Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Makil_    26/02/2018    6 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Il sospiro moribondo e grigio di Bartimore si condensò a mezz’aria, tremando.
Quando riacquisì la coscienza fu costretto a tenersi forte sul dorso di una bestia che avanzava molto rapidamente, sollevando la schiena ad ogni dosso, e che perciò non gli consentiva di trovare una posizione comoda per quel viaggio. Bart sollevò appena le palpebre per osservare ciò che stava accadendo attorno a lui. Doveva essere un bel gruppo di cavalieri, quello che lo circondava da ogni lato, confinando il suo debole corpo in uno spazio angusto e fetido. Era caduto in un campo attorniato da piante forti e si era risvegliato sul dorso di una bestia, circondato sì, ma non più da qualcosa di rassicurante come lo erano stati quei vigorosi arbusti con la loro frutta fresca.
Da quella posizione supina, sfiancata, sul dorso dello stallone nero, Bart riconobbe il viso burbero e malandato di ser Walifer, il ventre prominente di quel grasso ser impertinente che aveva causato quella grave diatriba e le armature di tanti altri cavalieri della loro scorta: sembravano mercenari, ma era palese che fossero invece cavalieri votati ad una causa, a detta loro, giusta.
Poco lontano, alla sinistra del cavallo che lo reggeva, patres Steffon giaceva sul loro stesso carretto, gli occhi serrati, la bocca imbavagliata e i polsi legati dietro la schiena. Non riusciva a scorgere ser Dayn, ma qualcosa gli faceva dire con certezza che non doveva essere molto distante: dopotutto, lo aveva visto al giardino nella stessa condizione del patres. Di ser Mark, invece, non c’era alcuna traccia: nessuno aveva trovato l’anziano cavaliere nel momento in cui il giardino dei limoni era stato passato a setaccio, e Bart non poteva astenersi dal pensare che Mark si fosse nascosto in qualche cunicolo sotterraneo, riuscendo nel suo intento di sfuggire al pugno dei nemici in un modo davvero perfetto. Li avrebbe salvati da quei mostri che, coprendosi di un’armatura e di un titolo, stavano agendo nel disonore dei nemici? I cavalieri li avevano additati come chissà quale genere di ribelli, ma forse non avevano ben inteso quale fosse la loro, di posizione. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarglielo bene, se mai gli avessero dato la possibilità di farlo.
Bart si prese un momento per osservare il lungo cammino che stavano percorrendo a fatica: un sentiero contorto che si inerpicava sulla fiancata di una collina e che stavano risalendo a brevi passi, goffi e spesso inutilmente marcati. C’erano all’incirca sei casette di legno ai lati della stradicciola, ognuna delle quali vuota e quasi completamente lasciata al suo stato di abbandono.
 Il ser dal pancione possente sedeva sulla sella di un grosso cavallo dal manto bianco latte, mordendo una mela rossa che teneva stretta nell’unica mano rimastagli. L’altro arto stava ancora sanguinando gravosamente, gocciolando di copiose quantità di succo rosso come la buccia del frutto.  
Se non farà nulla per curarlo, presto o tardi gli cadrà tutto il braccio” pensò Bart, augurandosi di vivere tanto a lungo da poter vedere quella scena, e assaporandone già il piacere.
«Ti ha dato del filo da torcere, quel piccolo moccioso» sfotté il Cavaliere della Forca nello scorgere l’espressione contrita del suo compagno d’arme. «Non avrei mai pensato che potesse tranciarti di netto la mano, Henry. Pensa a quante azioni del tutto spontanee dovrai dire addio ora che hai una mano in meno del normale.»
Il ser corpulento piegò la bocca verso il compagno e gli lanciò un’occhiataccia colma di rabbia repressa. «E tu, Walifer, corri come una baldracca senza gambe!» lo stuzzicò poi. «Dovrai vedere cosa metterò nel mio nuovo scudo: un bellissimo affresco di te, Cavaliere della Forca, senza gambe e con una gonnella.»
