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Autore: alter_gioia    26/02/2018    0 recensioni
Un'amicizia.
L'amore per l'arte.
L'invidia lede.
La mano semina solo zizzania.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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LA MANO DELL'ARTISTA
Le orecchie erano cullate dal silenzio, gli occhi erano immersi nel buio. Aveva la mente annebbiata da una fitta confusione. Bruciava. Sentiva la pelle ardere intorno ai suoi polsi. Cercò di muovere gli arti, ma qualcosa glielo impedì. Ignorando le dolorose fitte che gli tartassavano il cranio, aprì lentamente le palpebre. Sussultò, i suoi occhi si spalancarono. Era su una sedia, con le gambe divaricate. Delle corde robuste gli tenevano gli avambracci legati saldamente ai braccioli legnosi, compromettendo la circolazione, mentre delle altre gli bloccavano il busto allo schienale e le caviglie. Si dimenò, ma non poté nulla contro quegli intricati nodi. Col cuore che gli batteva violentemente nella gabbia toracica, si guardò intorno. Si trovava al centro di una cupa stanza. Una finestra sbarrata permetteva alla luce di filtrare fioca e di illuminare appena quel che sembrava un banco da lavoro scheggiato e consunto, ricoperto di seghe luride, tenaglie arrugginite e scalpelli rovinati. Nel resto della stanza, il buio poteva celare qualunque cosa. Distingueva poche sagome. Fra quelle quattro mura di pietra, scorse un telone adagiato su qualcosa di spigoloso. Il silenzio regnava sovrano. Si chiese dove fosse finito e perché fosse legato a quella sedia in un posto simile, sicuramente una cascina nelle campagne della periferia. Accantonò gli interrogativi e tentò di liberarsi. Si mosse, quel poco che gli fu concesso, nella speranza di riuscire nel suo intento. La sedia cigolò, le corde furono irremovibili. Guardò meglio la sua prigione, come a cercare un modo per tagliare le corde. Nulla. Cercò di girarsi con la sua scomoda seduta e, a fatica, riuscì a trovarsi davanti alla parete cui stava dando le spalle. Lì appesa notò una lama. Si sospinse in avanti, quando un rumore improvviso lo mise in allerta. Si voltò, affannato dalla pesantezza della sedia che tentava di smuovere, e sgranò gli occhi. Una losca figura era comparsa di fronte alla finestrella, ergendosi contro la luce. Un brivido lo scosse.
"Chi va là!" gridò, cercando di calmare il respiro. Invano.
La figura si fece avanti e si avvicinò. L'oscurità rivelò il suo discepolo, un uomo di bell'aspetto dai folti capelli mori. Lo sguardo gelido.
"Abel?" disse stupito l'immobile. L'altro non disse nulla. Lo fissava con fare predatorio. 
"Abel... Liberami, per favore." continuò, "Dove siamo? Che ci facciamo qui?"
"Tu non hai bisogno di una mano da me, Clay." disse Abel, andandogli alle spalle.
"Se è uno scherzo, non è divertente! Liberami!" gridò Clay, spazientito.
"Tu e la tua mano prodigiosa non siete in grado si cavarvela da soli?" commentò Abel. Clay senti un rumore metallico.
"Sicuro di stare bene, Abel?" gli chiese inquieto.
Abel tornò nel campo visivo di Clay. Quest'ultimo, sgomento, poté quasi sentire il cuore esplodergli. I passi echeggiavano nel capannone. Abel maneggiava la lama che, fino a pochi secondi prima, era appesa alla parete. Un machete che, sommato allo sguardo penetrante di Abel, non risultò rassicurante in quella situazione surreale.
"Perché mi tieni legato qui?" chiese.
"Hai anche il coraggio di chiedermelo? Dovresti saperlo."
"Non capisco... Che vuoi da me?"
Abel sollevò la mano del compagno, sorreggendo il palmo con la lama del machete. Pallida, ossuta, dalle dita sottili: sembrava fatta di porcellana.
"Non fare il finto tonto, Clay. Sai cosa mi ha fatto quella tua orrenda mano." Abel ritrasse l'arma, accarezzandone la superfice come un bambino con il suo giocattolo preferito.
"Quell'ammasso di ossa e tendini, la fonte di ogni tua fortuna... Non ha fatto altro che rovinarmi la vita. Va così da quando ci conosciamo e sono stato così cieco da riuscire ad accorgermene da poco tempo."
Clay tremava. Il suo amico non lo guardava neanche più in faccia, attratto dalla mano sinistra come un avvoltoio famelico. I denti battevano inesorabilmente.
