!” Helea scese la scala e Reidar domandò ancora. “Perché hai messo alla prova i principi?”
Helea mise il piede per terra e si mise di fronte al fratello. “Ho saputo della scomparsa di Ragnar ed essendo i principi di Kattegat volevo scoprire i loro caratteri e atteggiamenti. Anche per questo non ho voluto mostrarmi a Ubbe poco fa, voglio capire fin quanto sono disposti a spingersi per ottenere quello che vogliono; in questo caso scoprire chi sono. Anche se non pensavo potesse importare così tanto il mio nome.” Sorrise e si inginocchiò per prendere un mestolo d’acqua dal secchio e bere.
“Hanno uno scopo queste prove?”
Helea si rialzò e si asciugò le labbra con la manica della camicia azzurra.
“Uno di loro potrà diventare o sarà il futuro re e non credo che Bjorn possa diventarlo. L’ho visto a Hedeby quelle poche volte in visita per Lagertha. È ambizioso e vuole il potere, ma allo stesso tempo vuole tenere alto il nome di suo padre quindi continuerà a viaggiare. Questo significa che a Kattegat sarà più assente che presente. Di conseguenza, uno dei quattro rimasti prenderà il controllo e il potere e sarà re di Kattegat. Voglio capire chi ha più potenziale tra di loro; chi è il più interessato a prendere quel posto e chi è disposto ad assumersi questa responsabilità che implica tradimenti e intrighi.”
Reidar la guardò senza battere ciglio, ma ne rimase stupito. “Sembra di sentire Thorodin.”
Helea rise. “Ho imparato qualcosa anche da lui. Assieme a Lagertha ho capito che devo guardarmi bene attorno e capire chi sono i miei amici e chi i nemici e per farlo devo rimanere vigile.”
Reidar ghignò. “Sì. Sei cambiata tanto anche tu.” Si allontanò e si sedette sotto le assi al lato sinistro. Era tutto pieno di fieno e in una parte c’erano mangimi e cesti di raccolti di stagione.
 Reidar si accomodò tra la paglia e guardò la sorella. “Vieni qui. Prima di entrare in casa devo spiegarti molte cose e se nostro padre ci sentisse ci interromperebbe quasi subito.”
Helea si avvicinò “Mi ha detto che voleva dirmi qualcosa, ma erano sulle vicende di Kattegat.” Si sedette accanto a lui con qualche cenno di dolore sul viso.
“Vedo che ti fa ancora male. Dopo mettiamo un altro po’ di quell’intruglio.” Sorrise.
“Ah! Mettilo ad Arne, lui ne ha bisogno.” Il cavallo nitrì di assenso e sbuffò contrariato.
I due presenti si misero a ridere e poi si guardarono. “Però il dolore è diminuito rispetto a prima. Posso muoverlo.” Glielo mostrò muovendo la spalla. “Avanti Reidar, parlami.”
Il sorriso divertito sparì dalle sue labbra e iniziò a fissare un punto disperso sul soffitto, le braccia dietro la testa sdraiato sul fieno e sospirò.
“Sono passati dieci anni da quando te ne sei andata. Ed eri così piccola. I nostri genitori non hanno mai accettato la tua decisione e, preoccupati che potessi morire anche tu, hanno pensato di avere altri figli. Così sono nati Helorn e Heladis. Se ci pensi, nostra madre ha affrontato molti parti e forse per questo motivo, o almeno io lo credo, il suo corpo è ceduto per lo sforzo. Heladis ha quasi sei anni e nostra madre è a letto da quando ne aveva quattro.” Fece una pausa e sospirò al solo pensiero. “In questi due anni è peggiorata moltissimo. Addirittura, Floki pensa che se avrà la febbre o qualsiasi altra malattia o problema legato alla salute, potrebbe essere la fine per nostra madre. Per questo ha consigliato assoluto riposo. E per questo nostro padre non ne parla. Non riesce. Credo che solo al pensiero di perderla, possa cadere a pezzi anche lui. Ha due bambini piccoli da sfamare e accudire e per la maggior parte della loro vita ci sono stato io con loro. Ho iniziato a prendermi cura del fienile poiché nostro padre è sommerso di richieste per i prossimi viaggi e saccheggi. Ora che sei tornata, forse qualcosa potrebbe cambiare. Erano in pena per te e hanno pensato al peggio. Ora che sei qui, hai dimostrato la tua forza e di quanto loro si sbagliassero.”
“E Thorodin?”
“Dopo che sono tornati da Parigi, è rimasto un po’ con la famiglia e ha seguito Bjorn. Quando poi ha sentito che si fermava un po’ a Kattegat perché Ragnar era andato via, ha deciso di farsi un altro viaggio disperso tra le montagne e non sappiamo se ritornerà anche lui.”
“Thorodin è venuto a farmi visita a Hedeby. Però non mi ha detto di Helorn o della salute di nostra madre e… penso che almeno tre o quattro anni fossero passati quando è venuto da me.”