Ser Walifer serrò la mascella.
«Che c’è? Preferisci forse la sottana?». Il ser senza mano rise di buon gusto, prima di essere messo a tacere dallo sguardo minaccioso di ser Walifer, tipico di un cane in procinto di ringhiare al suo padrone.
«Ser Henry Ventrefloscio» lo richiamò un cavaliere dall’aspetto corpulento che cavalcava alle spalle del suo cavallo bianco. Bartimore non riusciva a vederlo completamente, ma la sua voce era piuttosto calda. «Sta’ ben attento a come parli con il nostro Cavaliere della Forca, se non vorrai diventare il nuovo Henry Testafloscia!»
«Mi basta quel primo soprannome, ser Dalwar; e comunque non è il caso che tu t’intrometta in una cosa che non ti riguarda». Ser Henry Ventrefloscio diede di speroni, lanciò il torsolo della mela sul sentiero e acciuffò con un solo pugno le redini del suo cavallo, superando in corsa la schiera di cavalieri armati fino ai denti.
Giunsero alla fine del sentiero solo sul tardo pomeriggio, quando il lieto cantò degli uccelli lasciò spazio al brulichio delle cicale, e la sterrata cotta dal sole ad un ammasso di fredda terra scura. Ognuno dei cavalieri si diede vicendevolmente disposizione di montare l’accampamento per la notte, e di aspettare la luce del sole per attraversare l’ultimo tratto di strada che li separava dal loro regno. Ser Herny Ventrefloscio, con la scusa di doversi occupare della medicazione della sua mano, cedette il compito a ser Walifer, il quale, spinto dal dovere di fasciare e curare il moncherino del cavaliere che serviva come un cane, lo diede a sua volta a ser Jockon, detto il Cacciatore di Lepri, un cavaliere ingobbito e trasandato, dall’aria smorta ed avvilita. Alla fine, l’ordine di montare il piccolo padiglione sgualcito che tutti definivano accampamento toccò a ser Pater Boccastretta, che fu costretto a cedere al dovere senza poter replicare, a causa del mutismo che lo opprimeva dalla nascita e che gli aveva fornito il suo soprannome. Ser Dalwar dovette andare a cercare la legna da ardere nel bosco che si estendeva al limitare della stradicciola con al seguito ser Wack e ser Thipp il Bruno che avrebbero dovuto occuparsi di portare la cena ai loro compagni.
Ser Walifer inchiodò il carretto alle radici di una quercia, sollevò di peso patres Steffon e lo lasciò cadere per terra. La stessa sorte toccò al malconcio ser Dayn, che fu mandato a rotolare sul fango con la medesima noncuranza riservata agli animali. Infine, ser Walifer afferrò il corpo di Bart con entrambe le mani e lo posò accanto al tronco della quercia, le spalle poggiate al legno e i polsi strettamente legati. “Questi lacci mi taglieranno la pelle” pensò divorato dal dolore. “Che siano maledetti!”. Al suo fianco, l’inerme patres Steffon era completamente svenuto, la pelle pallida e tumefatta.
Fu solo quando la luna sorse nel cielo, che i cavalieri si disposero attorno al fuoco, seduti su ceppi di alberi sradicati o abbattuti, intenti a far ruotare sulle fiamme la selvaggina acciuffata nel bosco. Ser Wack e ser Thipp, a detta di tutti, avevano fatto davvero un ottimo lavoro, ma nessuno aveva dato un solo accenno di lode a ser Dalwar, che era stato in grado di procurarsi tutta quella legna in così poco tempo. Immersi negli schiamazzi delle loro voci e dei loro dialoghi privi di un senso, i cavalieri iniziarono a mangiare la loro cena, afferrando le lepri spellate e le ali dei fagiani senza alcuna delicatezza e preoccupandosi di lanciarsi insulti di tanto in tanto.
«Dove hai trovato queste belle bestie, Wack?» domandò ser Henry Ventrefloscio masticando il suo pezzo di carne. «Credevo che il boschetto di Giardino Dorato fosse tutt’altro che pieno.»
