Anime & Manga > One Piece/All'arrembaggio!
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Autore: Zomi    21/02/2018    2 recensioni
Si può divorziare da tutto, anche dalla sfortuna, ma dalla Mamma no.
Soprattutto se tua madre si chiama Sora.
Soprattutto se è pronta a tutto pur di vedere felici i suoi figli.
Soprattutto se finalmente può farlo.
Niente la fermerà, niente le farà fare un solo passo indietro... e i guai sono appena iniziati!
Dal primo capitolo: -Ma ora che è lontano e in pensione, chi penserà a loro? No Vito, non provare a dirmi che sono grandi abbastanza: ci ha già provato Zeff e si è ritrovato a dormire per una settimana sul divano!-
{FanFiciton partecipante la "Crack&Sfiga's Ship Day" indetto dal Fairy Piece Forum}
Genere: Comico, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Famiglia Vinsmoke, Ichiji Vinsmoke, Niji Vinsmoke, Sanji, Yonji Vinsmoke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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MOM
’S DUTY
 
 

 
La Marijoa University era l’ateneo più rinomato e sviluppato dell’intero paese.
Era famosa come politecnico per gli studi scientifici approfonditi, le possibilità degli studenti di lavorare in laboratori fornitissimi a stretto contatto con i docenti e grandi laureati ma soprattutto per fornire ogni comfort possibile ai propri laureandi, permettendo loro di dedicarsi pienamente allo studio.
Essere ammessi alla M.U. era un sego distintivo di grande intelletto e doti straordinari, essenziali per formare le più grandi menti del paese e destinarle a un futuro brillante.
Impegno, costanza, dedizione.
Queste erano le peculiarità dei giovani che frequentavano l’ateneo.
Caratteristiche che si rispecchiavano perfettamente in Yonji Vinsmoke anche in quella fredda mattina di un sabato di fine Gennaio.
Si, si rispecchiavano perfettamente nelle sue natiche in costume adamitico al vento e nel suo corpo statuario e nudo come un verme semi nascosto dietro a un cespuglietto non molto rigoroso davanti al dormitorio femminile della facoltà di psicologia.
Perché se c’era una sola ed unica cosa in cui Yonji impegnava tutto il suo intelletto con impegno, costanza e dedizione, quella era il rimorchiare democraticamente e senza alcuna remora ogni singola ragazza dell’università.
Uno studio a cui dedicava gran parte del suo tempo, invece che sgobbare per il dottorato in scienze applicate della biologica umana, corso di studi assai caro al suo benamato padre, ma a cui il figlio preferiva la “pratica” più che la teoria.
E nella pratica, Yonji, aveva un bel trenta e lode.
Cercando di coprirsi alla bene e meglio i gioielli di famiglia con le ramaglie del suo cespuglio di fortuna, il ragazzo si guardò attorno studiando la situazione.
La nottata di caccia aveva dato i suoi gustosi frutti, e con soddisfazione ora poteva compiacersi di aver completato l’album di tutto l’ateneo, testando le ragazze di ogni facoltà e rimanendone particolarmente compiaciuto.
Ragazze di psicologia a parte: quelle erano da manicomio.
La sua ultima avvenuta l’aveva psicanalizzato prima di togliergli i pantaloni di dosso e se non fosse scappato in fretta quella stessa mattina, era certo che si sarebbe ritrovato disteso su un lettino da analista –vestito poi!- e a parlare dei suoi traumi infantili piuttosto che curarli con del sano sesso.
Già, aveva fatto bene a scappare alle prime luci dell’alba dalla stanza di quella pazza con il naso a punta e la risata strana.
Aveva fatto benissimo… se solo si fosse ricordato di recuperare anche i suoi vestiti magari, sarebbe stato anche meglio.
-Etciù!-
Con una mano a tamponarsi il naso gocciolante, l’altra a coprire il suo amichetto, Yonji rabbrividì saltellando sui piedi nudi.
Doveva darsi una mossa a tornare nel suo dormitorio se non voleva ritrovarsi con i geloni alle chiappe.
Stiracchiandosi, si guardò furtivo intorno.
Il dormitorio femminile circondava il lato est del parco centrale dell’università, nel cui centro si ergeva la caffetteria studentesca. Poco dopo faceva capolino il dormitorio maschile con i suoi tre piani e le mura in mattoni a vista.
Se non sbagliava, a quell’ora, non avrebbe trovato nessuno in giro se non qualche maniaco di jogging, e con le sue doti atletiche non avrebbe avuto difficoltà a raggiungere in poco tempo il suo alloggio.
-Forza!- s’incoraggiò massaggiandosi le spalle intirizzite dal freddo e muovendo i piedi sul posto –Pronti, partenza, vi…-
-Aaaah! Un uomo nudo!-
L’urlo lanciato da una finestra alle sue spalle lo fece scattare come un fulmine, lanciandolo a grandi falcate per il parco macinando metri su metri.
Sentiva altre serrande aprirsi, urli scioccati di studentesse impressionate da cotanta grazia ignuda, e se qualcuna si scandalizzava urlando al “maniaco” o peggio “molestatore” altre lanciavano fischi d’apprezzamento ingrassando l’orgoglio già di per sé smisurato del ragazzo.
Con parecchie falcate, e qualche sfrontato saluto ai  poveri malcapitati che lo incrociavano nella sua più totale nudità, Yonji attraversò il parco del politecnico, dirigendosi al suo dormitorio.
Seguì il profilo del caseggiato arrampicandosi sulle scale antincendio per accedere alla sua stanza, prendendo ampi respiri quando riuscì a entrare nel corridoio del suo piano, orami al sicuro.
-Psicologhe mai più- si ripromise parlando tra sé, mani ai fianchi nudi e passo sicuro.
Pazza, una pazza era quella Polluce.
Sperava solo non usasse i suoi vestiti come feticci o, peggio, come tesi di laurea.
Ci si poteva aspettare di tutto da una come quella.
Un momento ridevano e scherzavano, l’attimo dopo osannava il suo peluche a forma di renna per poi con arroganza imporgli di adorarla come una Dea, per infine saltargli addosso.
Da internare al più presto.
Scuotendo il capo e cercando di ritrovare positività all’idea che quel sabato mattina non poteva di certo peggiorare più di così, e che lo aspettavano ore di relax in vista dei bagordi notturni e domenicali, si avvicinò alla sua stanza.
Con mano tesa, tastò lo stipite della porta, trovando la chiave che lasciava nascosta tra l’intelaiatura di legno e il muro, lanciando un’occhiata distratta alla lavagnetta di avvisi che torreggiava sul suo uscio.
Spesso ci trovava numeri di telefono, appezzamenti alla sua persona o volantini pubblicitari molesti di corsi piuttosto che di feste gran più graditi, ma quella mattina svettava, in carta bianca dai bordi verdi, una busta affissa con ordinata eleganza tramite alcune puntine.
La serratura scattò e Yonji mise un primo piede nella sua camera, gli occhi fissi sulla lettera a soppesare l’idea di aprirla o meno.
Con mano sicura l’afferrò, aprendola a malo modo mentre, ancora nudo, si addossò con la schiena contro lo stipite della porta.
Con un’ultima occhiata azzurra studiò la fine lettera ripiegata che la busta conteneva, aprendola.
Uno strano nodo in gola lo assalì.
 
 
 
-…una lettera?-
L’ascensore trillò nell’aprire le porte d’acciaio, permettendo a due impiegati di scendere al loro piano.
Katakuri non si espresse.
Aspettò che le porte si richiudessero prima di rivolgersi al compagno.
-Era nella busta delle lettere questa mattina- spiegò asciutto di parole.
Ichiji corrugò la fronte.
La fine busta dai bordi bordeaux che reggeva in mano non recava mittente né francobollo.
Consegnata a mano, decretò tra i suoi pensieri, ma da chi?
Lui e Katakuri lasciavano il loro lussuoso appartamento di via Mochi, nel centro della città, a orari ben lontani da quelli in cui si consegnava la posta, e dubitava che fosse un semplice volantino pubblicitario: la carta della busta era pregiata, e il fine ricamo scarlatto era fin troppo graziato per una semplice pubblicità molesta.
-Perché credi sia rivota a me?- non staccò gli occhi dalla busta non ancora aperta.
L’uomo che lo affiancava posò a terra la sua ventiquattrore, aggiustandosi i polsini della camicia.
Odiava indossarle, odiava stringersi in grigi gessati per recarsi quelle rare volte in cui era costretto da dei clienti esigenti, a spiegare loro che lui era la parte in back ground dell’azienda in cui era socio con Ichiji, e che se volevano un Public Reletioner quello era appunto il suo collega ramato, e non lui.
No, lui era il braccio che gestiva i server in remoto e sistemava i casini di internet, Ichiji la mente e la lingua che ubriacava di parole e giochetti vari i loro clienti, accaparrandosi la gestione dei loro sistemi informatici aziendali.