“La mamma è peggiorata dopo la nascita di Heladis ed Helorn non era ancora nato. Per questo non ne sapevi nulla, non era ancora successo. E anche se fosse successo, non credo che Thorodin ti avrebbe detto la verità.”
“Perché no? Ne ho tutto il diritto.”
“Sì. Ma sappiamo come sei fatta. Non saresti più riuscita a concentrarti completamente sul tuo obiettivo o qualsiasi cosa ti ha spinto ad andare via con Lagertha quel giorno. Saresti tornava a casa per assicurarti la nostra salute e non saresti più partita lasciando a metà ciò che avevi iniziato.” Reidar la guardò con la coda dell’occhio “La tua preoccupazione ti avrebbe frenata. E nessuno lo voleva.”
Helea rimase in silenzio pensandoci.
Probabilmente avrebbe fatto ciò che il fratello aveva detto.
“Perché mi hanno lasciata andare via con Lagertha a sei anni se non volevano?”
“Perché era quello che volevi tu, no? Hanno sempre messo in pratica il loro pensiero di non intrappolare i figli con i doveri o altre responsabilità.” Poi sussurrò tra sé “Anche se ci sono finito io.”
“Forse hai ragione. Se lo avessi saputo non sarei partita. Sono stata egoista.”
“Mnn… Sì. Sì lo sei stata. E a dirti la verità: hai fatto bene.”
Helea guardò il fratello sempre più sorpresa dal suo cambiamento. Era tutto l’opposto. Sempre aggressivo, odioso con tutto e tutti e non c’era giorno che non le faceva uno scherzo. E non la copriva mai quando faceva un danno o per qualsiasi altro favore.
Ora era l’opposto e le faceva impressione, non lo riconosceva più.
“Come scusa? Ho sentito bene?”
“Sì. Non esserne sorpresa. Ero felice che la sorella che non sopportavo se ne andasse via di casa. Avrei avuto più spazio per me.”
“Questa frase sembra che contenga un: e invece…”
Reidar sogghignò “E invece… è stato tutto il contrario. Mi sono annoiato a morte senza di te. Non potevo stuzzicare più nessuno. Però mi ha fatto crescere e ho iniziato a vedere in un altro modo la vita che avevo attorno. Per questo hai fatto bene. Sia per te, sia per me.”
“Ma non per tutti.” Helea abbassò la testa e intravide un topino correre verso un buco della parete.
Reidar sospirò guardando il soffitto e poi le travi. “Non puoi aiutare tutti. Solo gli dèi possono.”
“A proposito di dèi, perché hai messo in testa a Ubbe che ha incontrato una dea?”
Reidar rise. “Già te lo sei scordato? Sei stata favorita dagli dèi. Penso ricorderai le rune incise sulla tua schiena.”
Helea abbassò la testa. “Mi dicevano che la mia nascita è stata particolare e gli dèi mi avevano inciso rune positive per aiutarmi.”
“A quanto pare non ti hanno mai detto tutta la verità. Forse per non turbarti o farti sentire diversa.”
“Diversa? Verità? Cosa sai, Reidar?”
Reidar guardò la sorella, ancora steso sul giaciglio in paglia e notò la fiamma nei suoi occhi. “Sei grande ormai, ma non so se devo essere io a parlartene.”
“Parla Reidar. Hai iniziato il discorso e ora lo finisci. Se quello che dici sarà vero, non so se potrò fidarmi ancora dei nostri genitori.” Iniziò a sentire i morsi della fame attaccarle lo stomaco. Aveva saltato il pranzo e cercò con gli occhi qualcosa da poter mettere sotto i denti.
“Non ti hanno mentito. Ti hanno detto solo una parte della storia.”
“E allora dimmi la versione completa.” Disse alzandosi e avvicinandosi a un cesto di mele. Ne prese una e la pulì con la camicia per poi addentarla e ascoltare il fratello mentre mangiava.
 
Reidar pensava da dove poter iniziare il racconto.
“Non ricordo bene il giorno, ma ricordo di aver seguito nostra madre scoprendo che per la prima e ultima volta andò a parlare con il veggente. Non osai origliare ma quando tornò a casa era più turbata e pensierosa rispetto a quando era uscita. Non so cosa si erano detti e qualsiasi argomento fosse, non ne parlava in mia presenza o con quella di Thorodin. Poi sei nata tu e ho ripensato a quel giorno con il veggente. La mamma aveva perso Vegard, nostra sorella prima di te, una settimana prima del loro incontro ed era ancora scossa per la perdita. Allora ho pensato che il loro argomento fosse stato sui figli e sai perché?”
Vide Helea sgranocchiare la mela e scosse la testa mentre masticava.