«Per quelli senza occhi lo è sempre stato» ribatté ser Wack, un tipetto dalle orecchie spioventi, i baffetti neri e le spalle curve e smagrite. «Ma io fortunatamente mi sono guadagnato un pizzico di abilità nel corso della mia vita. E gli occhi non mi mancano.»
«Nemmeno le orecchie» schernì ser Walifer sputacchiando il poco cibo che teneva con entrambe le mani.
«Il tuo senso dell’umorismo è davvero spiccato» replicò ser Wack. «Riesci a ridere da solo, Cavaliere della Forca, o hai bisogno degli ordini del tuo padroncino per farlo?»
“Razza di ignoranti” pensò ser Bart. Come potevano essere incappati in un luogo simile e con gente simile? Dalton diceva sempre che le Terre Brulle fossero tutt’altro che un luogo ospitale e accogliente, sempre e comunque segnato dall’aridità dei tempi. Che quegli uomini avessero patito il caldo fino a perdere il loro cervello? Bart voleva proprio sperare che ne avessero avuto uno un tempo.
Di certo non avranno avuto un cuore” si costrinse ad ammettere angosciato. Il pensiero che quel cavaliere panciuto gli aveva portato via il suo Lenticchia lo faceva andare su tutte le furie. Il destriero era stato un compagno poco fiero, leale fino al midollo, quieto e timido più del dovuto; come poteva essere morto per mano di un uomo che era il suo esatto opposto? E per quale arcana ragione, in fin dei conti? Chi si era accanito contro quella innocente creatura, lassù? Se il mondo sapeva essere crudele e spietato, la vita ancor di più: una cosa che aveva imparato senza l’aiuto di nessuno dei suoi mentori e che anzi aveva conosciuto suo malgrado.
Ser Dalwar portò in alto il suo piccolo pugnale di acciaio bianco, che si illuminò con un mezzo sorriso nella penombra. «Grandi congratulazioni al nostro ser Henry Ventrefloscio, compagni!» urlò. «Per averci fatto immergere in un mare pescoso e ricco dei migliori pesci.»
Ser Henry sorrise quasi imbarazzato, i lati della bocca sporchi di grasso animale.
«A che ti riferisci, Dalwar?» chiese ser Thipp, che pareva essere tanto lento con le parole quanto lo era di comprendonio.
«In una sola settimana abbiamo avuto tre doni dal nostro amato Ventrefloscio.  Il nostro carissimo signore, Roscart Wargrave, non potrà che elargire tutte le sue più grandi cariche e farci signorotti, quando tornerà dalla sua ispezione alla Valle del Vespro.»
«Io ho preso questi tre impostori, ser Dalwar. E sempre io ho messo nel sacco quel ser Wilbert qualche giorno fa» rammentò l’ora inquieto ser Henry. «Vuoi forse prenderti gli unici meriti che mi spettano?»
Ser Dalwar aggrottò violentemente la fronte. «Voglio augurarmi che tu stia scherzando, ser Henry: siamo una compagnia, e le compagnie agiscono insieme e per l’insieme. I tuoi meriti sono e saranno anche i nostri.»
«E quanto ai punti di sutura? Quelli saranno solo miei!» replicò con fare cagnesco ser Ventrefloscio «Quando avrete una mano in meno, allora ne potremo anche riparlare: ma fino ad allora non avrò intenzione di dividere il mio bottino personale.»
«Questo lo vedremo.»
Poco più tardi, patres Steffon si risvegliò dal suo sonno senza luce. In quel breve istante di lucidità, aprì appena gli occhi, si schiacciò contro il tronco della quercia e iniziò a respirare a tratti, in modo affannato. Ammiccava con gli occhi e non si capacitava del luogo in cui era capitato. Non pronunciò neppure una parola, ma si limitò a guardarsi attorno, gli occhi privi di speranza, vuoti e totalmente incolore, che lasciavano intuire quanto disastrosa fosse la loro situazione. Non rimaneva altro da fare se non pregare la misericordia delle Grazie, la loro pietà… e quella di tutti gli uomini che li circondavano.