Provava una profonda e viscerale idiosincrasia nell’incontrare quegli imbecilli pomposi che esigevano di incontrare entrambi i soci della Two Sparking prima di firmare un contratto, pronti ad un attacco di panico al primo bip non autorizzato del loro computer d’ufficio.
La sua fronte era corrugata di vene ostili, pronti ad esplodere in uno spargimento di sangue alla ben più che minima sciocca domanda del cliente che stavano per incontrare, quando una mano esperta di Ichiji gli prese un polsino della camicia e glielo sistemò con cura.
Il rosso non lo incalzò a rispondergli.
Sapeva quanto il suo compagno odiasse quei rari incontri e non voleva irritarlo maggiormente.
Sollevò le mani ad allegare la cravatta dell’uomo, striandogli qualche piega del completo prima di riprendere in mano la busta che aveva accantonato in una tasca.
-Ce la caveremo in mezz’ora- lo rassicurò alzando una mano a sfiorargli una mascella ispida di barba –Mezz’ora e poi tornerai ai tuoi jeans con le borchie e allo schermo iridescente dle tuo pc- trattenne un ghigno, non staccando gli occhi di dosso alla busta.
Katakuri lo studiò con occhio attento.
Non a tutti era chiaro che fossero una coppia.
Non a tutti era ovvio che non era semplicemente il lavoro a unirli.
Non a tutti era lampante che il bisogno di vivere assieme non era dettato solamente da una necessità lavorativa, ma da una vero urgenza fisica di avere sempre l’altro accanto.
Non a tutti era chiaro che la calma di Katakuri era direttamente proporzionata alla vicinanza di Ichiji.
Non a tutti, ma per Katakuri si.
-Istinto- rispose in fine alla domanda del compagno, riprendendo in mano la ventiquattrore e allungando l’arto libero ad accarezzare a palmo pieno la nuca del rosso.
-E il tuo istinto non sbaglia mai- rise a labbra inclinate Ichiji.
A volte scherzava con lui sulla sua dote di prevedere quasi il futuro, sia nel lavoro che negli eventi quotidiani, e di adattarsi a ogni tipo di avversità.
Sbatacchiò la busta sui polpastrelli della mano sinistra, le dita del compagno a giocherellare con alcune sue chiocce sulla nuca e a donargli una calma di cui non credeva aver bisogno ma che gli giovava.
L’ascensore trillò nuovamente, aprendo le porte da cui nessuno scese.
Il loro piano era ancora lontano e aveva tutto il tempo di aprire quella misteriosa busta.
Con un respiro, Ichji strappò con attenzione il bordo della lettera, estranendone il fine foglio scritto che spiegò con un gesto della mano.
Gli occhi chiari di Katakuri lo seguivano e si socchiusero appena quando il rosso esalò quelle poche parole.
-Oh, Mamma…-
 
 
-… e con l’immensa gamma di prodotti della Thriller Bark Assotiation non solo la Germa Company potrà introdursi in altri mercati e raggiungere nicchie di potenziali acquirenti, ma avrà maggiori profitti e una ben più vasta area di products target in cui incanalare la sua ampia ricerca- la penna stilografica roteò sopra il contratto, saldamente tenuta in bilico per la graffetta in un’allettante offerta dalle dita di Moria –Percui… perché non firmare?-
L’ufficio calò nel silenzio.
Nonostante il discorso dell’impresario avesse avuto successo in molte altre trattative, quella mattina sembrava non sorbire l’effetto sperato con il suo nuovo, sperava, socio in affari.
Il collega manteneva i cerulei occhi puntati sulla sua immensa mole, quasi volesse trapassarlo con lo sguardo, lanciando occhiatacce gelide a ogni suo gesto rendendo l’illuminato e caldo ufficio più simile ad una cella frigorifera che a un luogo caloroso e conciliante, ottimo per firmare accordi plurimiliardarii.
Lo fissò a lungo, nella sua posa impeccabile.
La giacca scura gli cadeva a pennello sulle spalle, seguendo ogni linea del corpo non spezzandola mai.
Neppure in quella posa dura e concentrata, come la mani unite davanti al viso a coprire metà volto, permettendo solo agli occhi di incenerirlo.
La penna traballò tra le dita di Moria, che l’adagiò sul contratto prima che venisse rapidamente recuperata dalla segretaria dell’uomo d’affari che aveva dinanzi, e che ancora non si pronunciava riguardo la sua offerta.
Tossicchiando nel schiarirsi la gola, Gekko tornò a sedersi, lanciando l’ennesima occhiata  indagatrice alla giovane segretaria che affiancava, dall’altra parte della scrivania in ebano, il giovane amministratore delegato della Germa Company.
Sembrava troppo minuti e carina per poter sopportare un uomo di tale durezza.
Un uomo duro come quello, non sembrava avere bisogno di una segretaria, eppure lei era lì, a contrastare con la sua debole figura la superba indole di acciaio del suo superiore.
Resistenza, che Moria non era riuscito a scalfire con nemmeno una sola delle sue lusinghiere e lecchine frasi ormai collaudate.
Cosa non aveva funzionato?
La sua parlantina riusciva a convincere chiunque.
Era abile negli affari, e nessun obbiettivo prefissato gli era mai sfuggito.
Si vociferava fosse in grado di vendere anche agli zombie, e che nemmeno le ombre potessero dileguarsi dalla sua morsa affaristica.
Gekko Moria era un asso dell’economia.
O così credeva.
-Uhm…- si schiarì la voce, il contratto fermo in offerta all’uomo d’affari al di là dello scrittoio -… quindi Mr. Vinsmoke?-
Quello si alzò con eleganza dalla poltrona, lasciando correre le dita della mano sinistra sul fine ricamo della scrivania e sistemando con tocco maniacale una busta bianca ornata di blu di Prussia che Moria gli aveva visto consultare, con fin troppa attenzione, prima dell’inizio del loro incontro.
Con passo lento l’amministratore passò dietro Cosette, dritta e immobile nel suo ruolo di segretaria educata e pronta a ogni ordine del suo superiore, facendola rabbrividire quando le posò una mano sulla schiena a farla indietreggiare di un solo passo.
-Quindi Mr. Moria…- fece eco al direttore delle Thriller Bark Assotiation Mr. Vinsmoke, avvicinandosi a lui –Mi chiedo: se la sua azienda è così esperta e all’avanguardia- si fermò di lato all’uomo d’affari, squadrandolo dall’alto in basso della sua posizione in piedi –Cosa cerca nelle Germa Company?-
-Caro Niji… posso chiamarla Niji vero esimio collega? Dicevo, due potenze come le nostre divise fanno faville- sollevò le mani, a reggere un impero economico visibile solo ai suoi occhi, cercando di coinvolgere il collega –Provi a immaginare cosa possono fare insieme!-
-Al momento riesco perfettamente ad immaginarmi il tuo funerale- tuonò l’uomo, composto e altezzoso, facendo tre tremare Gekko.
-Co-cosa?-
-Ehm Mr. Moria- si intromise Cosette, minuta e in flebile squittio appena udibile dietro la mole del suo superiore –Mr. Vinsmoke concorda nella visione futuristica delle vostre aziende, ma ecco…ehm… - la si poteva sentire tentennare a ogni parola pronunciata -…ha qualche remora-
-Veramente credo mi abbia appena minacciato- sbottò fulminando l’uomo d’affari, che ricambiò lo sguardo senza alcuna paura.
Era certo di cosa avesse appena sentito.
Era in là con gli anni, ma non era un’idiota qualsiasi.
Perché quella minaccia? Che sapesse dei debiti aziendali e avesse odorato l’imbroglio nel contratto che gli aveva proposto?
Impossibile, non era assolutamente possibile che si fosse saputo, che qualcuno avesse parlato che…
Il braccio muscoloso e veloce di Niji si tese verso la poltrona del suo ospite, facendola voltare verso di lui con uno scatto.
-Credi forse che sia così facile imbrogliare la Germa Company?- sibilò a un soffio dal suo naso, abbassando di un’ottava la voce.
Moria percepì chiaramente un goccia di sudore colargli dalla tempia e attraversagli il volto intero.
Sapeva, Mr. Vinsmoke sapeva!
Si specchiò nelle iridi cerulee dell’uomo d’affari, così chiare e concentrate su di lui da fargli percepire la rabbia che provava tramite uno sguardo.
-Mr. Vinsmoke!- squittì la segretaria, afferrando rapida i lembi della giacca del superiore in un vano tentativo di allontanarlo dal sempre più pallido Moria –La prego!-
-Non avrai pesato che bastavano poche pompate e belle parole per raggirarmi, e rimpinguare le casse della tua azienda da quattro soldi a discapito dei miei guadagni, spero- affilò lo sguardo sull’uomo Niji, piegando una mano dietro la schiena a stringere il polso di Cosette e fermarla nel suo continuo strattonarlo.
