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Autore: Cioppys    22/02/2018    4 recensioni
[MitKo]
C’è tempo, c’è sempre tempo per tutto… o almeno così credevano Mitsui e Kogure. A volte, però, una strada che sembra prefissata può subire una deviazione e discorsi lasciati in sospeso, da riprendere poi, perché “tanto c’è tempo”, rimanere lì, nel limbo, senza una conclusione. Capita poi, a volte, che quel tempo inaspettatamente rubato venga altrettanto inaspettatamente restituito. E chissà, allora, che non sia giunto il tempo di affrontare le questioni lasciate in sospeso e dar loro le giuste risposte.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hisashi Mitsui, Kiminobu Kogure
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer
Tutti i personaggi di Slam Dunk appartengono al grande, mitico e immenso Inoue-sensei.

Sproloqui di un’autrice
Volendo continuare la mia opera di ripubblicazione – e superare il consueto blocco in cui sono incappata scrivendo altro (leggasi “Insieme per Sempre”) visto che impuntarsi su un paragrafo che non vuole scriversi è una mera perdita di tempo, così la settimana necessaria ad uscirne la impiego in qualcosa di costruttivo –, ho deciso di ripescare un’altra fan fiction da risistemare da riscrivere. Pubblicata per la prima volta alcuni anni fa, stavolta però si passa dalla prima alla terza persona, perché col cavolo che mi metto a scrivere un POV di Kogure! Per quanto il personaggio mi piaccia, è talmente lontano chilometri e chilometri – e ancora chilometri – dal mio modo di pensare che ai tempi fu un’autentica tortura – roba da strapparsi le budella! – e no, non ripeterei l’esperienza per nulla al mondo!
Buona Lettura!

~ * ~ * ~ * ~

 

L’amicizia di Ieri e l’Amore di Oggi
di Cioppys

 

-Due anni prima-
 
Il campionato era ormai alle porte: tre settimane e sarebbero iniziate le fasi eliminatorie.
Kogure si fermò nel mezzo del marciapiede e alzò lo sguardo al cielo, così limpido dopo la notte di forte vento appena trascorsa che aveva spazzato ogni nuvola, lasciando dietro di sé un azzurro accecante. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, assaporando la brezza che trasportava l’odore pungente del mare.
Con ogni probabilità, quell’anno non avrebbe partecipato neanche a una partita, se non a qualche sporadica amichevole, eppure era emozionatissimo. Lui, una riserva della riserva. Chissà come si sentiva Akagi che, nonostante fosse una semplice matricola, avrebbe addirittura giocato da titolare. Anche se aveva ancora molto da imparare, soprattutto nei tiri e nel palleggio, sotto canestro non aveva rivali, nemmeno tra i senpai.
Tuttavia, in quello splendido quadro dai colori vivaci, c’era una macchia nera che ne rovinava la bellezza.
Strinse le dita sul manico della cartella e riprese mesto il cammino in direzione della clinica, in cui Mitsui era stato ricoverato dopo lo sfortunato infortunio al ginocchio del mese scorso. Andava spesso a trovarlo, almeno tre o quattro volte la settimana, appena gli impegni scolastici o del club glielo permettevano, eppure aveva la sensazione di non fare abbastanza.
Durante le ultime visite, l’umore del suo compagno di squadra era peggiorato a vista d’occhio. Il desiderio di essere il giocatore chiave dello Shohoku, il suo pilastro portante, contrastava in maniera evidente con la dura realtà dei fatti: Mitsui non ce l’avrebbe fatta a rimettersi prima dell’inizio del torneo estivo – e forse neanche per la fine –, una consapevolezza che diventava ogni giorno un macigno sempre più difficile da sostenere. Ciò nonostante, Mitsui non sembrava disposto a condividerne il peso con altri, anzi, mascherava la depressione dietro la solita spavalderia, incurante di come questa lo stesse visibilmente divorando dall’interno.
Il famigliare rumore del rimbalzo di una palla da basket, attirò l’attenzione di Kogure. Sovrappensiero, gettò un’occhiata distratta in direzione del piccolo campo di cemento, a lato del quale passava ogni volta si recava in clinica.
Fermo davanti alla linea dei tiri liberi, stava di spalle un ragazzo moro. Dopo altri due veloci palleggi, il tizio bloccò sicuro la sfera tra le mani e saltò, eseguendo un elegante tiro in sospensione. La palla disegnò un arco quasi perfetto, mancando il canestro di un soffio, toccando appena il ferro interno e rimbalzando di lato sul tabellone.