«Sapete che ne farà Roscart di questi prigionieri?»
Alcuni scossero il capo, altri risero, altri ancora non prestarono neppure attenzione a quella domanda, ma continuarono a masticare la loro cena.
«Ci sarà un processo» asserì ser Walifer. «Questo ha detto il Falso Esperto. E come per loro, anche per tutti gli altri che ci sono nemici.»
«Ma tu guarda, la giustizia è arrivata anche ad Ockswert.»
«Giustizia?» tuonò ser Dalwar. «Davvero possiamo parlare di cosa sia giusto o cosa sia sbagliato? E poi, a sentire da chi proviene questa predica, dovrei iniziare a ridere per smetterla solo domani! La giustizia è disonorevole qui a Pantagos. Togliere il pane ai poveri per dare l’oro ai ricchi, la definite giustizia questa?»
Nel gruppo calò un cupo silenzio.
«Al diavolo la giustizia, allora» sbraitò ser Thipp. «Mal che ci vada, non saremo noi a rimetterci la pelle.»
Certo” pensò Bart “Ma noi sì… solo per aver rubato quattro limoni, un paio di pesche e due ciliegie”.
«Roscart non giustizierà questi tre buoni a nulla» sbottò ser Dalwar. Bart si mise diritto a sentire che volesse dire, e lo stesso parve fare Steffon. «Un po’ di timore li rimetterà in riga tutti, tanto da fargli capire che hanno sbagliato. La storia con la Signora dei Merletti si chiuderà qui, e fine di questa lunga fiaba senza lieto fine. È la vera guerra quella che dovrebbe preoccuparci ora, non un conflitto inutile contro un’anziana donna che noi abbiamo a lungo rispettato come signora di Giardino Dorato, come nostra sovrana.»
«Perché non hai le palle di dirlo anche a sua signoria Wargrave? La vera guerra è quella che più preme alle porte, quella che viene a bussare continuamente alle nostre case» ribatté ser Wack. «Magari non lo avrai notato, Dalwar, ma Giardino Dorato ci è stato sottratto con un tranello. Quella baldracca vive a spese del nostro signore Roscart ora: ordina ai suoi cavalieri di bere dai suoi calici, dormire nei suoi letti, sputare nei suoi piatti, pisciare nelle sue latrine, camminare sui suoi pavimenti, sedere sulle sue panche… e finanche sottrarre i frutti del suo giardino! Questo conflitto colpisce violentemente le nostre porte, molto più della storia a Roshby e di qualsiasi altra guerra. E noi, da buoni anfitrioni quali siamo, non possiamo negargli la nostra ospitalità
«Solo perché l’ingrato signore che serviamo non ha avuto il coraggio di partecipare al torneo, ma ha preferito restarsene ad Ockswert fingendo di avere il Fiore Rosso. Con cos’è che si tingeva la pelle? Succo di ciliegia? Anche lui le sottraeva al suo giardino, allora… e non per mangiarle!»
«E questo chi l’ha detto?»
«Patres Wulvryck» rispose ser Dalwar. «L’esperto ha giustamente intuito che i bubboni di quella malattia non sanno di ciliegia.»
«Che vada alla dannazione lui e tutta l’Accademia» sbraitò ser Henry Ventrefloscio accompagnando la sua affermazione con un sonoro rutto. «Non possono andargli contro, ora. Ho sentito che hanno preso una seria intenzione: assegnare a lui la guida dell’esercito di arcieri degli Elmi Scuri. Devono prendere posizione… insomma, non possono sostenerlo ed abbatterlo con le stesse mani.»
«Loro possono fare questo ed altro.»
