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Autore: experiencing    25/02/2018    2 recensioni
"Vivere è difficile. Inutile girarci intorno. A volte penso che morire sarebbe meglio. Senza dubbio sarebbe più facile. Niente scelte, niente ferite, niente lacrime. E allora perché non muoio? Perché non posso. Perché per quanto difficile possa essere, vivere è l’unica cosa che so fare. Male, ma la so fare. A volte mi sento vuota, come se in me non ci fosse niente, come se tutti i libri che ho letto, i posti che ho visitato, le difficoltà che ho superato, le emozioni che ho vissuto non fossero niente, come se non bastassero a riempirmi. Mi sento vuota come se non esistessi, come se non fossi mai esistita."
Poche frasi. Un filo rosso che unisce vite lontane. Un soffio di vento che cambia quelle vite.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vivere è difficile. Inutile girarci intorno. A volte penso che morire sarebbe meglio. Senza dubbio sarebbe più facile. Niente scelte, niente ferite, niente lacrime. E allora perché non muoio? Perché non posso. Perché per quanto difficile possa essere, vivere è l’unica cosa che so fare. Male, ma la so fare. A volte mi sento vuota, come se in me non ci fosse niente, come se tutti i libri che ho letto, i posti che ho visitato, le difficoltà che ho superato, le emozioni che ho vissuto non fossero niente, come se non bastassero a riempirmi. Mi sento vuota come se non esistessi, come se non fossi mai esistita. Quando scomparirò, cosa resterà di me nel mondo? Qualche oggetto, forse. Pochi oggetti che mi sono appartenuti, ma che nello stesso tempo non mi sono mai davvero appartenuti. In essi di me non c’è niente. E allora cosa? Forse qualche ricordo nelle memorie delle persone che ho incontrato? Un sorriso ad un amico, uno sguardo rubato ad un passante, una risata dispersa tra la folla? Come possono queste cose così effimere resistere allo scorrere del tempo, al fluire dei ricordi, alla frammentazione del tutto? E se anche potessero, che cosa mai potrebbero conservare di me? Cosa dice la mia risata su di me? Non credo che tutte queste riflessioni abbiano senso. Non so neppure che cosa sia me. Che cos’è, l’insieme dei momenti che ho vissuto, delle cose che ho fatto, delle parole che ho detto?

La ragazza solleva la biro dal foglio e rilegge ciò che ha appena scritto. Quella non è lei. Tra quelle righe non c’è niente di lei. Potrebbe averle scritte una ragazza qualunque, ma non lei. Fa scorrere di nuovo lo sguardo tra quelle righe. Sorriso ad un amico? Lei non ha amici, non ne ha mai avuti. Una risata tra la folla? Non ha idea di come suoni la sua risata, non la sente da troppo tempo. Forse non l’ha mai sentita. Abbracci ricevuti? Dubita di averne mai ricevuto uno. Forse molto tempo fa, da sua madre. In quella mezzora che ha separato la nascita dell’una dalla morte dell’altra. Chissà se ha fatto in tempo ad abbracciarla. Chissà se ha anche solo avuto il tempo di desiderarlo.
Il bus si ferma. La ragazza strappa la pagina dal quaderno, la piega frettolosamente e se la mette sotto il sedere. Tira su la cerniera del giubbotto, si china a prendere lo zaino di tela tra i suoi piedi e si alza. Prima di scendere dal pullman, si volta ancora una volta a guardare quel pezzetto di carta abbandonato sul sedile. Spera che qualcuno lo legga, prima di gettarlo via. Spera che per quel qualcuno la ragazza che per qualche minuto ha finto di essere possa esistere davvero. Avrebbe voluto scrivere parole più allegre, così quel qualcuno avrebbe potuto immaginare una ragazza felice. Ma ormai è tardi. Scende dal bus e non si volta più. Fuori nevica.

L’uomo percorre il corridoio del bus frettolosamente. Raccoglie in fretta quel che trova di abbandonato a terra o tra i sedili. Non vede l’ora di tornare a casa. Maledice mentalmente tutti i cafoni che insozzano il bus con la loro spazzatura. Cammina svelto, vuole finire in fretta. Raccoglie una lattina da terra. Un fazzoletto da un sedile. Un pezzo di carta da un altro. Getta tutto nella busta di plastica che ha tra le mani. Quando arriva in fondo si volta svelto e ripercorre il corridoio al contrario. Scende dal bus. Getta la busta di plastica in cima alla montagna di spazzatura che intasa già il cassonetto. La busta se ne resta lì, in bilico su una montagna di tante altre buste simili a lei. Un soffio di vento gelido la fa tremare un po’. Nevica.