"Ieri mi sono deciso ad agire. Era ora. Ti invitato a bere qualcosa da me come non facevamo da mesi, in nome dei vecchi tempi. Quel tuo bicchiere l'ho imbottito di farmaci, così da tenerti fuori gioco per tutto il tempo necessario a trascinarti fin qui."
Clay sembrava sul punto di voler ribattere, ma Abel subito gli portò un dito sulle labbra per zittirlo.
"Aspetta, sono proprio un pessimo ospite." disse con un ghigno. Allargò le braccia, fiero.
"Benvenuto nel mio laboratorio d'arte. Qui scolpisco e dipingo, dono la vita alle mie creazioni. O, almeno, ero solito farlo."
Con un movimento del braccio sollevò il telone, rivelando un mucchio di opere impolverate. Quadri di paesaggi spettrali, sculture d'anime in pena. 
"Ho capito quanto sia inutile sforzarmi di creare. Il mio operato sarà sempre nulla al tuo cospetto. Così funziona da quando ci conosciamo."
"A me i tuoi quadri son sempre piaciuti."
"Zitto!" alzò la voce Abel. "Non sparar menzogne, la verità è ormai chiara. Non posso nulla al cospetto di quelle tue cinque dita maledette. Sin dalle medie, sin da quando siamo diventati amici."
Abel calciò un cavalletto, gettando a terra uno dei quadri.
"Stavamo bene insieme, non è vero? Condividevamo l'amore per l'arte. Tutti e due eravamo troppo timidi per cercare di legare con il resto della classe. Eppure la differenza fra di noi è sempre stata sostanziale. Nelle ore di arte il professore si complimentava con te per il tuo prematuro talento. Tu, imbarazzato, pregavi che in qualche modo tacesse. I miei disegni non riscuotevano simili lodi. Il professore li guardava con un sorriso fasullo, vuoto. Non mi hai mai detto che ero bravo quanto te."
"Sono sicuro che al professore piacessero davvero i tuoi disegni." 
"Per niente. Se anche fosse stato, gli altri di certo non condividevano il pensiero. Durante l'intervallo tiravi fuori dalla cartella il tuo blocco per gli schizzi. Ti munivi di matita e, fra un morso e l'altro alla tua merenda, mettevi su carta i tuoi pensieri. Così facevo anch'io. Eppure, intorno a te si creava sempre folla. I nostri compagni che si complimentavano con te, che ti chiedevano d'esser tuoi modelli. Io ti guardavo, eravamo seduti vicini, ma ero puntualmente ignorato. Timido com'eri, ti sentivi a disagio dinanzi a tutti quegli occhietti vispi e curiosi. Parte di te pregava che potessero sparire e permetterti di svuotare la mente in pace. Non sai cos'avrei dato per ottenere lo stesso interesse. Talvolta cercavi di dirottarli verso di me ed io ottenevo in risposta la ripugnanza di tre quarti della classe. Perché i miei disegni non soddisfavano i loro gusti. Mi chiedevano come tu facessi ad apprezzarli ed io, infondo al mio cuore, ho sempre saputo che dietro i tuoi tentativi di mettermi in buona luce non c'era nient'altro che pena. Futile commiserazione."
"È un grande malinteso!" disse Clay, senza riuscire a controllare i tremolii della sua voce. "Ho sempre amato le tue opere inusuali. Le mie intenzioni erano buone, volevo che anche gli altri le vedessero perché sapevo che era un tuo forte desiderio. Ho sempre ammirato il tuo stile, forse anche con un pizzico d'invidia."
Intanto Abel s'era diretto verso il banco da lavoro. Frugò in una cassetta, cercando qualcosa con cui affilare il machete. Il rumore tagliente della lama che veniva sfregata invase il casotto. Clay fu scosso da ulteriori tremiti.
"Tutte scuse, le tue." disse Abel. "Perché neghi l'evidenza? Secondo te posso bermi una bugia di queste proporzioni? Come puoi tu, con quel tuo dono, invidiare me? Le cose hanno continuato a procedere così anche alle superiori e all'università. Ricordo ancora quella volta in cui fummo incaricati di esporre le nostre opere nella galleria di paese per il progetto di fine anno. L'evento brulicava di gente. Che fossero appassionati d'arte, esperti o semplici curiosi, poco importava: erano rapiti subito dall'inconfutabile bellezza dei tuoi quadri. In quell'occasione, però, non fu la folla a turbarmi. Ormai mi ci ero abituato. Ci pensò ben altro." Abel osservò il machete contro luce, riprendendo fiato. Clay incontrò il suo sguardo e si sentò perforato da quelle gelide iridi.