«Loro potranno pure farlo» replicò ser Walifer. «Ma la Signora dei Merletti no. Quella vecchia sgualdrina ha bloccato gli introiti di Giardino Fiorito per far decadere l’economia dei Wargrave. Ha ordinato ai suoi cittadini di non pagare più una sola tassa, di infangare la cittadina. Roscart Wargrave non vivrà a lungo se si continuerà così. E prima o poi, quella signora si taglierà da sola.»
«Ti illudi, Walifer» disse ser Dalwar. «La Signora dei Merletti sa benissimo cosa sta facendo. Quando il nostro signore rimarrà senza un soldo, con lui cadranno tutte le sue cose che possiede. Se perderà il potere sul giardino – come sta tentando di fargli fare lei – Roscart sarà costretto a rimanere sommerso nel suo stesso fango. Quello è l’unico pozzo d’oro che gli rimane. Ockswert cadrà se questo conflitto si protrarrà ancora a lungo, ve lo assicuro. E con il nostro meraviglioso sovrano cadremo anche noi, pezzo dopo pezzo, pelle dopo pelle, fino a divenire polvere.»
«Qual è la soluzione?»
«Convincerci a smetterla di combatterci. L’altra sera mi sono chiesto una cosa: possono due uomini che si sono amati per tutta la vita iniziare a mordersi senza sosta fino a distruggersi l’un l’altro? Non è giusto, secondo me. E noi stiamo solo alimentando il loro odio, servendoci del potere della corona che è stata sottratta a Roscart». Ser Dalwar squadrò ser Henry. «Sanguini Henry… la tua mano…»
«È il nervosismo» sbottò Ventrefloscio.
«Brutta bestia, quello lì». Dalwar sorrise e strappò con un morso la morbida pelle del leprotto. «E dimmi, dovuto a che cosa?»
«Quasi sicuramente alle tue parole infanganti. Ma ti senti quando parli? Ci fai la morale, ma dimentichi che anche tu hai preso parte a questo assalto. Sei come il fante che scaglia la pietra, colpisce il nemico, e poi incolpa la sua mano di essere meschina.»
«Devo ammettere che il nervosismo ti rende anche più stupido, Ventrefloscio». Aspettò invano che il ser panciuto raccogliesse. «Io parlo perché so di cosa sto parlando… e perché so ancora come si usa un cervello. Roscart ci sta utilizzando tutti… vorrei farvelo capire, dico sul serio. Lui ha i suoi scopi da raggiungere, le sue mire ben precise, che convergono tutte nella presa di Giardino Fiorito. E per fare ciò  non solo necessita del nostro appoggio, ma spera anche in quello politico dell’Accademia. Ti è chiaro il motivo per cui cerca in tutti i modi di darsi da fare per apparire buono agli occhi degli esperti?»
Ser Henry afferrò l’estremità del suo braccio mutilato con rabbia. «Tu parli male di Roscart Wargrave e poi pretendi che io spartisca con te i miei meriti. Insulso, fellone…». Ser Henry si alzò in piedi di forza, disposto ad assalire con l’enormità del suo ventre ser Dalwar. Fu in quel momento, però, che un urlo giunse loro da poco lontano.
«Cavalli!» vociava la sonora voce di un ser messo a guardia dell’accampamento. «Uomini a cavallo! Cavalli! Alle armi! Alle armi!»
Ogni cavaliere si alzò dalla propria seduta, sguainò le spade, si strinse nell’armatura e vociò ordini alimentando gli schiamazzi iniziali. Dalwar prese posto tra i difensori del focolare, mentre ser Henry rimase impassibile di fronte al vuoto. «Piano!» si dicevano «Bloccate gli ingressi!» o ancora «Fermateli!»
Bart iniziò ad avvertire le incostanti vibrazioni del suolo solo qualche secondo più avanti. I corvi planarono a dozzine fuori dagli alberi, e con loro anche numerosissime bestemmie. A quelle seguirono inesorabilmente i rumori prodotti dallo scalciare irrequieto delle bestie furenti.
In breve, un gruppo di cavalieri dalla mantella nera li circondò. Erano irriconoscibili sotto a quel cielo scuro, visti dal basso, e coperti dai loro copricapi. Uno si avvicinò più degli altri.