“Perché i figli sono sempre stati il punto debole dei nostri genitori. Ricordo quando nostro padre faceva affidamento su di me e Thorodin per il fienile e la fucina, ma noi avevamo altro per la testa. Così hanno pensato di avere più figli per espandere la famiglia ed essere sicuri che ciò che avevano costruito non andasse perduto, sperando di trovare qualcuno interessato a questo mestiere. Ma, come hanno avuto cinque figli tre sono morti. Un numero troppo alto da sopportare. E se aggiungi la nascita di Vegard e la sua morte durante il parto, si può capire quale possa essere stata la domanda di nostra madre al veggente e, cosa più importante, perché è andata dal veggente non essendoci mai stata prima di allora.”
Helea era arrivata al torsolo e lo pulì per bene.
“Quindi nostra madre non è mai stata dal veggente, ma dopo una settimana dalla perdita di Vegard è andata da lui per chiederle… ehm… perché i figli sono morti?”
“Che domanda stupida. Certo che no! La risposta sarebbe stata che tutti dobbiamo morire se lo vogliono gli dèi. Devi porre poche domande, complete ma semplici da capire. È come se stai parlando con gli dèi, non puoi star lì e raccontagli la tua vita di cui sanno già tutto, vita, morte e intero destino.”
“E allora cosa avrebbe chiesto?” si alzò e lanciò con la destra il torsolo verso il cavallo.
“Gli avrà chiesto se avrà avuto altri figli o se era destinata a vederli morire.”
“Che cosa triste. Lo pensi davvero?”
“Non lo avrei detto se non lo avessi pensato, non credi sorella? E poi ne sono quasi sicuro. Ricordo di aver sentito parlare i nostri genitori una notte, sulle parole del veggente. Diceva… aspetta… come iniziava…?”
“Quando te lo ricordi dimmelo, intanto vado a prendermi un’altra mela.” Si alzò e ne prese un’altra dal cesto tornando poi a sedersi accanto al fratello.
“Basta che non le finisci tutte. Ci servono per le scorte.”
“Tu non ti preoccupare, non ho così fame da finire un cesto così grande. Ti sei ricordato le parole del veggente?”
“Morte nascerà nella vostra famiglia e solo un nome sarà la loro salvezza. Allora, la morte sarà sconfitta finché gli dèi lo vorranno.”
“E cosa significa?” Helea lo guardò pensierosa provando a capire le parole.
“Parla di quello che è successo dopo. Della vostra nascita. Helea, Helorn e Heladis. Non noti nulla?”
Helea sgranò gli occhi e guardò il fratello. “Abbiamo tutti e tre una parte del nome uguale.”
“Esatto. Hel, dea degli inferi. Solo un nome sarà la loro salvezza, ricordi? Ma tu sei stata il caso particolare e quella che ti ha reso la favorita agli dèi, ai nostri occhi.”
“Perché? Cosa avrei fatto?”
“Oh, non hai fatto nulla. Sei solo nata morta.” Ghignò.
“Come?” Helea sentì dei tremori in tutto il corpo. D’un tratto la mela morsa le risultò pesante nella mano. Reidar si mise seduto e la guardò con un’espressione ancora incredula e affascinata.
“Ora ascoltami. Questa è la tua storia. La storia che i nostri genitori volevano che tu ascoltassi quando fossi stata abbastanza grande per capire e affrontare questo...peso. Gli unici a sapere della tua storia siamo noi in famiglia e Helga che ha assistito nostra madre durante il parto. Ti assicuro che questa incredibile storia è vera. Io e Thorodin eravamo presenti.”
“Quale storia? Cosa mi avete nascosto? Mi sto preoccupando.”
Reidar mise la mano sulla sua. “Non c’è da preoccuparsi.” Sorrise cercando di tranquillizzarla. “Helea, tu sei nata morta quando il sole era alto in cielo, con i tuoi capelli biondi e gli occhi azzurri. Puoi immaginare il dolore di nostra madre nel vederti con un corpo sano ma senza vita. Ti tenne stretta tra le sue braccia e rimase in silenzio. Non ti avevano ancora dato un nome e passarono la giornata a pensare quale nome adatto sarebbe stato segno di salvezza. Nostro padre era di poca fiducia, vedendoti morta pensava fosse solo una perdita di tempo. Poi hanno deciso di chiamarti Hel ma allo stesso tempo volevano un nome che potesse contrastare la morte e hanno aggiunto Freya nel tuo nome. Sperando che, camuffandolo un po’, la dea Hel non si sarebbe arrabbiata, così da Heleya ti hanno chiamata Helea. Ma non successe nulla.
Thorodin era straziato nel vederli tristi così azzardò la sua mossa riponendo la fiducia negli dèi. Ti ha presa dalle braccia di nostra madre e con la punta di un coltello ti ha inciso quelle cinque rune sulla parte sinistra della schiena proprio all’altezza del cuore. Sai quali sono?”
“Le rune che ci sono incise?”
“Sì. Sono: Eihwaz, Kenaz, Berkana, Laguz e Inguz.”
Socchiuse la bocca per lo stupore “Il loro significato…” Helea si sentì stordita ma tutto iniziava ad acquisire un senso.