Si piegò maggiormente sul pallido Gekko, arrivandogli a un soffio dal viso.
-Ho ucciso per molto meno- assicurò lapidario.
-I-io…- deglutì quello, in cerca di una plausibile menzogna -… n-non so di cos…-
-Non una parola!- tuonò asciutto, arido come l’aria prima della tempesta, una mano sbattuta con violenza sulla scrivania a martoriare il contratto ignorato fino a quel momento e zittire ogni scusa del patetico uomo d’affari su cui torreggiava.
-Se permette, le darò un consiglio riguardo il contratto che mi stava offrendo- ringhiò, spiegazzando in pugno la carta bollata, portandola sotto al naso del collega –Se la infili sul per il c…-
-Mr. Vinsmoke!!!- strillò Cosette, scattando a coprirsi le orecchie, imbarazzata dalla scurrilità che il suo capo stava per proferire.
Niji sbuffò dal naso, rialzandosi dall’ormai cadaverico Moria.
Con passo lento tornò dietro la sua scrivania, sistemandosi il nodo della cravatta e appoggiando, con calcolata forza, una mano sul fianco della sua segretaria.
-Il cassetto- ordinò alla biondo ramata, tornando a mani giunte davanti il volto e ondeggiando sulla sedia imbottita.
Cosette annuì rapida, portandosi davanti alla scrivania e apprestandosi ad aprire l’ultimo cassetto dello scrittoio, puntualmente incastrato.
Sembrava impossibile, ma quel dannato cassetto si incastrava sempre, costringendola a piegarsi e a dare le spalle al suo superiore mentre pregava il tiretto di aprirsi senza farla faticare tanto.
Aveva sempre la sensazione di essere osservata mentre era piegata a novanta gradi e litigava con quel dispettoso cassetto, e se all’inizio pensava che fossero gli occhi del suo capo a guardarla pateticamente mentre tentava con le sue esili forze di vincere quella disputa con l’inserto del mobile, ora era più che certa che fosse solo una sua sciocca sensazione priva di fondamento.
Quando sentì gli inserti scorrere, tirò un sospiro di sollievo e consegnò a Niji un documento già controfirmato in calce.
Il blu annuì e le fece segno di procedere.
-Uhm…- si schiarì la gola la segretaria, avvicinandosi ad una ancora scosso Gekko.
-Mr. Moria la sua offerta è molto… interessante- tentò di tradurre in un linguaggio educato e privo di bestemmie gli intenti del suo capo –Ma Mr. Vinsmoke, in vesti della Germa Company, le propone una controfferta che troverà altrettanto significante-
Porse all’uomo il nuovo contratto, che fu scannerizzato con occhio scioccato dall’uomo d’affari, che perse ancor più colorito non appena giunse alle clausole riguardanti la sua impresa.
-Vuoi i 70% dei profitti per i primi dieci anni?!?!- strillò acuto –Mi manderai in rovina!-
-Mio caro Gekko… posso chiamarti Gekko, non è vero?- allargò le braccia beffardo Niji –Non è affar mio-
I fogli di carta fitti di parole tremarono tra le dita pallide di Moria, che balbettava con sguardo vacuo.
-Non firmerò!- tentò un’ultima accesa rivalsa –Non permetterò che…-
-Che la tua azienda venga sanata dalla Germa Company?- ghignò Niji –Fa pure! Quella è la porta: vediamo quante altre multinazionali vorranno sentire il tuo discorso su… su… su cos’era Cosette?-
-Products Target- pigolò piano la piccola segretaria, incapace di accettare come il suo superiore stesse trattando quel pover uomo: in fin dei conti cercava solo di salvare la sua attività.
Truffando quella del suo diretto superiore.
In un modo subdolo e alquanto discutibile, se non addirittura illegale.
Ma cercava di salvare una cosa a lui cara!
Si morse il labbro, i sensi di colpa in bilico tra il restare vivi e sparire.
-Esatto!- posò il capo su un pugno chiuso Niji, guardando interessato Cosette.
Moria tremava sulla sua sedia, digrignando i denti e trattenendosi dall’urlare la sua rabbia.
Non aveva scelta.
Quel dannato ragazzino dal ciuffo blu l’aveva messo alle strette.
Con astio si alzò dalla sedia facendola stridere contro il pavimento in marmo,  la penna a sfera impugnata come un’arma bianca mentre sbatteva il nuovo contratto sulla scrivania.
Firmò rapido e con ira, gettando poi la biro contro il documento, gli occhi sollevati a incrociare quelli del suo nuovo business patner, nonché diretto superiore.
Non proferì parola, indignato e ferito nell’orgoglio per il colpo appena ricevuto da quel demone vestito da uomo d’affari.
Niji ghignava tronfio per la sua nuova acquisizione, godendo dell’impotenza dell’avversario ormai sconfitto e integrato a forza nella compagnia.
Si fissarono a lungo in silenzio prima che Moria, smorfia disgustata in volto, gli voltasse le spalle lasciando l’ufficio.
-Mr. Moria! Aspett…-
Cosette provò a seguirlo, in un vano tentativo di rabbonirlo ma arrestò il suo passo quando la porta venne chiusa con un boato da Gekko.
Mogia e appesantita da un nuovo contratto poco professionale, si fermò vicino al mini bar dell’ufficio di Mr. Vinsmoke , azionando la caffettiera come prassi alla fine di ogni nuovo contratto.
La routine l’avrebbe salvata dall’appesantirsi della sua coscienza.
-Regista la nuova acquisizione e informa il reparto contabilità- ordinò rigido Niji, riprendendo in mano la lettera dai contorni blu e rileggendola per la millesima volta.
Saltò senza preamboli le prime righe cordiali e dolci, fulminando con astio l’ultimo paragrafo della missiva, non riuscendo a comprenderlo appieno.
Le sue sopracciglia si corrugarono pensierose prima di rilassarsi quando la segretaria gli posò sullo scrittoio una fumante tazza di caffè.
Accennò un sorriso e roteò gli occhi alla ragazza, trovandola con sguardo basso ed espressione combattuta in viso.
Storse il naso, accantonando la lettera.
-Cosa?- domandò diretto, ben conscio di cosa turbasse Cosette, ma per  nulla incline ad ascoltare una nuova filippica della giovane sul suo metodo di condurre gli affari.
La segretaria sospirò, sfiorando la documentazione sulla scrivania con punta di dita.
-Mr. Vinsmoke non…-
La tazza di caffè si abbatté con forza sul ripiano, zittendola.
-Cosa ti ho detto?- sbottò infastidito Niji, fulminando la ragazza.
Sentiva quella fastidiosa sensazione solcargli la schiena, insinuarsi sotto pelle e mordergli lo sterno con ferocia, abbracciandolo da dietro in una morsa meccanica che gli indolenziva il petto.
Ogni volta.
Ogni singola volta che lei parlava, che lo chiamava e usava quelle maledette parole.
-I-io…- tubò piano la ramata, abbassando il capo.
-Niji!- marcò bene il suo nome –Devi chiamarmi Niji quando siamo soli- riprese in mano la sua tazza, sorseggiandola appena –E mi pare che lo siamo… giusto? Solo noi due!- tornò con la schiena contro la poltrona, osservando con occhio attento la segretaria –Quindi niente “Mr. Vinsmoke”!- ribadì lapidario.
Cosette tentennò, non osando alzare gli occhi prima di annuire lentamente.
-Bene- accavallò le gambe l’uomo –Cosa stavi per dirmi?-
La segretaria, spostò il peso del corpo da una gamba all’altra, gli occhi appena sollevati a incrociare in un mite sguardo quelli del suo superiore.
-Credo, Niji- sussurrò piano il suo nome, quasi fosse un tesoro a cui non si sentiva degna di avvicinarsi –Che la lettera di questa mattina ti abbia reso più irascibile del solito- prese tra le mani il contratto firmato, premendoselo al petto –E che tu abbia esagerato con Mr. Moria-
Niji storse il naso, una mano a tamburellare proprio sopra la citata lettera, l’altra che reggeva ancora il fumante caffè.
-Se lo meritava- borbottò in un infantile scusa.
-Può essere- sospirò Cosette, incamminandosi verso la sua postazione esterna all’ufficio personale di Mr. Vinsmoke –Ma non è stato gentile minacciarlo di morte-
-Voleva imbrogliarmi!- sbuffò –E poi è un gradasso, un omuncolo che si crede un esperto in finanza ma che non sa nulla! Una nullità in mio confronto… in confronto alla Germa Company!-
La segretaria lo guardò per un lungo attimo, in rigoroso silenzio e con una mano posata sulla maniglia della porta, appena socchiusa.
-Ma è pur sempre un uomo, Niji- azzardò a bisbigliare.
Il blu la studiò senza replicare.
Guardò la sua figura minuta e delicata, prova di grandi forme o evidenti doti.