«Sapevamo di trovarvi qui». La voce rauca del cavaliere risuonò familiare a Bart.
Ser Dalwar si avvicinò alla figura incappucciata a cavallo, portò avanti la spada e pungolò il petto dello sconosciuto. «Straniero, rivelati e dicci chi sei e cosa volete da noi.»
Il cavaliere a cavallo smontò rapidamente, allontanò la lama di ser Dalwar dal suo petto, e si scoprì il volto lasciando ricadere il cappuccio sulle spalle. Il suo viso era quello di un cavaliere ordinario, ma i suoi denti ne svelavano presto l’identità. “Forse è qui per salvarci” pensò Bart, scostandosi verso di loro per farsi notare. Patres Steffon gli si posizionò accanto strisciando.
«Rowan Dentigialli» chiamò ser Henry. «Quale migliore onore, in una serata talmente ricca di belle cose!»
Dentigialli sputò per terra un grumo di saliva bianca. «Tieni per te tutto quello che hai da dirmi per far sì che ti risparmi la vita; non siamo qui per sentirvi dire queste cose.»
Fu ser Walifer ad avvicinarsi troppo alla figura del mercenario, posizionandosi di fronte al suo corpo gracile. «Cosa ti porta qui, Dentigialli?»
«Alt, Cavaliere della Forca» lo ammonì Rowan. «Mi hai fregato una volta, e avrei dovuto ammazzarti allora. Farai meglio a restarmi lontano se non vorrai perdere l’uso della parola questa sera, come un tempo perdesti quello dell’occhio. Te la stacco quella schifosa bocca, lo giuro, se solo t’azzardi a fare un passo in più». Rowan Dentigialli alzò la mano destra con un gesto fulmineo e la lasciò tesa a mezz’aria. Bastò quel gesto perché cinque degli uomini alle sue spalle afferrassero e incoccassero simultaneamente le frecce nei loro archi. «Un’altra mossa e gliele farò tendere. Avete due occhi a testa? Aye, presto avrete anche due frecce conficcate in ciascuno!»
Un altro cavaliere dalle guance rubiconde e le sopracciglia folte e scure si avvicinò al mercenario a cavallo. «Dicci cosa vuoi, Rowan, e falla finita con questi giochetti, nel nome di sua signora Wargrave.»
«Ho un regalo prezioso per voi» sputacchiò il capo dei Vassalli della Notte. «Un regalo per cui desidero un grosso pagamento.»
Ognuno dei cavalieri fece qualche passo indietro non appena lo vide smontare dal suo palafreno. Il mercenario dai denti ingialliti caracollò fino alla sella di uno dei suoi compagni di sventura, un omaccione che montava un cavallo nero dalle gambe muscolose. Sul dorso faceva capolinea il corpo moribondo di un uomo disteso di pancia, quasi flaccido e senza ossa. Un sacco di farina avrebbe assunto una posizione migliore.
«Razza di babbei, cos’avete al posto degli occhi? Vi siete presi ‘sti tre e ve ne siete fatti sfuggire uno! Eccovelo qui!». Rowan Dentigialli afferrò con entrambe le mani il corpo legato ed imbavagliato di ser Mark, che iniziò a scalciare come fosse inferocito, e lo gettò nel fango facendogli sfuggire un gemito di dolore nell’impatto col suolo.
«Volevo tagliargli le mani, ma c’ho ripensato. Fatelo voi per me e mandatemele: mi ci farò una collana, aye.»
«Dove lo hai trovato?» domandò ser Walifer, fattosi guardingo.
«Dove non avete cercato voi, babbei. Un tipo veloce, aye, ma io sono stato più veloce di lui.»
«Gli hai fatto del male?»
«I nemici della nostra corona sono nostri nemici: solo e soltanto nostri, Dentigialli. E un uomo che punisce un altro uomo al posto della giustizia è punibile quanto il presunto colpevole.»