“Evocazione degli spiriti dal Hel, Guarigione, Rigenerazione, Resurrezione, Ricominciare da capo. Possiamo tradurli in questo modo.”
“Aspetta. Troppe informazioni.” Calò il silenzio e Helea stava riordinando le idee mentre girava tra le dita la mela morsa. Le era passata la fame. “Stai dicendo che sono nata morta e il nome Hel mi ha salvata assieme alle rune? Non ha molto senso.” Si alzò e si diresse verso il cavallo offrendogli la mela. Arne non negò il gesto e fece solletico alla mano di Helea nel raccogliere la mela e mangiarsela.
“Il racconto non è finito. Se permetti, andrei avanti.”
Helea girò il viso verso destra e i capelli le coprirono la spalla. Corrugò la fronte e prese una ciocca dei suoi capelli neri, poi si girò verso il fratello. “Sicuro che quella bambina fossi io?” Lo guardò negli occhi e alzò una ciocca verso di lui. “Hai detto che sono nata bionda, come mi spieghi questi capelli neri?”
Reidar si alzò e si diresse verso la sorella. “Ho detto che non ho finito di raccontarti la tua storia. Se sei pronta ad ascoltarmi ancora, lo saprai presto.” Reidar le prese le mani tremanti e le chiuse tra le sue calde mani.
Helea annuì anche se non era molto sicura di quello che stava sentendo.
“Thorodin ha inciso le rune sulla tua schiena pregando gli dèi ma nostro padre ti tolse dalle sue mani riportandoti tra le braccia di nostra madre, ripulendoti dal sangue. Thorodin uscì di casa e la giornata passò senza un risultato positivo. Nostra madre ha voluto tenerti nella cesta accanto a lei per tutta la giornata sperando in un segno e Thorodin mise nella cesta un sasso con l’incisione della runa Ur, in modo che ti potessi riprendere al più presto. Tutti pregavano gli dèi. Poi ti avvolsero nella stoffa e ti lasciarono nella cesta accanto al letto. Qualcosa accadde durante la notte.” Reidar portò una mano ai capelli della sorella prendendone una ciocca e proseguì il racconto.
“Nostra madre si svegliò nella notte e vide un corvo appollaiato sul bordo del cesto che ti guardava. Lei rimase a guardare e il corvo gracchiò volando via dalla finestra, ma quel corvo aveva perso una piuma che finì nel cesto. Quando nostra madre provò ad addormentarsi, prima di riprendere sonno, riaprì di nuovo gli occhi a causa di un vagito che aveva udito. Guardò nella cesta e vide la stoffa muoversi. Ti liberò subito dalle bende e guardandoti in vita ti prese in braccio con le lacrime agli occhi e notò i tuoi capelli neri al chiarore della luna. Cercò nella cesta la piuma del corvo ma non c’era più. Solo il sasso con la runa di Thorodin era presente. Allora ha iniziato a svegliare tutti e a raccontarci ciò che aveva visto.”
Helea rimase a bocca aperta. “Ora che mi ricordo, nostra madre mi raccontava una storia simile per farmi addormentare ma non pensavo si riferisse a me. Credevo fosse una di quelle storie che raccontano sugli dèi.”
“Allora qualcosa te l’hanno detta. Avrà trasformato la tua storia in un racconto per affrontare al meglio questo discorso quando saresti diventata grande e avresti potuto ricordare qualcosa in più, rispetto a un bambino. D’altronde eri solo una bambina di sei anni quando te ne sei andata, sarà stato difficile ricordare una storia incredibile come questa.” Sogghignò divertito e si mise le mani sui fianchi.
“Ricordo qualcosa di quella storia e chiedevo a nostra madre di raccontarmela perché… mi trasmetteva qualcosa, forse importanza. Insomma, una bambina bionda che quando il sole è alto nasce morta e durante la notte quando la luna è alta riprende vita grazie alla presenza di Odino. La cosa fantastica è che la storia si fermava lì. Nessuno sapeva cosa avesse fatto quella bambina una volta cresciuta e cosa volessero gli dèi per lei. Tanto meno si sapeva se fosse una dea o no. Poi scopro che quella bambina sono io.” Helea emise un sospiro incredulo e iniziò a ridere.
“Che ironia, fratello.” Il sorriso sparì e lasciò spazio alla tristezza.
Vide il fratello ancora con le mani sui fianchi mentre perdeva anche lui il suo sorriso. Si avvicinò al fratello e inserì le braccia tra quei due spazi e li richiuse dietro la schiena in un abbraccio. Cercava conforto e Reidar abbassò lo sguardo rimanendo fermo, con il cuore che accelerò la sua corsa. “Grazie Reidar per avermi detto la verità.”
“È un tuo diritto conoscerla. Ma tu sei stata la più fortunata fra i tre.” Ricambiò l’abbraccio e le carezzò la schiena. “Ora staccati, ti ho detto che non devi prenderci l’abitudine.”
Helea rise mentre scioglieva l’abbraccio. “Cosa vorresti dire? Anche a Helorn e Heladis è successo la stessa cosa?”