La guardò nella sua semplicità, in quell’abito dalle note pastello, dalla gonna troppo lunga e la camicia troppo abbottonata.
La guardò, la vide priva di grandi bellezze ma generosa con tutti.
Anche con lui.
-Forse- borbottò, cercando di ignorare il lieve sorriso che era apparso sulle labbra della segretaria.
-Ora va di là e rispondi a questa- agitò la lettera, tornando al suo tono rude e duro –Dì che sarò presente e… le solite cose!-
-Subito Mr. Vinsmoke!- scattò la ragazza.
-Siamo ancora in due!- grugnì quello, ruotando con la sedia verso la vetrata dell’ufficio e dandole le spalle.
Cosette abbozzò un sorriso impacciato e si strinse al petto il contratto, quasi fosse un’ancora di salvezza.
Si, ancora solo due.
Per ora.
-S-si…- pipiò vergognandosi del rossore d’imbarazzo che le colorò le gote.
 
 
 
Lo zippo scintillò, incenerendo la punta della sigaretta che si colorò di braci.
Con un profondo respiro né inalò l’aroma al mentolo, riempiendosi i polmoni e ricavandone un lieve sollievo alla bocca dello stomaco ancora in subbuglio.
Con occhi fissi sulla sala da pranzo gremita di gente, Sanji respirò avido la nicotina cercando di calmarsi.
Che le era saltato in mente?
A volte davvero non riusciva a capirla, eppure che vivevano assieme da quasi una vita.
Massaggiandosi il ponte  del  naso, la pagliuzza penzoloni tra le labbra, si riportò davanti agli occhi la lettera ricevuta quella stessa mattina.
L’aveva trovata sotto la porta della sua camera, e se la cosa era parsa da subito singolare se non ridicola, lo era diventata ancor di più quando l’aveva aperta dalla sua busta dai bordi giallo dorati, leggendola con iridi dilatate all’inverosimile.
Una cena.
Una cena per riunirli tutti e annunciare che… non riusciva nemmeno a formulare il pensiero completo!
Figuriamoci capire cosa l’aveva spinta a tanto.
Erano anni che non si vedevano, vero, e quella poteva essere l’occasione perfetta per riformare quella famiglia che sembrava essersi sgretolata più di dieci anni prima, ma ciò che chiedeva non era solo fuori contesto, era anche folle, impossibile, privo di alcun significato.
-Che l’è preso?- si domandò nuovamente, una nuvola di fumo liberata dalle labbra e la cenerina pizzicata nel posacenere.
Doveva essere stato difficile anche per lei, lo sapeva, e poteva trovarne conferma nel suo modo di dirglielo tramite una lettera infilata sotto la porta della sua camera.
A lui!
Che vivevano insieme da vita!
Senza accennargli nulla di tutto ciò prima, e ora, nel dopo, forse l’avrebbe fatto con gote rosse d’imbarazzo e felicità per quel piano orchestrato chissà quando ma certamente con grande amore e determinazione.
Ed era questo che lo preoccupava di più di tutta quella faccenda.
Gettò un’occhiata alla sala, ben nascosto dietro il divisorio che celava l’entrata delle cucine del ristorante agli occhi degli ospiti, liberando una piccola nuvola di fumo e cercando di staccarci dai suoi crucci.
Era lì che si rifugiava quando aveva bisogno di prendersi una pausa dalla frenesia culinaria che borbottava e friggeva nelle cucine.
Usciva nel piccolo corridoio ricolmo di carrelli usati dai camerieri e si concedeva una sigaretta, ignorando il divieto di fumare posto alle sue spalle e occhiando, in completa pace e anonimato, i clienti che si deliziavano il palato con le sue creazioni, leccandosi le labbra lucide di burro e imporporando le gote di un delicato rossore quando le pietanze colpivano le loro papille gustative ma anche il loro cuori.
Il Baratie d’altra parte non era un semplice ristorante.
Era il ristorante.
Dove potevi cibare corpo e anima.
Dove ogni cena era un’esperienza di vita e dove solamente lì potevi assaggiare e degustare i migliori piatti di tutto il paese.
Zeff, quel vecchio scorbutico del suo capo, nonché padre adottivo, aveva lavorato sodo per elevare il nome del ristornate al di sopra degli altri competitori, e lui era orgoglioso di lavorare lì, nonostante le continue litigate con il vecchio e le scazzotate che ne conseguivano.
Il Baratie era casa sua, l’unico luogo in cui si sentisse bene con se stesso e con il mondo.
Attraverso le finestrelle decorative del minuscolo androne, tra le surfinie e i geranei parigini, studiava i commensali, emanando cuori e sbavando di puro amore quando le dolci e ingioiellate signore sue ospiti gustavano i manicaretti, sciogliendosi in un overdose di felicità quando ne scorgeva qualcuna abbassarsi a fare la scarpetta nel piatto o a raccogliere i resti di una pietanza con un timido polpastrello fatto scivolare nel piatto.
Si, questo rendeva felice Sanji.
Vedere i suoi clienti felici per la sua cucina.
Eppure quel giorno, nemmeno i mal trattenuti uggiolii dei commensali in visibilio per i piatti riusciva a sollevarlo dai pensieri che lo torturavano.
Con la sigaretta penzoloni sulle labbra, estrasse da una tasca della divisa da cucina, macchiata di salse e condimenti, la ormai famosa lettera, rileggendola e saltando a piè pari l’introduzione dolce e materna, catapultandosi alla notizia finale.
La rilesse, una, due, tre, troppe volte, e il suo stomaco aumentava ad ogni lettura una contorsione di budella.
Perché?
Perché aveva preso quella decisione?
Certo, era nobile e ricolma di speranza ma Sanji sapeva fin troppo bene che tutta la buona volontà del mondo non sarebbe bastata con dei ceffi, a lui ben noti, come i destinatari di quelle lettere.
E se qualcuno avesse rifiutato l’invito? Ne sarebbe morta.
E se fossero venuti alla cena ma solo per negare a lei quel suo estremo desiderio? Il cuore non le avrebbe retto, e si sarebbe frammentato in mille schegge.
E se avesse acconsentito ma l’esperienza fosse risultata negativa?
Non voleva nemmeno immaginarsi quanto ne avrebbe sofferto.
Scosse il capo, la lettera ripiegata e riposta con cura all’interno di una tasca assieme alla busta dorata che l’aveva contenuta.
Era tropo buona, ecco cos’era, ed era disposta a tutto per loro.
Anche soffrire.
Si massaggiò il ponte del naso, gli occhi dolevano per i troppi pensieri, la sigaretta ormai arsa fino al filtro e il pranzo in sala giunto al dessert.
Ma il tormento ancora lo accompagnava.
Avrebbe potuto parlarle, ma conosceva fin troppo bene la sua testaccia dura.
Poteva chiede a Zeff di farla ragionare, ma sapeva che quel vecchio dalla barba intrecciata avrebbe appoggiato lei: aveva i pugni d’acciaio, ma il cuore tenero quel dannato.
-Che posso fare?- spense il mozzicone nel posacenere, nascondendolo tra i vasi –Cosa posso…-
-Ehi eccoti qui!-
Piegò appena il capo, osservando la minuta figura di Haruta sgusciare fuori dalle porte a spinta della cucina, non facendo traballare il piatto che reggeva su una mano nemmeno ad un passo.
-Halta chan~♥!- uggiolò vedendola, unendo le mani sotto il capo e chinandosi alla sua altezza per gustarsi meglio quel suo caschetto castano e gli occhioni verdi.
-Shh!- lo zittì quella per nulla addolcita dalle moine del biondo.
Premendo l’indice sulle labbra, afferrò con la mano libera il bavero del cuoco per strattonarlo sotto il bordo delle finestrelle -È qui!-
Un brivido caldo attraversò da capo a piedi Sanji, facendolo intirizzire.
-Cos…?- si strozzò –Non l’ho notata!- balzò dritto con la schiena, permettendo solo agli occhi di sporgere oltre le aperture ornate di fiori –Sei sicura?-
-Tavolo 20, vicino alla finestra- lo affiancò la cameriera, ruotando gli occhi verso la figura elegantemente seduta al tavolo indicato.
Il cuore di Sanji fece una capriola all’indietro nel posare gli occhi su di lei.
Era ogni giorno più bella.
Lunghi capelli color della notte senza stelle, le iridi dolci come miele, color maggese avrebbero detto i più distratta senza riuscire a cogliere quella sfumatura più profonda vicina all’iride, che ammaliava a ogni singolo sguardo.
Una sinuosa gamba dondolava a lato della tovaglia del tavolo, facendo capolino dallo spacco della gonna e permettendo a Sanji di saggiare con gli occhi la sua pelle candida e color dell’avorio.
Veniva ogni giorno al Baratie, e ogni giorno si sedeva a un tavolo diverso.
Un giorno vicino alle cucine, un altro vicino al maitre di sala, un altro ancora accanto alla finestra che dava sulla strada principale che correva davanti al ristorante.
