1° settembre
So parcheggiare in retromarcia.
Con
un rapido giro di ellissi tracciate tra i miei neuroni indolenti, disegno
idealmente la traiettoria corretta della manovra, come se fosse solo questione
di stanca abitudine.
Prima
di tutto i sedili posteriori devono idealmente essere allineati: ed è solo a
quel punto che si inizia a sterzare, cercando di avvicinarsi al marciapiede. Quando
quelli anteriori, poi, sono uniti da una retta obliqua, si gira il volante
nella direzione esattamente opposta, così che il veicolo entri nel pertugio
sopravvissuto al traffico con eleganza e facilità.
L’informazione
è dotata di una tale sconcertante chiarezza da farmi chiedere da dove provenga,
mentre il petto irradia un cupo senso di disagio localizzato dalle parti dei
polmoni, come il principio di un infarto bastardo e silente. Del resto, con la
stessa sconcertante chiarezza, so che non ho mai messo piede su un auto
babbana, figuriamoci guidarla.
Le
linee delle ruote, nel senso perfetto in cui dovrebbero muoversi, continuano a
solcare il mio cervello, dotate di volontà propria, quando invece dal reale
sembrano invece divertirsi ad intrecciarsi sempre di più, rincoglionite e
imbecilli, accompagnandosi allo stridore bruciato dei freni sull’asfalto.
Poggio
la spalla annoiata contro un lampione dell’illuminazione pubblica, godendomi la
scena. Non inquadro in modo preciso quel senso rigonfiante di superiorità,
nonché quella curiosità idiota, eppure, come un caffè appena zuccherato di
domenica mattina quando non c’è nessuna fretta, me li gusto come sapori rotondi
e pieni sulla lingua.
La
donna nella macchina non mi è visibile del tutto, si tratta di una di quelle
utilitarie dai finestrini fumé che ai babbani danno
quell’insana illusione di essere al sicuro, protetti dalle loro gabbie di
latta. Quindi di lei vedo solo qualche tratto indistinto, la curva di un naso,
il bisbiglio di un ricciolo, il collo fremente di un trench. Muove la testa
avanti ed indietro in modo convulso, come quelle bamboline imbecilli che
vengono messe sui parabrezza e che dondolano la testa continuamente, come in un
assenso eterno alla loro perenne inutilità. Mi pare persino di cogliere qualche
imprecazione soffocata dal finestrino chiuso, mentre l’auto, ancora,
crudelmente, gratta sul marciapiede, condannando la manovra come errata.
Il
colpo deciso di acceleratore, frenato di nuovo con decisione, mi avvisa della
frustrazione della donna, causandomi un moto inconsapevole di risata. Se fosse
denigratoria, mi perdonerei questa sosta che mi causerà un ritardo nella
consegna della Pozione Autorigenerante a Scamander;
invece stranamente non è questo. Tutta la cosa in sé mi pare… così buffa… ma
non nel modo ridicolo, in cui avrei preso di mira qualcuno a scuola. Non mi fa
venire voglia di prenderla in giro, mi fa venire solo voglia di stuzzicarla. Di
più, sempre di più, fino a quando il viso sconosciuto le si gonfierebbe in
un’imitazione per nulla convincente e spaventosa di un pesce palla.
Una sensazione nuova. Una sensazione
piacevole.
Ancora,
il vuoto nei polmoni mi avvisa del volo pindarico estremo che sto facendo. E di
come non ho la più pallida idea di come quella donna si arrabbi.
Nonostante
la sensazione si sia tramutata velocemente in qualcosa di fisicamente doloroso,
come un rantolo, non riesco ad allontanarmi da lì: mi limito a stringere la
stoffa del mio cappotto, nell’illusione di sedare la fitta nel pugno chiuso. I
miei occhi, inconsapevolmente, tagliano a metà il piccolo spiraglio di
finestrino che lei ha lasciato aperto, forse nel tentativo di vedere meglio, di
respirare meglio, nella foga nevrastenica di non riuscire a completare il
parcheggio.
I
capelli, castani come foglie di acero in autunno, sono tirati in alto in una
crocchia severa e composta da istitutrice teutonica: le lasciano scoperta la
nuca, come una sorta di foro morbido dentro la carne.
Quel foro ha la forma delle mie labbra.
A
chiamarla sensazione, adesso, probabilmente direi la più grossa cazzata di
questa Terra.
Probabilmente,
al momento, si chiama calcio rotante nelle viscere questo pensiero di fantasia
erotica su una sconosciuta e sulla sua nuca, come un fottuto feticista della
peggior specie.
Quando
sento persino l’eco dell’odore che la mia mente mi suggerisce che avrebbe, mi
Smaterializzo lontano, grondante di sudore, le mani che mi tremano sopra il
cappotto, diventato una prigione di costoso tessuto.
Lo
getto lontano sulla scrivania, me ne libero come se fosse una pelle vecchia.
A
pranzo, mi scopo una che mi veniva dietro da anni, non ricordo come si chiama.
Ma
non godo nulla, niente, la sua nuca non sa di niente mentre la prendo da
dietro.
Ricomincio
a fumare quel giorno.
Lunghe
sigarette di un solo aroma.
Quello
che la mente dice che avrebbe lei.
Vaniglia e tè nero.