Reidar si grattò la testa. “No. Loro sono nati come tutte le persone normali, ma hanno una caratteristica diversa da tutti. Helorn è nato con una gamba deforme e rivolta verso l’interno, non so se te ne sei resa conto ma zoppica. Heladis invece ha un occhio azzurro e uno verde.”
“Credi che questi segni siano stati dati dagli dèi per un motivo?”
Reidar sospirò. “Non so cosa dirti. Ma forse ha a che fare con Uppsala.”
“Uppsala? Il tempio dove si va a pregare e ringraziare gli dèi ogni nove anni?”
“Sì, proprio quel tempio, ne conosci altri? Credo avessero fatto qualche promessa o qualcosa del genere, ma questo devi chiedere ai nostri genitori.”
 
Fuori dal fienile si iniziarono a sentire dei brusii e i due fratelli si guardarono in faccia per poi andare a controllare.
Reidar fermò per un braccio un signore. “Cosa succede?”
Il signore con i baffi si girò in cagnesco e rispose burbero a Reidar “Sembra che Ragnar sia tornato a Kattegat.” Si liberò dalla presa e proseguì il suo cammino.
Helea guardò Reidar e lentamente fiorì un sorriso sulle sue labbra.
“Vuoi andare a vedere?” chiese Reidar.
“Sbagliato. Io sono già lì.” Helea rise e scattò. Si mise a correre superando la casa per poi camminare veloce e passare tra la folla senza urtare nessuno. Reidar la seguì e le fu subito accanto. “Mi raccomando, se non vuoi farti vedere dai principi cerca di rimanere nascosta. Se Ubbe è tornato, sarà senz’altro con i suoi fratelli.”
Helea gli rivolse uno sguardo di intesa e ringraziamento.
Reidar e Helea si nascosero in una via e videro Ragnar che venne circondato dalle persone.
Si sentì una voce maschile “Fate passare. Spostati.” Ubbe si fece largo assieme ai fratelli al suo seguito e Helea si nascose meglio nella via. Ragnar rimase in silenzio finché non arrivò Ivar e nel riconoscerlo si avvicinò e lo salutò per primo. “Ciao Ivar, ovvio che sia tu.”
Helea tirò il fratello per il braccio e lui la seguì.
“Che vuoi fare?”
“Sicuramente succederà qualcosa e non voglio perdermela.” Costeggiò una casa e iniziò ad arrampicarsi.
“Cosa fai? Sei matta? Il tuo braccio deve guarire prima.”
“Non ti preoccupare. Il braccio mi fa molto meno male dopo che hai usato quell’intruglio.” Helea si ritrovò sul tetto in un batter d’occhio. “Allora? Vuoi salire anche tu o rimani li?”
Ragnar iniziò a urlare alla folla.
Reidar si arrampicò e si fece aiutare dalla sorella. Insieme guardarono la scena da un punto vicino più visibile. Helea non si preoccupò dei fratelli Lothbrok perché si misero alle loro spalle a guardare la scena sdraiati sul tetto.
Ragnar urlava. “Allora? Chi vuole essere re? Sapete come funziona! Se volete essere re dovete uccidermi.”
Sguainò la spada e la porse a un uomo incitandolo “Prendila.” L’uomo guardò la spada ma non si mosse.
“No?” Ragnar iniziò a chiedere in giro “Tu, no? Che mi dici di te?”
Helea sogghignò e guardò Reidar concentrato sulla scena. A bassa voce gli disse “Nessuno vorrà essere re e prendersi questa grossa responsabilità. Tanto meno uccidere l’uomo che ci ha portati alla grandezza.”
Reidar la guardò e rispose a bassa voce. “Nessuno ucciderà Ragnar perché lo credono discendente di Odino e affrontarlo significherebbe affrontare un dio. Mettersi contro Ragnar equivale a mettersi contro Odino. Nessuno è tanto sciocco da scontrarsi con lui, nemmeno i suoi figli lo fanno. Non perché equivale a Odino, ma perché ucciderlo porterebbe vendetta e non sarebbe visto di buon occhio dalla gente se non come avido e assetato di potere. Nessuno poi si fiderebbe, specialmente perché attirerà l’ira degli dèi su di sé e su Kattegat.”
Helea guardò il fratello con stupore e annuì. “Esatto. È troppo rispettato e amato da tutti anche se ha perso la sua credibilità e lasciato popolo e figli come ha detto.”
Ragnar incastrò la spada nel terreno e urlò ancora guardandosi in giro. “Nessuno? CHI DI VOI VUOLE ESSERE RE?” Ragnar si avvicinò ai suoi figli e fece la stessa domanda a Sigurd ma lui non rispose. Allora Ragnar passò a Ubbe, il maggiore, porgendogli la stessa domanda e aggiungendo “Se vuoi essere re devi uccidermi. Eh? RE UBBE!” Si voltò al popolo ma nulla. Nessuna reazione se non da Ragnar stesso, che iniziò a schiaffeggiare il figlio maggiore come se da lui si aspettasse qualcosa in più. Con rabbia e frustrazione gli disse in faccia “Hai paura? Sii uomo.” I loro visi erano vicini e si guardavano negli occhi.