Il ragazzo guarda dalla finestra. Non vuole uscire. Nevica e c’è vento. Vede i grandi fiocchi che volteggiano in giro, seguendo percorsi che sanno solo loro.
- Sbrigati che la cena è pronta!- grida una voce di donna dalla stanza accanto.
Il ragazzo sospira. Si chiude il giubbotto fino in cima, prende il sacco della spazzatura e si avvia. Esce sul pianerottolo, scende a piedi i tre piani di scale del suo squallido condominio. Esce in strada. L’aria è gelida. La neve gli punge il viso. Getta sbrigativamente il sacco della spazzatura sul cassonetto già stracolmo e si volta veloce per tornare al calore del suo ambiente domestico. Una altro sacco cade a terra. Un po’ del suo contenuto si rovescia sul marciapiede innevato.  Il ragazzo lo ignora e torna in casa.

Continua a nevicare. Continua a tirare vento. Un vento gelido, cattivo, che si infila sotto i cappotti e fa rabbrividire. Un vento dispettoso, che trascina in giro sacchetti di plastica vuoti e cartacce. Un foglio svolazza tra i fiocchi. Attraversa strade e vicoli, trascinato da quei soffi dispettosi. Finisce vicino ad un altro cassonetto, da tutt’altra parte. Finisce in grembo ad un senzatetto che sta seduto proprio lì. Nessuno bada a lui. Tutti camminano svelti, con la testa incassata tra le spalle per proteggersi meglio dal gelo. Il senzatetto prende il foglio. Lo apre con le dita intirizzite dal freddo. Lo legge. Sorride.
Chiude gli occhi e se ne resta lì immobile, ranicchiandosi nella vana speranza di scaldarsi un po’. Vivere è difficile. Certo che lo è. Per lui lo era stato più che per altri. O forse no. Forse tutti credono di avere una vita più difficile di quella degli altri. Le proprie difficoltà sembrano sempre più grandi di quelle altrui. Le si può guardare da vicino, non c’è la distanza a rimpicciolirle. La sua era sicuramente una storia come tante altre. Aveva molto, non sapeva di averlo, e pian piano aveva perso tutto. Semplice. Un’intera vita riassumibile in una singola frase. Tutta una vita in poche parole. Poche parole che, per di più, si sarebbero potute adattare benissimo a migliaia, milioni, forse miliardi di altre vite. Niente di speciale dunque.
Chissà da dove veniva quel foglio. Chissà perché il vento lo aveva portato proprio a lui. Chissà chi aveva scritto quelle parole. Chissà perché. Non lo avrebbe mai saputo. E allora perché tutto questo? C’era un perché? O era tutto caso? Il senzatetto era vecchio, aveva vissuto tanti anni, eppure gli sembrava di non aver imparato niente. Era vecchio e non sapeva niente. Come una bambino, era pieno di domande e non aveva risposte. Se anche in quel momento la persona che aveva scritto quelle parole gli si fosse presentata davanti, lui non avrebbe potuto darle nessuna risposta. Non sapeva che cos’è “me”, non sapeva che cosa rimane di quell’inafferrabile “me” quando si scompare. Non sapeva niente. Sapeva solo che aveva freddo. Forse quello era il suo “me”. Quel corpo intirizzito ranicchiato nel gelo, quel fascio di muscoli, nervi, vene. Quel sacco di carne che un giorno sarebbe scomparso e basta. In quel momento il senzatetto sentiva che tutta la sua essenza era quel freddo, quel gelo che gli stava congelando persino i pensieri. Avrebbe voluto dirlo alla misteriosa scrittrice.
-Io sono freddo. E se ti siedi un po’ qui con me sarai freddo anche tu.
Il mattino seguente forse non sarebbe stato più niente, se non un corpo immobile e irrigidito. Quasi sperava che fosse così. Quasi lo desiderava. Non aveva niente per cui sopravvivere, non aveva nessuno che avrebbe sentito la sua mancanza. Anche lui, come la scrittrice, era vuoto. Anche lui non aveva dentro niente. Solo ricordi. Ma i ricordi non bastano. Non si può vivere solo per rimanere attaccati ai ricordi. Così pensava il senzatetto. Eppure, mentre lo pensava, l’idea di lasciarsi morire lo intristiva. Se moriva i suoi ricordi sarebbero morti con lui. Non sapeva perché gli importasse, ma gli importava. Steso a terra, tra la neve gelida e la spazzatura bagnata, il senzatetto ripensava alla sua vita. Si concentrava per ricreare le immagini, le vedeva nitide come fotografie dietro le palpebre chiuse. Una donna nuda addormentata al suo fianco, il viso tranquillo e una ciocca di capelli a sfiorarle la guancia. Il sole che tramontava sulla campagna, oltre la staccionata bianca che aveva appena finito di verniciare con suo padre. Un neonato, piccolo e fragile, che veniva posato tra le sue braccia esitanti. La sabbia fine che scivolava da sotto i suoi piedi nudi mentre un’onda la trascinava via. Il profumo dei biscotti alla cannella che fluttuava per la casa mentre fuori cadeva la neve. La neve. Come in quel momento. Eppure non come in quel momento. Strinse più forte il foglietto nel pugno gelido.
Il senzatetto aprì gli occhi di colpo. All’improvviso aveva paura, una gran paura di morire. Era terrorizzato all’idea che l’immagine del figlioletto appena nato tra le sue braccia scomparisse per sempre. Con uno sforzo di cui un istante prima non si sarebbe creduto capace, si alzò in piedi vincendo il torpore che gli appesantiva le membra. Si mise a camminare avanti e indietro, per scaldarsi. Voleva vivere. Non sapeva perché, ma voleva vivere. Non era ancora pronto a morire.
Il mattino lo trovò così. Tenacemente aggrappato alla vita. Mezzo congelato ma vivo. Continuava a camminare avanti e indietro, anche se non sentiva più i piedi. Un altro senzatetto comparve all’improvviso in fondo al vicolo. Si fermò di colpo e lo guardò esitante. Evidentemente voleva ripararsi lì dai fiocchi che continuavano a cadere, ma esitava.
- Vieni pure a sederti qui se vuoi. La strada è di tutti.
Gli sorrise riconoscente.
- Amico, due strade più in là quelli della Chiesa distribuiscono del the caldo. Sembri averne un gran bisogno.
Così andò due strade più il là. Solo quando gli porsero il bicchiere di carta con la bevanda fumante si accorse di tenere ancora in mano il foglietto. Lo mise in tasca. Prese il bicchiere e si appoggiò ad un muro per bere con calma. Accanto a lui c’era una altro barbone. Era un buon posto, riparato dal vento. L’altro aveva un taccuino sgualcito e un mozzicone di matita. Stava disegnando il paesaggio innevato davanti a lui. Era un bel disegno, considerati gli scarsi strumenti a disposizione. Guardandolo il senzatetto tornò a pensare al pezzetto di carta che aveva in tasca. Non sapeva cosa farne. Non voleva buttarlo. Quel pezzo di carta sporco e stropicciato era il motivo per cui era ancora vivo, e felice di esserlo malgrado tutto. Era partito tutto da lì.
Gli venne un’idea stupida e senza senso. Ma non riuscì più a togliersela dalla testa. Chiese un attimo la matita all’altro. Quello lo guardò diffidente ma gliela consegnò. Prese il foglietto, lo voltò e vi scrisse poche parole. Fece fatica. La matita era piccola. Lui aveva le mani gelate e non scriveva da anni. Le dita non sembravano obbedirgli. Restituì la matita e se ne andò. Quel giorno camminò parecchio. Voleva arrivare al ponte, al Golden Gate. Tutto innevato sembrava una cartolina. Gettò il foglio dal parapetto e si voltò, senza restare a guardarlo mentre cadeva.