Le piaceva cambiare, aveva supposto Satch, un altro cameriere collega della piccola Haruta, ma Sanji vedeva più un bisogno di giocare in quel continuo cambio di tavolo quotidiano.
Un gioco quotidiano, che alleggeriva un peso che sembrava gravare sulle spalle della giovane, ma che lei teneva ben segreto.
-Oggi ha ordinato un tortino al cioccolato con ripieno fondente e frutti di bosco solo rossi- lo informò Halta non riuscendo a fargli distogliere gli occhi dalla bella mora –Pudding- abbassò la voce, ben conscia che quella fuoriuscita di notizie le sarebbe costata la notizia se la capo pasticcera del locale lo avesse saputo –Ha usato la sua ricetta segreta per il ripieno-
Sanji sorrise raggiante, sollevato da ogni pensiero.
-L’adorerà- affermò certo.
Perché la divina moretta non era particolare solo in bellezza, ma anche nelle ordinazioni.
Dessert, sempre e solo dessert.
Non aveva mai ordinato né un primo, né un secondo, mai e poi mai un antipasto.
Sembrava che i dolci le fossero vitali, e ad ogni assaggio sembrava riacquistare vita, traducendola in quel solare e carnoso dettaglio che la rendeva ancor più meravigliosa.
Il sorriso.
Sanji di donne ne aveva viste molte, corteggiate tutte, amate ancor di più.
Ma mai nessuna aveva avuto un sorriso così dolce e materno, da baciare e adorare, che illuminava giorno e notte, così indescrivibile come il suo.
Era educato con il maitre di sala, dolce con i camerieri che le offrivano il menù del giorno, delicato e cordiale con quelli che la servivano, e riconoscente a chi la salutava quando lasciava il locale.
Quel sorriso era diventato un raggio di speranza per Sanji.
Bastava guardarlo, guardare lei, per ritrovare serenità e calmare i suoi animi.
Un semplice sguardo a quelle labbra socchiuse e incurvate all’insù per toccare il paradiso e ridiscendere in terra privo di peso.
E, ancora una volta, gli bastò guardare quel delicato risolino femminile per non sentire più alcun peso al cuore.
Era così bella, così angelica, così…
-Satch ha detto che si chiama Viola-
Strabuzzò gli occhi, voltandosi furioso verso Haruta.
-Come?!?- si trattenne dall’urlare –E lui come lo sa?!? Oh se ha osato invitarla fuori a cena io…-
-L’ha capito dalla firma sullo scontrino della carta di credito, sciocco!- sbuffò, tornando in piedi –Sei un idiota, lasciatelo dire!-
Si spolverò appena i pantaloni scuri della divisa da cameriera, non facendo nemmeno oscillare la sua portata.
-Geloso di una donna con cui non hai nemmeno il coraggio di parlare- roteò gli occhi al cielo –Non è proprio da te!-
-La mia non è gelosia Halta chan- mentì spudoratamente il biondo –Sai anche tu quanto Satch sia un pessimo soggetto per il gentil sesso!-
-Si si certo, tu invece sei Mr Prince, e puoi stalkerare a distanza una commensale… vero?- mosse qualche passo la castana, sospirando.
Sanji s’imbronciò, posando il mento sul piccolo davanzale.
-Sei cattiva Halta chan… ma così carina!!!-
La cameriera sbuffò, avviandosi verso la sala.
-Patetico- sbuffò –E la vuoi sapere un’altra cosa?- piegò appena il capo all’indietro a squadrarlo ancora rannicchiato a spiare la sua bella.
-Pendo dalle tue labbra mia Venere in mignatura- le lanci un bacio.
Haruta ghignò, sadica.
-Tua madre ti aspetta in cucina-
 
 
Vito aveva iniziato a lavorare per la famiglia Vinsmoke da ragazzino.
Grazie a suo cugino Bege, guardia del corpo del patriarca famigliare, era riuscito a farsi assumere prima come aiuto giardiniere della dimora estiva, poi come autista dei piccoli figlioletti dei coniugi Vinsmoke, raggiungendo il titolo di autista personale di Mrs. Vinsmoke all’età di ventiquattro anni e infinte, con somma gioia e orgoglio, personale tutto fare alias raccogli informazioni alias risolvi problemi spinosi di –e a ripensarci ancora gli lacrimavano gli occhi – Mr. Vinsmoke.
Era stato un onore per lui servire il capo stipite della famiglia Vinsmoke, il padre amorevole di una numerosa famiglia, devoto marito, integerrimo educatore, lodevole compagno,  l’impresario più potente e lungimirante del paese.
Lavorare per Judge Vinsmoke era stato il sogno di tutta la sua vita, e lo aveva realizzato.
Gli era rimasto accanto alla nascita di tutti i suoi cinque figli.
L’aveva ammirato nella sua stoica e insofferente figura quando la dolce consorte l’aveva lasciato, scappando con lo chef personale della famiglia e il figlioletto malaticcio, impedendo la fuga di notizie e mettendo a tacere ogni singolo gossip.
Aveva festeggiato con mr. Judge ogni amante che aveva conquistato, facendola scomparire nel nulla quando si stancava di lei.
Ogni informazione necessaria veniva raccolta, o cancellata se richiesto.
Ricerche impossibili, dati personali, segreti aziendali e altri servizi non molto legali erano stati svolti con discrezione e velocità da Vito.
Tutto, pur di soddisfare Mr. Judge Vinsmoke.
Ogni singolo ordine era stato compiuto con devozione e grande rispetto.
In quasi quarant’anni di servizio non si era mai preso un solo giorno di vacanza, scattando al primo squillo di chiamata e lavorando con integerrima passione.
Vito aveva votato la sua intera esistenza per la felicità del suo idolo.
Per Judge Vinsmoke.
E poi tutto era finito.
Il suo brillante capo era andato in pensione e, acquistata un’isoletta nell’arcipelago tropicale di Saboudy, si era ritirato sulle dorate spiagge della sua proprietà privata con un fondo pensione niente male che gli avrebbe fatto da reddito fino alla fine del suoi giorni.
Addio Germa Company.
Addio alla villetta sulle colline che circondavano la città.
Addio alle numerosi amanti cittadine.
Addio al numero di telefono del suo schiavetto di fiducia.
Jugde si era dimenticato ben presto del suo devoto tuttofare, che aveva liquidato con una semplice missiva interna della compagnia e che gli comunicava che sarebbe stato “ricollocato secondo le sue dovute mansioni” all’interno dell’impresa.
Vito si era ritrovato così abbandonato dal suo idolo.
L’impresa delegata ai figli, le missioni di ricerca abolite per una politica aziendale più corretta, i segreti aziendali studiati da lontano e non più rubati, le attività diversamente legali ridotte ai minimi storici.
L’uomo di fiducia di Judge si era visto sottrarre ogni singolo compito interessante svolto fino a quel giorno sotto il comando di Mr. Vinsmoke, ritrovandosi a guidare le guardie di controllo interno della Germa Company.
Certo, era divertente torturare, pardon, fermare con eccessivo zelo, prima di consegnarle alla polizia vera e propria, le spie da quattro soldi che tentavano di rubare informazioni dell’impresa di famiglia del suo adorato ex capo, ma gli mancavano i pedinamenti e il mettere a tacere in modo permanente i concorrenti economici dell’impresario ora pensionato.
Gli mancava Judge e i contatto con ciò che restava della famiglia Vinsmoke, ormai lontana da lui.
Erano stati mesi duri per Vito.
Odiava addestrare le nuove guardie, firmare i loro assegni, perlustrare i noiosi uffici aziendali e far rispettare la legge senza poter sparare a nessuno.
Era sull’orlo di un crollo nervoso, pronto ad accoltellare con una stilografica il primo impiegato che si fosse attardato negli uffici e che, complice l’oscurità notturna, non sarebbe riuscito a riconoscere.
Vito voleva tornare in azione, voleva tornare ai luminosi albori di malefatte giustificate, alle violenze gratuite e benefiche per l’impresa del suo ingrato ex capo.
Era pronto a tutto Vito, a tutto  pur di non rassegnarsi a quel lavoro di babysiteraggio aziendale che non gli permetteva di sparare a nessuno.
Sperava che accadesse qualcosa, che qualcuno arrivasse a svegliarlo da quell’incubo orribile di sorrisi cordiali, pace e burocrazia.
Sperava, pregava e teneva le armi pulite.
Poi, finalmente, era apparsa lei.
Come un angelo, esattamente come se la ricordava quando da ragazzo l’accompagnava ovunque con la lussuosa auto famigliare, l’aveva contattato dandogli un incarico super segreto e importantissimo.
Aveva pianto nel rivederla, urlato di gioia nel sapersi ancora una volta utile per la famiglia Vinsmoke, e onorato di tale fiducia per un compito così delicato.
Era così che Vito Firetank aveva ritrovato un motivo per vivere.