Dolorante senza mostrarlo, Ragnar si spostò appena e carezzò i capelli del figlio più piccolo, senza nulla chiedere ad Ivar, lì seduto accanto ai fratelli che guardava il padre.
Con sdegno Ragnar diede le spalle ai suoi figli, ma erano sempre circondanti dalla folla di persone. Come se avesse intenzione di andare via, Ragnar si fermò percependo qualcosa. Ubbe si fece avanti di qualche passo e Ragnar si girò per guardare. Ubbe stringeva la spada sguainata nella mano destra e con testa bassa ma sguardo sul padre, lo vide alzare le braccia e poi riabbassarle avvicinandosi a lui. Si guardavano in silenzio e la folla attorno a loro era altrettanto silenziosa e si guardavano l’un l’altro con sguardo confuso e sbigottito.
Ragnar passò la spada che aveva conficcato nel centro del cerchio che si era formato con le persone e alzò una mano al viso di Ubbe, titubante. Si meritava l’amore del figlio dopo averlo abbandonato assieme ai fratelli?
Ragnar appoggiò la mano sulla guancia del figlio e lo portò a sé abbracciandolo. Il suo viso chiedeva perdono per aver afflitto loro quel destino che non aveva di certo chiesto agli dèi.
Ubbe fece cadere la spada e abbracciò il padre. I fratelli e la folla rimasero a guardare la scena tra padre e figlio finché dalla folla non sbucò il figlio maggiore tra i quattro, Bjorn, avuto con la sua prima moglie e guerriera Lagertha, nonché insegnante di Helea a Hedeby.
Bjorn guardò il padre e con braccia conserte gli chiese “Perché sei ritornato?” ma questa volta, fu Ragnar a non rispondere e rimasero a guardarsi negli occhi finché poi il cerchio di persone non si sciolse e i figli, a parte Ivar, seguirono il padre lontano da Kattegat.
“Allora? Ti è piaciuto lo spettacolo?” chiese Reidar alla sorella, mentre scivolava dal tetto.
“Una cosa si può dire su Ragnar.” Rispose la sorella seguendo il fratello che era sceso dal tetto.
“Che cosa? Che è imprevedibile?” la anticipò il fratello, aiutandola a scendere.
Helea spiccò un salto atterrando tra le braccia del fratello e lo guardò ringraziandolo “Con lui non ci si annoia mai.”
Reidar sorrise e seguì la sorella verso casa. “Secondo te dove saranno diretti?” Chiese al fratello.
“Non saprei. Forse dove nessuno può sentirli.”
“Quindi fuori Kattegat.”
“Cos’hai in mente sorella?”
“Nulla.” Sorrise furba.
“Non si direbbe dalla tua espressione. Ti conviene non metterti nei guai visto che hai un braccio non del tutto sano.”
“Il mio braccio sta benissimo. Meglio di qualche ora fa sicuramente.” Helea si guardò attorno dopo aver raggiunto la soglia di casa.
“Bene. Se stai benissimo ti ricordo che dovrai farti il letto nel fienile.”
“Cosa? E non vuoi darmi una mano?”
“Hai detto che stai benissimo, perciò fattelo da sola.”
Helea sbuffò “Sei una creatura orribile. Non aiutare la propria sorella tornata da un lungo viaggio.”
“Esagerata. Hedeby non è così distante.”
“Ah sì? Allora percorri tu la strada a piedi e poi ne riparliamo.” Helea si avvicinò all’incrocio e indietreggerò velocemente nel vedere Ivar strisciare verso l’ingresso del fienile.
“Cosa c’è che non va? Ora ti fa male il braccio?” domandò Reidar
“No. Sta arrivando Ivar. Tu non mi hai vista.” Entrò in casa e si nascose.
Reidar ridacchiò e sollevò due secchi pieni d’acqua portandoli nel fienile. Ivar lo vide e lo salutò. “Reidar. Non si finisce mai di lavorare?”
“A quanto pare no.” Reidar avrebbe voluto rispondergli a tono, magari con una battuta ma con lui era meglio non litigare. Entrambi avevano personalità di fuoco e se si fossero messi a litigare avrebbero scatenato un incendio. Così Reidar ha sempre cercato di tenersi alla larga da Ivar, rispondendogli con poche frasi.
Ivar proseguì verso la sua strada e Helea lo vide allontanarsi dalla casa sbirciando dalla finestra. Tirò un sospiro di sollievo e una voce la fece sobbalzare con una domanda “Che stai facendo?”
“Heladis.” Helea si portò una mano al petto e respirò con calma. “Hai un passo davvero silenzioso.”
“Grazie. Che stavi facendo?” riprovò.
“Nulla. Controllavo le strade.”
“Perché?”