Tuttavia l’attenzione di Kogure non si era spostata di un solo millimetro dalla figura del ragazzo.
«Mitsui?!» esclamò, aggrappandosi alla rete metallica che delimitava il campo. Che diamine stava facendo?
Nel sentirsi chiamare, il moro si volse e sbarrò gli occhi appena lo riconobbe. «Kogure…?».
Kogure raggiunse di corsa l’entrata e si fermò qualche passo dietro Mitsui che, nel frattempo, raccolse la palla con estrema lentezza, cercando di prendere tempo.
«Non ti aspettavo oggi… di solito non passi il giovedì».
«Ho finito prima il mio turno di pulizie» spiegò Kogure, solleticandosi una guancia imbarazzato al ricordo di come Akagi, stufo di vederlo con la testa fra le nuvole, lo avesse messo di prepotenza alla porta con l’accusa di sporcare invece di pulire, per come spazzasse a caso il pavimento della classe.
Ma lui era fatto così, non poteva farci nulla: se un amico era in difficoltà, non riusciva a non preoccuparsi.
Sorrise. Nonostante conoscesse Mitsui da appena un mese, gli si era già affezionato. Negli ultimi giorni, poi, aspettava con trepidazione l’arrivo di quell’oretta da passare insieme, in cui chiacchierare serenamente di basket, scuola, famiglia, passioni varie e molto altro ancora. Aveva saputo così tante cose di lui – dal padre impiegato di banca presso la filiale della Mizuho vicino alla stazione, alla madre da sempre casalinga, senza scordare una sorella minore che frequentava la prima media, proprio alla Takeishi; fervido appassionato di spokon, era un mangiatore assiduo di gelato che, a suo dire, sarebbe stato capace di cibarsi solo di quello! – e tante altre ne avrebbe volute conoscere. Aveva raccontato anche molto di sé Kogure, notando divertito come, ogni volta, Mitsui arricciava imbronciato le labbra al nome di Akagi e lo guardava di sottecchi mentre rideva, con occhi che brillavano di un “qualcosa” a cui però Kogure non era stato ancora in grado di dare un nome.
«Quando il medico ti ha dato il permesso di allenarti?» chiese Kogure, alquanto sorpreso. Stando alle notizie della sera precedente, la guarigione sembrava tutt’altro che prossima.
Le spalle di Mitsui si irrigidirono un istante e la palla gli scivolò dalle mani.
«Stamattina…» rispose incerto, nascondendo in malo modo l’errore dietro un veloce palleggio. «Si, l’ha detto proprio stamattina!» insisté con un sorriso tirato.
Ma solo guardando l’amico, Mitsui capì di essere già stato smascherato.
Kogure abbassò lo sguardo deluso. «Andiamo, ti riaccompagno in clinica».
Percorsero il tragitto in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Mitsui sembrò intenzionato più di una volta a voler dire qualcosa, ma non lo fece. Kogure era certo che volesse giustificarsi in qualche modo, così come era certo fin dal primo momento in cui l’aveva riconosciuto, che fosse lì, su quel campo da basket, senza avere il benché minimo permesso del medico.
Il peggio, però, era stato quando gli aveva mentito. Possibile che lo considerasse così stupido da poter credere a una bugia simile? Si sentiva ferito, tradito, come se la sua amicizia e il tempo passato insieme nell’ultimo mese non contassero nulla e fossero qualcosa di poco conto, da liquidare con menzogne e nessuna fiducia.
Quando cinque minuti dopo varcarono l’ingresso principale, Mitsui si mischiò ai visitatori in entrata e uscita in quel momento dalla struttura, osservandosi intorno guardingo.
Oh, bene – pensò Kogure, alzando amareggiato gli occhi al soffitto – non solo gioca quando non deve, ma esce pure di nascosto.
Erano ormai a pochi passi dalla porta della sua stanza, quando udirono un colpo di tosse alle loro spalle.
Mitsui sussultò, bloccandosi sul posto, mentre Kogure si volse a fissare il medico che, braccia incrociate sul petto, picchiettava nervoso un piede sul pavimento bianco.