«Cosa, cosa? Che diamine vai fantasticando, ser demente? Male, dici? Poh, no, non sono così cattivo. Ma se per male intendete anche l’avergli tagliato un orecchio, allora sì! Diciamo che è stato un regalino: l’ho alleggerito di un pezzo. Ultimamente fa caldo qui a Nord, non trovate anche voi?»
Nel gruppo vi fu un sussulto. “Maledetto!”. Bartimore strinse i denti. Li aveva imbrogliati, li aveva cacciati nella tana del lupo… a quale maligno scopo?
Rowan Dentigialli infilò le mani nella tasca della mantella e lanciò per terra l’orecchio mozzato di ser Mark, ancora sporco di sangue. «Oh sì, ovviamente sono entrato anch’io nel vostro sporco giardino, ho messo le mani su questo infido mostro, gli ho cavato via l’orecchio, l’ho utilizzato come bersaglio per un paio di giochi con le pietre. E ora cosa volete fare di me? Attaccatemi, aye, e i miei compagni faranno i vostri corpi a brandelli per mangiarli! Alzate pure le vostre stramaledettissime lame e io alzerò un’altra sola volta la mano. Poi non ci sarà altro da alzare oltre che ai vostri luridissimi cadaveri, che hanno già un posto riservato sul fondo del Ravinh.»
Il cicaleccio degli insetti della notte era cessato: tutti i cavalieri rimasero immobili, le spade puntate verso ciascuno dei mercenari, ognuno più armato e più grosso di loro. Dentigialli rimontò sul suo palafreno ed afferrò le redini con forza, poi si voltò verso Bart. «Erano buoni i limoni, ser?»
Bart fece per alzarsi, afferrare Lungacresta e spaccargliela sul cranio, ma le corde che gli stringevano i polsi gli fecero ricordare aspramente di essere nulla più che un prigioniero immobilizzato. Patres Steffon riuscì a mormorare qualcosa. «Non… hai onore, Rowan… Dentigialli.»
«Oh, guarda chi striscia nell’ombra. Steffon… povero Steffon…» fece a tono lui prima di dare di speroni al suo palafreno. «Loro mi hanno pagato con più monete. Siete stati taccagni, amici, e gli dèi vi hanno mandato questa punizione!»
Per un attimo tutti si volsero a guardare il loro battibecco; almeno fino a quando lo stesso Dentigialli non smorzò il silenzio glaciale che gravava sul luogo. «Insomma» tuonò «Lo volete o no questo cadavere di uomo? Se no, ditemelo presto, lo trasformo in cibo per mie dodici cagne.»
Ser Wack gli si avvicinò lentamente, l’elsa dalla spada in pugno. «Quanto chiedi?»
«Per voi, amici miei, solo tre ori.»
«Tre ori?» fece sbalordito ser Ventrefloscio. «Per un uomo che non conosciamo e che non appartiene alla nostra scorta? Sono troppi, puoi tenertelo!»
«No!» s’intromise Steffon, irrequieto. «Ve ne prego… pagheremo noi… per voi, ma non fatelo… non fatelo andare a morire. Quest’uomo è un essere spietato e senza un briciolo di… onore, di… umanità. Se avete ancora un pezzo di cuore… ve ne prego… ve ne prego…»
Dentigialli gli rivolse un risolino sbieco, sicuramente lo aggradava vedere un esperto supplicare. «Hai capito, Steffon: con l’onore non ci pago niente.»
Ser Walifer avanzò verso Steffon. «Dove tieni gli ori, prigioniero?»
«Nella tasca interna.»
«Non fargli del male, Cavaliere della Forca» lo redarguì ser Dalwar prima che il grosso cavaliere dalla faccia lacerata potesse mettergli le mani addosso. «È un prigioniero della corona Wargrave, e come tale dovrà rimanere fino al giorno del processo.»
Il Cavaliere della Forca badò poco alle parole di ser Dalwar e gli mise le mani addosso con fare minaccioso. Alla fine trovò ciò che cercava, ma non senza aver tramortito un paio di volte Steffon.