“Perché… sono tornata da poco e volevo capire come si comporta la gente.”
“Rimanendo chiusa in casa mi sembra un po’ difficile.”
“Hai ragione. Forse è meglio se esco di nuovo.”
“Quando ci parlerai dei nostri fratelli e sorelle che non ci sono più?” chiese Helorn mentre preparava la tavola per la cena.
“Oh. Giusto.”
“Te ne eri dimenticata? Dovevi raccontarci anche di Hedeby.”
“Questo non mi pare di avervelo detto.” Rispose a Helorn aiutandolo con la tavola ma si accorse che nessuno cucinava.
“Di solito chi si prende cura della casa?”
“Io e Heladis e a volte Reidar. Nostro padre passa tutto il tempo a forgiare finché c’è la luce. Poi torna in casa, cena, sistema gli attrezzi, fa mente locale di ciò che deve fare il giorno dopo, ci mette a dormire e poi credo dorma anche lui.”
“E Reidar cucina?” sogghignò Helea, divertita al solo pensiero.
“Sì. Quando finisce con gli animali poi si occupa della casa e prepara da mangiare. Alle volte nostra madre si alza proprio per cucinare.”
Helea ascoltò le parole di Helorn e poi guardò la tenda che ricopriva il perimetro del letto.
“Nostra madre non si è ancora svegliata?” chiese la ragazza.
“In realtà sì, ma stavi dormendo e non volevamo disturbarti. Non le abbiamo detto nulla di te.”
“Quando si sveglierà?” domandò ancora al fratellino.
“Non lo so.”
Helea iniziò a pensare e si guardava attorno. I suoi pensieri si muovevano in fretta tra il passato e il presente e arrivò a una conclusione. Ora che era tornata doveva dare una mano.
“D’accordo. Mettiamoci a lavoro. Vi aiuterò anche io.”
“Ti serve un ripasso. Non credo troverai tutto al suo posto. Heladis, devi dirle dove si trovano gli utensili e tutto quello che le serve.”
“Va bene! Sarà diverte, ormai è diventata una caccia al tesoro quando nostro padre mette mano in casa” Rise divertita iniziando a tirar fuori il pentolone e ciò che le serviva per cucinare.
Helea sorrise e l’aiutò, facendo attenzione a tutto.
 
Quando Reidar finì di abbeverare gli animali, tornò in casa e sentì Helea parlare dei loro fratelli defunti mentre metteva ordine in casa in modo che non fosse più una caccia al tesoro.
“Helea” Reidar la interruppe. Lei lo guardò in silenzio.
“Ti conviene smetterla per adesso. Nostro padre tra poco entrerà e vi consiglio di non trattare l’argomento in sua presenza.”
Helea sospirò. “Finché non torna in casa è giusto che sappiano anche loro, non credi? Oh, scusa. Se avessi creduto, li avresti informati.”
Reidar percepì la frecciatina e socchiuse gli occhi. “Helea. Sono serio.”
“Tsk.”
La madre si svegliò e lo capirono dai suoi mormorii.
Helea ebbe il cuore in gola mentre i tre fratelli si precipitarono a controllare la salute della madre.
Non si erano ancora viste e aveva paura di cosa potesse pensare la madre di lei.
“Madre. Abbiamo una sorpresa per voi.” Reidar si girò mentre Helorn pronunciò quelle parole alla madre e lei rispose con un sorriso e una voce sottile. “Per me?”
Helea si sentì il corpo rigido, il fiato corto. Dovette sforzare i suoi arti e alla fine mosse un passo incerta, guardando i fratelli.
Reidar annuì dandole coraggio.
Helea fece un profondo respiro e si avvicinò al letto.
La donna cercò di mettere a fuoco il volto alla luce delle candele. Sbarrò gli occhi per lo stupore e per la gioia cercando di togliersi di fretta le coperte che la avvolgevano.
“Madre, con calma. Non agitarti.” Disse Reidar preoccupato, ma le sue parole non toccavano l’attenzione della donna.
“Helea. Sei tu, figlia mia?” domandò con le lacrime agli occhi e una mano che si allungava stanca verso di lei.
“Sì madre. Sono io.” Le tremò la voce.
La madre si mise seduta sul letto e alla stretta delle loro mani, sentivano che quel momento era vero. Era reale. Si commossero tutti e Helea si sedette accanto alla madre abbracciandola tra le lacrime. La abbracciò con delicatezza come fosse un fiore raro con la paura di farle del male.
“Mi sei mancata madre.”
“Anche tu figlia mia. Sono lieta di vederti sana e salva.”
Reidar prese dal colletto i fratelli e li sollevò portandoli a un lato della casa, lasciando loro lo spazio necessario.
“Ringrazio gli dèi che ho potuto rivederti ancora e che continuano a proteggerti. Sono così sollevata.” La madre non staccò l’abbraccio da lei, debole di stretta ma carico d’amore.
“Mi dispiace madre. Vi ho lasciata, incurante di tutti voi.” Helea cercò di trattenere le lacrime ma non ci riuscì.