«Iniziavo a darti per disperso…» fece severo l’uomo, puntando le mani sui fianchi. «Spero che la passeggiata sia stata di tuo gusto» aggiunse lanciando un’occhiata gelida alla sacca di stoffa portata in spalla dal ragazzo, la cui forma sferica non lasciava dubbi sul contenuto.
Mitsui ignorò la nota ironica con cui aveva pronunciato la frase, nella speranza di sviare il discorso. «Oh si, è stata splendida, così come lo è la giornata e-».
«Quando avrai intenzione di prendere la cosa seriamente, Hisashi?» lo interruppe brusco. «Questa settimana è già la seconda volta che scopro che sei uscito per giocare. Lo capisci che se non stai a riposo come si deve, il ginocchio non guarirà mai?». Esasperato, si passò le dita tra i corti capelli neri. «Tuo padre è preoccupato-».
«Non mi intessa cosa mio padre è o non è!» urlò Mitsui, attirando l’attenzione di tutti i presenti nel corridoio. Pestò con forza il piede sinistro sul pavimento, un gesto di pura frustrazione. «Non è lui ad essere inchiodato in questo maledetto posto per… per una maledetta cazzata!».
«Hisashi…» lo chiamò il medico, stordito dalla risposta ma al contempo visibilmente preoccupato.
Ma lui gli aveva già voltato le spalle: entrato nella propria camera, si chiuse la porta alle spalle, sbattendola con forza.
Il rumore secco fece sobbalzare Kogure, rimasto di sasso di fronte alla reazione dell’amico. Non immaginava che fosse già così mentalmente logorato da arrivare a sfogarsi sul personale della clinica.  
Una mano si posò leggera sulla sua spalla. «Chissà che tu non riesca a farlo ragionare. Forse ascolterà un suo di amico invece che uno del padre» gli disse il medico. Sul viso aveva il sorriso tirato di chi ci aveva provato e riprovato senza successo, eppure non voleva ancora perdere la speranza.
Kogure osservò l’uomo allontanarsi finché non sparì poco più avanti, oltre la porta di un’altra camera, poi entrò in quella del compagno di squadra.
Mitsui era seduto sul letto appena fatto, faccia rivolta alla finestra aperta. Teneva il capo chino e lo sguardo perso sui piedi sollevati da terra, che faceva ciondolare distrattamente avanti e indietro. Timoroso perfino di muoversi, Kogure rimase immobile davanti alla porta appena chiusa. Non voleva che si arrabbiasse, non ora che c’era un discorso serio da affrontare.
«Devo sorbirmi anche la tua di paternale?».
Kogure fissò Mitsui negli occhi e sentì una stretta la cuore quando vide la disperazione che racchiudevano.
«No» sussurrò, avvicinandosi e sedendosi al suo fianco. «Anche perché lo sai da solo che ha ragione».
Mitsui fece un profondo respiro e appoggiò stanco la testa sulla sua spalla. Rimasero così per diversi minuti, fermi e in silenzio, con la brezza che entrava quieta dalla finestra e arruffava la folta chioma di entrambi, un ospite inatteso ma benvoluto in quelle giornate di primavera inaspettatamente calde. Kogure sentiva i capelli di Mitsui solleticarli il collo, proprio sotto la mascella, ma non ne era infastidito, al contrario, la trovava una sensazione piacevole e rassicurante. D’istinto mosse una mano e affondò le dita tra i ciuffi neri di Mitsui che, dopo un primo momento di sorpresa, si rilassò sotto il loro tocco delicato.
«Lo conosci, vero?» chiese, d’un tratto.
«Chi?» mugugnò Mitsui, strusciandogli insonnolito la guancia contro la spalla.
Un brivido percorse la schiena di Kogure. «Il medico di prima» precisò.
Mitsui gli lanciò un’occhiata indecisa, poi annuì. «Da sempre: è il migliore amico di mio padre fin dai tempi delle superiori. Sono molto legati. Ognuno ha fatto da testimone di nozze all’altro ed è capitato spesso che andassimo in vacanza insieme, la mia famiglia con la sua…».
«Capisco». Si, ora Kogure capiva molte cose, soprattutto la confidenza che c’era tra loro, e lo sfogo di prima gli apparve sotto un’altra luce. «Sembra tenere molto a te…».