In un uggioso e noioso pomeriggio di luglio, nel suo ufficio alle Germa Tower, divenuto improvvisamente luminoso e caldo non appena la porta si era aperta rivelandola.
Dopo quasi quindici  anni dalla sua fuga, senza una sola ruga in più e con il sorriso caldo e gentile che Vito ricordava lo facesse sempre arrossire quando lo incrociava quando alzava gli occhi allo specchietto della limousine, era entrata nel suo ufficio di controllo generale della sicurezza interna aziendale, chiedendogli aiuto.
Si, Vito ne era certo, lei era un angelo, un angelo che gli aveva ridato uno scopo nella vita.
E quell’angelo si chiamava Sora Vinsmoke.
Ex Vinsmoke, futura Blackleg era venuto a sapere poi.
Aveva impiegato qualche ora a ricomporsi, e le lacrime erano scese a intermittenza man a mano che la ex consorte del suo idolo gli esponeva il suo compito.
-Devi rintracciare i miei figli e portarmi informazioni su di loro- gli aveva spiegato con tono materno Sora, composta sulla sedia che le aveva offerto mentre lui si prostrava ai suoi piedi.
-I patti con Judge sono stati chiari fin dall’inizio: se non avessi alzato polveroni riguardo il nostro divorzio e se avessi affidato a lui i miei bambini, lui si sarebbe occupato di loro in tutto e per tutto- aveva gonfiato le guance oltraggiata, parlando svelta e in una cascata di rabbia.
-Ma ora che è lontano e in pensione, chi penserà a loro? No Vito, non provare a dirmi che sono grandi abbastanza: ci ha già provato Zeff e si è ritrovato a dormire per una settimana sul divano!- la sentiva ancora ridacchiare nel raccontargli la sua nuova vita.
-Come posso sposarmi senza saper come stanno i miei figli?!? Devo sapere!-
Le lacrime avevano iniziato a scorrere copiose dai piccoli occhi di Vito, commosso per la storia d’amore della sua signora e dimenticandosi bellamente di ciò che aveva fatto a Judge.
Chi se ne fregava se aveva lasciato il suo idolo!
Era lei ora a rappresentare, davanti ai suoi occhi, la casata Vinsmoke.
D’altra parte era lei che aveva dato i natali a quei adorabili esserini che ricordava scorazzare intorno a lui in tenera età, legandolo mentre giocavano ai conquistatori americani e agli indiani bruciati vivi.
Era orgoglioso di interpretare il pelle rossa destinato al rogo, e che gioia nel ricordare quanti vestiti erano stati bruciacchiati con il dolce sottofondo dei piccoli Ichiji e Niji ridacchianti.
S’imponeva di non ricordare per non iniziare a piangere: troppe emozioni!
Aveva accettato il suo compito con grande entusiasmo, annuendo e colpendosi il petto ripetutamente nel giurare di perorare la causa anche dopo la morte, se necessario.
Si era quindi ritrovato a raccogliere ogni tipo di informazione riguardante i cinque figli di Sora, Sanji incluso nonostante vivesse con sua madre e il futuro marito.
-… voglio essere certa di sapere ogni cosa di loro- aveva preso nota delle buone intenzioni materne della donna, scribacchiando lesto su un taccuino –Vorrei poterlo fare io ma… sono quindici anni che non li vedo: come potrebbero reagire? No, voglio arrivare preparata a prendermi cura di loro come facevo un tempo!-
In breve tempo aveva raccolto le informazioni basilari sui gemelli Vinsmoke e sulla loro sorella maggiore.
L’indirizzo di residenza conosciuta, l’occupazione, dati medici generali, abbonamenti cartacei, ristoranti preferiti e scontrini di prodotti farmaceutici.
Così, giusto per sicurezza.
Aveva infine aggiunto qualche considerazione personale tratta dall’analisi dei dati, inserendo alcune foto a distanza dei soggetti controllati, non più di tanto ravvicinate in rispetto della privacy personale e in ricordo di quei adorabili bambini con cui aveva giocato in passato.
Ben attento ad non essere rintracciato, aveva poi consegnato il tutto a milady Sora (-Smettila di chiamarmi così Vito! Pelo patate in un ristorante: non c’è nulla in me che ricordi una “milady”. E credimi, ne sono felicissima!- continuava a ripetergli il suo dolce angelo) aspettando ulteriori ordini.
Una vocina gli sussurrava che forse, finito quell’incarico, la dolce ex signora Vinsmoke non l’avrebbe più ricontattato, pensando personalmente a come raggiungere il suo obbiettivo.
Eppure Vito ci sperava, sperava di far parte di quel grande piano materno e dolce che Sora aveva orchestrato, e sperava di essere un tassello fondamentale per lei e per la felicità dei signorini.
Aveva iniziato a contare le ore che avevano iniziato a scorrere dal momento in cui aveva consegnato il fine fascicoletto contenente le informazioni raccolte a Sora, sperando non ne passassero troppe prima di un nuovo contatto.
Sentiva l’euforia inebriarlo, e colto dalla gioia aveva perfino risparmiato un ladruncolo da un furioso pestaggio quando l’aveva scoperto nei magazzini della compagnia.
Gli aveva solo sguinzagliato dietro i cani da guardia.
Si, Vito si sentiva buono, buono e utile.
E la sua bontà fu ben presto ripagata.
Erano passate appena cinque settimane (non che lui le contasse eh!) quando Sora si era rifatta viva nel suo ufficio nel caldo sole di inizio settembre.
-Mi spiace tornare a chiederti aiuto- si era seduta composta –Ma sei l’unico a cui posso chiedere…-
Gli occhi erano tornati ad inumidirsi al povero Vito, mentre annuiva in estasi.
-Mi serve ancora il tuo aiuto e… ti serve un fazzoletto Vito? Smettila di piangere, non ti ho ancora chiesto nulla! No, non ti scusare e basta con questo milady! Vito!!!-
Erano serviti due pacchi di fazzoletti e tre pacche sulla spalla da parte di Sora per calmare l’animo della ex spia di fiducia di Judge, ma alla fine era riuscito ad ascoltare la richiesta della sua nuova fonte di idolatria senza piagnucolare troppo.
-… maggiori informazioni-rero?- aveva corrugato la fronte.
Sora aveva annuito.
-Come ben sai mi sposerò con Zeff… non ricominciare a piangere ti prego!- gli aveva offerto l‘ennesimo fazzoletto –Ma prima di farlo devo aiutare i miei piccoli. Voglio che siano felici prima ancora che lo sia io, ma per farlo mi servono più informazioni. Lo capisci vero? È un dovere di mamma!-
Vito aveva annuito, capendo benissimo a cosa si riferiva.
Lui stesso avrebbe fatto di tutto per rendere felice suo nipote Pez.
Per una madre, quel dovere doveva essere mille volte superiore.
-Desidero che mi porti informazioni riguardo alle loro vite personali- aveva chiesto gentilmente –Ogni tipo di informazione che troverai: va bene qualsiasi cosa. Voglio sapere come renderli felici totalmente!-
L’aveva vista sorridere mesta, portandosi dietro un orecchio la dorata ciocca di capelli che le dondolava sul viso.
-Quando ero sposata con Judge, sapevo come non farli sentire soli, come farli ridere e che non si accorgessero di tutte le amanti che lui portava a casa- sorrideva teneramente al ricordo –Sapevo come renderli felici… ma ora non più-
Gli aveva preso le mani tra le sue, stringendole con forza e inginocchiandosi davanti a lui.
-Per favore Vito: aiutami! Ti sarò riconoscente a vita!- aveva le lacrime agli occhi –Aiutami a rendere felici i miei figli: aiutami a realizzare i loro desideri più nascosti!-
Non c’era stato bisogno di aggiungere altro.
Non sarebbe stato necessario nemmeno che lei aprisse bocca: lui era Vito, l’uomo tuttofare della famiglia Vinsmoke.
Avrebbe fatto di tutto per loro.
E così era stato.
Aveva impiegato anima e corpo, e non si era dato pace per mesi interi.
Aveva bruciato l’autunno e buona parte di Dicembre nel raccogliere, catalogare, spiar… parodn, osservare con attenzione i signorini, non facendosi mai notare e scoprendo ogni loro più piccolo particolare.
Aveva informato la signora Blackleg man a mano che raccoglieva i dati, iniziando dagli studi approfonditi in materia femminile del giovane signorino Yonji, accennando a un vago numero di ragazze che avevano avuto l’onore di fargli compagnia in questo o quel letto, spezzando così la monotona routine di studi del ragazzo.
Mai nemmeno una però l‘aveva vista tornare a fargli visita.
Sora annuiva, leggeva con sommo interesse i dati e pian piano dava forma al suo progetto.