“Bambina mia, non c’è bisogno di scusarti. È stato il volere degli dèi e lo abbiamo accettato anche se a malincuore. Questo è il tuo destino mia cara ed ero certa che non ti avrebbero abbandonato così velocemente.” Le prese il viso tra le mani e la guardò negli occhi “Ricordati una cosa: se ti prenderai cura degli dèi, loro si prenderanno cura di te.”
Helea strinse forte le labbra mentre le lacrime continuavano a scendere senza controllo, ripensando alla storia che Reidar le aveva raccontato sulla sua nascita.
“Lo so.” Sussurrò Helea e si strinse al petto della madre, volendo tornare di nuovo bambina per recuperare il tempo perduto e riavere il momento delle coccole e delle carezze.
La donna carezzò i capelli corvini della figlia e con un dolce sorriso, con le guance bagnate, rimase in silenzio ascoltando alcuni singhiozzi.
Incurante ormai del braccio, Helea si lasciò trasportare dal momento e si sfogò nel pianto tra le braccia della madre.
Quante volte avrebbe voluto averla vicino. Quante volte ha dovuto tenere gli occhi aperti perché non si fidava di chi le stava attorno. Stanca. Si rilassò tra le braccia della madre, lasciandosi cullare dal suo dolce dondolio. Quante volte avrebbe voluto rinunciare e tornare a casa, ma Lagertha la spronava.
Lagertha le faceva da seconda madre, ma nessun abbraccio è autentico e puro come l’abbraccio della donna che ti ha messo al mondo.
Helea alzò lo sguardo, il trucco nero degli occhi colante sulle guance, il naso invaso dal moccio e le labbra incurvate verso il basso che ancora tremavano.
“Suvvia. Ora basta piangere, sei a casa.” Disse con tono basso e dolce.
Helea per poco non riprese a piangere. Quanta dolcezza avrebbe voluto ricevere al posto della durezza e severità, ma almeno il sudore che aveva versato era stato ripagato.
“Sei diventata una bella donna, anche se per me rimani la mia bambina. Il tempo per me si è fermato lì, ma sono contenta di vedere come ti sei evoluta. Una splendida farfalla. Una splendida vichinga.”
“Grazie madre, ma il ricordo di voi mi ha aiutata a ricordare che tipo di donna volevo essere. Forte e valorosa come Lagertha, ma altrettanto dolce e gentile come voi.”
“Lagertha. È stata lei a prendersi cura di te, vero?”
“Sì madre. Lagertha mi ha cresciuta e mi ha tenuta con sé, trattandomi come sua figlia. Ho ricevuto la stessa dolcezza che mi state dando voi in questo momento, ma lo sentivo un po’ forzato. Allo stesso modo, ho ricevuto istruzione con altrettanta severità. È stata l’insegnante ideale.”
“Mi fa piacere sentirlo. Vorrei ringraziarla se mi sarà possibile. Da madre a madre.”
“Glielo farò presente.” Helea sorrise e si ripulì il viso con un fazzoletto di stoffa che la madre tirò fuori da sotto il cuscino e glielo porse.
“Vedo che hai la divisa da guerriera. Ma hai un cambio d’abiti?”
“No madre. I vestiti che usavo li ho lasciati lì. Ho portato con me questi che indosso, per me essenziali.”
“Sì. Ce l’hai fatta. Ma non puoi andare in giro con un solo vestito. Puoi utilizzare i miei se ti vanno.”
Helea la guardò incredula. “Come?”
“Hai capito bene. Puoi indossare i miei vestiti, per adesso. Poi ne faremo altri su misura per te, cosa ne dici?”
“Mi farebbe piacere madre, ma mi hanno detto delle vostre condizioni. E poi… Lagertha mi ha insegnato un po’ di tutto, non solo essere guerriera e vichinga, ma anche essere donna e… beh… possibile madre.” Si imbarazzò.
“Ne sono convinta. Ma anche Lagertha non sa tutto. Ho dei trucchi da insegnarti. Non sono ancora del tutto inutile.”
“Mai detto che siete inutile. Accetto di buon grado ogni invito di insegnamento.” Sorrise alla madre, curiosa di sapere cosa potesse insegnarle.
La donna sorrise e si sdraiò di nuovo con il cuore più leggero e il sorriso sul viso. Helea la coprì con le coperte e si alzò dal letto. Prese la tenda ma la madre la bloccò “Ferma. Lascia aperto. Voglio vedere i miei figli tutti insieme.”
Helea sorrise e fece come le aveva detto, tornando ad aiutare in casa e aspettando il rientro del padre.
 
Nel frattempo, Ivar aveva scoperto che tutti i suoi fratelli avevano avuto la schiava che li serviva e si sentì messo da parte. Un veloce pensiero lo portò a pensare alla donna misteriosa incontrata nel bosco e scosse la testa subito dopo. Era abbastanza certo che non l’avrebbe mai più rivista.
   
 
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