Mitsui rimase in silenzio, quasi non volesse né confermare la sua impressione, né tantomeno continuare quel discorso. Poi, invece, quando ormai pensava che la chiacchierata si sarebbe conclusa lì, disse: «Beh, ha due figlie, entrambe di qualche anno più grandi di noi. Le adora, ma non ha mai nascosto il desiderio che avrebbe voluto anche un maschio e… insomma, quando ero piccolo, non perdeva occasione per viziarmi».
«Perché adesso no?» domanda Kogure con un sorriso divertito sulle labbra, sicuro del contrario.   
Mitsui ridacchiò. Ci aveva azzeccato in pieno.
L’atmosfera rilassata, però, non durò a lungo. Nell’attimo in cui tornò serio, Mitsui si sporse verso di lui e gli circondò la vita con entrambe le braccia, lasciandolo ancora una volta di sasso. Senza sapere che fare, Kogure rimase immobile e si fece stringere possessivamente.
«Lo so fin troppo bene che ha ragione, ma io… io non ce la faccio, Kogure…» sussurrò Mitsui, nascondendo il volto nell’incavo del suo collo. «Voglio giocare, voglio mantenere la mia promessa…».
Kogure mosse agitato le mani, non sapendo dove metterle. La situazione stava diventando imbarazzante. «Q-quale promessa?».
«Portare lo Shohoku ai campionati nazionali, vincerli e…».
La spinta fu improvvisa e forte. Kogure capì di essere disteso supino sul letto solo quando Mitsui lo stava già sovrastando col proprio corpo. Lo fissava con quel particolare luccichio che aveva già intravisto in passato, i nasi così vicini che le punte si sfioravano ad ogni piccolo movimento. Colto dal panico, Kogure serrò gli occhi, pensando inconsciamente che fosse una comoda via d’uscita. Ma precludere la vista non impedì di percepire le labbra di Mitsui farsi ancora più vicine e i loro respiri mischiarsi pericolosamente l’uno all’altro.
Kogure si irrigidì: era la sua fervida immaginazione o Mitsui sembrava intenzionato a baciarlo? Non seppe che pensare: non provava ribrezzo all’idea, tuttavia era strano. Insomma, era Mitsui, un suo amico…
Perché mai un amico avrebbe dovuto baciarlo?
In situazioni di tensione è normale che il tempo sembri non trascorrere, e quelli che erano semplici secondi a Kogure parvero ore. Eppure non accadde nulla, non ciò che pensava, ma nemmeno altro. Volendo capire che stesse succedendo, fece per riaprire gli occhi quando il materasso sussultò e la presenza che gravava su di lui scomparve. Sollevò le palpebre, ritrovandosi solo sul letto e Mitsui appoggiato al davanzale della finestra.
«Mitsui» lo chiamò, osservando confuso la sua schiena curva.
«Scusami, io… non so che mi è preso…» rispose l’altro, facendosi più piccolo. Gli lanciò un’occhiata fugace da sopra la spalla, riprendendo subito la parola, timoroso di udire dall’amico anche solo una nota di biasimo per il proprio comportamento: «Mi accompagni in caffetteria? Ho voglia di prendere qualcosa…».  
Kogure avrebbe tanto voluto capire le ragioni dietro quel comportamento, ma l’atteggiamento restio di Mitsui era un chiaro segnale: argomento chiuso o, quantomeno, non discutibile al momento. Non voleva forzare la mano e pretendere spiegazioni che, con ogni probabilità, ora non avrebbe comunque ottenuto, per cui decise di assecondarlo. E quel giorno, vista la particolare situazione emotiva, era forse la scelta migliore.
C’era tempo, c’era sempre tempo per tutto… o almeno così credeva ingenuamente Kogure.
«Qualcosa come un gelato?» lo schernì bonario, senza alcuna cattiveria e un sorriso rassicurante che gridava un silenzioso: “va tutto bene, non preoccuparti”.
La schiena di Mitsui si raddrizzò. «Beh, un gelato è la soluzione ad ogni problema!».
Mitsui si precipitò su di lui come un furia. Gli afferrò un polso e lo trascinò di peso fuori dalla camera. Aveva addosso un entusiasmo che non mostrava da tanto tempo, quello puro di un bambino a cui è stato promesso un dono che non vede l’ora di ricevere. Forse era un entusiasmo un po’ esagerato per un tipo come Mitsui, e poteva essere anche un modo per nascondere il disagio che provava – per l’infortunio, la situazione in sé o ciò che era accaduto poco prima tra loro – e non farlo preoccupare. Ma a Kogure andava bene così: vederlo sorridere era una gioia per gli occhi, desiderava solo che fosse felice.
E avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché quel desiderio si avverasse.
«Offri tu, vero?».
Kogure sbatté un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco, davanti a sé, il viso sogghignante di Mitsui.
Scosse la testa, scoppiando poi a ridere di gusto. Beh, un gelato poteva permetterselo, no?
 
-Oggi-
 
Il rumore metallico dell’armadietto accanto riscosse Mtisui dal tiepido torpore in cui era precipitato appena terminati gli allenamenti. Era patetico: due anni di inattività e si ritrovava col fiatone dopo solo un po’ di corsa e qualche scatto. Se l’abilità nei tiri non aveva risentito della lunga pausa – grazie soprattutto alla costante pratica a cui si era sottoposto alle medie, che aveva impresso a fuoco i movimenti nel suo DNA – la resistenza sarebbe stata il suo “tallone d’Achille” per molto tempo: allo stato attuale, dubitata di riuscire a giocare un singolo tempo, figurarsi una partita intera.
«Ehi, tutto bene?».
Senza staccare la fronte dall’anta fredda del proprio armadietto, Mitsui girò appena il capo verso la persona che gli aveva posto la domanda.
Non era cambiato di una virgola in quegli anni: la solita insostenibile faccia pulita da bravo ragazzo, il solito sorriso timido e discreto, ma soprattutto il solito sguardo dolce e maledettamente sincero capace ogni volta di rimescolargli lo stomaco, da cui era fuggito per molto, troppo tempo.
Quante volte, percorrendo i lunghi corridoi della scuola, aveva cambiato direzione pur di non incrociarlo? Non lo ricordava e anche adesso gli venne istintivo abbassare gli occhi.
Perplesso, aggrottò le sopracciglia. «Quando la smetterai di indossare quelle magliette improponibili?» fece fissando il disegno stilizzato della testa di un coniglio bianco che stava proprio al centro. Ne ricordava anche un altro paio alquanto bizzarre: una con tre fragoline rosse che attraversavano il petto in orizzontale e un’altra con un piccolo casco di banane sulla sinistra. Quest’ultima, poi, era davvero orribile.
Kogure afferrò la stoffa sul torace, guardandola perplesso. «Eh? E che avrebbero di strano?».
Mitsui sospirò. A lui pareva così ovvio. «Ti sembrano magliette adatte ad uno studente delle superiori?».
«Perché non dovrebbero?».
Avrebbe voluto tirare una testata contro l’armadietto. «Niente, lascia stare».
Era strano il loro rapporto. Lo era diventato quando, due anni prima, a pochi giorni dalle eliminatorie, Mitsui si era infortunato di nuovo. A nulla erano serviti i numerosi ammonimenti del medico o le raccomandazioni di Kogure che, preoccupato, gli era stato vicino in quel periodo difficile. Ormai al limite della sopportazione, non appena non aveva più provato dolore, si era messo in testa di poter comunque giocare e quello era stato l’inevitabile risultato. Incapace di risollevarsi ancora dal profondo baratro in cui era precipitato, aveva preso le distanze dal basket e da tutte le persone che ne facevano parte, Kogure compreso. Non si erano più parlati da allora, neanche per scambiarsi un semplice saluto. Adesso, invece, chiacchieravano tra loro come se nulla fosse successo, né il silenzio di anni, né la rissa di qualche giorno prima. Sembravano due buoni vecchi amici che si incontrano dopo tanto tempo e si raccontano cos’era cambiato nelle loro brevi vite.
Eppure lo percepiva a pelle che qualcosa non andava, come se cercasse di infilare un cubo di legno in un buco più piccolo e dalla forma circolare: anche se insisteva con tutte le forze, non sarebbe mai entrato.
«Ti fanno ancora male?». Kogure allungò una mano verso il grosso cerotto che gli copriva lo zigomo sinistro, ma la ritrasse prima ancora di sfiorarlo. «Mito non ci è andato leggero…».
Mitsui trasalì e, colto dal rimorso, lanciò un’occhiata alla sua di guancia. Il livido si intravedeva appena, ma la fitta di dolore che provò al ricordo di come lo aveva schiaffeggiato spinto dagli eventi, era vivida.
«Nemmeno io» sussurrò, stringendo le labbra. «Non ti ho ancora chiesto scusa…».