«Ecco il tuo denaro, Dentigialli.»
«E lì ecco ciò che hai comprato» Rowan Dentigialli, dall’alto della groppa del suo palafreno, assestò un calcio sulla schiena di quel che rimaneva di ser Mark.
L’ultima parola della serata fu di patres Steffon, agitato e indolenzito più che mai. «È nel momento in cui si mette di mezzo il denaro… che si scopre la vera natura di un uomo». Il patres guardò il mercenario in cagnesco, non mancando di contrarre le labbra. Se avesse saputo ringhiare, Steffon lo avrebbe sicuramente fatto.
«Aye, e la tua è sempre stata quella di un maiale schifoso, Steffon, anche senza ori o argenti… perdona la franchezza. Presto o tardi ti mangerò, ripulirò il tuo cranio e ne farò un calice da cui sorseggire del buon vino. Poi getterò le tue ossa nel Ravinh!». Il mercenario sogghignò.
Come al seguito del proprio pastore, la mandria di mucche che circondava Dentigialli si mosse dietro di lui, non appena questo ripartì al trotto.
Pochi attimi dopo fu come se nulla fosse mai accaduto, e tutti continuarono a tacere fino all’alba, come gelosi di custodire un segreto che non aveva nulla di segreto, come imbarazzati dall’essere stati circondati da un gruppo di mercenari che, in un modo o nell’altro, li aveva ingannati più di una volta.
Alla fine tutto scomparve nelle loro menti, ma solo il laido ghigno di Dentigialli perseguitò Bartimore per tutta la durata del tragitto.

 


♣ Angolo d'autore ♣
Un parto: senza ombra di dubbio alcuno.
Ho rischiato per questa settimana di farvi mancare l'aggiornamento: purtroppo la vita privata mi ha costretto lontano dal pc oggi, ed ho saputo ritagliarmi uno spazio privato a fine giornata per pura fortuna.
Detto ciò: ecco qui la "trama nella trama" di cui ho tanto parlato nelle risposte alle vostre recensioni precedenti. Bartimore, Steffon e Dayn, in fin di vita, si ritrovano catapultati in qualcosa che effettivamente non è di loro competenza: un equivoco, insomma, che gli costerà cara la pelle. 
Cosa pensate di tutta la faccenda? Cosa della situazione dei nostri? E cosa della diatriba tra Roscart Wargrave e la Signora dei Merletti? Come immaginate questi due personaggi alla luce delle parole della schiera di servitori Wargrave?
Abbiamo modo, in questo lungo capitolo, di stringere conoscenza con alcuni personaggi che saranno ulteriormente approfonditi nel corso del tempo: cosa mi dite, al momento, di ser Henry Ventrefloscio, ser Walifer e ser Dalwar?

Si procede inoltre, in conclusione, con il ritorno nelle scene di un personaggio alquanto ambiguo: Rowan Dentigialli. E' chiaro che, forte di quanto conosciuto, ha ingannato i nostri uomini, trasportandoli nella bocca del leone consapevole del rischio che stavano correndo. Ma non è tutto: ser Mark, sfuggito ai primi nemici, finisce per essere catturato dal capo-mercenario. Che mi dite dei due personaggi? Che destino presagite per il povero Mark?

Insomma, in questo capitolo più che mai sono proprio curioso di sapere davvero cosa pensate: le vicende sono tante, i personaggi pure. Non esitate a fare domande, non possono che farmi piacere. Per il resto, comunque, spero che l'atmosfera e i suoi contorni siano più o meno ben delineati. Questo capitolo di snodo è davvero importante e necessario a sorreggere il resto della storia. 
Conclusa questa odissea di frasi probabilmente sconnesse tra loro (mi scuso, causa l'orario), vi ringrazio tutti di cuore, amici e lettori, e vi auguro di trascorrere un'ottima settimana. Al prossimo capitolo [lunedì 5 Marzo]
Un bacione,

Makil_



 
   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Makil_