-Voglio riunirli ad una cena il secondo sabato sera di Gennaio- aveva informato Vito della prima parte del piano quando il sicario le aveva riportato ben tre rullini di foto, meticolose e in varie sfumature di intensità, riguardanti le cene aziendali a cui Mr. Niji partecipava sempre accompagnato dalla fidata segretaria Cosette Tholomyès, una ragazza priva di grande bellezza, così anonima e noiosa.
Non sembrava avere chissà che talento, anzi: se si cercava la parola “Anonima” nel dizionario, di certo ci sarebbe stata la sua foto con descrizione come esempio.
Eppure mr. Niji sembrava accorgersi quando si allontanava di un passo di troppo da lui, cercandola con ossessione con lo sguardo fino a trovarla e riportarsela al fianco.
-Tu avrai il compito di consegnare a ognuno dei miei figli l’invito- gli aveva mostrato le cinque lettere di colore diverso e destinate ai suoi amati figli.
-Anche a Sanji- l’aveva informato osservando sconvolta il fascicolo più voluminoso fin ad allora portatole da Vito, in cui vi era riportata la vita di Mr. Sanji.
Che gioia era stata per  l’uomo vederlo ora in forze e sano di salute dopo averlo visto scomparire da bambino, quand’era sempre malaticcio e debole.
Ora era un bell’uomo, grande e di bell’aspetto, con numerose amanti e non troppi segreti, come quel piccolo posacenere che teneva ascosto tra i geranei del divisorio tra sala da pranzo e cucina del Baratie.
Ma poca cosa, si si, ne era convinto Vito, che riportava  le sue passeggiate nel centro città vicino a locali dismessi, e numerava le sigarette fumate tra le surfinie mentre lanciava occhiate strane alla sala gremita di clienti.
-In ogni lettera spiegherò il motivo del mio allontanamento forzato dalle loro vite e che voglio rimediare- le era sfuggito un sospiro nel parlare e lui l’aveva raccolto in punta di dita –So bene che non ho alcun diritto di tornare, di intromettermi nelle loro vite e chiedere di ricreare quella famiglia che ormai non c’è più… dopo così tanti anni poi!- una risata amare –Ma se solo potessi fare qualcosa per loro, se solo potessi abbracciarli per un’ultima volta e dirgli che li ho amati sempre, allora potrei scomparire di nuovo se lo vorranno e ne sarei felice. E questa lettera sarà il primo passo… si Vito puoi averne una copia-
Il bilancio aziendale della Two Sparking era stato lanciato in aria con un urlo da parte di Vito, commosso dalla concessione della sua signora.
Avrebbe potuto tenere con sé quella meravigliosa lettera d’amore e chissà, magari farcisi seppellire insieme anche quando fosse giunta la sua ora.
Aveva pianto sulle foto del signorino Ichiji e del suo collega in affari Mr. Charlotte, entrambi residenti al medesimo indirizzo, entrambi aventi la stessa auto, lo stesso codice bancario, lo stesso distributore di profilattici di fiducia.
Sembravano avere, anche e stranamente, gli stessi strani succhiotti sul collo e sulle parti del corpo più in vita. Forse una reazione allergica, aveva suggerito Vito a milady Sora.
-Li inviterò tutti a cena al ristorante di Zeff e li informerò del grande evento!-
-Il suo matrimonio- rero!- aveva gettato in aria fogli, ballando a gambe larghe.
-Ma no Vito! Che passerò due giorni interi con ognuno di loro per recuperare un po’ di tempo passato e iniziare una nuova vita assieme!- aveva gettato all’aria altrettanti fogli Sora, unendosi al balletto del moro, saltellando nel salottino del suo appartamento sopra la locale di Zeff e pestando qua e là i pochi documenti che Vito le aveva portato.
-Sono felice per lei milady sigh-rero!-
-Oh piantala con questo milady Vito!- ridacchiò, tornando a sedersi –E ora passiamo alle cos importanti: le lettere le hai tutte?-
-Signor si Signora!- si tese sull’attenti Vito.
Le conservava in una cassaforte a casa sua, con doppia tenuta stagna e codice binario di sicurezza.
Ogni sera controllava il contenuto della cassaforte, azionando i raggi laser della stanza in cui era riposta. Aveva per fino spostato la cuccia dei suoi cani nella stanza, e la sua glok o affiancava sempre nel sonno in caso di necessità.
-Sai quando consegnarle?- chiese ancora Sora, divertita da quel riepilogare i punti del suo piano nella fase preparatorio con tono militare.
-Entro e non oltre il mezzogiorno in data della cena, signora!- batté i tacchi contro di loro, annuendo convinto.
Non si sarebbe permesso nemmeno un minuto di ritardo: il timer ticchettava sul suo cellulare e dentro la sua testa con ritmo marziale.
-Oh bene bene!- si trattenne dal ridere, coprendosi le labbra Sora –Riposo riposo Vito, la parte burocratica è superata!-
Accavallò le gambe, entusiasta e golosa di informazioni, sporgendosi verso l’uomo che recuperava i pochi fogli candidi che le aveva portato.
Lo fissò con attenzione riporli nella loro cartellina, per poi posarla sul tavolino che li separava.
Non voleva mettergli fretta, ma l’attesa la uccideva.
-Quindi- strinse le mani alla gonna –Quelle sono le informazioni su Reiju?- pigolò con voce acuta d’eccitazione.
Era l’unica di cui non aveva ancora ricevuto notizie, e fremeva per averne.
Vito sbiancò alla richiesta della sua signora, rabbrividendo da capo a piedi.
Perché se c’era una cosa che gli incuteva timore, era tradire le aspettative di chi si fidava di lui.
Aveva impiegato anima e corpo in quel progetto.
Si era annullato, dimenticandosi a volte di mangiare, di dormire, di lavarsi per giorni, pur di portare a compimento quel piano superiore che gli era stato affidato.
E lui, ingrato e inetto, aveva fallito.
-Ehm… ecco…-
Perché si, se c’era qualcosa di cui aveva paura, era davvero quella: fallire.
E fallire non significava solo non portare a termine un compito ma veder apparire quel labbro tremulo di tristezza, gli occhi cerulei riempirsi di lacrime e la voce spezzarsi di dolore della sua milady Sora.
Perché si, Vito aveva fallito.
Vito non era riuscito a trovare Reiju Vinsmoke.
Scomparsa, sparita, smaterializzata.
La primogenita della casata Vinsmoke era letteralmente sparita dal luglio precedente.
Dalla sua prima ricerca superficiale, raccogliendo informazioni all’interno della Germa Tower e non approfondendo più di tanto, Vito non si era reso conto di quanto datate e poco accurate fossero stati i dati che aveva raccolto.
L’indirizzo di residenza della signorina?
Attribuito a una famigliola felice e con una bambina di nome Rebecca.
Il suo ruolo di capo delle ricerche di mercato della Germa Company?
Riassegnato da lei stessa a una certa Nico Robin di Ohara, che poteva avere anche gli occhi azzurri come la sua signorina, ma mai belli come i suoi: ne era convinto!
Il conto bancario alla Crocodile Bank?
Svuotato fin all’ultimo risparmio.
La lussuosa auto aziendale, cromata, con interni riscaldati e dal motore con quattro cilindri?
Venduta a impresari da quattro soldi indegni di tale gioiello meccanico.
Vito era disperato.
La sua piccola signorina era scomparsa nel nulla!
Come? Come aveva potuto permetterlo?!?
Come aveva fatto ad non accorgersene?
Si era prostrato in ginocchio davanti a Sora, chiedendo perdono e implorandola di punirlo corporalmente per quel suo enorme fallimento.
Doveva punirlo, frustarlo, spezzarli le dita, accecarlo con un tacco negli occhi, investirlo con l’auto più e più volte, sguinzagliargli contro i cani…
-Vito smettila!- l’aveva rimproverato severa ma giusta –Hai solamente cercato male- non era degno del suo caldo sorriso, né era certo –Mi fido di te: troverai Reiju, dovunque si sia nascosta. Non può essere scomparsa dalla faccia della terra, no?-
No, non poteva, e Vito ne era certo.
Dovunque lei fosse, avrebbe ritrovato la sua adorata signorina dai capelli color fragola.
Aveva dato sfoggio dei suoi mezzi più segreti e affidabili, seguendo piste e fiutando ogni indizio, non tralasciando mai di controllare, ogni tanto, i fratelli della signorina Reiju.
Aveva bruciato settimane in appostamenti, scartabellando documentazione privata in uffici comunali incautamente incustoditi, convinto a suo di pugni e dolci paroline funzionari pubblici a confidarsi con lui e ripercorso gli ultimi giorni della signorina Reiju alla Germa Company immedesimandosi nei suoi panni.
Ma era stato tutto inutile.
Madmoiselle Vinsmoke era sparita.
Vito si sentiva un verme.
Con che coraggio avrebbe riaffrontato milady Sora ora?
Non riusciva a trovare la sua bimba, e la data di consegna delle lettere era sempre più vicina.