"Mancava poco alla fine della mostra, il pubblico s'era dileguato e l'ambiente era ritornato tranquillo. Solo in quel momento lei si fece avanti. Si era avvicinata, attratta da quel quadro che io stesso ti suggerii di esporre anche se non ti convinceva. Non l'avessi mai fatto, ancora mi maledico per quel giorno. Avete così cominciato a parlare. All'inizio lei ti poneva domande sull'arte, su quel quadro che tanto le suscitava emozioni, su come tu potessi gestire simili pennellate. Da lì la conversazione si estese ad altri argomenti ed io, dalla mia postazione, ho dovuto assistere inerme a quella scena. Ho visto la scintilla che ha attraversato i vostri occhi, l'ho vista! Eri totalmente attratto dalle sue parole, non sembravi a disagio. Lei, d'altro canto, non sembrava interessata solo al quadro. In quel momento ho capito che ormai avevo perso Iris per sempre!"
Con passi decisi e carico di rabbia, si avvicinò sempre di più a colui che ormai considerava un traditore. Clay cercò d'indietreggiare con la sedia, ma indolenzito e rigido dal terrore finì quasi per ribaltarsi.
"Io non sapevo che Iris ti piacesse. Non mi hai mai detto che eri interessato a lei." cercò di chiarire, in vano.
"Avresti dovuto capirlo da solo. Era l'unica ragazza che si permetteva di parlarmi senza secondi scopi. Non solo non hai capito, ma me l'hai anche soffiata da sotto il naso! Mi hai privato della sua dolcezza e delle sue attenzioni e mai ti perdonerò per questo! Mai!"
"Come potevo capirlo da solo? Non leggo nella mente. Se tu me ne avessi parlato prima... Siamo amici, potevi dirmelo."
"Dirti cosa, Clay? Dirti cosa? Dopo quella maledetta mostra era ormai troppo tardi. Era attratta da te e non avrei mai potuto reggere il confronto. Era chiaro che avrebbe scelto te. Non sai come mi sono infuriato quando ti ho scoperto che posava per un tuo quadro. Eri intento a stendere quei veli di colore con una minuzia tale che mai ho visto in nessun altro tuo ritratto. Ripugnante. Eri assorto dai suoi boccoli dorati, dalle sue iridi limpide come cristallo, dal candore della sua pelle. Era diventata la tua nuova fonte d'ispirazione, la musa di cui non hai mai avuto bisogno. Non meriti Iris! Tu dalla vita hai avuto tutto: una famiglia che ti supportava, il dono dell'arte, la popolarità. Ed io? Un bel niente! Il destino mi ha fatto incontrare Iris e tu me l'hai strappata via!"
Abel, col volto straziato dalla furia, adocchiò la mano di Clay. All'anulare una semplice fede d'oro risaltava sulla sua sottile falange.
Clay sentì il forte impulso di ritrarre il braccio. Maledì quelle corde.
"Ormai è tardi, Clay. È troppo tardi e di certo non è mia la colpa. Non capirai mai quanto mi ha ferito vederti intento a ritrarla. E tre mesi fa ho dovuto dirle addio per colpa tua, solo per colpa tua! Non oso neanche immaginare che cosa tu le abbia fatto!" digrignó i denti. " Preso dalla disperazione mi sono rintanato qui e capirai che non potevo di certo restare con le mani in mano. Dovevo pur fare qualcosa. Allora l'illuminazione mi ha colto. La tua mano, la tua mano sinistra è la causa di tutto! Senza quella tua mano tu non saresti mai stato in grado creare, senza quella mano non avresti mai potuto rubare la mia Iris. Se tu non ci fossi mai stato, lei e la fama sarebbero state solo mie!"
"Così non risolverai mai nulla!" gridò Clay, dimenandosi con tutte le sue forze. Il cuore pompava all'impazzata, Clay nel panico tirava le corde così forte da segnarsi la pelle e ferirsi. Abel sollevò in aria il machete. Lo sguardo vuoto, i lineamenti induriti, le sclere segnate dall'intensità del rosso. Sete di sangue.
"Abel!" gridò di nuovo la preda, in lacrime di fronte al suo carnefice. Abel non tentennò. 
L'arma sferzò l'aria. 
Un ultimo grido di pietà rimbombò.
Un tonfo netto sul pavimento. 
Il volto di Clay contorto nel dolore e nell'agonia.
La fonte di ogni sfortuna era stata debellata. Immobile ed esangue, la mano giaceva nel gelo della follia umana.
   
 
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