Kogure si immobilizzò, la mano a mezz’aria, sorpreso e imbarazzato dalle sue parole. «Non è necessario-».
«Si che lo è!».
Mitsui fece un profondo respiro e si voltò verso di lui per affrontarlo a viso aperto.
L’euforia di essere tornato a giocare a basket cozzava con l’inquietudine per quello strano rapporto creatosi con Kogure, un legame offuscato da qualcosa di non detto, di lasciato in sospeso per troppo tempo.
Se l’era domandato spesso perché, due anni prima, lo avesse quasi baciato, fermandosi prima di farlo solo per la reazione che Kogure ebbe di fronte al suo gesto impulsivo. Timore, spavento per fortuna, non disgusto, ma fu sufficiente a farlo desistere dal continuare. All’inizio non aveva trovato una risposta a quella domanda, o forse non l’aveva voluta sentire. Poi, quella risposta aveva iniziato a negarla, respingerla, nasconderla in un angolo recondito del proprio cuore, perché accettarla non era solo difficile ma anche doloroso, soprattutto dopo aver tagliato ogni ponte con lui.
Perché ciò che provava per Kogure andava ben oltre la semplice amicizia.
Lo aveva capito tardi cosa stesse succedendo, dopo che più di una volta, intravedendo solamente la sua figura da lontano, si era ritrovato con il respiro bloccato in gola e l’istinto a spingerlo nella sua direzione, per poter incrociare il suo sguardo anche solo per un misero secondo. Aveva provato diverse volte a reprimere quel dannato sentimento, con qualche ragazza e sì, anche un paio di ragazzi, ma senza successo.
Eppure, ora che aveva una nuova opportunità e non avrebbe dovuto sprecarla, era terrorizzato all’idea di fare anche un misero passo falso.
E se mi rifiutasse?
Quell’unico infimo pensiero bastò a bloccarlo. Rimase lì, fermo come un idiota a fissare la persona oggetto dei propri desideri piegare dubbioso di lato la testa, incapace di pronunciare anche solo una sillaba.
«Sai, sono felice che tu sia tornato» disse Kogure, sorridendo all’armadietto di fronte a sé, lo sguardo perso in chissà quali pensieri mentre lo chiudeva.
Mitsui sentì il petto gonfiarsi dall’emozione. Possibile che gli fosse mancato?
«Davvero?» sussurrò appena, quasi temesse chiederlo.
Kogure percepì l’incertezza nella sua voce e gli puntò gli occhi addosso, mostrando una determinazione che Mitsui aveva visto in poche occasioni. Di recente era accaduto durante la rissa, quando gli aveva rinfacciato le sue false promesse, di come aveva illuso lui e l’intera squadra. Ma ora era diverso, una persona nuova: fosse l’ultima cosa, avrebbe mantenuto quella promessa.
«Si, davvero».
Successe tutto in un attimo, un mero battito di ciglia. 
Mitsui si promise di prendere in seria considerazione di iscriversi ad un corso di autocontrollo, perché agire d’impulso come gli stava accadendo di nuovo, prima o poi poteva rivelarsi controproducente. Tuttavia non si pentì di aver annullato la distanza che lo separava da Kogure, avergli incorniciato il volto tra le mani e…
E si, averlo baciato.
Stentava a credere di avere le labbra calde e morbide di Kogure appiccicate alle proprie, eppure erano proprio lì. Le teneva ancora chiuse, serrate peggio di una saracinesca, il corpo rigido per la sorpresa. Mitsui avrebbe tanto voluto assaporare l’interno della sua bocca, intrecciare le loro lingue, ma preferì non insistere, evitando di pretendere l’impossibile. Forse, fermandosi ora, Kogure gli avrebbe perdonato l’aver oltrepassato quella invisibile linea di confine senza chiedere il giusto permesso, saltando letteralmente a piè pari dall’altra parte con un gesto fin troppo intimo, che non rientrava di certo in quelli canonici “tra amici”.
Chissà se era il suo primo bacio, pensò scostandosi appena per guardarlo.
Gli occhi di Kogure erano enormi, completamente aperti, e lo fissavano con la meraviglia di un bambino.
«Io…» deglutì non sapendo bene che dirgli, ma non voleva scusarsi. «Erano due anni che desideravo farlo».
Sembrò impossibile, eppure gli occhi di Kogure si spalancarono ancora di più. A quanto pare ricordava bene quel giorno di fine aprile in cui l’aveva quasi fatto.