Aveva fallito miseramente, tradendo per la seconda volta la fiducia della sua adorata padrona.
Che essere vile era, che inutile uomo tuttofare che non sapeva fare nulla!
Una larva, un inetto, un inutile omuncolo ingrato e inadatto a servire la casata Vinsmoke.
Stava raschiando il fondo dei suoi mezzi, quando una nuova luce angelica gli era apparsa a salvarlo: un contratto di affitto a nome di madmoiselle Reiju.
Nella fredda mattina di quel venerdì di gennaio, Vito aveva ripreso a sperare.
Il nome della sua cara signorina era apparso per caso, accostato a un affitto semestrale di un semplice appartamento.
Nella zona residenziale in periferia della città, a poco più di cinque chilometri dal centro cittadino e a non più di dieci dalla villa famigliare in cui era cresciuta.
Non poteva crederci.
A un giorno dalla cena, aveva trovato una pista concreta di dove fosse la sua piccola signorina.
Senza concedersi una doccia né la colazione, si era catapultato fuori dal suo appartamento dove aveva ricevuto la soffiata da un suo amico di “o mi tieni informato o ti verrò a trovare ogni santo giorno con a mia pistola” che lavorava presso il comune.
Ingranando la prima, si era messo in moto con la sua berlina, sfrecciando per le strade e scalando marce senza rispettare alcun codice stradale.
L’aveva trovata!
Aveva trovato miss Reiju!
Gli tremavano le gambe dall’emozione, e non sapeva grazie a che santo era riuscito a trattenere le lacrime nel guidare ai cento all’ora in centro città.
Rallentò solo quando individuò la palazzina del condominio, a cui giro attorno per una buona mezz’ora prima di accostare per studiare con attenzione il portone d’ingresso.
Non era un condominio degno di nota.
Un semplice residenze popolare, mal riverniciato, troppo vicino alle scuole pubbliche e a negozi che avevano visto tempi migliori.
Decisamente un ambiente indegno per la sua padroncina!
Masticando un cornetto preso al volo in un bar lì vicino, studiava concentrato il via vai giornaliero che brulicava dal condominio.
Operai e scolari si davano il cambio con nonnine e madri cariche di borse della spesa.
Aveva contato ben dodici marmocchi dall’età prenatale fino alla puberale, un paio di soggetti sessualmente confusi, sette nonnine che avevano dedicato i loro ultimi anni di vita all’ingrasso dei piccioni e alla video sorveglianza della strada e dei vicini, varie famigliole più o meno urlanti e parecchi lavoratori.
Ma di miss Reiju nemmeno l’ombra.
Adocchiò l’orologio, le cui lancette miravano alle quattro passate del pomeriggio, ragionando velocemente sul da farsi.
Il tempo gli era nemico: mancavano poco più di trenta ore alla cena e lui non aveva ancora consegnato la famosa lettera.
Se voleva essere sicuro che la soffiata ricevuta era esatta, doveva scendere e controllare i nominativi dei campanelli.
Nel caso in cui fosse stata esatta, e lo sperava per il suo amico se non voleva ritrovarsi con una collana fatta con i suoi stessi denti, doveva poi entrare nell’androne del condominio e imbucare la lettera nella giusta casella, il tutto senza farsi riconoscere né attirare troppo l’attenzione delle nonnine-spia poste sulla panchina davanti all’ingresso del portone.
Rimuginò rumorosamente, analizzando la situazione.
Aveva una sola possibilità.
Non poteva andare avanti e indietro per controllare e recuperare la busta per imbucarla: le anziane pettegole lo avrebbero etichettato come “soggetto sospetto”.
L’auto parcheggiata a una distanza studiata gli permetteva una buona visuale sul via vai dell’edificio, e in pochi attimi prese la sua decisione.
Con estrema cautela, estrasse una busta di sottovuoto da una valigetta chiusa a chiave e con pin di riconoscimento digitale.
L’aprì con attenzione e, armato di guanti, ne estrasse la lettera rosata destinata alla sua padroncina.
Con devoto riguardo, la depose nella tasca interna del cappotto, all’altezza del fianco, opposto alla pistola, così che, in un improvviso scontro a fuoco, anche se colpito al cuore non avrebbe macchiato la sacra reliquia con i suoi fluidi.
Prese un respiro profondo e aspettò con pazienza.
Non appena vide uno dei volti noti del condominio fare ritorno dai suoi impegni giornalieri, scese dall’auto e si avvicinò al portone dell’edificio.
Sgusciando dietro alla madre di ritorno dai giardinetti armata di marmocchio unto di gelato, che scansò facilmente, e controllò con rapidità i nominativi sui campanelli affacciati sulla strada, approfittando delle chiacchiere tra nonnine e madre per consultarli senza dare troppo nell’occhio.
Il marmocchio sbrodolava in sua direzione, ma non si permise di fulminarlo con un’occhiataccia per evitare di attirare l’attenzione delle vedette rugose a causa del pianto dell’infante.
Ci mise appena un minuto e dodici secondi per trovarla, ma dovette trattenere la gioia nel leggere le iniziali “R. Vinsmoke” per non essere scoperto dai nemici della terza età.
Gli occhi gli lacrimavano nell’estasi di aver raggiunto il suo obbiettivo, e stava quasi per commuoversi rumorosamente e perdere la sua entrata gratis, quando la madre aprì il portone del condominio.
Stoico, prese possesso di sé, e sgusciò all’interno dell’androne nascondendosi dietro all’angolo cieco delle caselle postali non appena notò il collo bislungo di una delle vecchiette.
-Qualcosa non va Tsuru?- sentì il gracchiare di una delle vedette.
-Mah… mi è sembrato divedere entrare uno sconosciuto-
-A me non sembra. Quand’è stata l’ultima volta che ti sei controllata le cataratte?-
-Quando eri una bella ragazza Caramel cara: secoli fa. I dinosauri esistevano ancora!- rimbeccò tornando al suo posto la vecchina, permettendo a Vito di tirare un sospiro di sollievo.
Era salvo.
Salvo, al sicuro e a un passo dal compiere il suo eroico gesto per il progetto di milady Sora.
Con gambe tremanti si accostò alla parete placcata di caselle postali, analizzandone una per una in cerca della sua beniamina.
Gli occhi tornarono a lacrimarsi quando rilesse il so nome.
-Madmoiselle Reiju!- tirò su con il naso –Oh mia cara signorina: l’ho ritrovata-rero!-
Non riusciva a crederci, la commozione era troppa e gli occhi lacrimavano rendendogli difficile decifrare le altre parole accostate alle dolci e melodiose iniziali della sua padroncina.
Parole senza senso, ne era sicuro, non degne di una lettura attenta, e poi che importava: aveva ritrovato la sua bambina!
Si, sua.
Un pochino lo era insomma!
Si sfregò gli occhi con la manica del cappotto, ignorando i passi pesanti che scendevano le scale che aveva dietro le spalle e chi le percorreva, ritrovando il contengo degno per il suo gesto.
Con mani tremanti estrasse dal suo luogo sicuro la lettera rosata, accostandola appena all’imboccatura della casella postale.
-Un piccolo passo per Vito- piagnucolò sorridendo sghembo, ignaro dell’imponente ombra che calava su di lui –Un grande passo per la casata Vinsm…!-
-Che cazzo stai facendo?!-
La lettera scivolò a terra, strappando un urlo strozzato a Vito.
No!!!
Il sacro amore di milady Sora infangato da germi di popolani e poppanti!
Si gettò a terra a recuperare la sacra busta, salvandola dalla polvere e, con una mossa che non aveva nulla da invidiare a un carpiato eseguito ai massimi livelli, l’imbucò con agilità evitando ulteriori contagi.
Tirò un sospiro di sollievo, premendo entrambe le mani sulla fessura della casella nel caso in cui la lettera volesse uscire.
Si, era tutto finito.
Aveva compiuto al suo dovere, portando a termine la parte più importante del piano di milady Sora e dando il via libera al suo materno e glorioso progetto di ricongiungimento famigliare.
La missione era salva: ora poteva sparare a quel deficiente che aveva provato a sabotarla!
-Tu!- ringhiò voltandosi, mano alla fodera –Hai idea di cosa…-
Una pesante mano si abbatté sulla parete placcata, a un millimetro dal volto di Vito, che sbianco davanti a quell’armadio di dodici cassetti e quattro ante che lo sovrastava, sulla cui cima una cresta rossa e vulcanica fumava di rabbia.
Si fece piccolo piccolo sotto l’imponente figura che si premeva su di lui, assottigliandosi contro le caselle postali del condominio.
-Te lo chiederò una sola volta, microbo- parlò l’armadio, dal profondo del su torace con voce cavernosa e violenta, abbassandosi a impiantare lo sguardo di ambra contro i gli occhiali scuri e terrorizzati di Vito –Che cazzo hai messo nella mia buca delle lettere?-
 
 
 

 
   
 
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