E infatti non cadde. Quello stesso vento che dalla sera prima sembrava giocare con i destini come se fossero foglie secche in sua balia lo riportò sul ponte. Rimase lì, a terra. Continuava a nevicare.

Più tardi lo raccolse una ragazza. Era andata lì per suicidarsi. Potremmo dilungarci parecchio sul perché di questa sua decisione, ma servirebbe a poco. Inoltre io non lo so. Vi basti sapere che anche lei aveva molto e pian piano aveva perso tutto. A differenza del vecchio però lei era ben consapevole di avere molto e proprio per questo la perdita di quel tutto le pesava di più. Era un peso insopportabile. Lei aveva deciso che proprio quello sarebbe stato il peso che l’avrebbe trascinata  verso il basso, giù dal ponte. Il molto perduto in questo caso era un amore. La ragazza era giovane e aveva provato l’amore una volta sola, poi l’aveva perso. Un giorno si sarebbe innamorata di nuovo, ma lei ancora non lo sapeva. Quel primo amore per lei era e sarebbe stato, almeno nei suoi piani, l’unico.
Prese il foglietto. Lo lesse. Poi lo voltò e lesse anche le poche parole che erano state aggiunte in un’altra grafia, più esitante.

Viviamo per non perdere i nostri ricordi e nella speranza di potercene costruire degli altri. Io sono i miei ricordi.

La ragazza sorrise. Non sorrideva da tanto. Da mesi ormai il suo volto aveva conosciuto solo lacrime. Quando si è giovani pochi mesi possono sembrare tanto. E in effetti per un giovane lo sono. Si strinse il foglietto al petto. Gettò un ultimo sguardo al fiume al di là della ringhiera, si voltò e se ne andò con il suo pezzetto di carta stretto in mano. Non nevicava più.

Quella ragazza era la stessa che ha cercato di scrivere se stessa su di un foglio? Non lo so. So che così vi deludo, ma io non sono un narratore onnisciente, come forse avrete pensato. Io non conosco né la scrittrice misteriosa, né il vecchio senzatetto, né la giovane con il cuore spezzato. O meglio, un po’ li conosco, ma solo per quel poco che loro hanno deciso di lasciarsi conoscere. È sempre così con i personaggi. Sono loro a decidere quanto svelare di sé stessi. Il narratore deve accettarlo e prendere quel che gli si dà. E cosi ho fatto io. Dovrete farvelo bastare.
  
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