Mitsui trattenne il fiato mentre il silenzio che seguì si protrasse per un tempo che parve infinito. Kogure non smise di fissarlo un istante. Sembrava un automa a cui avessero tolto di colpo l’alimentazione da quanto fosse immobile.  Si chiese come avrebbe dovuto interpretare quella reazione: troppo sorpreso che lo avesse baciato, o troppo sconvolto che fosse stato un uomo a farlo?
Fece un sospiro e le labbra gli tremarono. «Kogure…».
«Sei felice?».
La domanda lo colse alla sprovvista. «Eh?».
Kogure arrossì. «B-baciarmi ti rende felice?».
Mitsui sbatté le palpebre perplesso. La risposta gli pareva ovvia.
«Beh, si» mugugnò «però non dovrebbe essere una cosa a senso unico… non ti pare?».
Kogure sorrise appena e si strinse nelle spalle. «Sai, quella volta non capivo cosa stessi facendo, cosa volessi… insomma, non immaginavo di piacerti-» chiuse la bocca di scatto, imbarazzato da quello che stava per dire.
«In quel senso?» chiese Mitsui e lui annuì.
Il sorriso che si aprì sulle labbra di Mitsui fu invece radioso: trovava il compagno di squadra maledettamente adorabile, con quelle guance color porpora e lo sguardo schivo che si spostava continuamente dal suo volto al pavimento, una muta ma chiara richiesta di riprendere da dove avevano interrotto.
«E la cosa ti infastidisce?».
Altro cenno di Kogure, stavolta negativo.
Mitsui gli incorniciò nuovamente il viso e lo sollevò verso il proprio. «Posso baciarti?».
Un assenso, appena accennato, ma Mitsui non se lo fece ripetere una seconda volta: aveva aspettato troppo tempo, troppi anni per far sue quelle labbra, e ora che le stava accarezzando non le avrebbe più lasciate. Ma forse era stato meglio così, arrivare a quel punto solo adesso: i suoi ultimi due anni erano stati difficili, una caduta costante verso il basso, e l’ultima cosa che avrebbe voluto era trascinarsi dietro anche Kogure.
Un momento di pausa per riprendere fiato. «Anch’io voglio che tu sia felice» sussurrò Mitsui.
Anche se non poteva vederlo mentre lo baciava con gli occhi chiusi, percepì distintamente che Kogure stesse sorridendo dalla lieve piega delle sue labbra. Accadde un attimo prima che le schiudesse, permettendogli così di approfondire finalmente il contatto.
Erano entrambi talmente presi dal saggiare il sapore dell’altro che nessuno dei due udì la sequenza di passi, fuori nel corridoio, fermarsi proprio di fronte alla porta dello spogliatoio. L’uscio si aprì di scatto, non dando loro il tempo di separarsi.
«Domani faremo un allenamento supplemen-» la voce di Akagi si interruppe nell’esatto istante in cui vide il suo migliore amico stretto tra le braccia dell’ultimo rocambolesco acquisto dello Shohoku.  
Da come era caduto in una breve depressione dopo l’uscita di scena di Mitsui, sapeva quanto Kogure tenesse al compagno di squadra, tuttavia non immaginava che il motivo potesse essere… beh, quello.
«Scusate» biascicò, rassicurato dal sorriso imbarazzato ma sereno di Kogure che lo guardava di sottecchi.
Con il viso ormai tendente al rosso, Akagi fece dietro-front e chiuse la porta dietro di sé.
«Ehi, Gori! Ma che fai? Noi dobbiamo entrare!» urlò Sakuragi dal corridoio.
«L-lo spogliatoio è occupato, quindi… tornate in palestra a fare altri dieci giri di corsa di defaticamento!».
«Cosa?!».
A quel coro di voci incredule, i due rimasti all’interno dello spogliatoio scoppiarono a ridere.  
«Che ne dici di essere magnanimi e permettere ai nostri kohai di farsi finalmente la doccia?».
Mitsui finse di pensarci un secondo. «Ma anche no» decretò infine, allacciando le braccia intorno alla vita di Kogure per tirarlo a sé e baciarlo di nuovo.
No, oggi non avrebbe lasciato che il tempo gli portasse via ciò che desiderava fare. Per una volta, che fossero gli altri a rimandare, poco importava che si stese parlando di una semplice doccia.

FINE

 

  
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